Il giudice del dibattimento quando revoca prove inizialmente ammesse per superfluità esercita un suo preciso potere/dovere, ben più ampio di quello riconosciuto dall'art. 190 c.p.p., all'inizio del dibattimento, proprio in forza del maturo grado di conoscenza raggiunto nel corso del dibattimento.
Il ricorrente deve spiegare il livello di decisività delle prove testimoniali che il giudice ritenne superflue per non incorrere nel vizio di genericità, non bastando a integrare la specificità richiesta dall'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. e) l'apodittica affermazione che la testimonianza "revocata" possa essere "potenzialmente contrastante" con quelle giù assunte.
La perizia, per il suo carattere "neutro" sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, con conseguente insindacabilità del diniego di perizia ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d).
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SESTA PENALE
(ud. 19/12/2011) 23-04-2012, n. 15673
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. AGRO' Antonio - Presidente
Dott. GRAMENDOLA Francesco P. - Consigliere
Dott. IPPOLITO Francesco - rel. Consigliere
Dott. CONTI Giovanni - Consigliere
Dott. CALVANESE Ersilia - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
C.D., n. a (OMISSIS);
contro la sentenza della Corte d'appello di Brescia, emessa il 21.3.2011;
- letto il ricorso e il provvedimento impugnato;
- udita in pubblica udienza la relazione del Cons. Dr. F. Ippolito;
- udita la requisitoria del Pubblico Ministero, in persona del sostituto procuratore generale, Dr. Geraci Vincenzo, che ha concluso per l'inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo
1. Il Tribunale di Bergamo, in composizione monocratica, con sentenza pronunciata il 30 aprile 2010, condannò C.D., L.C. e Z.A. per i reati di concorso nel delitto di: a) calunnia (artt. 110 e 368 c.p.), per avere falsamente accusato, con atto di querela, P.A.R. e C. S. di avere alterato l'appendice integrativa allegata ai contratti di locazione stipulati da essi C., Co. e Z. con la Golden s.r.l.; b) falsità in scrittura privata (artt. 110 e 485 c.p.) per avere alterato l'appendice integrativa allegata ai contratti di locazione da essi stipulati con la Golden s.r.l. per il tramite dell'agenzia immobiliare del Ca..
Ritenuto il vincolo della continuazione e valutato come più grave il delitto di calunnia, gli imputati furono condannati alla pena di due anni di reclusione e al risarcimento dei danni verso le parti civili costituite.
2. A seguito d'impugnazione degli imputati, in parziale riforma della decisione di primo grado, la Corte d'appello di Brescia, ritenuta la tardività della querela, ha dichiarato non doversi procedere per il reato di falso ed ha confermato la condanna per il delitto di calunnia, riducendo la pena a quattro mesi di reclusione e la somma liquidata per risarcimento del danno a Euro 5.000,00 per ciascuno degli imputati. La Corte ha applicato la sospensione condizionale della pena a tutti e tre gli imputati, mentre ha limitato il beneficio della non menzione della condanna a Co. e Z..
3. La decisione è divenuta irrevocabile per Co. e Z., mentre ricorre per cassazione il C., il quale deduce, in primo luogo, erronea applicazione della legge penale e inosservanza di norme processuali, per mancata assunzione di prova decisiva e per rigetto dell'impugnazione dell'ordinanza dibattimentale del 16 aprile 2010, con cui fu revocato il provvedimento di ammissione delle prove testimoniali richieste dalla difesa.
Deduce poi le stesse violazioni con riferimento al rigetto della richiesta di perizia ex art. 507 c.p.p..
Con il terzo motivo, denuncia inosservanza delle norme processuali e vizio di motivazione sulla mancata assoluzione degli imputati.
Lamenta, poi, la mancata concessione del beneficio della non menzione della condanna nel certificato del casellario giudiziale e, infine, il vizio di motivazione della sentenza in ordine all'entità del risarcimento del danno in favore delle parti civili.
Motivi della decisione
1. Conformemente alla richiesta del Procuratore generale, va adottata declaratoria d'inammissibilità del ricorso.
2. Manifestamente infondato è il primo motivo. Il giudice di primo grado revocò motivatamente - e sul punto la Corte di Brescia ha fornito ulteriori adeguate spiegazioni per rigettare la deduzione d'appellante - talune prove testimoniali già ammesse, risultate superflue all'esito dell'istruttoria fino a quel momento già espletata. Il giudice del dibattimento esercitò un suo preciso potere/dovere, ben più ampio di quello riconosciuto dall'art. 190 c.p.p., all'inizio del dibattimento, proprio in forza del maturo grado di conoscenza raggiunto nel corso del dibattimento.
Il ricorrente ha peraltro omesso di spiegare il livello di decisività delle prove testimoniali che il giudice ritenne superflue, finendo così con il formulare una deduzione avente il carattere delle genericità, non bastando a integrare la specificità richiesta dall'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. e) l'apodittica affermazione che la testimonianza "revocata" sarebbe stata "potenzialmente contrastante" con quelle giù assunte.
3. Di pari totale infondatezza è la pretesa nullità fondata su violazione di legge processuale e su mancata prova decisiva riferita alla negata perizia.
Il Collegio condivide la consolidata giurisprudenza, secondo cui la perizia, per il suo carattere "neutro" sottratto alla disponibilità delle parti e rimesso alla discrezionalità del giudice, non può farsi rientrare nel concetto di prova decisiva, con conseguente insindacabilità del diniego di perizia ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d). Nel caso in esame la Corte territoriale ha espressamente dato conto dell'oggettiva inutilità della prova, procedendo a un'agevole valutazione dell'evidente falsificazione operata dagli imputati (in considerazione diversità degli spazi e delle lettere delle firme di sottoscrizione rispetto al foglio originale), senza che su tali chiare e ineccepibili considerazioni il ricorrente abbia formulato alcuna seria contestazione.
4. Con il terzo motivo, rubricato come "inosservanza di norme processuali stabilite a pena di nullità dall'art. 606 c.p.p., comma 2, lett. e) e/o mancanza, contraddittorietà o manifesta illogicità della motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) per quanto attiene alla mancata assoluzione degli imputati (e, dunque, anche dell'imputato C.)", l'imputato si limita a denunciare inesistenti vizi di motivazione, in realtà contestando inammissibilmente la valutazione degli elementi probatori fornita dal giudice d'appello, di cui la sentenza offre idonea e adeguata giustificazione con motivazione giuridicamente corretta e logicamente plausibile.
5. Con il quarto motivo si lamenta l'omessa motivazione sulla mancata concessione del beneficio della non menzione, riconosciuta invece agli altri due imputati.
Trattasi di doglianza manifestamente infondata, giacchè proprio dal passaggio relativo "per i soli Co.Lu. e Z.A." si trae l'implicita motivazione sul diniego del beneficio al C. per mancanza delle condizioni di cui all'art. 175 c.p..
6. Il ricorrente si duole, infine, dell'eccessività del risarcimento del danno liquidato in assenza di quantificazione del danno ad opera delle dalle parti civili.
La doglianza non ha alcun pregio, essendo stato ripetutamente affermato dalla giurisprudenza di legittimità che l'inosservanza della norma di cui all'art. 523 c.p.p., comma 2 per omessa determinazione, nelle conclusioni scritte delle parti civili, dell'ammontare dei danni dei quali si chiede il risarcimento non produce alcuna conseguenza, giacchè l'entità del risarcimento, può essere rimessa alla prudente valutazione del giudice (Cass. pen. N. 131495/2005).
7. L'inammissibilità del ricorso per Cassazione dovuta alla manifesta infondatezza dei motivi non consente il formarsi di un valido rapporto di impugnazione e preclude, pertanto, la possibilità di rilevare e dichiarare la prescrizione del reato maturata successivamente alla sentenza impugnata con il ricorso, come richiesto con i motivi nuovi depositati il 9 dicembre scorso (Cass. Sez. U, n. 32 del 22.11.2000, De Luca).
8. All'inammissibilità segue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della sanzione pecuniaria, che si ritiene adeguato determinare nella somma di Euro mille, in relazione alla natura delle questioni dedotte.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro mille in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2011.
Depositato in Cancelleria il 23 aprile 2012