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Prova indiziaria e ragionevole dubbio (Cass. 25016/22)

30 giugno 2022, Cassazione penale

Per indizio s'intende un fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate e affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare, secondo lo schema del cd. sillogismo giudiziario: l'indizio è un elemento conoscitivo che, senza poter rappresentare in via diretta il fatto da provare, è dotato di un'autonoma capacità rappresentativa, riguardante una o più circostanze diverse, ma collegate sul piano logico con quella da dimostrare. Se dall'indizio è deducibile un'unica conseguenza, esso costituisce una prova logica compiuta ed in sè sufficiente nel senso che presenta una correlazione obbligata tra fatto ignoto e quello noto, al quale, sulla base delle leggi scientifiche, il primo è legato in modo certo ed inevitabile.

Solitamente esso è però significativo di una pluralità di fatti non noti, presentando un livello di gravità e precisione in relazione di proporzione diretta con la forza di necessità logica con la quale l'indizio porta verso il fatto da dimostrare e di proporzione inversa con la molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di comune esperienza.

Per assurgere a  prova indiziaria il fatto assumibile come indizio deve presentare carattere di certezza, intesa, non in senso assoluto e naturalistico, ma quale portato della verifica processualmente conducibile alla stregua delle fonti di prova acquisite: è, dunque, necessario che la prova critica non sia affidata ad un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito sulla scorta di opinabili congetture o di elaborazioni personali del decidente, dovendo ricevere riscontro nelle evidenze probatorie del processo.

Per gravità s'intende poi l'intrinseca capacità dimostrativa rispetto al thema probandum, ossia la probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto, mentre precisione significa specificità, univocità ed impossibilità di diversa interpretazione, altrettanto o più verosimile e concordanza, requisito proprio della pluralità di indizi, indica convergenza, concordanza e non contraddittorietà di significato in modo tale che, grazie al reciproco collegamento ed alla simultanea direzione verso lo stesso risultato, il loro insieme assume l'efficacia dimostrativa della prova.

L'indizio in sè considerato può essere indicativo di una pluralità di fatti non noti, incluso quello da dimostrare, il relativo apprezzamento postula una preventiva valutazione per individuarne "la valenza qualitativa individuale e il grado di inferenza derivante dalla loro gravità e precisione" sulla base di affidabili regole di esperienza e di criteri logici e scientifici.

Si rende, quindi, necessaria la verifica successiva, consistente nella considerazione unitaria e complessiva degli elementi acquisiti, che ne evidenzi "i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo" e chiarisca eventuali profili di ambiguità, presentati da ciascuno di essi in sè considerato, in modo da consentire l'attribuzione del fatto illecito all'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio anche in assenza di una prova diretta di reità, non essendo sufficiente dal punto di vista metodologico proporne una lettura in termini di mera sommatoria, nè, all'opposto, un'analisi atomistica che prescinda dal loro raffronto e dalla considerazione unitaria.

Nell'impiego della prova indiziaria è, dunque, richiesta al giudice la conduzione di un ragionamento probatorio che attraverso l'utilizzo di regole di esperienza, -tratte dalla osservazione ripetuta del normale svolgimento delle vicende naturali e di quelle umane in presenza di determinate condizioni e dalla logica, che orienta i percorsi mentali della razionalità umana, oppure di leggi scientifiche di valenza universale o di ricorrenza statistica- deve procedere, fornendone adeguata giustificazione, alla verifica, dapprima della validità delle regole o delle leggi utilizzate, quindi della correttezza e consequenzialità logica del risultato ottenuto. Solo così è possibile proporre una ricostruzione del fatto di reato "in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili".

Come già affermato da questa Corte, tale canone orientativo, pur non autorizzando il recepimento di spiegazioni alternative del medesimo fatto segnalate dalla difesa, impone che la pluralità di possibili ricostruzioni della vicenda abbia costituito oggetto di puntuale e attenta disamina da parte del giudice d'appello e che l'esistenza di una ragionevole perplessità sulla ipotesi alternativa, riguardante tanto la causale, quanto gli autori dell'azione criminosa, sia stata esclusa all'esito di un percorso delibativo, condotto mediante un serrato confronto dialettico con le emergenze processuali.

Per convalidare, sul piano logico, il giudizio di colpevolezza, è dunque necessario che i dati probatori acquisiti siano tali da lasciare fuori solo eventualità remote, la cui effettiva realizzazione nella fattispecie concreta sia priva del benchè minimo riscontro nelle risultanze processuali, addirittura ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della ordinaria razionalità umana.

In ordine al sindacato demandato alla Suprema Corte è evidente che la stessa non è chiamata a valutare la gravità, la precisione e della concordanza in sè degli indizi, la cui verifica diretta comporterebbe sconfinamenti indebiti nella ricostruzione del fatto di reato, compito esclusivo del giudice di merito, ma deve riguardare la articolazione logica e giuridica della motivazione della relativa sentenza per poterne verificare la corretta applicazione dei criteri legali dettati dall'art. 192 c.p.p., comma 2, delle regole della logica e del principio di non contraddizione, nonchè la compiutezza e coerenza argomentativa nella considerazione della valenza dimostrativa dei risultati probatori.

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE SECONDA PENALE

sentenza (data ud. 08/04/2022) 30/06/2022, n. 25016
 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. IMPERIALI Luciano - Presidente -

Dott. BELTRANI Sergio - Consigliere -

Dott. COSCIONI Giuseppe - Consigliere -

Dott. DI PISA Fabio - rel. Consigliere -

Dott. MONACO Marco Maria - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.M., nato a (OMISSIS);

C.M., nato a (OMISSIS);

PI.AN., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 02/12/2020 della CORTE APPELLO di CAGLIARI;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. FABIO DI PISA;

lette le conclusioni scritte ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8 formulate dal Sostituto Procuratore Generale presso la Corte di Cassazione, nella persona di Dr. CIMMINO ALESSANDRO, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

esaminate le conclusioni scritte formulate ai sensi della citata norma dal difensore di fiducia di Pi.An. che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza in data 2 Dicembre 2020 la Corte di Appello di Cagliari, in parziale riforma della sentenza del G.U.P. del Tribunale di Cagliari in data 3 Ottobre 2019, confermava la affermazione della penale responsabilità di P.M., C.M. e Pi.An. per i reati rispettivamente ascritti di rapina ed altro e rideterminava il trattamento sanzionatorio.

2. Contro detta sentenza propongono ricorsi per cassazione i predetti imputati a mezzo dei rispettivi difensori di fiducia.

2.1. P.M., condannato alla pena di anni sei e mesi otto di reclusione per i delitti di cui ai capi 6) (art. 110 c.p., art. 628 c.p., commi 1 e 3 quinquies), 7) (art. 110 e 81 c.p., L. n. 497 del 1974, art. 10 e art. 12, comma 1, lett. a)), 8) (artt. 110, 582 e 585 c.p. e art. 576 c.p., n. 1) e 9) (artt. 56 e 110 c.p., art. 628 c.p., commi 1 e 3, nn. 1 e 3-bis c.p.) della rubrica, formula quattro motivi.

Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta responsabilità in relazione ai reati di cui ai capi 6), 7) e 8).

Assume che, nella specie, doveva escludersi la responsabilità dell'imputato in quanto tutti gli indizi valorizzati dai giudici di merito erano neutri ed inidonei a rispettare la regola dell'al di là di ogni ragionevole dubbio.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta responsabilità in relazione al reato di cui al capo 9).

Osserva che sebbene erano stati devoluti all'esame della corte di appello due profili: il primo relativo alla configurabilità di un tentativo punibile di rapina ed il secondo afferente la esclusione della desistenza volontaria i giudici di merito, nel disattendere il motivo di impugnazione, non avevano considerato che nel caso in esame non vi era alcuna prova che la soglia della mera intenzione fosse stata superata e che il ricorrente stesse per iniziare la fase esecutiva.

2.2. C.M., condannato alla pena di anni sette e mesi quattro di reclusione ed Euro 2.800,00 di multa per i delitti di cui ai capi 6) (art. 110 c.p., art. 628 c.p., commi 1 e 3 quinquies), 7) (art. 110 e 81 c.p., L. n. 497 del 1974, art. 10 e art. 12, comma 1, lett. a)), 8) (artt. 110, 582 e 585 c.p. e art. 576 c.p., n. 1) e 9) (artt. 56 e 110 c.p., art. 628c.p., comma 1 e comma 3, nn. 1 e 3-bis), 11) (art. 110 c.p., L. n. 497 del 1974, artt. 10 e 14), 12) (art. 110 e 81 c.p., L. n. 497 del 1974, artt. 9 e 10) e L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 2 e 3), 13) (artt. 110 e 697 c.p.), 14) (art. 110 c.p. L. n. 497 del 1974), 15) (art. 110 e 648 c.p. e 16) (art. 110 e 648 c.p.) della rubrica formula quattro motivi.

Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di affermazione della responsabilità in relazione ai reati di cui ai capi 6), 7) e 8).

Assume che gli indizi valorizzati dai giudici di merito erano insufficienti a raggiungere quel grado di gravità, precisione e concordanza richiesto dalla legge per superare la imprescindibile regola dell'al di là di ogni ragionevole dubbio.

Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta responsabilità in ordine al reato di cui al capo 9).

Osserva che i giudici non avevano considerato che sebbene era emerso in modo pacifico l'intento degli imputati di commettere il reato contestato, l'accordo non era stato messo in opera e, pertanto, il ricorrente non poteva essere ritenuto punibile ex art. 115 c.p..

Rileva che gli elementi valorizzati dai giudici di merito non integravano gli atti idonei diretti in modo non equivoco al compimento della rapina, dovendosi escludere che fosse stato raggiunto il c.d. "punto di non ritorno" e risultando evidente che nella specie era configurabile una desistenza volontaria.

Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio di motivazione quanto alla ritenuta responsabilità in relazione ai reati di cui ai capi 11), 12), 13), 14) e 15).

Assume che difettava la prova della responsabilità quanto alla detenzione di tali armi rinvenute all'interno di un magazzino affittato dal coimputato giudicato separatamente S.D. il quale aveva la disponibilità esclusiva di detto immobile e che la corte di appello, del tutto erroneamente, aveva confermato l'affermazione della responsabilità del ricorrente unicamente in ragione del fatto che il S. aveva dichiarato che l'imputato aveva le chiavi del garage ed in considerazione del rinvenimento di un casco con impronta papillare del ricorrente, non tenendo conto delle diverse modalità con cui i beni all'interno del magazzino erano conservati.

Con il quarto motivo lamenta violazione di legge penale e vizio di motivazione in relazione alla mancata concessione delle circostanze attenuanti di cui all'art. 62 bis c.p..

Osserva che la corte di appello non aveva in alcun modo esaminato lo specifico motivo di censura relativo alla omessa concessione delle chieste attenuanti generiche che ben potevano essere riconosciute considerata la condotta corretta dell'imputato il quale si era attivato per uscire dal tunnel della tossicodipendenza.

2.3. Pi.An., condannato alla pena di anni quattro di reclusione ed Euro 2.000,00 di multa per i delitti di cui ai capi 9) (artt. 56 e 110 c.p., art. 628 c.p., commi 1 e 3, nn. 1 e 3-bis c.p.), 11) (art. 110 c.p., L. n. 497 del 1974, artt. 10e 14), 12) (artt. 110 e 81 c.p., L. n. 497 del 1974, artt. 9 e 10) e L. n. 110 del 1975, art. 23, commi 2 e 3), 13) (artt. 110e 697 c.p.), 14) (art. 110 c.p. L. n. 497 del 1974), 15) (art. 110 e 648 c.p. e 16) (artt. 110, 648 c.p.) deduce, con un unico motivo, violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento all'art. 192 c.p.p., comma 3.

Lamenta che l'affermazione di responsabilità quanto ai reati di cui capi 11), 12), 13), 14) e 15) era stata basata sulle sole dichiarazioni di S.D. e che la corte di appello non aveva considerato che tali dichiarazioni erano inattendibili in quanto il predetto aveva reso ben quattro interrogatori privi dei requisiti di linearità e coerenza e che difettavano di elementi di riscontro, sussistendo, anche, potenzialmente un rischio di contrasto fra il giudicato cautelare di cui all'ordinanza di convalida del GIP in data 8 novembre 2028 che aveva riguardato il C. e la chiamata in correità del Pi..
Motivi della decisione
1. Osserva il Collegio che prima di procedere all'esame dei singoli motivi di ricorso appaiono opportune alcune considerazioni relative a questioni di carattere generale ovvero a profili comuni ai coimputati, anche al fine di evitare inutili ripetizioni.

1.1. I limiti del sindacato di legittimità.

Va, in primo luogo, rilevato che al giudice di legittimità è preclusa - in sede di controllo della motivazione - la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice del merito perchè ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Tale modo di procedere trasformerebbe, infatti, la Corte nell'ennesimo giudice del fatto, mentre la Corte, anche nel quadro della nuova disciplina, è - e resta - giudice della motivazione.

Secondo le Sezioni Unite "l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di cassazione essere limitato per espressa volontà del legislatore - a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo sui vari punti della decisione impugnata, senza possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento, o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali; l'illogicità della motivazione, come vizio denunciabile, deve essere evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile "ictu oculi", dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza, restando ininfluenti le minime incongruenze e considerandosi disattese le deduzioni difensive che, anche se non espressamente confutate, siano logicamente incompatibili con la decisione adottata, purchè siano spiegate in modo logico e adeguato le ragioni del convincimento (Cass. Sez. Un. sent. n. 24 del 24.11.1999 dep. 16.12.1999 rv 214794).

Deve, pure, essere rimarcato che ai fini del controllo di legittimità sul vizio di motivazione, la struttura giustificativa della sentenza di appello, trattandosi di c.d. doppia conforme, si salda con quella di primo grado, per formare un unico complessivo corpo argomentativo, allorquando il giudice del gravame, esaminando le censure proposte dall'appellante con criteri omogenei a quelli del primo giudice ed operando frequenti riferimenti ai passaggi logico giuridici della prima sentenza, concordi nell'analisi e nella valutazione degli elementi di prova posti a fondamento della decisione (Cass. Sez. 3, sent. n. 44418 del 16/07/2013, dep. 04/11/2013, Rv. 257595). Va, anche, osservato che l'omesso esame di un motivo di appello da parte della Corte di merito non da luogo a un difetto di motivazione rilevante a norma dell'art. 606 c.p.p., nè determina incompletezza della motivazione della sentenza allorchè, pur in mancanza di espressa disamina, il motivo proposto debba considerarsi implicitamente disatteso perchè incompatibile con la struttura e con l'impianto della motivazione, nonchè con le premesse essenziali, logiche e giuridiche che compendiano la ratio decidendi della sentenza medesima. Secondo il disposto dell'art. 597 c.p.p., comma 1, l'appello attribuisce al giudice di secondo grado la cognizione nel procedimento (limitatamente ai punti della decisione ai quali si riferiscono i motivi proposti). Pertanto il giudice d'appello deve tenere presente, dandovi risposta in motivazione, quali sono state le doglianze dell'appellante in ordine ai punti (o capi art. 581, comma 1, lett. e) investiti dal gravame, ma non è tenuto ad indagare su tutte le argomentazioni elencate in sostegno dell'appello quando esse siano incompatibili con le spiegazioni svolte nella motivazione, poichè in tal modo quelle argomentazioni si intendono assorbite e respinte dalle spiegazioni fornite dal giudice di secondo grado. (Sez. 1, Sentenza n. 1778 del 21/12/1992 Ud. (dep. 23/02/1993) Rv. 194804).

Occorre rilevare, altresì, che in tema di motivi di ricorso per cassazione, non sono deducibili censure attinenti a vizi della motivazione diversi dalla sua mancanza, dalla sua manifesta illogicità, dalla sua contraddittorietà (intrinseca o con atto probatorio ignorato quando esistente, o affermato quando mancante), su aspetti essenziali ad imporre diversa conclusione del processo; per cui sono inammissibili tutte le doglianze che "attaccano" la persuasività, l'inadeguatezza, la mancanza di rigore o di puntualità, la stessa illogicità quando non manifesta, così come quelle che sollecitano una differente comparazione dei significati probatori da attribuire alle diverse prove o evidenziano ragioni in fatto per giungere a conclusioni differenti sui punti dell'attendibilità, della credibilità, dello spessore della valenza probatoria del singolo elemento". (Sez. 6, n. 13809 del 17/03/2015 - dep. 31/03/2015, 0., Rv. 26296501).

Va, quindi, evidenziato che secondo il diritto vivente, è preclusa alla Corte di cassazione "la possibilità di una nuova valutazione delle risultanze acquisite, da contrapporre a quella effettuata dal giudice di merito, attraverso una diversa lettura, sia pure anch'essa logica, dei dati processuali o una diversa ricostruzione storica dei fatti o un diverso giudizio di rilevanza o comunque di attendibilità delle fonti di prova" (così Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Ferri, Rv. 273217; in senso conforme, ex plurimis, v. Sez. 5, n. 15041 del 24/10/2018, dep. 2019, Battaglia, Rv. 275100, in motivazione; Sez. 4, n. 1219 del 14/09/2017, dep. 2018, Colomberotto, Rv. 271702; Sez. 2, n. 7986 del 18/11/2016, dep. 2017, La Gumina, Rv. 269217; Sez. 6, n. 47204 del 07/10/2015, Musso, Rv. 265482).

1.2. La nozione di indizi e la loro valutazione.

In ordine alla valutazione degli indizi va premesso che per indizio s'intende "un fatto certo dal quale, per inferenza logica basata su regole di esperienza consolidate e affidabili, si perviene alla dimostrazione del fatto incerto da provare, secondo lo schema del cd. sillogismo giudiziario" (Sez. U, n. 6682 del 04/02/1992, PM, p.c., Musumeci e altri, rv. 191230). L'indizio è un elemento conoscitivo che, senza poter rappresentare in via diretta il fatto da provare, è dotato di un'autonoma capacità rappresentativa, riguardante una o più circostanze diverse, ma collegate sul piano logico con quella da dimostrare. Se dall'indizio è deducibile un'unica conseguenza, esso costituisce una prova logica compiuta ed in sè sufficiente (sez. 4, n. 19730 del 19/03/2009, Pozzi, rv. 243508) nel senso che presenta una correlazione obbligata tra fatto ignoto e quello noto, al quale, sulla base delle leggi scientifiche, il primo è legato in modo certo ed inevitabile.

Solitamente esso è però significativo di una pluralità di fatti non noti, presentando un livello di gravità e precisione in relazione di proporzione diretta con la forza di necessità logica con la quale l'indizio porta verso il fatto da dimostrare e di proporzione inversa con la molteplicità di accadimenti che se ne possono desumere secondo le regole di comune esperienza.

Tale relativa ambiguità ed inefficienza probatoria diretta dà conto della ragione per la quale il sistema processuale impone un particolare rigore valutativo degli indizi secondo la regola dettata dall'art. 192 c.p.p., comma 2 di cui pretende gravità, precisione e concordanza. La Suprema Corte è ormai pervenuta ad esiti consolidati nel ravvisare la corretta applicazione del parametro legale di apprezzamento della prova indiziaria in quanto il fatto assumibile come indizio deve presentare carattere di certezza, intesa, non in senso assoluto e naturalistico, ma quale portato della verifica processualmente conducibile alla stregua delle fonti di prova acquisite (sez. 4, n. 2967 del 25/01/1993, Bianchi, rv. 193407; sez. 4, n. 39882 del 01/10/2008, Zocco e altro, rv. 242123; sez. 1, n. 31456 del 21/05/2008, Franzoni, rv. 240762-240766).

E', dunque, necessario che la prova critica non sia affidata ad un fatto verosimilmente accaduto, supposto o intuito sulla scorta di opinabili congetture o di elaborazioni personali del decidente, dovendo ricevere riscontro nelle evidenze probatorie del processo.

Per gravità s'intende poi l'intrinseca capacità dimostrativa rispetto al thema probandum, ossia la probabilità di derivazione dal fatto noto di quello ignoto, mentre precisione significa specificità, univocità ed impossibilità di diversa interpretazione, altrettanto o più verosimile e concordanza, requisito proprio della pluralità di indizi, indica convergenza, concordanza e non contraddittorietà di significato in modo tale che, grazie al reciproco collegamento ed alla simultanea direzione verso lo stesso risultato, il loro insieme assume l'efficacia dimostrativa della prova (sez. 1, n. 7027 del 08/03/2000, Di Telia, rv. 216181; sez. 4, n. 22391 del 02/04/2003, Qehalliu Luan, rv. 224962; sez. 6, n. 3882 del 04/11/2011, Annunziata, rv. 251527; sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, P.G., P.C. in proc. Stasi, rv. 258321; sez. 1, n. 37348 del 06/05/2014, P.G. in proc. Witczak Lewandowska e altro, rv. 260278).

La Suprema Corte ha precisato come l'art. 192 c.p.p., comma 2, impone anche un vincolo di metodo operativo per il corretto utilizzo della prova indiziaria, nel senso che, poichè l'indizio in sè considerato può essere indicativo di una pluralità di fatti non noti, incluso quello da dimostrare, il relativo apprezzamento postula una preventiva valutazione per individuarne "la valenza qualitativa individuale e il grado di inferenza derivante dalla loro gravità e precisione" (Sez. U, n. 33748 del 12 7.2005, Mannino, rv. 231678) sulla base di affidabili regole di esperienza e di criteri logici e scientifici.

Si rende, quindi, necessaria la verifica successiva, consistente nella considerazione unitaria e complessiva degli elementi acquisiti, che ne evidenzi "i collegamenti e la confluenza in un medesimo, univoco e pregnante contesto dimostrativo" e chiarisca eventuali profili di ambiguità, presentati da ciascuno di essi in sè considerato, in modo da consentire l'attribuzione del fatto illecito all'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio anche in assenza di una prova diretta di reità, non essendo sufficiente dal punto di vista metodologico proporne una lettura in termini di mera sommatoria, nè, all'opposto, un'analisi atomistica che prescinda dal loro raffronto e dalla considerazione unitaria (Sez. U, n. 33748 del 12/07/2005, Mannino, rv. 231678; sez. 1, n. 30448 del 09/06/2010, Rossi, rv. 248384; sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, P.G., P.C. in proc. Stasi, rv. 258321; sez. 2, n. 42482 del 19/09/2013, Kuzmanovic, rv. 256967).

Nell'impiego della prova indiziaria è, dunque, richiesta al giudice la conduzione di un ragionamento probatorio che attraverso l'utilizzo di regole di esperienza, -tratte dalla osservazione ripetuta del normale svolgimento delle vicende naturali e di quelle umane in presenza di determinate condizioni e dalla logica, che orienta i percorsi mentali della razionalità umana, oppure di leggi scientifiche di valenza universale o di ricorrenza statistica- deve procedere, fornendone adeguata giustificazione, alla verifica, dapprima della validità delle regole o delle leggi utilizzate, quindi della correttezza e consequenzialità logica del risultato ottenuto. Solo così è possibile proporre una ricostruzione del fatto di reato "in termini di certezza tali da escludere la prospettabilità di ogni altra ragionevole soluzione, ma non anche di escludere la più astratta e remota delle possibilità che, in contrasto con ogni e qualsivoglia verosimiglianza ed in conseguenza di un ipotetico, inusitato combinarsi di imprevisti e imprevedibili fattori, la realtà delle cose sia stata diversa da quella ricostruita in base agli indizi disponibili" (sez. 1, n. 3424 del 02/03/1992, Di Palma, rv. 189682).

Come già affermato da questa Corte, tale canone orientativo, pur non autorizzando il recepimento di spiegazioni alternative del medesimo fatto segnalate dalla difesa (sez. 1 n. 53512 dell'11/07/2014, Gurgone, rv. 261600; sez. 4, n. 22257 del 25/03/2014, Guernelli, ed altri, rv. 259204; sez. 5 n. 10411 del 28/01/2013, Viola, rv. 254579), impone che la pluralità di possibili ricostruzioni della vicenda abbia costituito oggetto di puntuale e attenta disamina da parte del giudice d'appello e che l'esistenza di una ragionevole perplessità sulla ipotesi alternativa, riguardante tanto la causale, quanto gli autori dell'azione criminosa, sia stata esclusa all'esito di un percorso delibativo, condotto mediante un serrato confronto dialettico con le emergenze processuali.

Per convalidare, sul piano logico, il giudizio di colpevolezza, è dunque necessario che i dati probatori acquisiti siano tali da lasciare fuori solo eventualità remote, la cui effettiva realizzazione nella fattispecie concreta sia priva del benchè minimo riscontro nelle risultanze processuali, addirittura ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della ordinaria razionalità umana, secondo l'orientamento espresso da sez. 1 n. 31456 del 21/05/2008, Franzoni, rv. 240763 (vedi altresì sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, P.G., P.C. in proc. Stasi, rv. 258321; sez. 2, n. 2548 del 19/12/2014, Pg in proc. Segura, rv. 262280).

In ordine al sindacato demandato alla Suprema Corte è evidente che la stessa non è chiamata a valutare la gravità, la precisione e della concordanza in sè degli indizi, la cui verifica diretta comporterebbe sconfinamenti indebiti nella ricostruzione del fatto di reato, compito esclusivo del giudice di merito, ma deve riguardare la articolazione logica e giuridica della motivazione della relativa sentenza per poterne verificare la corretta applicazione dei criteri legali dettati dall'art. 192 c.p.p., comma 2, delle regole della logica e del principio di non contraddizione, nonchè la compiutezza e coerenza argomentativa nella considerazione della valenza dimostrativa dei risultati probatori (Sez. U, n. 6402 del 30/04/1997, Dessimone e altri, rv. 207944; sez. 1, n. 42993 del 25/09/2008, Pipa, rv. 241826; sez. 4, n. 48320 del 12/1.1/2009, Durante, rv. 245880; sez. 1, n. 44324 del 18/04/2013, P.G., P.C. in proc. Stasi, rv. 258321).

1.3. "Il ragionevole dubbio".

Per quel che concerne il significato da attribuire alla locuzione "oltre ogni ragionevole dubbio", presente nel testo novellato del richiamato art. 533 c.p.p. quale parametro cui conformare la valutazione inerente all'affermazione di responsabilità dell'imputato, è opportuno evidenziare che, al di là dell'icastica espressione, mutuata dal diritto anglosassone, ne costituiscono fondamento il principio costituzionale della presunzione di innocenza e la cultura della prova e della sua valutazione, di cui è permeato il nostro sistema processuale.

Si è, in proposito, esattamente osservato che detta espressione ha una funzione meramente descrittiva più che sostanziale, giacchè, in precedenza, il "ragionevole dubbio" sulla colpevolezza dell'imputato ne comportava pur sempre il proscioglimento a norma dell'art. 530 c.p.p., comma 2, sicchè non si è in presenza di un diverso e più rigoroso criterio di valutazione della prova rispetto a quello precedentemente adottato dal codice di rito, ma è stato ribadito il principio, già in precedenza immanente nel nostro ordinamento costituzionale ed ordinario (tanto da essere già stata adoperata dalla giurisprudenza di questa Corte Suprema - per tutte, Sez. un., sentenza n. 30328 del 10 luglio 2002, CED Cass. n. 222139 -, e solo successivamente recepita nel testo novellato dell'art. 533 c.p.p.), secondo cui la condanna è possibile soltanto quando vi sia la certezza processuale assoluta della responsabilità dell'imputato (Cass. pen., Sez. 2", sentenza n. 19575 del 21 aprile 2006, CED Cass. n. 233785; Sez. 2", sentenza n. 16357 del 2 aprile 2008, CED Cass. n. 239795).

Ciò comporta che il vizio di motivazione va escluso quando il ragionamento sia effettivamente adeguato a superare il ragionevole dubbio e, per converso, sussiste quando le alternative proposte dalla difesa siano logiche e fondate su elementi di prova acquisiti al processo e regolarmente prospettati.

Infatti, la condanna può essere pronunciata a condizione che il dato probatorio acquisito lasci fuori soltanto eventualità remote, pur astrattamente formulabili e prospettabili come possibili "in rerum natura" ma la cui effettiva realizzazione, nella fattispecie concreta, risulti priva del benchè minimo riscontro nelle emergenze processuali, ponendosi al di fuori dell'ordine naturale delle cose e della normale razionalità umana (Cass. 17921/2010 Rv. 247449; Cass. 2548/2015 Rv. 262280; Cass. 20461/2016 Rv. 266941).

La regola di giudizio contenuta nell'art. 533 c.p.p., comma 1, come modificato dalla L. n. 46 del 2006, art. 5impone, infatti, al giudice il ricorso "ad un metodo dialettico di verifica dell'ipotesi accusatoria secondo il criterio del dubbio, con la conseguenza che il giudicante deve effettuare detta verifica in maniera da scongiurare la sussistenza di dubbi interni (ovvero la autocontraddittorietà o la sua incapacità esplicativa) o esterni alla stessa (ovvero l'esistenza di un'ipotesi alternativa dotata di razionalità e plausibilità pratica)" (cfr., così, Cass. Pen., 1, 24.10.2011 n. 41.110, PG in proc. Javad).

Si è chiarito che tale principio, però, non ha affatto innovato la natura del sindacato della Corte di Cassazione sulla motivazione della sentenza e non può, quindi, essere utilizzato per valorizzare e rendere decisiva la duplicità di ricostruzioni alternative del medesimo fatto, eventualmente emerse in sede di merito e segnalate dalla difesa, una volta che tale duplicità sia stata oggetto di attenta disamina da parte del giudice dell'appello.

La condanna al là di ogni ragionevole dubbio comporta, infatti, in caso di prospettazione di un'alternativa ricostruzione dei fatti, che siano individuati gli elementi di conferma dell'ipotesi ricostruttiva accolta, "in modo da far risultare la non razionalità del dubbio derivante dalla stessa ipotesi alternativa, non potendo detto dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile" (cfr., Cass. Pen., 4, 7.6.2011 n. 30.862, Giulianelli; conf., Cass. Pen., 4, 25.3.2014 n. 22.257, Guernelli).

1.4. Le condotte ex artt. 56 e 628 c.p..

Osserva la Corte che i giudici di appello, nel confermare la ricostruzione operata dal primo giudice, hanno ritenuto che - per come emerso dall'amplissimo compendio istruttorio (costituito da intercettazioni ambientali e telefoniche e servizi di O.c.p.) - le condotte poste in essere dagli imputati e di cui al capo 9) della rubrica fossero sussumibili nell'ipotesi del tentativo punibile. I giudici di merito, con motivazione adeguata e priva di aporie logico-giuridiche, hanno avuto modo di precisare che la certezza sulla volontà degli imputati di compiere la rapina in questione, dopo averla interamente deliberata e programmata, emergeva chiaramente dall'"avanzato stadio raggiunto dall'azione criminale già nel corso della serata del 21 ottobre 2018 (non sviluppatosi ulteriormente per l'assenza dei coniugi M.- Ma. dall'abitazione e per le difficoltà incontrate dal Pi. nell'accedere allo stabile di (OMISSIS))" nonchè dall'"ancor più avanzata fase raggiunta dall'azione criminosa in occasione dell'intervento degli operanti che ha condotto all'arresto in flagranza (quando Pi. era riuscito a introdursi all'interno dello stabile rimanendo in attesa nel pianerottolo soprastante 5 piano, ossia quello in cui è collocata l'abitazione delle persone offese ed era in procinto di fare irruzione nell'appartamento travisato in volto e con strumenti atti a neutralizzare la serratura della porta di ingresso, mentre i complici, in stabile contatto fra loro, rimanevano nelle vicinanze in attesa del segnale del Pi. per intervenire", chiarendo, poi, come la condotta si era arrestata per effetto dell'intervento della Polizia.

Orbene la sentenza non appare in alcun modo censurabile laddove ha confermato l'affermazione della penale responsabilità degli imputati in ordine al reato di tentata rapina contestato in questione, avendo fatto corretta applicazione del principio di diritto, più volte ribadito da questa corte, secondo cui ci si trova di fronte ad un tentativo punibile in tutti quei casi, quale quello in esame, in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo, pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Deve, quindi, sottolinearsi che il reato tentato, disciplinato dall'art. 56 c.p., costituisce fattispecie autonoma rispetto al reato consumato e, per la sua configurabilità, richiede la sussistenza sia dell'elemento soggettivo che di quello oggettivo; mentre l'elemento soggettivo è identico al dolo del reato che il soggetto agente si propone di compiere, l'elemento oggettivo ruota intorno ai tre concetti di idoneità degli atti, univocità degli atti e mancato compimento dell'azione o mancato verificarsi dell'evento.

La problematica del delitto tentato si inserisce, dunque, tra gli estremi della semplice "cogitatio" o semplice accordo (non punibile ai sensi dell'art. 115 c.p.) ed il delitto consumato.

Per il reato tentato, è necessario, quindi, stabilire quando un'azione, avendo superato la soglia della mera "cogitatio", pur non avendo raggiunto il suo scopo criminoso, sia ugualmente punibile. Per quanto concerne il requisito della idoneità degli atti, l'opinione maggioritaria della giurisprudenza è nel senso che un atto può essere ritenuto idoneo quando, valutato "ex ante" ed in concreto (c.d. criterio della prognosi postuma), ossia tenendo conto di tutte le circostanze conosciute e conoscibili e non di quelle oggettivamente presenti e conosciute dopo (v. Cass. Sez. V, sent. n. 84/1996, Rv.206562; Sez.VI, sent. n. 11360/1998, Rv. 213408), il giudice, sulla base della comune esperienza dell'uomo medio, possa ritenere che quegli atti - indipendentemente dall'insuccesso determinato da fattori estranei - erano tali da ledere, ove portati a compimento, il bene giuridico tutelato dalla norma violata.

L'idoneità degli atti non va, infatti, valutata con riferimento ad un criterio probabilistico di realizzazione dell'intento delittuoso, bensì in relazione alla possibilità che alla condotta consegua lo scopo che l'agente si propone, configurandosi invece un reato impossibile per inidoneità degli atti, ai sensi dell'art. 49 c.p., in presenza di un'inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato che sia assoluta e indipendente da cause estranee ed estrinseche, ove l'azione, valutata "ex ante" e in relazione alla sua realizzazione secondo quanto originariamente voluto dall'agente, risulti del tutto priva della capacità di attuare il proposito criminoso (cfr. Cass. Sez. I, sent. n. 36726/2015 Rv. 264567).

Per quanto riguarda, invece, la nozione di univocità degli atti, secondo la tesi cd. soggettiva, l'atto preparatorio può integrare gli estremi del tentativo punibile quando sia idoneo e diretto in modo non equivoco alla consumazione di un reato, ossia qualora abbia la capacità, sulla base di una valutazione "ex ante" ed in relazione alle circostanze del caso, di raggiungere il risultato prefisso e da tale risultato sia univocamente diretto (cfr. Cass. Sez. II, sent. n. 40702/2009, Rv. 245123); la prova del requisito dell'univocità dell'atto (da considerare quale parametro probatorio) può essere raggiunta, non solo, sulla base dell'atto in sè considerato, ma anche "aliunde" e, quindi, anche sulla base di semplici atti "preparatori" (magari accompagnati ed esaltati nella loro pregnanza euristica da confessioni o intercettazioni particolarmente significative), che rivelino la finalità dell'agente e addirittura l'imminente passaggio alla fase esecutiva del delitto, ma non ne postulino necessariamente l'avvio.

Secondo altra opinione (tesi ed. oggettiva), gli atti diretti in modo non equivoco a commettere un reato possono essere esclusivamente gli atti esecutivi, ossia gli atti tipici, corrispondenti, anche solo in minima parte, come inizio di esecuzione, alla descrizione legale di una fattispecie delittuosa a forma libera o vincolata; e ciò in quanto la univocità degli atti indica non un parametro probatorio, ma un criterio di essenza e una caratteristica oggettiva della condotta (Cass. Sez. I, sent. n. 9411/2010, Rv.246620; Sez. I sent. n. 40058/2008, Rv.241649; Sez.I sent. n. 43406/2001, Rv. 220144; Sez.I, sent. n. 2587/1997, Rv.210074).

Gli atti idonei diretti in modo non equivoco a commettere un delitto, secondo tale prospettazione, possono essere esclusivamente gli atti esecutivi. Mentre per la tesi cd. soggettiva l'univocità va valutata sulla base delle circostanze concrete, sicchè anche gli atti in sè "preparatori" possono, a determinate condizioni, essere considerati univoci, al contrario per la tesi cd. oggettiva, l'univocità coincide con l'inizio degli atti tipici di un determinato reato.

In tal modo, viene però riproposta la problematica di cui si discuteva sotto la vigenza del codice Zanardelli, che faceva riferimento a concetti quali "cominciamento", "mezzi" ed "esecuzione", lasciando insoluti (in particolare in materia di reati a forma libera) gli interrogativi che avevano indotto il legislatore del 1930 a rivedere la normativa in materia.

La disposizione di cui all'art. 56 c.p., nel codice in vigore, non ripropone infatti i concetti di "delitto tentato" e "delitto mancato" del vecchio codice Zanardelli, ma distingue tra tentativo non compiuto (quando l'azione non si compie) e tentativo compiuto (quando l'evento non si verifica), in tal modo facendo riferimento non solo all'esecuzione, ma anche all'azione. E poichè la ricerca delle chiavi di soluzione del problema della riconoscibilità del tentativo non può essere spinta oltre la lettera dell'art. 56 cit., che rappresenta il punto di confluenza di tutte le nozioni descrittive con le quali si cerca di integrare il mezzo d'identificazione dell'univocità degli atti, questo Collegio condivide e ribadisce l'orientamento giurisprudenziale prevalente secondo cui l'unico criterio di ordine generale, che può essere di valido ausilio nel riconoscimento dell'univocità, è costituito dall'imprevedibilità della non consumazione, ovvero da quella complessiva situazione di fatto in cui tutto fa supporre che il reato sarà commesso, e non appaiono percepibili incognite che pongano in dubbio tale eventualità (cfr. Cass. Sez. II, sent. n. 18747/2007 Rv. 236401).

A tal fine, saranno, quindi, esclusi solo quegli eventi imprevedibili non dipendenti dalla volontà del soggetto agente, atteso che costui ha solo un modo per dimostrare di avere receduto dal proposito criminoso: ossia la desistenza volontaria (art. 56 c.p. comma 3) o il recesso attivo (art. 56 c.p., comma 4) (cfr. Cass. Sez. II, sent. n. 46776/2012, Rv. 254106).

Ne consegue, quindi, che il tentativo è punibile non solo quando l'esecuzione è compiuta, ma anche quando l'agente ha compiuto uno o più atti (non necessariamente esecutivi) che indichino, in modo inequivoco, la sua volontà di voler compiere un determinato delitto; ovvero, in tutti quei casi in cui l'agente abbia approntato e completato il suo piano criminoso in ogni dettaglio ed abbia iniziato ad attuarlo, pur non essendo ancora arrivato alla fase esecutiva vera e propria, ossia alla concreta lesione del bene giuridico protetto dalla norma incriminatrice.

Quanto detto trova, peraltro, conferma nei commi successivi dell'art. 56 c.p. che, nel prevedere il caso di desistenza dell'azione e di impedimento da parte dell'agente dell'evento determinato dagli atti esecutivi veri e propri, confermano i due livelli del tentativo punibile sanzionati in modo differente. Del pari, riprova della bontà della tesi soggettiva può trarsi dall'art. 49 c.p., comma 2, che esclude la punibilità per "l'inidoneità dell'azione" e non degli atti esecutivi, così confermando che bisogna aver riguardo più che alla idoneità dei singoli atti, alla idoneità dell'azione valutata nel suo complesso.

Va, ancora, una volta ribadito il principio secondo cui per la configurabilità del tentativo rilevano non solo gli atti esecutivi veri e propri, ma anche quegli atti che, pur classificabili come "preparatori", facciano fondatamente ritenere che l'agente, avendo definitivamente approntato il piano criminoso in ogni dettaglio, abbia iniziato ad attuarlo; "che l'azione abbia la significativa probabilità di conseguire l'obiettivo programmato e che il delitto sarà commesso, salvo il verificarsi di eventi non prevedibili indipendenti dalla volontà del reo" (cfr. Cass., Sez. II, sent. n. 52189/2016, Rv. 268644; Sez. II, sent. n. 25264/2016 Rv. 267006; Sez. II, sent. n. 46776/2012, Rv. 254106; Sez. II, sent. n. 41649/2010, Rv. 248829; Sez. II sent. n. 17988/2010 Rv. 247617).

Alla luce dei cennati principi, in estrema sintesi, deve allora ritenersi che i giudici di merito hanno correttamente ritenuto sussistenti gli elementi costitutivi della tentata rapina contestata chiarendo come le intercettazioni e gli esiti delle perquisizioni evidenziavano che l'azione criminale, già programmata, era stata interrotta dagli autori per la presenza della polizia e, quindi, in ragione di un atteggiamento tutt' altro che spontaneo e, pertanto, non ascrivibile alla figura della c.d. desistenza volontaria.

E' possibile, quindi, procedere all'esame dei singoli motivi dei ricorsi.

2. Il ricorso di P.M..

2.1. Il primo motivo contiene censure in parte infondate ed in parte manifestamente infondate. Il ricorrente reitera, per lo più, questioni di mero fatto già congruamente affrontate dai giudici di merito, con riferimento alla valenza probatoria sia dell'uso d parte dei rapinatori dello scooter Exagon sia della compatibilità di un dato somatico (il naso) dell'imputato, sia dei rapporti tra i coimputati P. e C., sia dell'impronta papillare riconducibile al C. sul casco sequestrato, sia in relazione al profilo della emersione di elementi a carico di altro gruppo di soggetti quali possibili responsabili delle rapine.

La corte di merito, in particolare, ha motivatamente escluso la rilevanza dell'assoluzione in relazione ad una precedente rapina ed evidenziato gli elementi posti a fondamento della decisione di primo grado, specialmente valorizzando la presenza dello scooter Exagon, in uso al coimputato C., in occasione della rapina del 2 agosto 2018, il contenuto di una conversazione del 18 Settembre 2018 ritenuta espressiva della preoccupazione di quest'ultimo rispetto al ritrovamento dello stesso, l'impronta papillare sul casco integrale rinvenuto nel garage in cui vennero trovate armi e munizioni del gruppo e l'utilizzo di occhiali da sole uguali a quelli indossati dal P. ritratto dalle telecamere di sorveglianza, il tratto somatico del naso dell'imputato nonchè i dati emergenti dalle posizioni delle utenze cellulari in uso ai ricorrenti.

A fronte di una motivazione, conforme a quella di primo grado, relativa alla ricostruzione delle condotte delittuose in esame, che appare congrua ed adeguata nella parte in cui ha ritenuto configurabile la responsabilità del P. quanto alle rapine in questione al di là di ogni ragionevole dubbio, le contestazioni formulate con il primo motivo del ricorso riguardanti la assenza di un adeguato compendo indiziario non mirano a contestare la logicità dell'impianto argomentativo delineato nella motivazione della decisione impugnata ma si risolvono prevalentemente nella contrapposizione, in contrasto con giudizio espresso dai giudici di merito - i quali hanno disatteso le questioni in questa sede riproposte - di una differente ricostruzione dei fatti evidentemente sottratta alla delibazione di questa Suprema Corte in ragione dei limiti posti alla cognizione di legittimità dall'art. 606 c.p.p. e sopra richiamati.

2.2. Il secondo motivo è infondato.

Richiamate le considerazioni svolte al p. 1.4. del "Considerato in diritto" va osservato che la corte di appello, valutato il compendio captativo e le risultanze dei servizi di polizia giudiziaria, considerata la articolata attività di programmazione, lo stretto collegamento tra i tre coimputati, la presenza del Pi. all'interno dell'edificio ove trovavasi l'appartamento delle vittime designate travisato ed in possesso di strumenti atti allo scasso, ha correttamente ritenuto integrata anche a carico del P. la contestata ipotesi di rapina tentata, ragionamento certamente idoneo a resistere alle censure di parte ricorrente anche tenuto conto dei menzionati limiti al sindacato di legittimità.

3. Il ricorso di C.M..

3.1. In ordine ai reati di cui ai capi 6), 7) ed 8) si è già evidenziato come i giudici di merito, attraverso una conforme lettura dei complessivi dati probatori, hanno ricostruito la compartecipazione del C., unitamente al P., alle menzionate rapine con argomentazioni congrue e prive di aporie logico giuridiche (v. ff. 87-91).

Osserva la Corte che a fronte delle motivazioni dei giudici di merito (i quali hanno correttamente valorizzato tutti gli elementi indiziari emersi a carico dell'imputato nel rispetto dei parametri fissati dalla giurisprudenza di legittimità in tema di prova indiziaria richiamati al p.. 1.3. del "Considerato in diritto") le censure proposte con il primo motivo devono ritenersi prive di fondamento in quanto mirano a sottoporre al giudizio di legittimità aspetti attinenti alla ricostruzione del fatto e all'apprezzamento del materiale probatorio rimessi alla esclusiva competenza del giudice di merito e non indicano in maniera specifica vizi di legittimità o profili di illogicità della motivazione della decisione impugnata; il ricorrente cerca, in realtà, di far leva sulla asserita autonomia dei singoli elementi indiziari e, quindi, di frazionare l'insieme del quadro probatorio al fine di meglio confutarlo. Per contro, come ha ripetutamente ritenuto questa Corte, la rilevanza dei singoli dati non può essere accertata estrapolandoli dal contesto in cui essi sono inseriti, ma devono essere posti a confronto con il complesso probatorio, dal momento che soltanto una valutazione globale e una visione di insieme permettono di verificare se essi rivestano realmente consistenza decisiva oppure se risultino inidonei a scuotere la compattezza logica dell'impianto argomentativo, dovendo intendersi, in quest'ultimo caso, implicitamente confutati.

2.2. Il secondo motivo è anch' esso infondato.

Richiamati i principi e le considerazioni già formulate in generale ed a proposito della analoga posizione del coimputato P., deve ritenersi integrato a carico del C. quanto al capo 9) l'ipotesi di tentativo punibile ed escludersi l'applicabilità del disposto di cui all'art. 115 c.p., come condivisibilmente ritenuto dalla corte di appello.

Secondo quanto ricostruito in fatto dai giudici di merito l'azione di tutti i coimputati risulta essere stata posta in essere all'esito di una assai dettagliata programmazione, come chiarito in sentenza con richiamo alla pronuncia di primo grado, portata ad uno stadio assai avanzato e in una fase esecutiva immediatamente prima dell'irruzione nell'abitazione individuata per l'azione illecita, con predisposizione di tutti gli strumenti idonei a realizzare la condotta in pieno accordo fra i coimputati, apparendo priva di pregio la tesi della difesa, implicante chiaramente una lettura alternativa degli accadimenti, secondo cui il C. non aveva mai iniziato a realizzare gli estremi delle condotta di cui all'art. 628 c.p. ed era "ancora in tempo per desistere, per tornare indietro".

Va, del resto, ricordato che in tema di reati di danno a forma libera, come la rapina, la desistenza volontaria, che presuppone un tentativo incompiuto, non è configurabile una volta che siano posti in essere gli atti da cui origina il meccanismo causale capace di produrre l'evento, rispetto ai quali può operare, se il soggetto agente tiene una condotta attiva che valga a scongiurare l'evento, la diminuente per il cosiddetto recesso attivo. (Sez. 2, Sentenza n. 16054 del 20/03/2018 Ud. (dep. 11/04/2018) Rv. 272677 - 01.

2.3. Il terzo motivo è anch' esso infondato.

In relazione al rinvenimento delle munizioni e del materiale presso il garage del S. - capi 11), 12), 13), 14), 15) e 16) dell'imputazione - va rilevato che i giudici di merito, attraverso una conforme lettura del materiale istruttorio, valutate le varie dichiarazioni rese dal predetto nel corso delle indagini preliminari, hanno ritenuto nel loro complesso attendibile il narrato del coimputato S. quanto ai profili di responsabilità del ricorrente C. nonchè del coimputato Pi. (sul quale si tornerà in appresso), precisando come non sussistevano elementi per considerare l'accusa come calunniosa e che del resto gli stessi imputati non avevano indicato la presenza di eventuali motivi di astio e ritorsione che, in ipotesi, avrebbero comprovato l'intento del S. di calunniarli.

La corte di appello, con dovizia di argomentazioni, ha chiarito come univoci elementi di riscontro alla predette dichiarazioni scaturivano dal fatto che su uno dei caschi jet sequestrati all'interno del garage in questione sito (OMISSIS) era stata rinvenuta una impronta papillare riferibile in modo certo al ricorrente e che l'affermazione del dichiarante secondo cui in data 21/10/2018 sia il C. che il Pi. erano passati onde consegnargli "la borsa blu" (giorno in cui era stato effettuato dai coimputati un sopralluogo presso l'abitazione di (OMISSIS) della famiglia M.- Ma., apparendo plausibile che il C., unitamente al coimputato Pi., si fosse dapprima recato presso il garage in possesso del S. per prelevare o depositare oggetti utilizzabili per la rapina) risultava riscontrata sia in forza delle intercettazioni telefoniche che in ragione del tracciamento satellitare GPS. I giudici hanno, pure, indicato le ragioni per cui doveva ritenersi irrilevante, contrariamente a quanto dedotto dalle difese, il mancato ritrovamento della borsa contenente le armi ed il materiale poi rinvenuti nel garage (v. f. 95) ed, ancora, richiamato il tenore di intercettazioni da cui era dato desumere che il C. ed il Pi. si erano recati presso l'immobile del S. per fatti connessi alla preventivata rapina presso i signori M., ritenendo acclarato che presso il predetto garage i predetti tenevano attrezzature funzionali alla commissione delle rapine da parte del gruppo criminale.

Il ricorrente, in realtà, solo formalmente ha indicato vizi della motivazione della decisione gravata, ma non ha, invero, prospettato alcuna reale contraddizione logica, intesa come implausibilità delle premesse dell'argomentazione, irrazionalità delle regole di inferenza, ovvero manifesto ed insanabile contrasto tra quelle premesse e le conclusioni nè è stata lamentata, come pure sarebbe stato astrattamente possibile, una incompleta descrizione degli elementi di prova rilevanti per la decisione, intesa come incompletezza dei dati informativi desumibili dagli atti del procedimento, dati per conto compiutamente valutati dai giudici di merito.

3.4. Il quarto motivo è manifestamente infondato.

In ordine alla mancata concessione delle chieste circostanze attenuanti generiche deve osservarsi che la corte territoriale ha motivato il diniego non solo per la mancanza di elementi di segno positivo, ma anche per la oggettiva gravità dei fatti fonte di notevole pregiudizio per le persone offesa nonchè considerati i numerosi precedenti penali dell'imputato.

Del resto nel motivare il diniego della concessione delle attenuanti generiche non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente che egli faccia riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, rimanendo tutti gli altri disattesi o superati da tale valutazione (Sez. 3, sent. n. 28535 del 19/03/2014, Lule, Rv. 259899).

4. Il ricorso di Pi.An..

Osserva il Collegio che sulla scorta di quanto già evidenziato con riferimento alla analoga posizione del C. la sentenza non appare in alcun modo censurabile laddove ha confermato l'affermazione della penale responsabilità dell'imputato in ordine ai reati di cui 11), 12), 13), 14) e 15) ritenendo che le dichiarazioni accusatorie del S., nel loro complesso considerate, erano da ritenere pienamente attendibili anche con riferimento alla posizione del predetto imputato ed avevano trovato ampia conferma nelle intercettazioni telefoniche e nelle rilevazioni satellitari attestanti vari passaggi dell'autovettura con a bordo il Pi. oltre che il C. idonei a confermare che garage in questione era utilizzato anche dall'imputato per custodirvi le attrezzature (armi ed altro) utilizzate per le rapine.

In tale contesto le censure formulate non colgono nel segno atteso che è noto che il perimetro della giurisdizione di legittimità è limitato alla rilevazione delle illogicità manifeste e delle carenze motivazionali, ovvero di vizi specifici del percorso argomentativo, che non possono dilatare l'area di competenza della Cassazione alla rivalutazione dell'intero compendio indiziario. Le discrasie logiche e le carenze motivazionali per essere rilevanti devono, inoltre, avere la capacità di essere decisive, ovvero essere idonee ad incidere il compendio indiziario, incrinandone la capacità dimostrativa.

Di nessun rilievo appare il richiamo alla rilevanza del "giudicato cautelare" di cui alla menzionata ordinanza relativa al S. (in seno alla quale era stata evidenziata la non attendibilità delle dichiarazioni rese dal predetto al P.M.), dato questo che, in sè considerato, non inficia il ragionamento dei giudici di merito basato, come detto, su una serie di elementi di riscontro quanto alle dichiarazioni del chiamante.

5. Per le considerazioni esposte, dunque, i ricorsi devono essere rigettati con la condanna dei ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
rigetta i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 8 aprile 2022.

Depositato in Cancelleria il 30 giugno 2022