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PM ricerca la verità ma non può minacciare chi viene interrogato (Cass. 20365/239

12 maggio 2023, Cassazione penale

L'autorità investigativa che minacci persone escusse ritenute reticenti con il carcere commette il reato di tentata violenza privata: a fronte del sospetto di falsità o di reticenza delle persone escusse ai sensi dell'art. 362 c.p.p., il pubblico ministero non può rappresentare, per vincerne le resistenze, la detenzione in carcere di queste ultime come conseguenza immediata e inevitabile, rimessa alla volontà degli stessi pubblici ministeri, del rifiuto di fornire le risposte desiderate alle loro domande.

Il ruolo di garante della legalità nella fase procedimentale, connesso alla funzione ricoperta dagli appartenenti all'ufficio del pubblico ministero impone di ammonire le persone assunte a sommarie informazioni, sia inizialmente, che nel momento in cui dovesse nascere il sospetto della falsità o della reticenza delle loro dichiarazioni, sulle "responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti" ovvero, nel caso in cui al termine dell'escussione vengano ravvisate la sussistenza di indizi di reato, attivare la procedura prevista per la relativa iscrizione; nè i rappresentanti dell'ufficio del PM possono obbligare le persone a deporre su fatti  dai quali possa emergere una loro responsabilità penale.

Pur essendo il procedimento penale finalizzato al "superiore interesse" della ricerca della verità  tale obiettivo va perseguito attraverso gli strumenti processuali messi a disposizione dall'ordinamento in conformità alle regole fissate per il loro utilizzo, nel rispetto dei diritti fondamentali del cittadino, di cui l pubblico ministero è garante.

il pubblico ministero è una parte pubblica che concorre con le parti private a rendere effettivo il controllo sullo svolgimento legale della fase investigativa, attraverso l'assunzione della direzione, che gli è propria, delle indagini, in vista della raccolta degli elementi di prova utilizzabili, in via eventuale, nelle altre fasi del processo.

Il pubblico ministero, dunque, si presenta come un organo garante del legittimo svolgimento delle indagini, reso evidente dal dovere posto a suo carico dall'art. 358 c.p.p., di svolgere accertamenti su fatti e circostanze anche a favore della persona sottoposta a indagini, pienamente inserito nella giurisdizione e qualificabile come "autorità giudiziaria", ovvero come "soggetto pubblico cui sono affidati compiti di garanzia sulla tutela dei diritti fondamentali del cittadino".

Proprio questo compito di garante della legalità nella fase procedimentale, dunque, consente di qualificare il pubblico ministero come autorità giudiziaria, a differenza degli organi della Pubblica Accusa di altri paesi Europei, quali la Francia e l'Olanda, che, come evidenziato dalla giurisprudenza convenzionale, non svolgono lo stesso ruolo di garanzia.

Appare indiscutibile che tale ruolo debba esplicarsi anche in uno dei momenti tipici della fase delle indagini preliminari - preordinata, per sua natura, ai sensi dell'art. 326 c.p.p., a consentire al pubblico ministero (e alla polizia giudiziaria) di svolgere le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale - quale, per l'appunto, si configura l'attività di assunzione di informazioni, di cui all'art. 362 c.p.p., attraverso la quale il pubblico ministero "assume informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini".

La disciplina dell'assunzione di informazioni da parte del pubblico ministero (o della polizia giudiziaria da quest'ultimo delegata) è di fatto sovrapponibile a quella prevista per la testimonianza, stante il testuale richiamo operato dall'art. 362 c.p.p., comma 1, alle disposizioni degli artt. 197, 197 bis, 198, 199, 200, 201, 202 e 203 c.p.p., sicchè, giusta la previsione dell'art. 198 c.p.p., comma 1, la persona sentita dal pubblico ministero in sede di assunzione di sommarie informazioni, al pari del testimone, è tenuto a "rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte" ma, al tempo stesso, "non può essere obbligata a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale".

La persona che rende dichiarazioni al giudice o al pubblico ministero ha l'obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte, ai sensi dell'art. 198 c.p.p., comma 1 e art. 362 c.p.p., e di quest'obbligo dev'essere avvertita sia inizialmente, sia quando venga sospettata di falsità o reticenza, senza che in seguito a questo sospetto e al conseguente avvertimento mutino le forme dell'assunzione e diventi necessario procedere considerando la persona come sottoposta alle indagini. A tale conclusione induce il dettato dell'art. 207 c.p.p., che al comma 1 prevede un nuovo avvertimento sulle "responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti" (art. 497 c.p.p., comma 2) e al comma 2 la possibilità, per il giudice, al termine dell'assunzione, di informare il pubblico ministero, ove ravvisi indizi del reato ex art. 372, c.p.

 

 CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

(data ud. 27/01/2023) 12/05/2023, n. 20365

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CATENA Rossella - Presidente -

Dott. GUARDIANO Alfredo - rel. Consigliere -

Dott. DE 4Marzo Giuseppe - Consigliere -

Dott. CIRILLO Pierangelo - Consigliere -

Dott. FRANCOLINI Giovanni - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sui ricorsi proposti da:

A.A., nato a (Omissis);

B.B., nato a (Omissis);

avverso la sentenza del 18/06/2021 della CORTE APPELLO di LECCE;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere GUARDIANO ALFREDO;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore GIORDANO LUIGI;

Il Proc. Gen. conclude per il rigetto dei ricorsi;

udito il difensore:

L'avv. U chiede la conferma della sentenza impugnata e deposita conclusioni scritte e nota spese delle quali chiede la liquidazione;

L'avv. M espone le censure mosse alla sentenza impugnata e ne chiede l'annullamento.

L'avv. C preliminarmente chiede l'estensione dei motivi anche nei confronti del proprio assistito; espone i motivi di gravame e chiede l'accoglimento del ricorso ed in subordine l'improcedibilità per difetto di querela;

L'avv. P illustra i motivi di ricorso e insiste per il loro accoglimento;

L'avv. F si riporta integralmente ai motivi di ricorso e ne chiede l'accoglimento.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

1. Con la sentenza di cui in epigrafe la corte di appello di Lecce riformava parzialmente in senso favorevole agli imputati, limitatamente alla determinazione dell'entità del trattamento sanzionatorio, la sentenza con cui il tribunale di Lecce, in data 14.11.2019, decidendo in sede di giudizio abbreviato, aveva condannato A.A. e B.B., ciascuno alla pena ritenuta di giustizia, oltre al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore delle costituite parti civili, in relazione ai fatti, costituenti reato ex. artt. 110, 56 e 610 c.p., art. 61 c.p., n. 9), loro contestati ai capi A); B) e C) dell'imputazione.

Agli imputati, in particolare, è stato addebitato di avere posto in essere, in concorso tra loro, con abuso dei poteri e violazione dei doveri inerenti alla loro qualità di magistrati del pubblico ministero in servizio presso il tribunale di Trani, atti diretti in modo non equivoco a costringere, con modalità intimidatorie e violenze verbali, C.C. e D.D., rispettivamente, legale rappresentante e amministratore di fatto della società "I Srl ", nonchè E.E., già rappresentante per conto della suddetta società, chiamati a rendere sommarie informazioni testimoniali, ad accusare se stessi e altri di rapporti illeciti con F.F., comandante della polizia municipale di Trani, in relazione ad appalti per la fornitura di apparecchiature elettroniche per la rilevazione di infrazioni al codice della strada, commercializzate dalla "I".

2. Avverso la sentenza della corte territoriale, di cui chiedono l'annullamento, hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati con autonomi atti di impugnazione, fondati sui seguenti motivi, enunciati, ai sensi dell'art. 173, disp. att. del codice di rito, nei limiti strettamente necessari per la motivazione.

2.1. Il A.A., in particolare, nel ricorso a firma del difensore di fiducia, avv. DC, del Foro di Bari, articola due motivi di ricorso, ciascuno dei quali contiene una pluralità di censure.

Con il primo motivo il ricorrente deduce, testualmente, "travisamento della prova e manifesta illogicità e contraddittorietà risultanti dal testo della motivazione; violazione della legge processuale e della legge penale, irrilevanza penale e comunque non punibilità delle condotte contestate, per adempimento del dovere (art. 51 c.p., in relazione all'art. 112 Cost., artt. 326 e 358c.p.p.), anche in forma putativa (art. 59 c.p., comma 4); reato impossibile ex art. 49 c.p., comma 2; difetto di dolo, mancanza della previsione o della volontà di arrecare danno o pericolo al bene giuridico tutelato dalla norma incriminatrice (art. 43 c.p., comma 1). Con il secondo motivo il ricorrente lamenta testualmente "difetto di correlazione tra sentenza ed imputazioni e conseguente nullità della sentenza impugnata, quanto alle contestate "modalità intimidatorie e violenze verbali", divenute, in sentenza, "minacce".

Violazione della legge penale e processuale. Violazione dell'art. 610 in combinato con gli art. 51 c.p., artt. 326, 358, 362 e 207 c.p.p..

Vizio di motivazione per illogicità, contraddittorietà ed insufficienza come già risultanti dal testo della stessa e da atti processuali, nonchè per travisamento della prova costituita dalle trascrizioni delle registrazioni degli interrogatori.

Mancanza della certezza oltre ogni ragionevole dubbio che non ricorresse l'ipotesi del reato impossibile, violazione dell'art. 49 c.p., comma 2, in relazione all'art. 533 c.p.p., comma 1; omissione della necessaria rinnovazione dell'istruzione ex art. 603 c.p.p., quantomeno per esaminare l'avv. D, a seguito di quanto rappresentato e documentato con i motivi nuovi e della documentazione nuova acquisita in appello (trascrizione della registrazione audio del colloquio tra l'imputato Dott. A.A. e l'avv. D), documentazione nuova il cui significato e valore processuale è stato travisato".

2.2. Nel ricorso a firma dell'avv. VM, del Foro di Lecce, proposto sempre nell'interesse del A.A., vengono dedotti tre motivi di impugnazione.

Con il primo motivo, si lamenta violazione di legge processuale, in relazione all'art. 649 c.p.p., nella parte in cui la corte di appello, nonostante il decreto di citazione a giudizio fosse stato emesso per il reato di tentativo di violenza privata, ha in realtà ritenuto il fatto ascritto ai ricorrenti quale violenza o minaccia per tentare di costringere taluno a commettere un reato, fattispecie, tuttavia, già archiviata con decreto del G.I.P. presso il tribunale di Lecce del 5.9.2018, con conseguente nullità della decisione per violazione dell'art. 414 c.p.p..

Con il secondo motivo di ricorso, la difesa eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento all'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), per l'omessa valutazione di argomenti difensivi e di elementi probatori decisivi al fine di escludere la sussistenza del reato in contestazione, prodotti con i motivi aggiunti e con le memorie depositate; travisamento della prova ovvero contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione nella parte in cui la corte territoriale ha omesso di valutare, ai fini della sussistenza del reato, il contesto investigativo, nonchè la personalità e la condotta delle persone offese.

Con il terzo motivo di impugnazione, il ricorrente eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all'art. 610 c.p., anche con riferimento all'art. 51 c.p..

3. Con il ricorso a firma dei difensori di fiducia MP e GF, del Foro di Roma, il B.B. articola tredici motivi di ricorso.

Con il primo motivo di impugnazione l'imputato deduce violazione di legge processuale per lesione del diritto di difesa in relazione alla preclusione di fatto operata dal tribunale nei confronti di un componente del collegio difensivo, avv. Filice, in sede di discussione, comportante la nullità della sentenza in virtù del combinato disposto degli artt. 24 e 111, Cost.; art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), art. 180 c.p.p., art. 185 c.p.p., comma 2 e 3, art. 604 c.p.p., comma 4.

Con il secondo motivo di ricorso, il B.B. deduce violazione di legge e vizio di motivazione per avere ricondotto i fatti in addebito al paradigma normativo di cui agli artt. 56 e 610, c.p., piuttosto che all'art. 611 c.p., posto che tale corretta qualificazione avrebbe imposto al tribunale il riconoscimento della propria incompetenza ex art. 21 c.p.p., stante il necessario esperimento dell'udienza preliminare, e l'effetto preclusivo derivante da ne bis in idem sostanziale, in relazione all'archiviazione operata in ordine ai capi a) e b) dell'imputazione e all'esercizio dell'azione penale per i medesimi capi, riqualificati rispetto alla originaria imputazione ex art. 611 c.p., ai sensi degli artt. 56 e 610 c.p., stante l'esatta corrispondenza del fatto.

Con il terzo motivo di impugnazione, il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione in ordine alla ritenuta sussistenza dell'elemento oggettivo dei reati in contestazione.

Con il quarto motivo di ricorso, l'imputato eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di insussistenza dell'elemento soggettivo dei reati in contestazione.

Con il quinto motivo di impugnazione, il prevenuto deduce violazione di legge e vizio di motivazione, con riferimento al mancato riconoscimento dell'errore di fatto ex art. 47 c.p., in cui è incorso il B.B..

Con il sesto motivo di ricorso, l'imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento dell'esimente di cui all'art. 51 c.p..

Con il settimo motivo di ricorso, il B.B. eccepisce violazione di legge e vizio di motivazione in punto di mancato riconoscimento dell'eccesso colposo ex art. 55, c.p., nell'adempimento di un dovere.

Con l'ottavo motivo di impugnazione, il ricorrente lamenta vizio di motivazione in relazione al criterio di giudizio della prova declinato dall'art. 192, c.p.p. e a quello di colpevolezza dell'imputato al di là di ogni ragionevole dubbio ex art. 533 c.p.p..

Con il nono motivo di ricorso, l'imputato lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di mancato riconoscimento della circostanza attenuante della minore partecipazione, ex art. 114 c.p.p., comma 1.

Con il decimo motivo di impugnazione, il ricorrente eccepisce il mancato riconoscimento della circostanza attenuante della provocazione.

Con l'undicesimo motivo di ricorso, il prevenuto lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, in punto di mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.

Con il dodicesimo motivo di impugnazione, l'imputato lamenta mancanza di motivazione in ordine al diverso aumento operato ex art. 81, cpv., c.p., per il riconosciuto vincolo della continuazione tra i reati di cui ai capi b) e c).

Con il tredicesimo motivo di ricorso, il B.B. deduce vizio di motivazione, in punto di determinazione dell'entità del trattamento sanzionatorio.

3. Entrambi i ricorsi vanno dichiarati inammissibili per le ragioni che verranno esposte nel prosieguo della presente motivazione.

3.1. Preliminarmente va rilevato che l'inammissibilità originaria dei ricorsi degli imputati rende, da un lato, del tutto priva di interesse la richiesta, formulata in udienza dall'avv. U, difensore di fiducia delle costituite parti civili C.C. e D.D., di rinviare la trattazione dei proposti ricorsi, per consentire ai propri assistiti di proporre querela nei confronti degli imputati, sul presupposto che il reato di cui agli artt. 56 e 610 c.p., a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, è divenuto perseguibile a querela di parte; dall'altro, irrilevante la circostanza rappresentata dall'avv. Piccardi, sempre in udienza, che il E.E., persona offesa dal reato di cui al capo C) dell'imputazione, non abbia presentato querela, nè si sia costituito parte civile nei confronti dei ricorrenti.

Il Collegio, infatti, ritiene di aderire ai principi di diritto, affermati in passato dalla giurisprudenza del Supremo Collegio (cfr. Sez. U, n. 40150 del 21/06/2018, Rv. 273551) e ribaditi da recenti arresti, secondo cui nel giudizio di legittimità l'inammissibilità del ricorso, impedendo la costituzione del rapporto processuale, preclude la considerazione della mancata proposizione della querela in relazione a reati per i quali sia stata introdotta, nelle more del ricorso, tale forma di procedibilità dal D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, sicchè non è necessario attendere il decorso del termine di tre mesi dall'entrata in vigore del citato D.Lgs. per l'eventuale esercizio dell'istanza punitiva.

E invero, nei giudizi pendenti in sede di legittimità, l'improcedibilità per mancanza di querela, necessaria per reati divenuti procedibili a querela a seguito dell'entrata in vigore del D.Lgs. 10 ottobre 2022, n. 150, non prevale sull'inammissibilità del ricorso, poichè, diversamente dall'ipotesi di "abolitio criminis", non è idonea a incidere sul cd. giudicato sostanziale (cfr. Sez. 4, n. 2658 del 11/01/2023, Rv. 284155; Sez. 5, n. 5223 del 17/01/2023, Rv. 284176).

4. Ciò posto, plurimi sono i motivi di inammissibilità che inficiano i ricorsi del A.A. e del B.B..

5. Una prima ragione di inammissibilità, riguarda il modo con cui sono stati articolati i due motivi del ricorso a firma dell'avv. C; il secondo e il terzo motivo del ricorso a firma dell'avv. VM; il secondo, il terzo, il quarto, il quinto, il sesto, il settimo, l'ottavo, il nono, il decimo, l'undicesimo e il tredicesimo motivo del ricorso a firma degli avvocati P e F.

Come affermato, infatti, dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, in tema di ricorso per cassazione, la denunzia cumulativa, promiscua e perplessa della inosservanza ed erronea applicazione della legge penale, nonchè della mancanza, della contraddittorietà e della manifesta illogicità della motivazione (tale è la denuncia articolata dai difensori negli indicati motivi di ricorso) rende i motivi aspecifici ed il ricorso inammissibile, ai sensi dell'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio (cfr. Sez. 1, n. 39122 del 22/09/2015, Rv. 264535).

In particolare, il ricorrente che intende denunciare contestualmente, con riguardo al medesimo capo o punto della decisione impugnata, i tre vizi della motivazione deducibili in sede di legittimità ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), ha l'onere - sanzionato a pena di a-specificità, e quindi di inammissibilità, del ricorso - di indicare specificamente, in relazione alle parti della motivazione oggetto di gravame, su quale profilo la motivazione asseritamente manchi, in quali parti sia contraddittoria, in quali manifestamente illogica, non potendo attribuirsi al giudice di legittimità la funzione di rielaborare l'impugnazione, al fine di estrarre dal coacervo indifferenziato dei motivi quelli suscettibili di un utile scrutinio, in quanto i motivi aventi ad oggetto tutti i vizi della motivazione sono, per espressa previsione di legge, eterogenei ed incompatibili, quindi non suscettibili di sovrapporsi e cumularsi in riferimento ad un medesimo segmento della motivazione (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 38676 del 24/05/2019, Rv. 277518; Sez. 2, n. 31811 del 08/05/2012, Rv. 254329Sez. 2, n. 19712 del 06/02/2015, Rv. 263541).

6. Altra ragione di inammissibilità comune alla maggior parte dei motivi di impugnazione attiene sempre al profilo della genericità.

Consolidato nella giurisprudenza della Suprema Corte, infatti, è il principio che debba essere dichiarato inammissibile, ai sensi del combinato disposto dell'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c) e d), e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), il ricorso per cassazione fondato su motivi, che, riproponendo acriticamente le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dal giudice del gravame, senza confrontarsi realmente con esse, devono considerarsi non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso.

La mancanza di specificità del motivo, invero, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nei vizio di mancanza di specificità, conducente, a norma dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità (cfr. Cass., Sez. 4, n. 34270 del 03/07/2007, rv. 236945; Cass., Sez. 5, n. 28011 del 15/02/2013, rv. 255568; Cass., Sez. 2, n. 42046 del 17/07/2019, rv. 277710; Sez. 6, n. 11008 del 11/02/2020, Rv. 278716).

7. Va, inoltre, definita, sempre in via generale, l'esatta nozione dei vizi di manifesta illogicità e contraddittorietà della motivazione, denunciati dai prevenuti, che ricorrono, rispettivamente, nel caso in cui vi sia una frattura logica evidente tra una premessa, o più premesse nel caso di sillogismo, e le conseguenze che se ne traggono (cfr. Cass., Sez. 1, n. 9539 del 12/05/1999, Rv. 215132) ovvero quando non siano conciliabili tra loro le considerazioni logico-giuridiche in ordine ad uno stesso fatto o ad un complesso di fatti o ci sia disarmonia tra la parte motiva e la parte dispositiva della sentenza ovvero allorchè in sentenza si manifestino dubbi che non consentano di determinare quale delle due o più ipotesi formulate dal giudice - conducenti ad esiti diversi - siano state poste a base del suo convincimento (cfr. Cass., Sez. 2, n. 12329 del 04/03/2010, Rv. 247229), evenienze, come si vedrà in seguito, tutte non riscontrabili nel caso in esame, sicchè, al riguardo, i ricorsi degli imputati risultano anche inammissibili per manifesta infondatezza dei denunciati vizi motivazionali.

8. Deve, infine, ribadirsi l'altrettanto consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità (non sufficientemente meditato dai ricorrenti), secondo cui, anche a seguito della modifica apportata all'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), dalla L. n. 46 del 2006, resta non deducibile nel giudizio di legittimità il travisamento del fatto, stante la preclusione per la Corte di cassazione di sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito.

In questa sede di legittimità, infatti, è precluso la deduzione di un percorso argomentativo che si risolva in una mera e del tutto generica lettura alternativa o rivalutazione del compendio probatorio, posto che, in tal caso, si demanderebbe alla Cassazione il compimento di una operazione estranea al giudizio di legittimità, quale è quella di reinterpretazione degli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, atteso il persistente divieto di rilettura e di re-interpretazione nel merito degli elementi probatori (cfr. ex plurimis, Cass., sez. VI, 22/01/2014, n. 10289; Cass., Sez. 3, n. 18521 del 11/01/2018, Rv. 273217; Cass., Sez. 6, n. 25255 del 14/02/2012, Rv. 253099; Cass., Sez. 5, n. 48050 del 02/07/2019, Rv. 277758; Sez. 5, n. 26455 del 09/06/2022, Rv. 283370).

9. Poste tali premesse di carattere generale, ragioni di sintesi espositiva rendono opportuno soffermarsi sulla motivazione della sentenza di secondo grado, il cui impianto va condiviso.

10. Si osserva, al riguardo, che i fatti per cui si procede, nel loro verificarsi fenomenico, non sono oggetto di contestazione, in quanto si è provveduto a fonoregistrare l'assunzione delle sommarie informazioni da parte delle persone offese, cui procedettero il 5.10.2015 i pubblici ministeri A.A. e B.B., ai sensi dell'art. 362 c.p.p., sicchè non è revocabile in dubbio che nel corso di tale assunzione furono utilizzate dai ricorrenti le espressioni verbali analiticamente indicate nei tre capi di imputazione, alla cui lettura si rimanda, ciascuno relativo alle contestate modalità con cui i ricorrenti interloquirono con lo C.C., il D.D. e il E.E..

Se ne deduce che il tema principale da affrontare riguarda il valore da attribuire alle modalità con cui gli imputati hanno condotto l'escussione delle menzionate persone offese, nell'ambito di un'attività investigativa volta a raccogliere elementi a carico di F.F., comandante della polizia municipale di Trani, ritenuto dagli organi inquirenti il fulcro di un sistema corruttivo che imponeva agli imprenditori il pagamento di tangenti per l'aggiudicazione degli appalti pubblici (cd. "Sistema Trani"), vale a dire se con il loro contegno, cristallizzato negli esiti dell'attività di fonoregistrazione, il A.A. e il B.B., abbiano o meno posto in essere, come da contestazione, "atti idonei diretti in modo non equivoco a costringere con modalità intimidatorie e violenze verbali" lo C.C., il D.D. e il E.E. a rendere dichiarazioni, che confermassero l'assunto investigativo riguardante il F.F..

Orbene, a tale quesito, la corte territoriale fornisce una risposta positiva, che si contraddistingue per completezza, logicità e correttezza delle argomentazioni giuridiche su cui si fonda.

Il fulcro del ragionamento svolto dalla corte territoriale, condiviso dal Collegio, è che, qualunque fosse stata la condizione processuale dello C.C., del D.D. e del E.E. al momento della loro escussione, se di semplici persone informate sui fatti o di persone offese dal reato di concussione (secondo l'impostazione privilegiata dalla difesa) o di soggetti indagabili per il reato di corruzione, in nessun caso essi potevano essere giuridicamente costretti a fornire delle risposte e men che mai delle risposte corrispondenti ai desiderata degli organi inquirenti, rappresentando agli escussi che la conseguenza inevitabile del loro rifiuto di collaborare sarebbe stata l'immediata perdita della libertà personale, determinata dalla loro sicura incarcerazione, ad opera degli stessi pubblici ministeri, e la compromissione del futuro economico della "I" (minaccia rivolta al D.D.), che sarebbe stata sottoposta ad altrettanto inevitabile sequestro penale e alla conseguente espulsione dal settore degli appalti banditi dalla pubblica amministrazione ovvero la fine di ogni futuro professionale per il E.E..

Sul punto, per la chiarezza del relativo argomentare, giova riportare alcuni significativi passaggi della sentenza oggetto di ricorso.

Rileva, in particolare, la corte di appello: "In caso di mendacio o di reticenza, infatti, il magistrato può soltanto ammonire la persona informata sui fatti in ordine alle possibili conseguenze penali della condotta, ma non può rivolgere all'interlocutore espressioni di contenuto minaccioso al fine di indurlo a rispondere. Orbene non vi è dubbio alcuno che molte delle frasi rivolte dagli imputati ai tre dichiaranti siano di contenuto minaccioso e siano finalizzate a ottenere, in tal modo, le informazioni richieste, ossia, tra l'altro, la dichiarazione che vi era stato un passaggio di denaro dalla Italtraff al F.F.. In particolare appaiono di contenuto minaccioso, in quanto prospettazione di un male ingiusto, le espressioni con le quali gli imputati hanno prospettato agli escussi il carcere come conseguenza inevitabile e anche immediata della loro reticenza"; come circostanza, si potrebbe anche dire, utilizzando un noto brocardo, certus an, certus quando, il cui verificarsi dipendeva dalla volontà degli organi della Pubblica Accusa, che procedevano all'assunzione delle informazioni.

E di tali espressioni la corte territoriale fa ampio e ragionato catalogo (cfr. pp. 22-24 della sentenza della corte territoriale; si segnalano, per la loro particolare forza rappresentativa, le espressioni rivolte allo C.C. e al D.D. nei seguenti termini: "vogliamo vedere voi che risposte ci dite e se quello che voi ci dite non converge, lei se ne andrà in galera veloce"; "... non mi venite a dire che non avete dato niente, perchè se mi dite che non avete dato niente noi prenderemo le carte che abbiamo qui e vi manderemo dritti in via Andria, che sta il supercarcere, però in cella"; "M, noi le vogliamo così bene che vogliamo farla tornare a Trani dentro....perchè...guardi che meraviglia...guardi.....guardi...no.. guardi qui...lei la conosceva già la città di Trani? E' bellissima...guardi dal carcere di Trani c'è una visuale sul mare...stupenda; e secondo me a lei col problema che c'ha le fa pure bene stare un pò tranquillo...", nonchè la minaccia rivolta al E.E. di prepararsi dalla sera stessa alla detenzione carceraria, portando con sè la valigia con gli effetti personali e le "arance", genere alimentare associato nella vulgata alla condizione di detenuto, se non modificherà le sue dichiarazioni).

Tale condotta integra gli estremi del tentativo di violenza privata.

10.1. Al riguardo appare opportuno ribadire i consolidati principi affermati dalla migliore dottrina e dalla giurisprudenza di legittimità, nel ricostruire i tratti costituivi del delitto di violenza privata, anche nella sua forma tentata.

Si è da tempo chiarito che, ai fini dell'integrazione del delitto di violenza privata, è necessario che la violenza o la minaccia costitutive della fattispecie incriminatrice comportino la perdita o, comunque, la significativa riduzione, della capacità di determinarsi e di agire secondo la propria volontà del soggetto passivo, essendo, invece, penalmente irrilevanti, in virtù del principio di offensività, i comportamenti costituenti violazioni di regole deontologiche, etiche o sociali inidonei ad influenzarne significativamente il processo di formazione della volontà (cfr., ex plurimis, Sez. 5, 9.1.1985, Di Patre; Sez. 5, n. 3562 del 09/12/201, Rv. 262848; Sez. 5, n. 1786 del 20/09/2016, Rv. 26875; Sez. 5, n. 40485 del 01/07/2019, Rv. 277748).

L'elemento oggettivo del delitto di violenza privata, pertanto, è costituito da una violenza o da una minaccia che abbiano l'effetto di costringere taluno a fare, tollerare od omettere una condotta determinata, poichè in assenza di tale determinatezza, possono integrarsi i singoli reati di minaccia, molestia, ingiuria, percosse, ma non quello di violenza privata (cfr. Sez. 5, n. 47575 del 07/10/2016, Rv. 268405).

Nel caso in cui, come quello in esame, la condotta incriminata si sia esplicitata in una minaccia (reiterata), la giurisprudenza di legittimità ha, del pari da tempo, chiarito la differenza tra il delitto di minaccia e quello di violenza privata, individuandola nel fatto che, mentre nella minaccia l'atto intimidatorio è fine a se stesso e per la sussistenza del reato è sufficiente che l'agente ponga in essere la condotta minatoria in senso generico, trattandosi di reato formale con evento di pericolo, immanente nella stessa condotta, viceversa, nella violenza privata, a minaccia (o la violenza fisica) funge da mezzo a fine e occorre che essa sia diretta a costringere taluno a fare, tollerare od omettere qualcosa, con evento non di pericolo ma di danno, rappresentato dal comportamento coartato del soggetto passivo, dipendente dall'atto di intimidazione (o di violenza) subito (cfr. Sez. 5, 2.3.1989, n. 9082, Rv. 181716).

In questa prospettiva si è, altresì, specificato che, ai fini del delitto di violenza privata, non è richiesta una minaccia verbale o esplicita, essendo sufficiente un qualsiasi comportamento od atteggiamento intimidatorio dell'agente, sia verso il soggetto passivo, sia verso altri, idoneo, avuto riguardo alle condizioni ambientali in cui ii fatto si svolge, a incutere timore e a suscitare la preoccupazione di subire un danno ingiusto, finalizzato a ottenere che, mediante tale intimidazione, il soggetto passivo sia indotto a fare, tollerare od omettere qualcosa (cfr., ex plurimis, Sez. 5,;1. 29261 del 24/02/2017, Rv. 270869; Sez. 6, n. 31413 del 08/03/2:306, Rv. 234854).

Deve trattarsi, infine, come segnalato dalla dottrina e dalla giurisprudenza con orientamento costante nel corso degli anni, di una costrizione illegittima, vale a dire non autorizzata da nessuna norma giuridica (cfr. Sez. 5, n. 1770 del 09/02/1984, Rv. 162866).

Sotto il profilo dell'elemento soggettivo dei reato, per altro verso, si è evidenziato come sia sufficiente il dolo generico, ossia la coscienza e la volontà di costringere taluno, con violenza o minaccia, a fare, tollerare od omettere qualcosa, senza che sia necessario il concorso di un fine particolare, che costituisce l'antecedente psichico della condotta, cioè il movente del comportamento tipico descritto dalla norma penale (cfr. Sez. 5, n. 2220 del 24/10/2022, Rv. 284115).

Nessun dubbio, infine, sussiste sulla possibilità che la violenza privata, reato istantaneo che si consuma nel momento in cui l'altrui volontà viene coartata a fare, tollerare od omettere qualcosa, assuma la forma del tentativo, quando non sia stato raggiunto l'effetto voluto per fatto indipendente dalla volontà del colpevole.

Come è stato opportunamente evidenziato, in particolare, ai fini della configurabilità del tentativo di violenza privata, non è necessario che la minaccia abbia effettivamente intimorito il soggetto passivo determinando una costrizione, ancorchè improduttiva del risultato perseguito, ma è sufficiente che essa, tenuto conto delle modalità dell'azione e delle condizioni personali della vittima, sia idonea ad incutere timore e sia diretta a costringere il destinatario a tenere, contro la propria volontà, la condotta pretesa dall'agente (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 34124 del 06/05/2019, Rv. 276903; Sez. 3, n. 29742 del 11/06/2013, Rv. 256680; Sez. 5, n. 15989 del 04/03/2005, Rv. 232132) 10.2. All'esito di questa sommaria ricognizione dei principi fondamentali in tema di ricostruzione della fattispecie penale di cui si discute, occorre soffermarsi sulla particolare natura dell'attività nel corso della quale sono state poste in essere le condotte in contestazione, proprio allo scopo di saggiarne la conformità al modello legale.

Si tratta di un passaggio fondamentale, sia nella prospettiva accusatoria, sia in quella dei difensori, che hanno speso notevoli energie, sin dal giudizio di merito, nel sostenere l'irrilevanza penale delle condotte in questione, perchè scriminate ai sensi dell'art. 51 c.p., in quanto poste in essere nell'adempimento di un dovere, ovvero perchè prive di reale portato offensivo, dovendosi valutare alla stregua di un "bluff tattico" o di uno "stress test", funzionale a ottenere la verità, doverosa da parte di soggetti escussi per la loro qualità di persone offese dal reato" (cfr. p. 24 della sentenza di appello).

In questa prospettiva va, innanzitutto, rimarcata la particolare posizione ordinamentale del pubblico ministero, riconosciuta anche da alcune importanti decisioni della Corte Europea dei Diritti dell'Uomo.

Come è stato acutamente osservato, il pubblico ministero è una parte pubblica che concorre con le parti private a rendere effettivo il controllo sullo svolgimento legale della fase investigativa, attraverso l'assunzione della direzione, che gli è propria, delle indagini, in vista della raccolta degli elementi di prova utilizzabili, in via eventuale, nelle altre fasi del processo.

Il pubblico ministero, dunque, si presenta come un organo garante del legittimo svolgimento delle indagini, reso evidente dal dovere posto a suo carico dall'art. 358 c.p.p., di svolgere accertamenti su fatti e circostanze anche a favore della persona sottoposta a indagini, pienamente inserito nella giurisdizione e qualificabile come "autorità giudiziaria", ovvero come "soggetto pubblico cui sono affidati compiti di garanzia sulla tutela dei diritti fondamentali del cittadino".

Proprio questo compito di garante della legalità nella fase procedimentale, dunque, consente di qualificare il pubblico ministero come autorità giudiziaria, a differenza degli organi della Pubblica Accusa di altri paesi Europei, quali la Francia e l'Olanda, che, come evidenziato dalla giurisprudenza convenzionale, non svolgono lo stesso ruolo di garanzia (cfr. C. EDU, 23.11.2010, Moulin c. Francia; C. EDU Grande Camera, 14.9.2010, Sanoma Utvegers B. V. c. Pays Bas).

Appare indiscutibile che tale ruolo debba esplicarsi anche in uno dei momenti tipici della fase delle indagini preliminari - preordinata, per sua natura, ai sensi dell'art. 326 c.p.p., a consentire al pubblico ministero (e alla polizia giudiziaria) di svolgere le indagini necessarie per le determinazioni inerenti all'esercizio dell'azione penale - quale, per l'appunto, si configura l'attività di assunzione di informazioni, di cui all'art. 362 c.p.p., attraverso la quale il pubblico ministero "assume informazioni dalle persone che possono riferire circostanze utili ai fini delle indagini" e tali formalmente erano C.C., D.D. e E.E. quando vennero sentiti dagli imputati, come riconosciuto dagli stessi ricorrenti, che, proprio in ragione di tale condizione, sostengono la sussistenza in capo alle persone escusse del dovere di rispondere secondo verità alle domande loro poste dai pubblici ministeri in sede di assunzione di informazioni, rispetto al quale era speculare il corrispondente potere/dovere degli imputati (nella prospettiva difensiva dotato di efficacia scriminante, ai sensi dell'art. 51 c.p.) di accertare la verità processuale.

Orbene, non ignora il Collegio che la disciplina dell'assunzione di informazioni da parte del pubblico ministero (o della polizia giudiziaria da quest'ultimo delegata) è di fatto sovrapponibile a quella prevista per la testimonianza, stante il testuale richiamo operato dall'art. 362 c.p.p., comma 1, alle disposizioni degli artt. 197, 197 bis, 198, 199, 200, 201, 202 e 203 c.p.p., sicchè, giusta la previsione dell'art. 198 c.p.p., comma 1, la persona sentita dal pubblico ministero in sede di assunzione di sommarie informazioni, al pari del testimone, è tenuto a "rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte" ma, al tempo stesso, "non può essere obbligata a deporre su fatti dai quali potrebbe emergere una sua responsabilità penale".

Sul punto deve condividersi un risalente arresto di questa Corte, secondo cui la persona che rende dichiarazioni al giudice o al pubblico ministero ha l'obbligo di rispondere secondo verità alle domande che gli sono rivolte, ai sensi dell'art. 198 c.p.p., comma 1 e art. 362 c.p.p., e di quest'obbligo dev'essere avvertita sia inizialmente, sia quando venga sospettata di falsità o reticenza, senza che in seguito a questo sospetto e al conseguente avvertimento mutino le forme dell'assunzione e diventi necessario procedere considerando la persona come sottoposta alle indagini. A tale conclusione induce il dettato dell'art. 207 c.p.p., che al comma 1 prevede un nuovo avvertimento sulle "responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti" (art. 497 c.p.p., comma 2) e al comma 2 la possibilità, per il giudice, al termine dell'assunzione, di informare il pubblico ministero, ove ravvisi indizi del reato ex art. 372, c.p. (cfr. Sez. 5, n. 215 del 20/01/1993, Rv. 193812).

Se ciò è vero, come è vero, il A.A. e il B.B., a fronte del sospetto di falsità o di reticenza delle persone escusse ai sensi dell'art. 362 c.p.p., mai avrebbero potuto rappresentare, per vincerne le resistenze, la detenzione in carcere di queste ultime come conseguenza immediata e inevitabile, rimessa alla volontà degli stessi pubblici ministeri, del rifiuto di fornire le risposte desiderate alle loro domande.

Il ruolo di garante della legalità nella fase procedimentale, connesso alla funzione da essi ricoperta, piuttosto, avrebbe imposto loro di seguire rigidamente la sequenza procedimentale ora indicata, vale a dire ammonire le persone assunte a sommarie informazioni, sia inizialmente, che nel momento in cui nacque il sospetto della falsità o della reticenza delle loro dichiarazioni, sulle "responsabilità previste dalla legge penale per i testimoni falsi o reticenti" ovvero, nel caso in cui al termine dell'escussione avessero ravvisato la sussistenza di indizi di reato, attivare la procedura prevista per la relativa iscrizione; nè essi avrebbero potuto obbligare le persone in questione a deporre su fatti (in ipotesi di corruzione, commessi in concorso con il F.F.) dai quali sarebbe potuta emergere una loro responsabilità penale.

Appare, invero, del tutto ovvio, ma giova ribadirlo, che, pur essendo il procedimento penale finalizzato al "superiore interesse" della ricerca della verità (cfr., in questo senso, tra le tante pronunce, Sez. U, n. 29951 del 24/05/2004, Rv. 228165), tale obiettivo va perseguito attraverso gli strumenti processuali messi a disposizione dall'ordinamento in conformità alle regole fissate per il loro utilizzo, nel rispetto dei diritti fondamentali del cittadino, di cui, come si è detto, il pubblico ministero è garante.

Ciò posto, non è revocabile in dubbio che nessuna norma giuridica autorizzava il A.A. e il B.B. ad assumere le sommarie informazioni da C.C., D.D. e E.E., secondo le modalità in precedenza indicate, che, pertanto, hanno dato vita a una vera e propria costrizione illegittima nei confronti delle persone offese, alle quali veniva dolosamente prospettata l'inflizione di un danno, ingiusto rappresentato dalla immediata e sicura applicazione della detenzione carceraria.

L'ingiustizia del danno minacciato si apprezza in particolar modo ove si tenga presente che l'esito paventato dai pubblici ministeri, come conseguenza certa della falsità o della reticenza da loro attribuite alle persone escusse, non era e non è giustificato da nessuna disposizione normativa, circostanza di cui gli imputati, in ragione della loro competenza professionale, non potevano non essere a conoscenza e che, tuttavia, non ha ostacolato il loro tentativo di comprimere la libertà di autodeterminazione delle persone offese, pur di raggiungere il perseguito obiettivo investigativo.

L'art. 371 bis c.p., inserito nel corpo del codice penale dal D.L. 8 giugno 1992, n. 306, art. 11, comma 1, convertito, con modificazioni, nella L. 7 agosto 1992, n. 356, prevede, invero, che chiunque, nel corso di un procedimento penale, richiesto dal pubblico ministero di fornire informazioni ai fini delle indagini, rende dichiarazioni false ovvero tace, in tutto o in parte, ciò che sa intorno ai fatti sui quali viene sentito, è punito con la reclusione sino a quattro anni.

Tuttavia, come correttamente rilevato dalla corte di appello, l'art. 381 c.p.p., comma 4 bis, aggiunto dalla L. 8 agosto 1995, n. 332, art. 26, prevede espressamente che "non è consentito l'arresto della persona richiesta di fornire informazioni dalla polizia giudiziaria o dal pubblico ministero per reati concernenti il contenuto delle informazioni o il rifiuto di fornirle".

Si tratta di una disposizione, come è stato osservato, riguardante i soli contenuti dichiarativi direttamente collegabili all'attività di investigazione in corso di svolgimento, da parte del pubblico ministero e della polizia giudiziaria, e non le dichiarazioni integranti altri delitti, sicchè essa trova chiara applicazione con riferimento al reato, di cui all'art. 371 bis c.p., che, in ragione della pena massima fissata in quattro anni di reclusione, in assenza di tale disposizione, sarebbe rientrato nel catalogo dei reati dolosi puniti con la pena della reclusione superiore nel massimo a tre anni, per i quali l'art. 381 c.p.p., comma 1, consente l'arresto (facoltativo) in flagranza.

Non ignora, peraltro, il Collegio l'esistenza di un orientamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui non integra gli estremi del reato di violenza privata la condotta preordinata a far desistere altri da un'azione illecita, in quanto la condotta che si assume impedita con violenza o minaccia, ad opera di un terzo, deve esprimere una lecita modalità di esplicazione della personalità (cfr. Sez. 5, n. 22853 del 29/04/2019, 23/05/2019, Rv. 276633).

Si tratta, tuttavia, di un principio non applicabile al caso in esame, poichè, in di Spa rte il tema già sviluppato delle modalità contra legem con cui si è proceduto all'assunzione delle sommarie informazioni, in tale momento non erano stati acquisiti elementi concreti che consentissero di qualificare come illecita la condotta di C.C., D.D. e E.E., i quali non si erano rifiutati di rispondere alle domande dei pubblici ministeri (circostanza che astrattamente avrebbe integrato la fattispecie di cui all'art. 366 c.p., comma 3), ma semplicemente non avevano fornito a questi ultimi le risposte di cui avevano bisogno per la conferma della loro ipotesi investigativa, che li voleva correi del F.F..

Non appare revocabile in dubbio, infine, che, come evidenziato con motivazione assolutamente congrua dalla corte di appello (cfr. p. 22 della sentenza impugnata), l'azione degli imputati, tenuto conto delle condizioni ambientali in cui il fatto si è svolto, si presentava oggettivamente idonea a incutere timore nelle persone offese e a suscitare in queste ultime la preoccupazione di subire effettivamente il danno minacciato.

Lo C.C., il D.D. e il E.E., invero, soggetti estranei al mondo della giustizia penale, dunque non dotati delle competenze che avrebbero loro consentito di avere contezza della contrarietà alla legge processuale penale del comportamento dei pubblici ministeri, non avevano ragione di dubitare della fondatezza delle minacce rivolte nei loro confronti dagli imputati (che proprio su tale ignoranza hanno fondato il loro azzardo investigativo), come plasticamente tra Spa re dalle reazioni del D.D. ("Fermiamo... fermiamoci. Mettetemi le manette") e del E.E. ("C'è l'arresto? Benissimo, mi Spa ro un colpo. Non è niente, anzi...le dico di più: lo faccio con la macchina vado sotto un tir...così è ancora meglio").

10.3. Manifestamente infondato, pertanto, risulta il tentativo delle difese degli imputati di ricondurre le condotte in contestazione al paradigma normativo di cui all'art. 51 c.p., comma 1, secondo cui l'adempimento di un dovere imposto da una norma giuridica o da un ordine legittimo della pubblica autorità esclude la punibilità, ovvero allo schema del reato impossibile.

La migliore dottrina da tempo ha individuato il fondamento della scriminante di cui si discute nel principio di non contraddizione, alla luce del quale occorre evitare che il soggetto sia posto in una situazione di conflitto di doveri.

Tuttavia, nel caso in esame, il fine cui è orientata l'azione del pubblico ministero nella fase delle indagini preliminari, che, come si è detto, è in ultima analisi, la ricerca della verità processuale, in quanto è l'intero processo penale finalizzato a tale scopo, deve essere raggiunto nel rispetto delle regole processuali che disciplinano l'azione dell'organo della Pubblica Accusa, così come, per applicare l'esimente in parola nel caso di ordine impartito da una pubblica autorità, occorre accertare che si tratti di un ordine formalmente e sostanzialmente legittimo, derivante, cioè, da un organo competente a emanarlo, in presenza dei presupposti giuridici e fattuali richiesti dalla legge per la sua emanazione, non essendo configurabile la scriminante dell'adempimento del dovere in caso di ordine illegittimo, in base al quale sia stato commesso un reato, come espressamente sancito dall'art. 51 c.p., comma 2.

Appare pertanto evidente come non possa essere invocata tale esimente nel caso, come quello in esame, in cui sia stato commesso un reato sulla base di una condotta posta in essere proprio in violazione delle norme (processuali) fondanti il dovere giuridico che si assume dotato di efficacia scriminante.

Quanto al reato impossibile, va rilevato che la giurisprudenza di questa Corte da tempo risulta attestata sul condivisibile principio, secondo cui l'inidoneità degli atti, valida per l'integrazione della figura del delitto tentato, deve essere considerata nella sua potenzialità in quanto casualmente atta a conseguire il risultato progettato e prescinde dal contemporaneo inserimento di interventi esterni che abbiano impedito la realizzazione dell'evento. Mentre, per la configurabilità del reato impossibile, l'inidoneità deve essere assoluta per inefficienza strutturale e strumentale del mezzo usato tale da non consentire neppure in via eccezionale l'attuazione del proposito criminoso.

In tema di reato impossibile, infatti, l'inidoneità dell'azione - da valutarsi con riferimento al tempo del commesso reato in base al criterio di accertamento della prognosi postuma - deve essere assoluta, nel senso che la condotta dell'agente deve essere priva di astratta determinabilità causale nella produzione dell'evento, per inefficienza strutturale o strumentale del mezzo usato, indipendentemente da cause estranee o estrinseche, ancorchè riferibili all'agente (cfr. Sez. 2, n. 7630 del 14/01/2004, Rv. 228557; Sez. 1, n. 870 del 17/10/2019, Rv. 278085; Sez. 5, n. 9254 del 15/10/2014, Rv. 263058).

E per le ragioni già esposte non può dubitarsi che la condotta degli imputati fosse assolutamente idonea alla produzione dell'evento.

Per completezza espositiva va osservato che la corte territoriale, attraverso un analitico esame degli esiti dell'attività di fonoregistrazione, ha ritenuto che gli imputati in realtà abbiano agito nel convincimento che le persone offese fossero correi del F.F., operando all'interno del meccanismo corruttivo ascritto a quest'ultimo, sicchè, piuttosto che sentirli con le garanzie previste per gli indagati, avvisandoli della facoltà di non rispondere, hanno preferito escuterli in qualità di persone informate sui fatti, per potere esercitare una maggiore pressione nei loro confronti (cfr. pp. 24-28 della sentenza impugnata).

Anche in questa prospettiva, peraltro, come si è già detto, resta ferma nei termini già indicati l'integrazione del delitto di violenza privata tentata, che, semmai, si connota di ulteriore gravità, proprio perchè strumentale alla violazione delle garanzie processuali previste per i soggetti indagabili.

11. Sulla base delle riflessioni svolte nelle pagine precedenti, risultano evidenti le ragioni di inammissibilità dei motivi posti a fondamento dei ricorsi proposti, che si affiancano a quelle già evidenziate nel punto n. 5 della presente motivazione.

12. Manifestamente infondati, meramente reiterativi e tali da sollecitare una lettura alternativa delle risultanze processuali, in particolare, devono considerarsi i due motivi di impugnazione articolati nel ricorso a firma dell'avv. Conticchio, in relazione ai quali, come si è detto, valgono le considerazioni già esposte in precedenza nei punti dal n. 6 al n. 10.

A esse occorre solo aggiungere che appare evidente la manifesta infondatezza dell'eccezione difensiva volta a far valere un difetto di correlazione tra sentenza e imputazioni, avendo la corte territoriale affermato la sussistenza dell'elemento oggettivo del reato per cui si procede, nella forma della minaccia, laddove la contestazione aveva ad oggetto "modalità intimidatorie e violenze verbali", posto che la minaccia penalmente rilevante, come si è già diffusamente rilevato, si configura in presenza di ogni condotta, non predeterminata normativamente, che abbia idoneità intimidatoria, sicchè la decisione risulta del tutto conforme alle imputazioni elevate.

Quanto alla dedotta violazione dell'art. 603 c.p.p., per avere la corte territoriale omesso di procedere alla rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, attraverso l'escussione dell'avv. Desiderio, affinchè quest'ultimo venisse sentito in ordine alle confidenze da lui riferite al A.A. sull'esistenza di una trama intessuta presso lo studio (Omissis), allo scopo di screditarlo e di eliminarlo dalle indagini sul "Sistema Trani", si tratta, ancora una volta di un rilievo inammissibile, per manifesta infondatezza.

Secondo il costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, infatti, nel giudizio abbreviato di appello le parti non hanno un diritto all'assunzione di prove nuove, ma hanno solo il potere di sollecitare l'esercizio dei poteri istruttori di cui all'art. 603 c.p.p., comma 3, essendo rimessa al giudice la valutazione dell'assoluta necessità dell'integrazione probatoria richiesta (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 6, n. 51901 del 19/09/2019, Rv. 278061; Cass., Sez. 2, n. 5629 del 30/11/2021, Rv. 282585).

Orbene, nel rigettare la richiesta di rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, la corte territoriale ha reso una motivazione esaustiva, affatto manifestamente illogica o contraddittoria, ponendo a fondamento della sua decisione sul punto l'argomentazione, invero incontestabile, che i pubblici ministeri hanno agito senza essere stati coartati nelle loro condotte da soggetti esterni e che, ove anche si volesse attribuire alle persone offese un atteggiamento irriverente o provocatorio o callidamente rivolto a ordire una trappola in danno degli imputati (di cui peraltro non vi è traccia), tale atteggiamento mai avrebbe potuto influenzare i pubblici ministeri al punto da spingerli a condurre l'assunzione delle sommarie informazioni con modalità contrarie alla legge (cfr. pp. 28-29).

Tale ultima considerazione rendeva del tutto superflua ogni ulteriore integrazione istruttoria.

13. Anche per il ricorso a firma dell'avv. Viola Messa, l'inammissibilità rappresenta un inevitabile epilogo decisorio.

Manifestamente infondati e meramente reiterativi appaiono i rilievi svolti nel terzo motivo di impugnazione, rispetto ai quali, lo si ribadisce anche in questo caso, valgono le considerazioni già esposte in precedenza nei punti dal n. 6 al n. 10.

Manifestamente infondato, inoltre, risulta il primo motivo di ricorso, in presenza di un costante orientamento della giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, secondo cui l'efficacia preclusiva dell'emissione di un decreto di archiviazione non opera in presenza di fatto qualificato come oggettivamente diverso da quello cui si riferiva il provvedimento di archiviazione (Fattispecie in cui si è ritenuto non operante la preclusione della necessaria preventiva riapertura delle indagini per la diversa configurazione del fatto avvenuta nel giudizio di appello, per il quale era stata richiesta l'archiviazione nella fase delle indagini preliminari: cfr. Sez. 1, n. 11576 del 17/02/2006, Rv. 233793).

Pertanto quando la richiesta di archiviazione del pubblico ministero non abbia investito la notizia di reato nella sua interezza ma abbia riguardato solo una parte di essa e segnatamente una parte delle prospettate qualificazioni giuridiche in relazione alle quali si sia proceduto alla iscrizione, non sussiste la necessità dell'autorizzazione alla riapertura delle indagini, ex art. 414 c.p.p., per il reato che non aveva formato oggetto della predetta richiesta di archiviazione e per il quale lo stesso pubblico ministero aveva, invece, ritenuto di esercitare l'azione penale (cfr. Sez. 5, n. 14319 del 12/02/2014, Rv. 260207; Sez. 5, n. 18690 del 21/03/2022, Rv. 283015), peraltro seguendo, nel caso in esame, lo spunto contenuto nella decisione (su cui si tornerà nel prosieguo della trattazione, al n. 17) resa in fase cautelare il 5.9.2017 dal tribunale di Lecce, adito dal pubblico ministero ex art. 310 c.p.p., che aveva ritenuto di potere astrattamente ricondurre la condotta degli imputati proprio al paradigma normativo di cui agli artt. 56 e 610 c.p., decisione confermata dalla Corte di Cassazione con sentenza del 15.12.2017.

Fallace, in tutta evidenza, è la tesi del ricorrente, secondo cui la corte territoriale avrebbe di fatto qualificato la condotta degli imputati, a dispetto della contestazione, ai sensi dell'art. 611 c.p..

Come è noto l'art. 611 c.p., prevede una forma più grave di violenza privata, contraddistinta dalla specificità del fine perseguito dall'agente: la commissione di un fatto costituente reato da parte del soggetto cui viene rivolta la violenza o la minaccia a tale scopo esercitata.

Mentre dal punto di vista oggettivo, trattandosi di reato di pericolo e non di danno, per la sua consumazione non occorre che il fatto illecito venga effettivamente commesso, sotto il profilo soggettivo tale fattispecie richiede tanto il dolo generico, consistente nella volontà cosciente e libera di usare violenza o minaccia a una persona, quanto il dolo specifico, che è dato dal fine di costringere la persona violentata o minacciata a commettere un fatto preveduto come reato (cfr. Sez. 5, n. 10172 del 30/01/2007, Rv. 235837).

Il dolo specifico, dunque, avrebbe implicato necessariamente la consapevolezza da parte degli imputati della falsità, ovvero della natura calunniosa, integrante il delitto ex art. 368 c.p., delle dichiarazioni nei confronti del F.F. che essi pretendevano di raccogliere dallo C.C., dal D.D. e dal E.E., consapevolezza, tuttavia, del tutto indimostrata e non desumibile, certo, dal passaggio della motivazione della corte territoriale, evidenziato dal difensore del A.A., in cui il giudice di appello afferma che lo scopo degli imputati era quello di raccogliere elementi di prova a carico del F.F., perchè tale scopo non dimostra di per sè la volontà da parte dei pubblici ministeri di raccogliere dichiarazioni di cui conoscevano la falsità.

In ordine al secondo motivo di ricorso, si osserva che la corte territoriale ha fatto corretta applicazione del principio affermato dalla giurisprudenza di questa Corte e condiviso dal Collegio, secondo, cui in tema di impugnazione, l'omessa considerazione da parte del giudice dell'impugnazione di una memoria difensiva, non comporta, per ciò solo, una nullità per violazione del diritto di difesa, ma può determinare un vizio della motivazione per la mancata valutazione delle ragioni ivi illustrate, avuto riguardo alle questioni devolute con l'impugnazione (cfr. Sez. 3, n. 36688 del 06/06/2019, Rv. 277667).

Orbene, nel caso in esame nessun vizio motivazionale risulta configurabile, in quanto gli elementi di fatto di cui si lamenta la mancata considerazione da parte del giudice di secondo grado assumono rilevanza, nella prospettiva del ricorrente: 1) al fine di dimostrare la fondatezza del "complotto" denunciato dall'avv. Desiderio, sulla cui irrilevanza, tuttavia, già si è detto, affrontando il tema della mancata rinnovazione dell'istruttoria dibattimentale, posto dall'avv. Colicchio; 2) per contestare il percorso argomentativo seguito dalla corte territoriale sul versante della corruzione, profilo del pari del tutto irrilevante, come si è osservato, ovvero allo scopo di desumere, con argomentazione plasticamente versata in fatto, la mancanza di volontà degli imputati e l'inidoneità della loro condotta dalla circostanza che essi "fossero perfettamente consapevoli che le audizioni venivano integralmente documentate attraverso la contestuale fonoregistrazione".

14. Inevitabile l'epilogo decisorio dell'inammissibilità anche per l'impugnazione proposta nell'interesse del B.B., nonostante lo sforzo argomentativo profuso dai difensori in cento pagine di ricorso, a partire dal primo motivo di doglianza, con cui viene denunciata una, in realtà, inesistente compressione del diritto di difesa del B.B., concretizzatasi, ad avviso del ricorrente, nell'avere il giudice di primo grado, dopo avere ascoltato uno dei due difensori di fiducia dell'imputato, interrotto la discussione dell'altro difensore, avv. Filice, affermando che, trattandosi di rito abbreviato, anche la discussione doveva essere ridotta nella durata, tenuto conto che aveva già discusso un altro difensore, e, infine, togliendogli la parola.

Si tratta di un rilievo manifestamente infondato e meramente reiterativo di doglianza valutata e rigettata dal giudice di appello, con motivazione del tutto immune dai denunciati vizi.

Al di là di alcune non condivisibili sgrammaticature in cui è incorso il giudice di primo grado (una per tutte: avere affermato che la durata della discussione finale nel giudizio abbreviato dovrebbe essere più breve che nel giudizio ordinario, come se la natura contratta del rito determinasse necessariamente una contrazione del tempo a disposizione della difesa per formulare le sue conclusioni), non può non rilevarsi la fondatezza delle osservazioni svolte al riguardo dalla corte di appello, partendo proprio dal tenore dell'intervento del giudice di primo grado sul punto, peraltro riportato nei motivi di ricorso (cfr. p. 19 della sentenza di secondo grado e pp. 7-8 del ricorso del B.B.).

Come correttamente rilevato dalla corte territoriale, da un lato, "il tribunale ha chiesto alla difesa del B.B. di proseguire, concentrandosi sugli aspetti salienti del fatto, il che rientra pienamente tra i poteri di direzione della discussione attribuiti al giudice dall'art. 523 c.p.p.". Dall'altro, l'avv. Filice, pur in presenza di un esplicito invito del giudice di primo grado a proseguire nella sua discussione attenendosi agli aspetti fondamentali della vicenda, desumibile con assoluta chiarezza dall'espressione rivolta al suddetto difensore "vada avanti cimentandosi sugli aspetti salienti del fatto", che il ricorrente non contesta, aveva deciso di sua spontanea iniziativa di interrompere la discussione, riportandosi "alle conclusioni dei colleghi" e chiedendo l'assoluzione del proprio assistito.

Il ricorrente ritiene che l'avv. Filice sia stato coartato nell'esercizio del suo mandato difensivo, ma tale convinzione si fonda su di una percezione meramente soggettiva del suddetto difensore, a fronte di una condotta del giudice procedente mantenutasi nel perimetro dei poteri di direzione della discussione finale, che l'art. 523 c.p.p., comma 3, gli attribuiva proprio allo scopo di impedire, tra l'altro, "ogni divagazione e ripetizione".

Nè va taciuto che, come evidenziato dalla giurisprudenza di legittimità, i provvedimenti del giudice per la direzione della discussione sono adottati senza formalità, ai sensi dell'art. 470 c.p.p., e nei confronti degli stessi non sono, di conseguenza, ipotizzabili le cause di nullità di ordine generale previste dall'art. 178 c.p.p., lett. c) nè tantomeno essi sono suscettibili di censura per vizio di motivazione, non dovendo necessariamente essere motivati (cfr. Sez. 1, n. 48311 del 22/11/2012, Rv. 254089).

14.1. Manifestamente infondate, acriticamente reiterative e tali da sollecitare una lettura alternativa delle risultanze processuali devono considerarsi le censure articolate nel secondo, nel terzo e nel quarto motivo di ricorso, in relazione alle quali, come si è detto, valgono le considerazioni già esposte in precedenza nei punti dal n. 6 al n. 10, nonchè nei punti n. 12 e n. 13, esaminando i ricorsi proposti nell'interesse del A.A..

14.2. Con particolare riferimento al sesto e al settimo motivo di ricorso, premesso che anche in questo caso si rimanda alla lettura delle considerazioni svolte nelle pagine che precedono per escludere la configurabilità dell'esimente di cui all'art. 51 c.p., manifestamente infondata appare la pretesa difensiva di riconoscerne comunque l'operatività, ai sensi dell'art. 59 c.p., comma 4, ovvero di ricondurre la condotta del B.B. nella previsione dell'art. 55 c.p., comma 1.

In ordine a tale ultimo profilo si osserva che la dimostrata assenza degli elementi caratterizzanti la scriminante dell'adempimento di un dovere, impedisce di ravvisare l'eccesso colposo, che presuppone pur sempre l'esistenza di un dovere, imposto dalla legge o da un ordine dell'Autorità, di cui si oltrepassano colposamente i limiti (cfr., in tema di legittima difesa, ex plurimis, Sez. 5, n. 2505 del 14/11/2008, Rv. 242349; Sez. 5, n. 19065 del 12/12/2019, Rv. 279344).

Tenuto conto della particolare competenza professionale degli imputati, è manifestamente illogico ipotizzare che essi si siano resi responsabili di un eccesso dovuto a negligenza, imperizia, imprudenza e, in genere, a colpa nella valutazione dei limiti ai quali l'ordinamento sottopone le modalità di assunzione delle dichiarazioni da parte delle persone informate sui fatti, apparendo, piuttosto, dotato di intrinseca coerenza logica il ragionamento svolto dalla corte territoriale secondo cui la loro condotta debba essere ricondotta a un eccesso consapevole e volontario, tale da integrare il dolo del delitto di cui si discute, trattandosi di una condotta, come messo in luce dalle modalità con cui si è estrinsecata, prevista e pervicacemente posta in essere dai ricorrenti (cfr. Sez. 1, n. 8133 del 05/07/1991, Rv. 188325), ragione per la quale nel caso in esame non appaiono configurabili, nè l'erronea valutazione da parte degli imputati degli elementi di fatto o normativi extrapenali, nè l'erronea esecuzione dell'azione astrattamente giustificata, le due categorie alle quali tradizionalmente dottrina e giurisprudenza riconducono l'eccesso colposo nelle cause di giustificazione.

Identiche considerazioni valgono per la dedotta violazione della previsione dell'art. 59 c.p., comma 4.

Invero l'adempimento di un dovere in forma putativa postula i medesimi presupposti di quello reale, con la sola differenza che nel primo l'adempimento del dovere non sussiste obiettivamente, ma è supposto dall'agente sulla base di un erroneo apprezzamento.

Tale errore, che ha efficacia esimente, se è scusabile e comporta la responsabilità di cui all'art. 59 c.p., u.c., quando sia determinato da colpa, deve in entrambe le ipotesi trovare adeguata giustificazione in qualche fatto che, sebbene malamente rappresentato o compreso, abbia la possibilità di determinare nell'agente la giustificata persuasione di agire nell'adempimento di un dovere imposto dalla legge o da un ordine dell'Autorità, sicchè l'adempimento di un dovere putativo non può valutarsi alla luce di un criterio esclusivamente soggettivo e desumersi, quindi, dal solo stato d'animo dell'agente, teso, nella prospettiva del ricorrente, alla ricerca di elementi probatori giustificata da esigenze investigative, dovendo invece essere considerata anche la situazione obiettiva che abbia determinato l'errore (cfr., in questo senso, con riferimento alla legittima difesa putativa, ex plurimis, Sez. 3, Sentenza n. 3257 del 25/01/1991, Rv. 186611; Sez. 1, n. 3464 del 24/11/2009, Rv. 245634).

Letta in questa prospettiva viene meno la stessa possibilità di configurare un errore, sia esso scusabile o inescusabile per colpa, in quanto l'esame della condotta concretamente posta in essere dagli imputati, per le ragioni già esposte, pone in luce la dimensione dolosa del loro agire, che non viene meno sol perchè essi erano convinti, come rappresentato dai difensori del B.B., di essere tenuti a raccogliere elementi di fatto dotati di efficacia probatoria rispetto alla piattaforma indiziaria già acquisita.

14.3. Manifestamente infondata e acriticamente reiterativa deve essere valutata la censura articolata con il quinto motivo di ricorso.

Da tempo la giurisprudenza di legittimità è attestata sul condivisibile principio, fatto proprio dalla corte territoriale, secondo cui l'errore sul fatto che, ai sensi dell'art. 47 c.p., esime dalla punibilità è quello che cade su un elemento materiale del reato e che consiste in una difettosa percezione o in una difettosa ricognizione della percezione che alteri il presupposto del processo volitivo, indirizzandolo verso una condotta viziata alla base; mentre, se la realtà è stata esattamente percepita nel suo concreto essere, non v'è errore sul fatto, bensì errore sulla interpretazione tecnica della realtà percepita e sulle norme che la disciplinano, ininfluente ai fini dell'applicazione della citata disposizione (cfr., ex plurimis, Sez. 6, n. 24605 del 03/04/2003, Rv. 225569; Sez. 5, n. 1780 del 26/10/2021, Rv. 282471).

Risulta, pertanto, del tutto estraneo a tale istituto l'errore di fatto in cui, secondo l'impostazione difensiva, sarebbe caduto il ricorrente, nel ritenere, sulla base di un'erronea valutazione delle acquisizioni investigative, come "altamente probabile l'avvenuto pagamento da parte della "Italtraff Srl " di una tangente satisfattiva della pretesa azionata dal pubblico funzionario F.F.", circostanza che aveva indotto il B.B. ad avvalersi della collaborazione del A.A., in considerazione della particolare competenza professionale di quest'ultimo e della sua conoscenza, in virtù delle indagini da egli svolte nell'ambito di altri procedimenti penali, del "Sistema Trani".

Ciò in quanto, se di errore si è trattato, esso ha riguardato non un elemento materiale del delitto di violenza privata, ma, piuttosto, un mero antecedente psichico della condotta, cioè il movente del comportamento tipico descritto dalla norma penale, estraneo alle componenti oggettive e soggettive del reato in questione.

15. In ordine all'ottavo motivo di ricorso, valgono le considerazioni già svolte sull'irrilevanza, ai fini della tenuta del costrutto accusatorio, di quanto sarebbe stato riferito al A.A. dall'avv. Desiderio, affrontando, nel punto n. 12 della presente motivazione, le doglianze prospettate dall'avv. Conticchio nell'interesse del A.A..

Nel resto il motivo risulta versato in fatto, laddove stigmatizza, sotto diversi profili, le condotte serbate dal E.E. e dal D.D., del pari irrilevanti, posto che la questione dell'attendibilità e della lealtà delle persone offese su cui insiste il ricorrente risulta estraneo al thema decidendum, rappresentato dalla valutazione sulle modalità con cui gli imputati procedettero all'assunzione delle sommarie informazioni, come cristallizzate negli esiti della relativa fonoregistrazione.

Risulta, pertanto, del tutto fuori fuoco il rilievo difensivo, articolato con la consueta formula onnicomprensiva della mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione, già stigmatizzata nel n. 5 della presente trattazione, con riferimento al disposto dell'art. 192 c.p.p., e del principio dell'al di là di ogni ragionevole dubbio.

A tale ultimo riguardo appare sufficiente osservare come in tema di prova, il dubbio idoneo ad introdurre un'ipotesi alternativa di ricostruzione dei fatti è soltanto quello "ragionevole", ovvero quello che trova conforto nella logica, sicchè, in caso di prospettazioni alternative, occorre comunque individuare gli elementi di conferma dell'ipotesi ricostruttiva accolta, non potendo il dubbio fondarsi su un'ipotesi del tutto congetturale, seppure plausibile (cfr. Sez. 3, n. 5602 del 21/01/2021, Rv. 281647), completamente assente nel caso in esame.

16. Anche il nono motivo di ricorso è affetto da plurimi profili di inammissibilità.

Si tratta, innanzitutto, come si evince dalla incontestata sintesi dei motivi di appello operata dalla corte territoriale, di un motivo inedito, con il quale viene denunciata una violazione di legge non dedotta con i motivi di appello, che rende, sul punto, il ricorso inammissibile, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 3.

Al tempo stesso il motivo appare manifestamente infondato.

Come è noto, infatti, da tempo la giurisprudenza di legittimità è attestata sul condivisibile principio, secondo cui, in tema di concorso di persone nel reato, ai fini dell'integrazione della circostanza attenuante della minima partecipazione (art. 114, c.p.), non è sufficiente una minore efficacia causale dell'attività prestata da un correo rispetto a quella realizzata dagli altri, in quanto è necessario che il contributo dato si sia concretizzato nell'assunzione di un ruolo di rilevanza del tutto marginale, ossia di efficacia causale così lieve rispetto all'evento da risultare trascurabile nell'economia generale dell'"iter" criminoso (cfr., ex plurimis, Cass., Sez. 2, n. 835 del 18/12/2012, Rv. 254051; Cass., Sez. 4, n. 49364 del 19/07/2018, Rv. 274037).

Orbene, come il contributo causale del B.B. non possa ritenersi trascurabile appare evidente, tenuto conto, da un lato, dell'oggettiva e assoluta condivisione con il A.A. delle illecite modalità di assunzione delle informazioni da parte delle persone offese; dall'altro, della circostanza che fu proprio il ricorrente a porre in essere la condizione che consentì ai pubblici ministeri di commettere i reati per cui si procede nei loro confronti, avvalendosi della collaborazione del collega A.A., come ammesso dallo stesso imputato (cfr. pp. 63 e 80 del ricorso B.B.).

Sicchè i rilievi di quest'ultimo, che, peraltro, con argomentare manifestamente illogico, pretende di fondare il riconoscimento dell'invocata circostanza attenuante sulla diversa e più favorevole entità della pena inflittagli rispetto al A.A., senza tenere conto del fatto che tale graduazione implica soltanto un giudizio di minore gravità della condotta del B.B. e non certo di trascurabile apporto all'azione criminosa, appaiono inammissibili anche perchè versati in fatto.

17. Considerazioni dello stesso tenore militano per l'inammissibilità del decimo motivo di ricorso.

Anche in questo caso, infatti, come si evince dalla incontestata sintesi dei motivi di appello operata dalla corte territoriale, ci si trova di fronte a un motivo inedito, con il quale viene denunciata una violazione di legge non dedotta con i motivi di appello, che rende, sul punto, il ricorso inammissibile, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 3.

Al tempo stesso il motivo in questione appare manifestamente infondato e versato in fatto, laddove il ricorrente si concentra sulle condotte serbate dalle persone offese in sede di assunzione delle informazioni, presentandole, con affermazione meramente assertiva, come provocatorie, a fronte di una specifica ed esaustiva motivazione con cui la corte territoriale ha escluso che il E.E., lo C.C. e il D.D. abbiano serbato un comportamento provocatorio o protervo nei confronti degli imputati, sia pure nella prospettiva non dell'applicazione della circostanza attenuante di cui all'art. 62 c.p., comma 1, n. 2), questione di cui la corte territoriale non è stata investita, ma, come si è visto in precedenza, al fine di escludere l'applicazione in loro favore del disposto degli artt. 51, 59 e 55 c.p. (cfr. pp. 28-29 della sentenza di appello). Vero è che il tribunale di Lecce, con la richiamata decisione resa ai sensi dell'art. 310 c.p.p., ha fatto riferimento a un atteggiamento "palesemente reticente assunto dai tre soggetti escussi" e a un comportamento "spesso irriguardoso e provocatorio adottato dal D.D.", tuttavia, allo stesso tempo, il giudice dell'impugnazione cautelare, ha rimandato al giudice di merito il compito di approfondire il tema e a tanto hanno provveduto i giudici di primo e di secondo grado, con motivazione, come si è detto, immune da vizi.

Del resto, ove anche si volesse ritenere, operando un sforzo notevole, che gli imputati siano precipitati non già in un generico stato di emozione, agitazione, stizza o iattanza, bensì in un vero e proprio stato d'ira, perdendo il controllo di se stessi in conseguenza di un fatto privo di giustificazione nei contenuti e nelle modalità esteriori, in quanto tale capace di alterare i loro freni inibitori (come richiesto dalla giurisprudenza di legittimità: cfr., ex plurimis, Sez. 1, n. 40177 del 01/10/2009, Rv. 245666), nessuno Spa zio vi sarebbe per il riconoscimento della circostanza attenuante di cui si discute, posto che, come affermato dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di questa Corte, la circostanza attenuante della provocazione, pur non richiedendo i requisiti di adeguatezza e proporzionalità, non è configurabile laddove la sproporzione fra il fatto ingiusto altrui e il reato commesso sia talmente grave e macroscopica, come nel caso che ci occupa, da escludere lo stato d'ira o il nesso causale fra il fatto ingiusto e l'ira (cfr., ex plurimis, Sez. 5, n. 8945 del 19/01/2022, Rv. 282823).

18. Manifestamente infondato, acriticamente reiterativo di doglianza già disattesa dalla corte territoriale con motivazione immune dai denunciati vizi e tale da sollecitare una rivalutazione sul merito del trattamento sanzionatorio non consentita in sede di legittimità, deve ritenersi l'undicesimo motivo di ricorso.

E invero, come affermato dall'orientamento da tempo dominante nella giurisprudenza di legittimità, in tema di circostanze attenuanti generiche, posto che la ragion d'essere della relativa previsione normativa è quella di consentire al giudice un adeguamento, in senso più favorevole all'imputato, della sanzione prevista dalla legge, in considerazione di peculiari e non codificabili connotazioni tanto del fatto quanto del soggetto che di esso si è reso responsabile, ne deriva che la meritevolezza di detto adeguamento non può mai essere data per scontata o per presunta, sì da dar luogo all'obbligo, per il giudice, ove questi ritenga di escluderla, di giustificarne sotto ogni possibile profilo l'affermata insussistenza.

Al contrario, è la suindicata meritevolezza che necessita, essa stessa, quando se ne affermi l'esistenza, di apposita motivazione dalla quale emergano, in positivo, gli elementi che sono stati ritenuti atti a giustificare la mitigazione del trattamento sanzionatorio; trattamento la cui esclusione risulta, per converso, adeguatamente motivata alla sola condizione che il giudice, a fronte di specifica richiesta dell'imputato volta all'ottenimento delle attenuanti in questione, indichi delle plausibili ragioni a sostegno del rigetto di detta richiesta, senza che ciò comporti tuttavia la stretta necessità della contestazione o della invalidazione degli elementi sui quali la richiesta stessa si fonda (cfr., ex plurimis, Cassazione penale, sez. IV, 28/05/2013, n. 24172; Cass., sez. III, 23/04/2013, n. 23055, rv. 256172).

Al fine di ritenere o escludere le circostanze attenuanti generiche il giudice può limitarsi a prendere in esame, tra gli elementi indicati dall'art. 133 c.p., quello che ritiene prevalente ed atto a determinare o meno il riconoscimento del beneficio, sicchè anche un solo elemento attinente alla personalità del colpevole o all'entità del reato ed alle modalità di esecuzione di esso può risultare all'uopo sufficiente. (cfr. Sez. 1, n. 33506 del 07/07/2010, Rv. 247959; Sez.2, n. 23903 del 15/07/2020, Rv. 279549).

Ne consegue che ai fini del diniego della concessione delle attenuanti generiche, non è necessario che il giudice prenda in considerazione tutti gli elementi favorevoli o sfavorevoli dedotti dalle parti o rilevabili dagli atti, ma è sufficiente il riferimento a quelli ritenuti decisivi o comunque rilevanti, purchè la valutazione di tale rilevanza tenga conto, a pena di illegittimità della motivazione, delle specifiche considerazioni mosse sul punto dall'interessato (cfr., ex plurimis, Sez. 3, n. 2233 del 17/06/2021, Rv. 282693).

Al riguardo si è, inoltre, opportunamente chiarito che in tema di circostanze attenuanti generiche, il giudice del merito esprime un giudizio di fatto, la cui motivazione è insindacabile in sede di legittimità, purchè sia non contraddittoria e dia conto, anche richiamandoli, degli elementi, tra quelli indicati nell'art. 133 c.p., considerati preponderanti ai fini della concessione o dell'esclusione (cfr. Sez. 5, n. 43952 del 13/04/2017, Rv. 271269).

Infine, risulta del pari costante l'insegnamento della giurisprudenza di legittimità, secondo cui non è censurabile, in sede di legittimità, la sentenza che non motivi espressamente in relazione a una specifica deduzione prospettata con il gravame, quando il suo rigetto risulti dalla complessiva struttura argomentativa della sentenza, principio affermato anche nel caso di mancato riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche (cfr. Sez. 4, n. 5396 del 15/11/2022, Rv. 284096; Sez. 1, n. 12624 del 12/02/2019, Rv. 275057).

Ciò posto, non appare revocabile in dubbio che la motivazione della sentenza oggetto di ricorso sia immune dai denunciati vizi.

La corte territoriale ha preso in esame le regioni dell'appellante, ritenendo non rilevanti, ai fini del riconoscimento dell'invocato beneficio, la mancanza di precedenti penali a carico del B.B. e la fonoregistrazione dell'audizione delle persone offese, e attribuendo, per converso, esplicito valore, ai fini del rigetto della richiesta difensiva, alla condotta processuale del prevenuto, che ha protestato la propria innocenza, pur di fronte all'evidente sussistenza del reato.

Orbene, non vi è dubbio che, con riferimento a tale ultimo profilo sia ravvisabile un contrasto di orientamenti nella giurisprudenza di legittimità, rilevato dalla stessa corte territoriale e dai ricorrente.

Da un lato, infatti, si è affermato che la condotta processuale dell'imputato che, contro ogni evidenza della sussistenza del reato, protesti la propria estraneità ai fatti, costituisce di per sè idonea motivazione in ordine al diniego delle attenuanti generiche in quanto, seppure l'esercizio del diritto di difesa rende, per scelta del legislatore, non penalmente perseguibili le dichiarazioni false rese a propria difesa dall'imputato, ciò non equivale a rendere quel tipo di dichiarazioni irrilevanti per la valutazione giudiziale del comportamento tenuto durante lo svolgimento del processo, agli effetti e nei limiti di cui all'art. 133 c.p. (cfr. Sez. 4, n. 20115 del 04/04/2018, Rv. 272747; Sez. 2, n. 28388 del 21/04/2017, Rv. 270339).

Dall'altro, in senso opposto, che la protesta d'innocenza o la scelta di rimanere in silenzio o non collaborare con l'autorità giudiziaria, pur di fronte all'evidenza delle prove di colpevolezza, non può essere assunta, da sola, come elemento decisivo sfavorevole, non esistendo nel vigente ordinamento un principio giuridico per cui le attenuanti generiche debbano essere negate all'imputato che non confessi di aver commesso il fatto, quale che sia l'efficacia delle prove di reità (cfr. Sez. 5, n. 32422 del 24/09/2020, Rv. 279778, nonchè, nello stesso senso, Sez. 4, n. 5594 del 04/10/2022, Rv. 284189).

Nel caso in esame, tuttavia, la soluzione del menzionato contrasto (per sanare il quale il ricorrente ha avanzato richiesta di remissione del ricorso alle Sezioni Unite di questa Corte) non assume valore decisivo, proprio perchè dall'intero apparato motivazionale della sentenza di appello si evince con assoluta chiarezza come abbia assunto valore decisivo al fine di non riconoscere le circostanze attenuanti generiche anche la particolare gravità della condotta posta in essere dagli imputati, stigmatizzata in diverse occasioni dai giudici di secondo grado, proprio in ragione della violazione dei doveri connessi al ruolo di pubblico ministero da essi esercitato, sicchè non può certo sostenersi che le circostanze attenuanti siano state negate solo alla luce della protesta d'innocenza del B.B. e del A.A., contraddetta dalle risultanze processuali.

19. Manifestamente infondato e tale da sollecitare un'inammissibile rivalutazione del merito del trattamento sanzionatorio deve considerarsi il dodicesimo motivo di ricorso.

Al riguardo si osserva che il giudice di appello ha operato un aumento a titolo di continuazione per ognuno dei due reati ritenuti unificati dall'identità del disegno criminoso con il terzo, pari, rispettivamente a giorni venticinque e giorni venti di reclusione.

Si tratta di un aumento minimo che non aveva bisogno di una specifica motivazione, in quanto, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità, in tema di reato continuato, il giudice di merito, nel calcolare l'incremento sanzionatorio in modo distinto per ciascuno dei reati satellite, non è tenuto a rendere una motivazione specifica e dettagliata qualora individui aumenti di esigua entità, essendo in tal caso escluso in radice ogni abuso del potere discrezionale conferito dall'art. 132 c.p. (cfr. Sez. 6, n. 44428 del 05/10/2022), che certo non risulta integrato sol perchè gli aumenti operati a titolo di continuazione sono stati disomogenei, vale dire non della stessa entità.

20. Inammissibile risulta anche il tredicesimo motivo di ricorso, in quanto con esso il ricorrente articola censure in punto di rivisitazione del merito del trattamento sanzionatorio, non consentite in questa sede.

La corte territoriale, del resto, non ha reso una specifica motivazione sulla dosimetria della pena, ma ha ritenuto la pena irrogata equa, in applicazione dei parametri indicati dall'art. 133 c.p., partendo dalla pena-base di mesi quattro di reclusione, tenuto conto della riduzione prevista per il tentativo, operando un aumento di giorni quindici di reclusione in ragione della contestata circostanza aggravante (degli aumenti di pena per la ritenuta continuazione si è già detto) e applicando, infine, la riduzione prevista per la scelta del rito.

Percorso motivazionale del tutto legittimo, posto che, come affermato dalla giurisprudenza di legittimità con orientamento conforme, la graduazione della pena, anche in relazione agli aumenti ed alle diminuzioni previsti per le circostanze aggravanti ed attenuanti, rientra nella discrezionalità del giudice di merito, il quale, per assolvere al relativo obbligo di motivazione, è sufficiente che dia conto dell'impiego dei criteri di cui all'art. 133 c.p., con espressioni del tipo: "pena congrua", "pena equa" o "congruo aumento", come pure con il richiamo alla gravità del reato o alla capacità a delinquere, essendo, invece, necessaria una specifica e dettagliata spiegazione del ragionamento seguito soltanto quando la pena sia di gran lunga superiore alla misura media di quella edittale (cfr., ex plurimis, Sez. 2, n. 36104 del 27/04/2017, Rv. 271243).

21. Alla dichiarazione di inammissibilità, segue la condanna dei ricorrenti, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 3000,00 a favore della Cassa delle Ammende, tenuto conto della circostanza che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere questi ultimi immuni da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).

Gli imputati vanno, altresì, condannati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che si liquidano in complessivi Euro 4000,00, oltre accessori di legge.
P.Q.M.
dichiara inammissibili i ricorsi e condanna i ricorrenti al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende. Condanna, altresì, gli imputati alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili, che liquida in complessivi Euro quattromila, oltre accessori di legge.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 27 gennaio 2023.

Depositato in Cancelleria il 12 maggio 2023