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Prostituta, niente protezione umanitaria (Cass. 9531/20)

22 maggio 2020, Cassazione civile

Ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l'esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato.

Il riconoscimento della protezione umanitaria presuppone una condizione di grave lesione dei diritti umani fondamentali che si consumerebbe appunto nel paese di origine (e di rimpatrio, quindi) del richiedente stesso. 

 

Corte di Cassazione

sez. I Civile, ordinanza 28 febbraio - 22 maggio 2020, n. 9531
Presidente De Chiara - Relatore Falabella

Fatti di causa

1. - E' impugnato per cassazione il decreto del Tribunale di Torino del 7 maggio 2018, con cui è stata respinta la domanda di protezione internazionale proposta da Lo. Os..
Questa aveva dichiarato alla Commissione territoriale di essere fuggita dal proprio paese, la Nigeria, a causa della povertà e di essere stata costretta a prostituirsi in Libia; giunta in Italia, Lo. Os. aveva lasciato il centro di accoglienza e si era stabilita a Torino, ove aveva iniziato in via autonoma la medesima attività che era stata obbligata a praticare in Libia. Aveva quindi negato di vivere in una condizione di sfruttamento e di avere subito, in patria o in Italia, minacce da parte di chi le aveva pagato il viaggio.

Il Tribunale rilevava che la ricorrente non insisteva per il riconoscimento del diritto di asilo correlato allo status di rifugiato e della protezione sussidiaria, già negati dalla Commissione territoriale (la quale aveva anche avviato la procedura di referral, per l'attuazione del programma di emersione, assistenza ed integrazione sociale di cui all'art. 18, comma 3 bis, D.Lgs. n. 286/1998: procedura alla quale tuttavia la richiedente non aveva partecipato, non presentandosi ai colloqui antitratta).

Il giudice del merito rigettava la domanda di protezione umanitaria, affermando altresì, che nel procedimento di protezione internazionale davanti alla commissione territoriale non trovava applicazione l'istituto di cui all'art. 18 D.Lgs. n. 286/1998, che prevede uno speciale permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale, al cui rilascio è competente il solo questore, su proposta o con il parere favorevole del procuratore della Repubblica. Ritenuto, peraltro, che dagli atti emergevano fondati motivi per ritenere che la richiedente fosse vittima del delitto di cui all'art. 601 c.p., disponeva la trasmissione degli atti al pubblico ministero sia per gli accertamenti da svolgere in sede penale, sia per le valutazioni di competenza ai sensi del richiamato art. 18 cit.
2. - Il ricorso per cassazione si fonda su di un motivo. Il Ministero dell'interno, intimato, non ha svolto difese.

Ragioni della decisione

1. - La ricorrente denuncia violazione e falsa applicazione dell'art. 5, comma 6, d.g.s. n. 286/1998. Lamenta che il Tribunale abbia respinto la sua domanda di protezione umanitaria nonostante vi fossero fondati motivi per ritenere essa stessa vittima di sfruttamento, perciò disponendo la trasmissione degli atti del procedimento al pubblico ministero per le valutazioni di competenza ai sensi dell'art. 18 D.Lgs. n. 296/1998, il quale regola il rilascio dello speciale permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale.

2. - Il motivo non ha fondamento.
Il Tribunale ha respinto la domanda di protezione umanitaria, giudicandola infondata sulla base di quanto dedotto in giudizio e di quanto dichiarato dalla richiedente in sede di audizione: avendo cioè riguardo alla sua condizione di povertà e alla mancanza di un lavoro in patria, oltre che a problemi di salute.

I profili di contraddittorietà in cui sarebbe incorso il giudice del merito, e lamentati nel ricorso per cassazione, sono in realtà insussistenti.

Va anzitutto osservato che il provvedimento di trasmissione di copia degli atti al pubblico ministero - finalizzato agli accertamenti di competenza quanto ai delitti di cui agli artt. 601 c.p. e 3 L. n. 75/1958, ai danni della ricorrente, oltre che alle valutazioni da compiersi quanto alla formulazione della proposta o del parere favorevole relativi al rilascio, da parte del questore, dello speciale permesso di soggiorno per motivi di protezione sociale di cui all'art. 18 D.Lgs. n. 296/1998 - si colloca a valle dell'accertamento del giudice del merito circa l'esistenza delle condizioni per il riconoscimento della protezione umanitaria di cui all'art. 5, comma 6, D.Lgs. n. 286/1998. Il Tribunale ha per l'appunto accertato l'insussistenza di una vulnerabilità della richiedente per i profili dedotti in giudizio: il fatto che nel corso di questo fossero emerse le condizioni per un obbligo di denuncia da parte del giudice civile ex art. 331, comma 4, c.p.p. e l'opportunità di porre il pubblico ministero nelle condizioni di attivarsi per il rilascio di un permesso di soggiorno diverso da quello per motivi umanitari, volto a consentire al soggetto straniero di svincolarsi dai possibili condizionamenti di un'organizzazione criminale e di partecipare al programma di assistenza ed integrazione sociale di cui al cit. art. 18 cit. (sulla base di elementi che facevano solo supporre l'esistenza di condotte delittuose perpetrate in danno dell'odierna istante), non si pone in relazione di antinomia logica con la pronuncia reiettiva vertente sulla protezione umanitaria, in quanto si fonda su obblighi che esulano dal merito della controversia.
Ma la lamentata contraddittorietà è altresì esclusa dall'assenza di una possibile interferenza tra il diritto al riconoscimento della protezione umanitaria e la situazione portata all'esame del Tribunale. Va rammentato che, ai fini del riconoscimento della protezione umanitaria, occorre operare la valutazione comparativa della situazione soggettiva e oggettiva del richiedente con riferimento al paese di origine, in raffronto alla situazione d'integrazione raggiunta nel paese di accoglienza, senza che abbia rilievo l'esame del livello di integrazione raggiunto in Italia, isolatamente ed astrattamente considerato (Cass. Sez. U. 13 novembre 2019, n. 29459), onde la misura in questione presuppone, anzitutto, una condizione di grave lesione dei diritti umani fondamentali che si consumerebbe appunto nel paese di origine (e di rimpatrio, quindi) del richiedente stesso. Ebbene, una tale situazione è stata nella specie esclusa dalla stessa ricorrente, la quale - come si è visto - ha negato di essere stata vittima di sfruttamento nel suo paese, né ha sostenuto che lo sarebbe in caso di rimpatrio. Ed è da sottolineare, a tale riguardo, che l'attivazione del pubblico ministero è stata del resto sollecitata (non poteva essere altrimenti) proprio in considerazione di un possibile sfruttamento della ricorrente nel nostro paese, e non in Nigeria.
3. - Il ricorso va dunque respinto.
4. - Non vi sono spese processuali da liquidare.
Ricorrono le condizioni per disporre, a tutela dell'istante, la misura di cui all'art. 52, commi 1 e 2, D.Lgs. n. 196/2003.

P.Q.M.

La Corte
rigetta il ricorso; ai sensi dell'art. 13 comma 1 quater, del D.P.R. n. 115 del 2002, inserito dall'art. 1, comma 17, della L. n. 228 del 2012, dà atto della sussistenza dei presupposti per il versamento, da parte della ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello, ove dovuto, per il ricorso; dispone che in caso di diffusione della presente ordinanza sia omessa l'indicazione delle generalità e dei dati identificativi della ricorrente.