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Naturopata cura cancro con rimedi naturali: omicidio volontario? (Cass. 26951/20)

28 settembre 2020, Cassazione penale

Naturopata consiglia cure naturali al malato di cancro: l'ignoranza lo salva  dalla condanna per omicidio volontario per aver curato con fanghi e diete una donna malata di cancro, essendo colpevole del diverso reato di morte come conseguenza di altro delitto , cioü esercizio abusivo della professione.

Se è accertato un nesso causale tra la condotta dell'imputato e la scelta della persona offesa di seguire la naturopatia in alternativa alla medicina, scelta da cui è seguito il fatale ritardo nell'accesso alla terapia che, se tempestiva, avrebbe evitato la morte, pul essere comunque escluso che la persona offesa presenti i caratteri della persona psichicamente debole, anche per la dimostrata capacità della donna di perseverare nella scelta dei rimedi naturali, pur a fronte di numerose persone a lei vicine, in primis il marito, che la sollecitavano a seguire le indicazioni della scienza medica.

Non censurabile la sentenza di merito che motivi adeguatamente  sulla mancata rappresentazione, da parte dell'imputato, della elevata probabilità del verificarsi della morte come conseguenza del ritardo nell'accesso alle terapie della scienza medica per assenza di conoscenze mediche, nemmeno generiche, da parte dell'imputato, ma anche il giudizio sulla non-volontà dell'evento che sia congruamente motivato collegandolo all'adesione, da parte dell'imputato, all'orientamento che considera la naturopatia come alternativa, e non complementare, alla scienza medica.

Per la configurabilità del dolo eventuale occorre la dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta (rappresentata, nel caso in esame, dalla morte del paziente come conseguenza del ritardo nell'accesso alle terapie oncologiche), aderendo psicologicamente ad essa; il momento volontaristico, consistente nella determinazione di aderire all'evento oggetto di rappresentazione, costituisce - anche nel dolo eventuale - una componente fondamentale dell'atteggiamento psichico dell'agente, nel senso che il dolo eventuale implica non già la semplice accettazione di una situazione di rischio, ma l'accettazione di un evento definito e concreto, che deve essere stato ponderato dall'autore del reato come costo (accettato) dell'azione realizzata per conseguire il fine perseguito.

Secondo la nozione esposta dall'art. 43 c.p. perchè si abbia reato doloso non basta la semplice previsione dell'evento ma occorre che la volontà sia rivolta alla consumazione del reato poichè la sola previsione non è ancora volontà di produrlo. Nè tale volontà può essere desunta dalla accertata illiceità della condotta (ancorchè omissiva) e dalla consapevolezza di tale illiceità che potrà assumere rilievo solo nei reati cosiddetti formali. Lo stesso discorso vale per il cosiddetto dolo eventuale il quale presuppone che l'azione sia diretta al conseguimento volontario di un determinato risultato con la prospettiva di conseguirne un altro diverso e di perseguire nella condotta nonostante il rischio di provocare tale evento diverso che, conseguentemente, dal campo della previsione entra nella sfera della volontà.

L'art. 43 c.p., nella definizione del dolo, stabilisce una relazione essenziale tra la volontà e la causazione dell'evento, relazione che difetta nella mera accettazione del rischio che l'evento si verifichi, ed esige perciò - quale elemento dirimente tipico del dolo, anche nella sua forma eventuale - l'esistenza di un atteggiamento psichico che riveli l'adesione dell'agente all'evento, per il caso che esso si verifichi come conseguenza, anche non direttamente voluta, della propria condotta; nella scelta di agire del soggetto deve essere ravvisabile, dunque, una consapevole presa di posizione di adesione all'evento, che costituisca espressione di una manifestazione, sia pure indiretta, di volontà.

Di particolare difficoltà è l'accertamento di tale stato soggettivo, in quanto l'oggetto di esso non costituisce il fine dell'azione nè una conseguenza certa di essa, bensì solo una possibile conseguenza di essa.

In particolare, si tratta di individuare elementi significativi dell'assunzione, da parte del soggetto, dell'evento, non tanto come possibile conseguenza nota, bensì come evento voluto, seppur per conseguire altro fine.

Ordinariamente, dovrà applicarsi la prova indiziaria, e la giurisprudenza (in particolare, la ricordata pronuncia a Sezioni Unite) si è fatta carico di individuare un ampio elenco di così detti indicatori, la cui valutazione deve essere comunque orientata alla verifica se quell'evento, previsto come possibile conseguenza della condotta, sia stato dal soggetto considerato come un "costo da sopportare" e quindi sia stato, in definitiva, effettivamente voluto.

  

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

(ud. 10/07/2020) 28-09-2020, n. 26951

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Maria Stefania - Presidente -

Dott. BIANCHI Michele - rel. Consigliere -

Dott. BONI Monica - Consigliere -

Dott. TALERICO Palma - Consigliere -

Dott. SANTALUCIA Giuseppe - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

PROCURATORE GENERALE PRESSO CORTE D'APPELLO DI BOLOGNA:

e D.D.;

nel procedimento a carico di:

F.A., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 12/09/2018 della CORTE ASSISE APPELLO di BOLOGNA;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. MICHELE BIANCHI;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. ZACCO FRANCA, che ha concluso chiedendo l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata e deposita scritto riassuntivo della requisitoria orale.

uditi i difensori:

L'avvocato DLF, difensore della parte civile, conclude chiedendo l'annullamento dell'impugnata sentenza e deposita foglio di conclusioni.

L'avvocato T, difensore dell'imputato, conclude chiedendo l'inammissibilità o il rigetto dei ricorsi.

Svolgimento del processo

1. F.A. è imputato di omicidio volontario, aggravato dell'aver profittato delle condizioni di minorata difesa della vittima e dai motivi abietti, nei confronti di S.L., deceduta l'(OMISSIS).

In particolare, secondo l'imputazione, il F., cui la signora S. si era rivolta a seguito della diagnosi di sospetto tumore maligno al seno, aveva prescritto alla donna, assicurando un reale effetto terapeutico, terapia a base di diete, e applicazione di terre, fanghi e decotti naturali e l'aveva distolta dal seguire le terapie oncologiche, ciò sino al settembre 2005 quando la signora S., a causa dell'aggravamento delle sue condizioni, veniva sottoposta alle terapie convenzionali.

2. Con sentenza pronunciata in data 13 luglio 2017 la Corte di assise di Parma, qualificato il fatto ai sensi dell'art. 586 c.p., ha dichiarato non doversi procedere nei confronti dell'imputato per essere il reato estinto per prescrizione.

2.1. La ricostruzione dell'intera vicenda veniva compiuta, essenzialmente, sulla base di quanto dichiarato dalla stessa persona offesa, chè nel gennaio 2006 aveva presentato atto di querela ed era stata quindi esaminata come persona informata sui fatti.

In data 5 novembre 2003, a seguito di controlli effettuati presso il day hospital oncologico di San Secondo Parmense venivano riscontrate sulla persona di S.L. "nodulazioni dure diffuse ai quadranti superiori, più accentuati a sinistra, modicamente dolenti alla palpazione" e veniva formulata diagnosi di mastopatia fibrocistica, con prescrizione di successivi controlli.

Nell'agosto 2004 la signora S. si sottoponeva a nuovo controllo mammografico, che confermava il sospetto di tumore, e il medico senologo Dott. G. indicava la necessità di asportazione chirurgica, con prognosi fausta trattandosi di massa inferiore a due centimetri.

Nel corso della visita, la paziente, accompagnata dall'amica B.P., manifestava al medico l'intenzione di seguire una terapia alternativa.

Analoga decisione la signora S. manifestava sia al marito che al medico curante Dott. Ro., entrambi informati dalla Dott. G. della diagnosi.

In data (OMISSIS) S.L. si recava da F.A., naturopata indicatole dall'amica B., al quale consegnava i referti medici e quindi iniziava a seguire le sue prescrizioni - relative a dieta e applicazioni di fanghi e decotti naturali sul sito corporeo interessato - con controlli ogni tre o quattro settimane.

Nell'autunno 2004 la signora S. veniva visitata dal nuovo medico di base Dott. S., che, effettuata visita, confermava la presenza di nodulo mammario e le indicava la necessità di seguire terapie specifiche.

La signora S. decideva nel (OMISSIS) di scegliere nuovo medico di base, il Dott. M., al quale la donna riferiva di avere ingrossamento di linfonodi ascellare, tacendo la diagnosi oncologica.

Nel periodo tra il (OMISSIS) il Dott. M. rilasciava alla signora S. cinque certificati di malattia per ottenere congedo straordinario dalla attività lavorativa Nel frattempo, F.A., cui la donna, sin dal (OMISSIS), aveva segnalato l'ingrossamento del nodulo mammario, esprimeva una valutazione positiva sul decorso del trattamento; nei mesi successivi, nonostante uno scadimento delle condizioni fisiche generali, la signora S. comunicava alle persone a lei vicine di essere sulla via della guarigione, confermando, anche a chi le consigliava di seguire le terapie tradizionali, la volontà di curarsi con metodi naturali.

Nel settembre 2005 la donna, le cui condizioni continuavano a peggiorare, veniva visitata, su iniziativa del marito, dal Dott. Pi., sostituto del medico di base, che, chiamando l'ambulanza, disponeva l'immediato ricovero presso l'unità operativa di oncologia medica dell'ospedale di (OMISSIS).

All'esito di esame clinico e della TAC la diagnosi era di tumore alla mammella al quarto stadio con metastasi diffuse a distanza (anche epatiche e linfonodali).

Nei mesi successivi, sino al gennaio 2006, la signora S. si sottoponeva a sei cicli di chemioterapia, conseguendo un miglioramento delle condizioni generali.

I successivi esami, però, evidenziavano una progressione della malattia, cui seguì nel mese di giugno 2006, un peggioramento delle condizioni generali che rese necessari ulteriori ricoveri nei mesi di luglio ed agosto, sino al decesso verificatosi l'(OMISSIS).

A seguito della denuncia-querela presentata dalla donna, il 27.1.2006, nei confronti di F.A., venivano avviate indagini preliminari nel corso delle quali venivano assunte a sommarie informazioni testimoniali la stessa denunciante e la di lei madre, signora A.C., poi deceduta il (OMISSIS).

Veniva disposta consulenza medico legale sulle condizioni di salute della donna e sulla congruità delle terapie seguite, accertamento che concluse nel senso che le terapie previste dal protocollo medico (asportazione chirurgica e chemioterapia), se messe in atto sin dall'agosto 2004 quando la massa tumorale era di due centimetri, avrebbero conseguito, con giudizio di certezza, la guarigione, mentre il ritardo terapeutico, unito alla dieta seguita, aveva determinato, nel periodo tra l'agosto 2004 e il settembre 2005, l'ingrossamento della ciste a 13 centimetri, infiltrazione del tumore nei linfonodi e nel torace, sino alla regione pubica, e quindi l'insorgere di una condizione patologica ad esito infausto, rispetto alla quale la chemioterapia poteva avere valenza solo palliativa.

In data 31 luglio 2006 era stata disposta perizia psichiatrica sulla persona offesa, ai fini della prospettata imputazione ai sensi dell'art. 643 c.p., svolta solo sulla base delle testimonianze e della documentazione medica, essendo intervenuto il decesso prima della visita del perito.

Il perito (Dott. Ga.) aveva escluso la ricorrenza di infermità o deficienza psichica, indicando che la signora S. aveva rifiutato le cure mediche tradizionali, preferendo seguire una terapia alternativa, a lei consigliata dall'amica B.P. e prescritta da F.A., entrambi, come la persona offesa, aderenti alla congregazione dei testimoni di Geova.

Tali conclusioni erano condivise dal consulente della difesa (Dott. Pi.) e contestate da quello della parte civile (Dott. Bi.), che aveva sostenuto che la donna, traumatizzata dalla diagnosi oncologica, era divenuta psicologicamente dipendente dal F., il quale, assicurandole la prospettiva di guarire mediante terapia naturale, la aveva confermata, confortandola, nella negazione della realtà.

2.2. La Corte di assise ha ritenuto attendibili le dichiarazioni rese dalla persona offesa, in quanto lineari, coerenti e confermate da plurimi riscontri.

La causa del decesso e l'evoluzione della -condizione patologica che l'aveva determinato erano stati pacificamente accertati dalla consulenza medico legale.

Il primo giudice ha ritenuto che la morte della signora S. fosse stata causata dal ritardo con cui era stata intrapresa la terapia oncologica e dalla dieta, sbilanciata, seguita nei mesi precedenti il ricovero ospedaliero, avvenuto nel (OMISSIS).

Tali circostanze erano riconducibili alla condotta dell'imputato che aveva indicato alla persona offesa la alternativa terapia naturale, così distogliendola dal seguire la terapia medica indicata dal presidio oncologico.

In particolare, veniva riscontrata la sussistenza di nesso causale tra l'indicazione della terapia naturale da parte del F. e la scelta della signora S. di rifiutare la terapia medica "tradizionale", scelta che, pur precedente, veniva comunque rafforzata, e quindi con il ritardo terapeutico ritenuto causa del decesso.

Quanto all'elemento soggettivo che aveva sorretto la condotta dell'imputato, la Corte di assise (pagina 20) ha escluso che potesse ravvisarsi l'intenzione di cagionare la morte della donna, nè che F. "... si sia rappresentato l'evento morte della donna come conseguenza certa, altamente probabile o anche solo concretamente possibile della propria condotta ed abbia dunque agito accettando il fatto che si verificasse".

Sul punto veniva valorizzato (pagine 21 ss.) il fatto che l'imputato non era medico nè aveva alcuna cognizione scientifica, e quindi, pur sapendo che la signora S. era affetta da tumore, non era "in grado di comprendere il significato da attribuire ai sintomi riportati dalla donna".

Inoltre, la debolezza psicologica, con conseguente sua suggestionabilità e facile condizionabilità, della persona offesa non era sicuramente risconoscibile, ed anzi "non vi è alcuna certezza sul fatto che la vittima fosse debole psichicamente, suggestionabile o succube ed anzi deve propendersi per la tesi opposta", dato che la donna aveva continuato a vivere in famiglia e a frequentare persone che, invece, la consigliavano di affidarsi alla medicina tradizionale.

Il primo giudice quindi riteneva che l'imputato, non solo, non si fosse rappresentato l'evento morte come conseguenza del rifiuto delle terapie tradizionali, ma anche che egli non fosse in grado di rappresentarsi che tale scelta "non terapeutica" fosse determinata dall'affidamento in lui riposto dalla vittima.

In tal senso venivano valorizzati la valutazione data delle condizioni psicologiche della donna e il fatto che la frequenza delle visite non era significativa di un effettivo controllo, da parte dell'imputato, sulla condotta della donna.

La condotta dell'imputato veniva qualificata come esercizio abusivo della professione medica, avendo egli visitato una donna affetta da tumore e avendo formulato una diagnosi e prescritto una terapia, compiendo così prestazioni riservate a soggetti in possesso di titolo professionale che egli non aveva.

Tale condotta, abusiva, era stata anche gravemente imprudente in relazione alla situazione di rischio costituita dalla condizione patologica della donna e al prevedibile, come esito della malattia, evento morte.

La Corte di assise riteneva quindi che il fatto ascritto dovesse essere qualificato ai sensi dell'art. 586 c.p., essendo la morte della persona offesa conseguenza della condotta costituente il delitto di cui all'art. 348 c.p..

Veniva quindi pronunciato non doversi procedere per essere il fatto, così qualificato, estinto per prescrizione.

3. Proponevano appello il Procuratore della Repubblica e la parte civile D.D., coniuge della signora S.L..

3.1. Il pubblico ministero, condiviso l'accertamento in fatto compiuto dal primo giudice sia in ordine alla complessiva vicenda, esitata nella morte della persona offesa, e al suo rapporto con l'imputato, sia con riferimento al giudizio sul nesso causale tra l'evento morte e la condotta del F., aveva impugnato il punto concernente il giudizio sull'elemento soggettivo del reato.

In particolare, con riferimento critico alle osservazioni svolte dalla sentenza di primo grado (alle pagine 21 e seguenti) sul punto, l'appellante aveva evidenziato che:

- la signora S. aveva consegnato, il 28.8.04, al F. i referti medici degli esami compiuti pochi giorni prima, e lo aveva informato, anche verbalmente, che le era stato diagnosticato un tumore, dati univocamente significativi di consapevolezza di una condizione patologica grave e suscettibile di esito infausto;

- F. aveva seguito la S. anche nei mesi successivi, quando visibile era l'aggravamento delle condizioni fisiche generali della donna;

- F. aveva esplicitamente manifestato alla S. la propria sfiducia verso la così detta medicina ufficiale, richiedendo che la donna non seguisse alcuna terapia tradizionale, giungendo anche ad opporsi al ricovero nel (OMISSIS);

- la valutazione della condizione psicologica della vittima e l'accertamento in ordine al rifiuto delle terapie tradizionali erano stati fondati sulla perizia Ga., che aveva attribuito rilievo significativo al vissuto traumatico per la morte del padre, circostanza sicuramente falsa dato che il padre era ancora vivente, e non aveva considerato quanto scritto dalla vittima nel corso dei ricoveri successivi al (OMISSIS), e comunque appariva irrilevante trattandosi di concausa non eccezionale - la valutazione sul grado di suggestionabilità della S. e sulla consapevolezza di tale condizione che l'imputato avesse avuto.

3.2. L'impugnazione della parte civile contestava la fondatezza del giudizio sull'elemento soggettivo del reato.

Sul punto, la sentenza di primo grado non aveva tenuto conto dei dati storici desumibili dall'istruttoria.

Quanto alla competenza medica del F. - negata dalla Corte di assise -, si osservava che era di conoscenza generale la gravità di una malattia oncologica e la assoluta necessità di affrontarla con adeguata e tempestiva terapia, come anche, in particolare, il fatto che un tumore maligno al seno può richiedere intervento chirurgico e/o chemioterapia; pure di conoscenza comune era la assenza di efficacia terapeutica specifica nei "rimedi naturali" indicati dall'imputato.

L'imputato, a conoscenza della diagnosi oncologica, aveva quindi le conoscenze mediche sufficienti per sapere che la donna doveva seguire una terapia specifica, ben diversa dai rimedi naturali.

In ordine al profilo soggettivo della paziente, persona suggestionabile e facilmente condizionabile, la sentenza di primo grado aveva valorizzato il giudizio del perito Ga., nonostante questi avesse mostrato di non conoscere il concetto di "deficienza psichica", senza prendere in considerazione la specifica condizione della donna nel contesto della relazione "curativa" con il F., vuoi per la gravità della diagnosi comunicatale vuoi per la particolare relazione fiduciaria che legava la donna al F., persona che condivideva l'appartenenza al medesimo credo religioso.

Dunque, l'imputato aveva avuto la rappresentazione dell'esito cui la malattia diagnosticata avrebbe portato la donna in caso di omissione delle terapie necessarie ed era stato anche consapevole che la prescrizione di rimedi naturali avrebbe potuto portare la donna a non seguire le terapie mediche, che egli stesso aveva sconsigliato.

L'imputato, inoltre, aveva avuto un interesse personale di natura economica nell'indurre la S. a seguire esclusivamente le sue indicazioni.

Il dolo di omicidio veniva quindi individuato nella rappresentazione, da parte dell'imputato, dell'evento morte come conseguenza certa dell'omissione terapeutica, cui l'imputato aveva indotto la S., assicurandole che dai rimedi naturali sarebbe derivata la guarigione dal tumore.

4. Con sentenza pronunciata in data 12 settembre 2018 la Corte di assise di appello di Bologna ha confermato la sentenza di primo grado.

Il secondo giudice ha ritenuto che la persona offesa, persona non affetta da alcuna deficienza psichica nè suggestionabile nè circonvenibile, aveva deciso, in ciò rafforzata dall'amica B.P., e nonostante i consigli contrari del marito e di amici, di non seguire la terapia - consistente nell'asportazione chirurgica e nella chemioterapia - indicata dai medici oncologi e di affidarsi, invece, ad una terapia naturale; aveva poi realizzato tale orientamento affidandosi alle indicazioni dell'imputato, titolare di uno studio di naturopatia.

Il contributo dichiarativo della persona offesa, costituito dalla denuncia-querela e dalle sommarie informazioni testimoniali rese in data 31.1.2006, e mai esaminata nel contraddittorio, doveva essere valutato con particolare attenzione "e alla luce di eventuali riscontri".

Nell'atto di denuncia, redatto con l'assistenza di un legale, venivano riportate alcune espressioni dell'imputato, in termini tali da suscitare cilibbi e perplessità.

Nel verbale di sommarie informazioni, assai sommario, si affermava che alle visite del F. era stata sempre presente l'amica B., che all'imputato, in occasione della prima visita, era stata consegnata la documentazione medica, che le sedute consistevano nella palpazione dei piedi e nel controllo dell'iride, che il F. già dalla seconda visita aveva escluso la presenza di metastasi, e qualificato la malattia come psicosomatica ed aveva, infine, assicurato che era in corso la guarigione.

Il secondo giudice riteneva "poco probabile" che l'imputato, privo di titoli e di competenze mediche, potesse aver compreso sia la documentazione medica consegnatagli dalla signora S. - nella quale vi era, all'esito di un primo esame, diagnosi di "addensamento ghiandolare QSI sx a contorni frangiati e contenente microcalcificazioni" e, all'esito di ecografia, di "addensamento ipoecogeno irregolare di circa 2" e, all'esito dell'ago aspirato la diagnosi citologica sospetta per " c.t.m. " - sia la diagnosi finale di carcinoma tumore maligno con necessità di asportazione chirurgica e chemio/radio terapia, sia l'aggravamento della condizione patologica nel corso dei mesi successivi.

Sul punto venivano valorizzate le seguenti circostanze:

- l'oncologo Dott. D.L. nel (OMISSIS) aveva riscontrato "marker negativi";

- il medico di base Dott. M., nel periodo dicembre 2004-luglio 2005, aveva rilasciato 5 certificati di malattia per "linfoadenite del cavo ascellare".

Il perito Ga. aveva osservato che a seguito della diagnosi oncologica la signora S. era rimasta turbata, con alterazione del tono dell'umore in senso depressivo, ma senza alcuna compromissione della sfera cognitiva.

La Corte di assise di appello ha escluso che la persona offesa fosse facilmente suggestionabile, come desumibile dal fatto che ella non aveva inteso accondiscendere ai consigli del marito e di numerosi amici e colleghi, rimanendo ferma nel rifiuto dell'approccio terapeutico tradizionale.

Non erano emerse prove significative del fatto che l'imputato avesse compiuto opera diretta a distogliere la persona offesa dalle terapie della medicina ufficiale.

L'imputato, con dichiarazioni spontanee rese alla prima Corte di assise, aveva precisato che:

- la signora S. non gli aveva sottoposto alcuna documentazione medica, nè lo aveva informato della diagnosi oncologica, ma solo di una cisti, che intendeva risolvere con una corretta alimentazione;

- nell'ottobre 2004 aveva indirizzato la signora dall'oncologo D.L.;

- la signora poi lo aveva informato dell'esito della visita, precisando di non voler seguire le cure tradizionali;

- egli aveva quindi detto alla donna che non poteva far nulla e che solo lei poteva decidere del suo destino;

- di non aver più visto la signora S. dall'ottobre 2004.

L'oncologo Dott. D.L., premesso di conoscere l'imputato anche per aver operato di tumore la di lui moglie, aveva ricordato di aver visitato, prima dell'anno 2005, S.L., la quale, contenta del fatto che gli ultimi esami avevano riscontrato marker negativi, gli aveva detto che comunque non si sarebbe mai sottoposta a chemioterapia; aveva poi rivisto la signora successivamente, nella primavera del 2006 durante un ricovero ospedaliero, e anche in quella occasione aveva ribadito di rifiutare la chemioterapia.

Il teste ha aggiunto di ritenere che in occasione della prima visita era stato F.A. a convincere la signora a rivolgersi a lui.

Il secondo giudice ha quindi ritenuto che l'imputato avesse, da una parte, indicato alla signora S. le terapie naturali - a base di diete e impacchi che chiedeva e, dall'altra, avesse inviato la signora ad uno specialista oncologo (Dott. D.L.), il quale le aveva ribadito la necessità di seguire le terapie oncologie scientificamente riconosciute.

La persona offesa aveva quindi mantenuto fermo il proprio rifiuto delle terapie mediche, limitandosi a seguire le indicazioni del F..

Questi, non in grado di valutare la condizione patologica della signora, l'aveva indirizzata da uno specialista oncologo.

Il secondo giudice ha quindi concluso nel senso che era dubbia la configurabilità, nella condotta dell'imputato, di esercizio abusivo della professione medica e, comunque, 'la sua rilevanza causale, e dunque erano condivise anche le considerazioni del primo giudice sull'elemento soggettivo del reato.

5. Hanno proposto ricorso per cassazione il Procuratore generale e la parte civile.

5.1. Il ricorso del Procuratore generale, articolato in tre motivi, denuncia, sotto diversi profili, il difetto di motivazione della sentenza di appello.

Con riguardo alla valutazione delle dichiarazioni della persona offesa, il primo motivo denuncia che il giudizio critico formulato - "non possono che suscitare dubbi e perplessità" - era privo di giustificazione, in quanto, da una parte, la redazione della denuncia-querela con l'assistenza di un legale è una modalità prevista dal codice processuale e, dall'altra, la limitata estensione del verbale di sommarie informazioni testimoniali (una pagina) non giustifica un giudizio critico, in termini di sommarietà, sul contenuto dichiarativo.

Relativamente agli ulteriori elementi di prova, a riscontro della narrazione compiuta da S.L., il secondo motivo ne denuncia la omessa considerazione e quindi la omessa motivazione del giudizio secondo il quale le dichiarazioni della persona offesa, anche con riferimento all'assunto circa l'opera svolta dall'imputato per distogliere la vittima dalle cure mediche, sarebbero prive di riscontri.

Vengono nello specifico indicate come prove non esaminate le testimonianze dei medici Dott.ssa G. e Dott. Mu., del marito D.D. e della consulente Dott.ssa D.S..

Con il terzo motivo viene denunciata la manifesta illogicità della motivazione della complessiva valutazione del compendio probatorio, sia con riferimento al giudizio in ordine alla rappresentazione in capo all'imputato della effettiva condizione patologica in cui versava la signora S. sia in relazione all'accertamento della incidenza dell'imputato sulla scelta della persona offesa di rifiutare le terapie mediche.

Il secondo giudice aveva omesso di considerare il contenuto degli scritti provenienti dall'imputato stesso e delle pubblicazioni ispirate alle teorie naturiste, significativi di un rifiuto della medicina ufficiale anche in caso di patologie oncologiche.

Sia il marito che il medico di base Dott. M. avevano confermato che la persona offesa aveva recepito l'indicazione dell'imputato di non seguire terapie diverse da quella che egli aveva indicato.

La sentenza di appello aveva poi ritenuto decisiva la testimonianza del medico Dott. D.L., del tutto generica in ordine alla visita della persona offesa e al ruolo avuto, nell'occasione, dall'imputato.

5.2. Il ricorso presentato dal difensore della parte civile, articolato in tre motivi, ha denunciato, sotto diversi profili, difetto di motivazione della sentenza di appello.

Con il primo motivo si denuncia la contraddittorietà della motivazione, laddove perviene ad una ricostruzione del fatto in termini del tutto differenti rispetto a quanto operato dal primo giudice, la cui sentenza, peraltro, si afferma di condividere pienamente.

Il giudizio negativo sulla attendibilità delle dichiarazioni rese dalla persona offesa non era stato motivato, tale non potendo essere considerata la valorizzazione del fatto che la denuncia era stata presentata con l'assistenza di un legale e della brevità del verbale di sommarie informazioni testimoniali.

Con riferimento all'accertamento in ordine alla rappresentazione in capo all'imputato della gravità della patologia cui era affetta la S., il secondo motivo denuncia la carenza motivazionale, in quanto la valutazione negativa formulata dal secondo giudice era in contrasto con i dati desumibili da diverse prove (testimonianze D.S., G., B.).

Con il terzo motivo viene denunciato difetto di motivazione in relazione al giudizio sulle condizioni psichiche della persona offesa.

Le sentenze di merito avevano escluso che fosse riscontrabile deficienza psichica sulla base delle conclusioni del perito Ga., nonostante questi avesse dimostrato di non conoscere il significato di tale nozione, e in ragione del carattere e del convinto orientamento ideologico della vittima, quando in realtà la religione dei testimoni di Geova esprimeva rifiuto solo delle trasfusioni ematiche.

La sentenza di appello aveva poi valorizzato la testimonianza del Dott. D.L., senza alcuna valutazione di attendibilità, che la difesa di parte civile nel corso del dibattimento di primo grado aveva contestato, e a fronte di un contenuto evidentemente generico.

6. Il Procuratore generale ha chiesto, anche mediante memoria scritta, l'annullamento con rinvio della sentenza impugnata.

Premesso che, in ragione degli argomenti posti da ciascuna sentenza a fondamento della decisione assunta, le sentenze di primo e secondo grado, pur tra loro conformi nel dispositivo, non lo erano nella valutazione delle prove e quindi nella ricostruzione del fatto, era fondata la censura motivazionale relativa alla valutazione delle dichiarazioni rese dalla persona offesa, che il secondo giudice aveva operato in termini negativi senza considerare la legittima acquisizione, ai sensi dell'art. 512 c.p.p., della denuncia e del verbale di sommarie informazioni della persona offesa nè i plurimi riscontri positivi emergenti da numerose testimonianze valorizzate dal primo giudice.

Quanto all'accertamento dell'elemento soggettivo del reato, la sentenza di appello aveva ritenuto, diversamente dal primo giudice, che l'imputato non fosse stato consapevole della diagnosi oncologica e della relativa terapia, chirurgica e farmacologica, nè del progressivo peggioramento delle condizioni generali della donna, ma a tale accertamento era pervenuta travisando le prove relative alle comunicazioni date dalla persona offesa in occasione della prima visita e di quelle successive.

Inoltre, costituiva massima di esperienza la rappresentazione, in capo a chiunque, del carattere letale delle patologie oncologiche e della necessità, per evitare l'esito infausto della malattia, di un immediato accesso alle terapie mediche, e sulla base di tale dato doveva essere valutata la volontà dell'imputato nella condotta di dissuasione della persona offesa dall'accesso alle terapie indicate dai medici.

Motivi della decisione

Entrambi i ricorsi, complessivamente considerati, sono infondati e vanno perciò respinti.

1. Si deve, innanzitutto, definire il contenuto decisorio della sentenza impugnata.

Il Procuratore generale, nella memoria depositata all'udienza avanti questa Corte, ha sostenuto che la sentenza di appello, pur confermativa della decisione di primo grado, aveva diversamente valutato le prove e quindi era pervenuta ad un accertamento diverso da quello che la sentenza di primo grado aveva posto a fondamento della decisione, ed ha quindi argomentato la fondatezza delle censure motivazionali, denunciate dai ricorsi, in relazione allo specifico giudizio pronunciato dalla Corte di assise di appello di Bologna.

La sentenza di primo grado aveva accertato che l'imputato, a conoscenza della diagnosi oncologica che i medici avevano comunicato alla signora S., aveva prescritto alla donna i così detti rimedi naturali come presidio terapeutico in relazione alla patologia oncologica, così esercitando, abusivamente, la professione medica.

Tale condotta è stata ritenuta in nesso causale con la morte della persona, offesa, che era stata distolta dal ricorso alle terapie mediche, che, se tempestivamente attivate, avrebbero evitato il decesso.

Quanto all'elemento soggettivo, la Corte di assise ha escluso che l'imputato avesse voluto la morte, e quindi ha ritenuto ravvisabile solo l'elemento della colpa, essendo stata la morte evento prevedibile come conseguenza del ritardo nell'accesso alle cure mediche, che la prescrizione dei così detti rimedi naturali, privi di efficacia terapeutica specifica, aveva determinato.

Coerentemente, il primo giudice ha quindi qualificato il fatto ai sensi dell'art. 586 c.p., assumendo le conseguenti statuizioni processuali in ragione del tempo trascorso dal fatto.

Il secondo giudice, cui era stata devoluta, tramite l'impugnazione del pubblico ministero e della parte civile, la cognizione sul capo della decisione relativo alla responsabilità dell'imputato in ordine alla imputazione ascritta, ha confermato la sentenza di primo grado, e quindi la qualificazione del fatto ai sensi dell'art. 586 c.p. e la conseguente declaratoria di estinzione del reato per prescrizione.

E' vero, come rilevato dal Procuratore generale, che il secondo giudice ha compiuto una autonoma, e diversa, valutazione del compendio probatorio esprimendo, in particolare, una considerazione critica delle dichiarazioni della persona offesa e valorizzando una testimonianza (quella del Dott. D.L.), del tutto obliterata dal primo giudice -, ma l'accertamento specifico che la Corte di assise di appello ha compiuto, e che ha fondato la decisione assunta, riguarda ancora l'elemento soggettivo che aveva sorretto la condotta dell'imputato.

Infatti, è esplicita (a pagina 36) l'affermazione che "non vi è prova che l'imputato, digiuno di medicina e non certamente in grado di valutare con competenza la gravità della malattia, avesse impedito o comunque distolto la persona offesa dal ricorso alle cure convenzionali ed in particolare alla soluzione chirurgica, ed avesse accettato il rischio che la sua paziente morisse...".

Il giudizio, dunque, si fonda, anche in grado di appello, sulla esclusione della sussistenza in capo all'imputato della rappresentazione e volontà della morte della signora S. come conseguenza della prescrizione, da parte sua, dei così detti rimedi naturali.

Ed è in relazione a tale accertamento, decisivo e conforme nelle due sentenze di merito, che va verificata la adeguatezza del discorso giustificativo.

Si deve aggiungere che la sentenza impugnata (alle pagine 18 e 37) ha espresso "perplessità" in ordine alla fondatezza di taluni accertamenti compiuti dal primo giudice: la integrazione di una condotta, da parte dell'imputato, di esercizio abusivo della professione medica e la sussistenza di nesso causale tra la condotta dell'imputato e la morte della signora S..

Peraltro, l'argomentazione perplessa - riscontrabile laddove vengano ritenute come plausibili diverse, e tra loro alternative, ipotesi ricostruttive senza indicare quale venga ritenuta fondata - determina inadeguatezza della motivazione, rilevabile in sede di legittimità, solo ove riguardi punti decisivi, e non anche in relazione a punti estranei al contenuto decisorio ovvero a questioni superflue (Sez. 2, 4/03/2010, Olmastroni, Rv. 247229).

Nel caso in esame, il secondo giudice ha espresso "perplessità" in relazione a punti della decisione che nessuna delle parti processuali aveva impugnato, e che sono poi rimasti estranei alla decisione.

Infatti, coerentemente con il contenuto del dispositivo - di conferma della sentenza di primo grado -, il secondo giudice ha, dapprima, affermato (pag. 18) di condividere pienamente la decisione di primo grado e quindi, nel paragrafo dedicato alle conclusioni (pagg. 35-37), ha confermato l'accertamento in ordine alla consapevolezza, in capo all'imputato, della diagnosi oncologica, senza osservare alcunchè sulla rilevanza causale del ritardo con cui la persona offesa era ricorsa alle terapie mediche.

Dunque, le "perplessità", di cui si è detto, risultano essere irrilevanti nella struttura della giustificazione della decisione, che, come precisato, riguarda il punto relativo alla sussistenza del dolo omicidiario.

Le censure motivazionali prospettate con i motivi di ricorso dalle parti ricorrenti vanno dunque esaminate con riferimento al giudizio relativo all'elemento soggettivo del reato, che costituiva lo specifico punto della decisione investito dagli atti di appello, e non in relazione agli altri punti - il carattere terapeutico, ed alternativo rispetto alle cure mediche, della relazione tra l'imputato e la persona offesa, ed il nesso causale tra il ritardo, nell'accesso alle terapie mediche, e la morte e tra la condotta dell'imputato e il ritardo terapeutico - che non erano stati impugnati e che la sentenza di appello ha deciso conformemente alla pronuncia di primo grado.

2. Così definito il contenuto decisorio della sentenza di appello, e la conseguente prospettiva secondo la quale vanno esaminati i motivi di impugnazione, emerge che solo parzialmente le censure proposte riguardano la motivazione concernente l'elemento soggettivo del reato.

Infatti, il primo motivo del ricorso della parte civile e i primi due motivi del ricorso del Procuratore generale riguardano la motivazione relativa alla relazione tra l'imputato e la persona offesa.

In particolare, viene denunciata la inadeguatezza motivazionale della valutazione critica delle dichiarazioni della persona offesa e la omessa considerazione di plurime testimonianze, che, come indicato dalla sentenza di primo grado, avevano riscontrato, sotto diversi profili, l'esposizione fatta dalla signora S. nella iniziale denuncia e nel successivo verbale di sommarie informazioni testimoniali.

Ora, nella valutazione delle sentenze di merito il contributo dichiarativo della persona offesa, reso nel periodo in cui ella si era sottoposta alla chemioterapia, aveva avuto ad oggetto il contenuto della relazione con l'imputato, e quindi le informazioni e le richieste che ella aveva comunicato e formulato al F. e le indicazioni che questi le aveva dato.

E sul punto, pur avendo il secondo giudice valutato criticamente l'attendibilità di quanto dichiarato dalla donna, le sentenze hanno, in definitiva, condiviso il giudizio secondo il quale si era trattato di una relazione terapeutica con riferimento alla patologia oncologica, atteso che, da una parte, la donna aveva rappresentato tale condizione patologica che l'aveva indotta a rivolgersi al F. e, dall'altra, quest'ultimo le aveva indicato i così detti rimedi naturali come specifico presidio terapeutico.

Le censure motivazionali, dunque, si concentrano unicamente sulle valutazioni critiche - condensate nella espressione "dubbi e perplessità" (pagina 23) - espresse dal secondo giudice, che però non è giunto ad affermare la non credibilità della teste e quindi ad accertare il tipo di relazione fra imputato e persona offesa prescindendo da quanto dichiarato dalla signora S..

In particolare, la sentenza di appello (a pagina 24) condivide l'accertamento relativo al fatto che la persona offesa, in occasione della prima visita, avesse consegnato al F. il referto con la diagnosi oncologica, ma ritiene "poco probabile" che l'imputato avesse compreso la gravità della patologia diagnosticata e la necessità della terapia chirurgica e farmacologica.

Del resto, incontestato, e ritenuto pacifico dalla sentenza di appello, è il fatto che l'imputato avesse prescritto alla signora S. rimedi naturali, consistenti in una rigorosa dieta a base di frutta e verdura e nell'applicazione di impacchi sul sito corporeo (il seno) interessato dalla patologia tumorale.

Infine, pacifica è la circostanza secondo la quale la persona offesa aveva iniziato la chemioterapia solo dopo il ricovero ospedaliero avvenuto nel (OMISSIS), mentre nei mesi precedenti, dall'agosto 2004, la donna aveva seguito unicamente i così detti rimedi naturali indicatile dal F..

I motivi di ricorso in esame, dunque, riguardano la motivazione relativa a punti della decisione che non erano stati oggetto di appello e che la sentenza impugnata ha deciso in termini conformi alla sentenza di primo grado.

3. Altri motivi, o comunque altri argomenti esposti all'interno dei diversi motivi, riguardano la motivazione che concerne, sotto diversi punti di vista, l'elemento soggettivo del reato.

In particolare, le doglianze investono la motivazione resa in relazione, da una parte, alla rappresentazione in capo all'imputato della condizione patologica e, dall'altra, alla condizione soggettiva della persona offesa.

3.1. Il ricorso del Procuratore generale, con i motivi secondo e terzo, e il ricorso della parte civile, con il motivo secondo, denunciano la inadeguatezza della motivazione della sentenza impugnata in relazione all'accertamento del grado di consapevolezza, avuta dall'imputato, circa la patologia di cui era affetta la persona offesa.

In particolare, con riferimento all'assunto secondo il quale l'imputato, non medico, non avrebbe compreso nè la diagnosi oncologica nè la prescrizione terapeutica che il medico oncologo aveva dato alla signora S., il ricorso del Procuratore generale (alla pagina 15) denuncia travisamento delle prove, che avevano, invece, dato conto della piena consapevolezza dell'imputato, sia della diagnosi oncologica che della sua gravità.

Anche nell'esordio del terzo motivo (alla pagina 20) il Procuratore generale ricorrente denuncia la manifesta illogicità della motivazione relativa al giudizio di non consapevolezza, da parte dell'imputato, della condizione patologica in cui versava la persona offesa.

Con il secondo motivo, il ricorso della parte civile denuncia il difetto di motivazione del giudizio relativo alla assenza di consapevolezza, da parte dell'imputato, della diagnosi oncologica e della sua gravità, giudizio ritenuto incompatibile sia con quanto desumibile dalle testimonianze della Dott.ssa D.S., che, consulente tecnico, aveva appreso quanto accaduto direttamente dalla signora S., dell'oncologo Dott.ssa G. e della stessa persona offesa, sia con la massima di esperienza secondo la quale, all'epoca dei fatti e nella società italiana, era noto a tutti, anche se privi di competenze mediche, che a fronte di una diagnosi oncologica è necessario sottoporsi immediatamente alle terapie indicate dalla scienza medica.

3.2. Il terzo motivo del ricorso della parte civile riguarda la motivazione relativa al profilo soggettivo della persona offesa, ritenuta facilmente influenzabile.

Anche il terzo motivo del ricorso del Procuratore generale denuncia difetto di motivazione del giudizio secondo il quale la persona offesa avrebbe autonomamente deciso di seguire unicamente i così detti rimedi naturali.

4. Le doglianze vanno esaminate congiuntamente, in quanto, nella prospettiva delle parti ricorrenti, la condizione soggettiva della persona offesa - nel senso di una sostanziale ed evidente incapacità di autodeterminarsi nella cura della malattia - sarebbe un indicatore dell'atteggiamento psichico di colui che aveva assunto il ruolo terapeutico nella piena consapevolezza della condizione patologica e della sua gravità.

La sentenza di primo grado ha accertato che l'imputato era a conoscenza che la signora S. era affetta da tumore, ed aveva inteso prescrivere alla donna una terapia basata sui così detti rimedi naturali.

Peraltro, il primo giudice ha precisato che - tenuto conto dell'assenza di competenze mediche, nemmeno generiche - non vi sarebbero elementi per ritenere che l'imputato avesse previsto il verificarsi della morte come conseguenza del mancato accesso alle terapie indicate dalla medicina.

Anche la sentenza di appello ha ritenuto che l'imputato, consapevole della diagnosi oncologica tanto da indirizzare la paziente ad uno specialista, non fosse "in grado di rendersi conto della gravità e della possibile evoluzione della malattia".

I ricorsi hanno denunciato che sul punto la motivazione avrebbe non considerato le testimonianze dalle quali era desumibile che l'imputato era pienamente consapevole dell'aggravamento delle condizioni di salute della paziente.

Dunque, nel giudizio sul dolo di omicidio non è in discussione la consapevolezza in capo all'imputato della diagnosi oncologica, bensì della gravità di tale diagnosi e quindi della necessità ed indifferibilità della terapia indicata dalla scienza medica.

Quanto alla condizione soggettiva della persona offesa, le sentenze di merito hanno ravvisato nella condotta dell'imputato un fattore che ha contribuito a rafforzare la volontà della signora S. di rifiuto delle terapie mediche.

I ricorsi hanno prospettato la mancata valutazione del giudizio tecnico, secondo il quale la persona offesa aveva perso la capacità di discernimento critico in relazione alla malattia, divenendo dipendente, anche psicologicamente, dalle indicazioni dell'imputato.

Assume rilievo, dunque, non tanto il nesso causale (così detto psichico), riconosciuto da entrambe le sentenze di merito, tra la condotta dell'imputato e il ritardo nell'accesso alla terapia medica, bensì la circostanza se tra l'imputato e la persona offesa si fosse sviluppato, e in quale misura, un rapporto di dipendenza psicologica della seconda nei confronti del primo.

5. I motivi sono infondati.

5.1. Si deve precisare l'oggetto del giudizio (il dolo) rispetto al quale sono state dedotte le menzionate censure motivazionali.

In particolare, non viene in rilievo il dolo intenzionale, laddove l'evento costituisce il fine dell'azione, nè il dolo diretto, nel quale l'evento viene previsto come conseguenza certa della condotta ed è, come tale, voluto, bensì il dolo eventuale, dove l'evento, previsto come possibile conseguenza della condotta, è ulteriore rispetto al fine perseguito dall'agente.

In particolare, controversa è la distinzione con l'ipotesi della colpa cosciente, pure caratterizzata dalla previsione dell'evento, rispetto alla quale dunque il criterio distintivo è dato dalla volontà dell'evento, necessario nel dolo e assente nella colpa.

Il legislatore del 1931 ha caratterizzato, all'art. 43 c.p., l'elemento soggettivo del reato attorno all'elemento della volontà del fatto-reato: "secondo l'intenzione... oltre l'intenzione... contro l'intenzione".

Ed è stato frutto di una precisa scelta l'aver espressamente stabilito, introducendo (art. 61 c.p., n. 3) la relativa circostanza aggravante, la compatibilità della colpa con la previsione dell'evento.

La relazione del guardasigilli spiega:

"... Osservò la Commissione parlamentare che l'aver agito nonostante la previsione dell'evento configura un delitto doloso, e non colposo. Questo concetto, peraltro, si riconnette ad antiche teorie, ormai, a quel che lo so, abbandonate dalla scienza. La dottrina che fondava la distinzione tra delitti dolosi e colposi sulla prevedibilità o imprevedibilità dell'evento può dirsi oramai abbandonata dalla più autorevole dottrina, e non è stata adottata, può dirsi, neppure dal codice del 1889. La colpa in verità è costituita, non dalla prevedibilità e dalla mancata previsione dell'evento, ma dalla negligenza, imprudenza, imperizia, o inosservanza di specifiche regole di condotta (è, in sostanza, la nozione del codice del 1889), che ha prodotto un evento non voluto (cioè contro l'intenzione), sebbene tale evento fosse prevedibile. Se fu preveduto, ricorre, come ho detto, una circostanza aggravante. Ora non si vede come la colpa con previsione possa trasformarsi in dolo, dal momento che il dolo esige non soltanto la previsione, ma altresì la volontà dell'evento. Ciò sarebbe vero soltanto se la previsione implicasse necessariamente la volontà di produrre l'evento. E' invece caratteristico della imprudenza l'agire talvolta con previsione dell'evento, ma con tutt'altra volontà che quella di cagionarlo.

L'attività lecita fornisce continui esempi di questa verità.

Lo sportivo temerario, che si accinge ad un esercizio pericolosissimo, prevede di potervi lasciare la vita, eppure egli vuole tutt'altro che la morte. Lo stesso accade nella sfera dell'attività illecita. Chi corre sfrenatamente con un veicolo in una via frequentata, prevede necessariamente di poter investire qualcuno, ma la sua volontà non è diretta a questo scopo, di guisa che, se l'investimento si verifica, risponde, per universale consenso, di colpa (sia pure aggravata), e non di dolo".

All'epoca, costituiva un dato condiviso il rilievo che la volontà, intesa come decisione a realizzare una certa modificazione della realtà, è compatibile sia con la identificazione di quella modificazione (l'evento) con il fine dell'azione sia con la consapevolezza che la modificazione è conseguenza certa dell'azione per cui la volontà dell'azione è volontà dell'evento, sia, infine, con la rappresentazione dell'evento come possibile conseguenza della condotta.

Accanto dunque alle figure del dolo intenzionale e del dolo diretto era quindi riconosciuta anche la nozione del dolo eventuale.

Lo sviluppo successivo è stato caratterizzato da un ampliamento sia delle attività lecite rischiose sia delle conoscenze, per cui si è di molto allargato il campo delle condotte lecite caratterizzate dalla prevedibilità del verificarsi di un evento ulteriore rispetto al fine perseguito dall'agente.

Di conseguenza, è divenuta sempre più rilevante la definizione della linea di confine tra la figura del dolo eventuale e della colpa cosciente.

Innanzitutto, è stato necessario precisare la nozione di dolo eventuale, come una delle manifestazioni della volontà.

Si è infatti riconosciuto che l'atteggiamento volontaristico può assumere, con riferimento ad un determinato oggetto, diverse gradazioni.

Infatti, l'evento di cui trattasi può costituire il fine della azione umana, ovvero può essere considerato come mezzo necessario per il raggiungimento di un determinato obiettivo: nel primo caso si ha dolo intenzionale e nel secondo dolo diretto.

Al di fuori di queste ipotesi - che vedono la volontà diretta a cagionare l'evento -, si danno i casi in cui l'evento viene considerato come possibile conseguenza dell'azione, diretta ad altri fini.

Si è precisato che il giudizio di alta probabilità del verificarsi dell'evento è indicatore di una reale adesione al medesimo da parte di colui che, con tale consapevolezza, agisce, e ancora si parla di dolo diretto.

La nozione di dolo eventuale viene riservata ai soli casi in cui l'evento è previsto come possibile conseguenza dell'azione, e dunque il soggetto agisce nell'incertezza circa il verificarsi del fatto (Sez. Un., 12/10/1993, Cassata, Rv. 195804; Sez. Un., 14/02/1996, Mele, Rv. 204167).

In tale situazione all'elemento rappresentativo deve, per aversi dolo e non solo colpa cosciente, unirsi quello della volontà dell'evento, che dunque viene considerato dall'agente come ulteriore accadimento da accettare pur di conseguire il fine che costituisce il movente dell'azione.

Le Sezioni Unite (sentenza n. 38343 del 24/04/2014, Espenhahn) hanno individuato il discrimine tra le due figure - accomunate dalla rappresentazione, da parte dell'agente, della significativa possibilità di verificazione dell'evento concreto che integra il reato (come conseguenza causale diretta della propria condotta) e nella concomitante determinazione alla condotta - nella adesione soggettiva, in capo al soggetto attivo, all'evento, così che esso risulti in concreto per l'agente un "prezzo da pagare" pur di conseguire il fine dell'azione.

Dunque, mentre nella colpa cosciente il soggetto ha previsto l'evento, come conseguenza della condotta, ma ha agito nella convinzione del suo non verificarsi, dato che se fosse stato certo del verificarsi non avrebbe agito, nel dolo eventuale ha previsto l'evento ed ha agito anche a costo di cagionare l'evento.

Per la configurabilità del dolo eventuale, occorre, dunque, la dimostrazione che l'agente si sia confrontato con la specifica categoria di evento che si è verificata nella fattispecie concreta (rappresentata, nel caso in esame, dalla morte del paziente come conseguenza del ritardo nell'accesso alle terapie oncologiche), aderendo psicologicamente ad essa; il momento volontaristico, consistente nella determinazione di aderire all'evento oggetto di rappresentazione, costituisce - anche nel dolo eventuale - una componente fondamentale dell'atteggiamento psichico dell'agente, nel senso che il dolo eventuale implica non già la semplice accettazione di una situazione di rischio, ma l'accettazione di un evento definito e concreto, che deve essere stato ponderato dall'autore del reato come costo (accettato) dell'azione realizzata per conseguire il fine perseguito.

D'altra parte, si tratta di orientamento da tempo affermato, anche in un caso assai significativo (Sez. 1, 13.12.1983, n. 667/1984, Oneda: "Secondo la nozione esposta dall'art. 43 c.p. perchè si abbia reato doloso non basta la semplice previsione dell'evento ma occorre che la volontà sia rivolta alla consumazione del reato poichè la sola previsione non è ancora volontà di produrlo. Nè tale volontà può essere desunta dalla accertata illiceità della condotta (ancorchè omissiva) e dalla consapevolezza di tale illiceità che potrà assumere rilievo solo nei reati cosiddetti formali. Lo stesso discorso vale per il cosiddetto dolo eventuale il quale presuppone che l'azione sia diretta al conseguimento volontario di un determinato risultato con la prospettiva di conseguirne un altro diverso e di perseguire nella condotta nonostante il rischio di provocare tale evento diverso che, conseguentemente, dal campo della previsione entra nella sfera della volontà"), e, successivamente, ripreso in una recente e significativa decisione (Sez. 1, 22.6.2017, n. 14776/2018: "L'art. 43 c.p., nella definizione del dolo, stabilisce una relazione essenziale tra la volontà e la causazione dell'evento, relazione che difetta nella mera accettazione del rischio che l'evento si verifichi, ed esige perciò - quale elemento dirimente tipico del dolo, anche nella sua forma eventuale - l'esistenza di un atteggiamento psichico che riveli l'adesione dell'agente all'evento, per il caso che esso si verifichi come conseguenza, anche non direttamente voluta, della propria condotta; nella scelta di agire del soggetto deve essere ravvisabile, dunque, una consapevole presa di posizione di adesione all'evento, che costituisca espressione di una manifestazione, sia pure indiretta, di volontà.").

Di particolare difficoltà è l'accertamento di tale stato soggettivo, in quanto l'oggetto di esso non costituisce il fine dell'azione nè una conseguenza certa di essa, bensì solo una possibile conseguenza di essa.

In particolare, si tratta di individuare elementi significativi dell'assunzione, da parte del soggetto, dell'evento, non tanto come possibile conseguenza nota, bensì come evento voluto, seppur per conseguire altro fine.

Ordinariamente, dovrà applicarsi la prova indiziaria, e la giurisprudenza (in particolare, la ricordata pronuncia a Sezioni Unite) si è fatta carico di individuare un ampio elenco di così detti indicatori, la cui valutazione deve essere comunque orientata alla verifica se quell'evento, previsto come possibile conseguenza della condotta, sia stato dal soggetto considerato come un "costo da sopportare" e quindi sia stato, in definitiva, effettivamente voluto.

5.2. Le sentenze di merito hanno escluso la sussistenza del dolo di omicidio sul rilievo che l'imputato, pur a conoscenza della diagnosi oncologica, non fosse in grado, per assenza di cognizioni mediche, di rendersi conto della gravità della diagnosi iniziale, nè del processo di aggravamento della patologia e quindi del carattere necessario ed indifferibile delle terapie mediche, e non fosse consapevole della completa adesione della donna alle sue indicazioni.

E' stato quindi escluso il presupposto rappresentativo del dolo, la consapevolezza della probabilità che l'evento morte si verificasse come conseguenza del ritardo nell'accesso alle terapie mediche.

Di converso, l'elemento colposo - violazione delle norme cautelari - è stato ravvisato proprio nel processo rappresentativo concernente la gravità della diagnosi oncologica e nella relazione istaurata con la persona offesa: l'imputato, privo di abilitazione professionale come medico e privo di competenze mediche, aveva prescritto una terapia della patologia tumorale non riconosciuta dalla scienza medica.

I motivi in esame riguardano la motivazione del giudizio in ordine alla assenza di consapevolezza del livello di gravità della patologia e del grado di affidamento riconosciuto dalla vittima all'imputato.

Quanto al primo aspetto, i ricorrenti, nel denunciare il travisamento di dati probatori, indicano le fonti testimoniali comprovanti la piena consapevolezza, in capo all'imputato, sia del fatto che la signora S. si era rivolta a lui in ragione di una diagnosi di tumore maligno al seno, sia del progressivo aggravamento delle condizioni della donna, avendo constatato, nel (OMISSIS), l'ingrossamento della tumefazione mammaria.

La censura è infondata.

Infatti, le sentenze hanno riconosciuto che l'imputato era stato consapevole della diagnosi oncologica, ed anche dell'aumento delle dimensioni del tumore, ma hanno valutato che l'assenza di competenze mediche impedisse al F. di essere consapevole, al di là della generica cognizione della gravità di qualsiasi diagnosi oncologica, del fatto che nel caso specifico l'accesso alle terapie indicate dalla scienza medica fosse necessario e indifferibile.

D'altra parte, è incontestato il dato della assoluta ignoranza nella scienza medica da parte dell'imputato, come il fatto che il medesimo esercitasse la naturopatia non tanto come supporto complementare alla medicina, bensì come scienza alternativa alla medicina.

I motivi, sull'assunto che la consapevolezza della patologia oncologica comporta anche la rappresentazione della necessità di un immediato ricorso alle terapie indicate dalla scienza medica, collegano il giudizio sull'assenza di rappresentazione del rischio morte al giudizio, frutto di travisamento di prove, sulla non consapevolezza della patologia oncologica grave.

Viene dunque sviluppata una censura che non coglie il reale contenuto del giudizio formulato dalle sentenze di merito.

E' stato, infatti, esplicitamente affermato che l'imputato era consapevole che la signora S. era affetta da patologia oncologica al seno, ma si è escluso che avesse previsto la prossima morte della donna proprio in ragione dell'orientamento culturale seguito dal F., che riteneva la naturopatia alternativa alla medicina.

Tale dato è pacifico - il ricorso del Procuratore generale valorizza gli scritti dell'imputato sulla efficacia terapeutica della naturopatia - e costituisce, da una parte, riscontro dell'assenza di dolo omicidiario e, dall'altra, la colpa dell'imputato.

Quanto alla condizione psichica della signora S. nel contesto della malattia, i ricorrenti denunciano il travisamento del giudizio tecnico formulato dal consulente della parte civile, prof. Bi., secondo il quale la persona offesa, nel tipo di relazione instaurata con l'imputato, aveva ridotto le capacità di discernimento critico e si era completamente affidata alle prescrizioni del naturopata.

La censura viene articolata in termini, di merito, non consentiti nel giudizio di legittimità.

Le sentenze di merito hanno, sul punto, fatto riferimento all'accertamento peritale disposto con le forme dell'incidente probatorio, e al giudizio formulato, in termini diversi dal parere del consulente prof. Bi., dal perito, Dott. Ga..

Le sentenze hanno riconosciuto un nesso causale tra la condotta dell'imputato e la scelta della persona offesa di seguire la naturopatia in alternativa alla medicina, scelta da cui è seguito il fatale ritardo nell'accesso alla terapia che, se tempestiva, avrebbe evitato la morte, ma è stato escluso che la persona offesa presentasse i caratteri della persona psichicamente debole, anche per la dimostrata capacità della donna di perseverare nella scelta dei rimedi naturali, pur a fronte di numerose persone a lei vicine, in primis il marito, che la sollecitavano a seguire le indicazioni della scienza medica.

E va evidenziato come la sentenza di primo grado abbia specificamente considerato anche il parere del prof. Bi., che aveva definito lo stato mentale della signora S. "come una abnorme condizione psicoemozionale".

I ricorrenti, pur articolando la censura in termini di travisamento di prove, dunque in realtà non propongono alcuna censura motivazionale nei limiti in cui è consentito, nel giudizio di legittimità, il controllo sulla motivazione, ma, reiterando argomenti già esposti nell'atto di appello, esprimono dissenso rispetto al merito dello specifico accertamento compiuto in ordine alla condizione psichica della persona offesa.

5.3. La motivazione del giudizio sull'elemento psicologico del reato, e quindi sulla esclusione del dolo di omicidio resiste, dunque, ai rilievi critici formulati dalle parti ricorrenti.

Non solo il giudizio sulla mancata rappresentazione, da parte dell'imputato, della elevata probabilità del verificarsi della morte come conseguenza del ritardo nell'accesso alle terapie della scienza medica, è stato adeguatamente motivato sulla base della assenza di conoscenze mediche, nemmeno generiche, da parte dell'imputato, ma anche il giudizio sulla non-volontà dell'evento è stato, congruamente, collegato all'adesione, da parte dell'imputato, all'orientamento che considera la naturopatia come alternativa, e non complementare, alla scienza medica.

Si tratta, in definitiva, di un orientamento culturale che integra, nel momento in cui assume la gestione di una condizione patologica, la colpa, ma che è, di per sè, incompatibile con la volontà di cagionare la morte del paziente.

Con riferimento ai fini della condotta dell'imputato, la sentenza di primo grado ha dato atto della natura onerosa delle prestazioni erogate dall'imputato (Euro 50 per ogni visita), ma non è stata prospettata alcuna finalità così significativa per l'imputato da caratterizzare la valutazione del rischio - morte come un "costo" da sopportare in funzione del fine perseguito.

6. Vanno dunque respinti entrambi i ricorsi, con conseguente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., condanna della parte civile ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna la parte civile ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 10 luglio 2020.

Depositato in Cancelleria il 28 settembre 2020