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Muccioli, da processare per maltrattamenti seguiti da morte? (Cass. 3065/95)

15 settembre 1995, Cassazione penale

La sentenza della Corte di Cassazione del secondo procedimento penale contro Vittorio Muccioli, fondatore della comunità di San Patrignano, tenutosi nel 1994, che ha portato a una condanna a otto mesi di carcere per favoreggiamento (con la sospensione condizionale della pena) e a un’assoluzione dall’accusa di omicidio colposo per l’assassinio, avvenuto in comunità, di Roberto Maranzano.

La sentenza pubblicata, emessa  su ricorso della Procura generale di Bologna, stabilisce che fu un errore negare la riqualificazione del reato  Muccioli per omicidio colposo e che, se fosse stato in vita, avrebbe dovuto essere giudicato di nuovo per la morte di Roberto Maranzano con la più grave accusa di «maltrattamenti seguiti da morte».

Il testo all'epoca vigente che puniva il reato di "maltrattamenti in famiglia o verso fanciulli stabiliva infatti che "chiunque, fuori dei casi indicati nell'articolo precedente, maltratta una persona della famiglia, o un minore degli anni quattordici, o una persona sottoposta alla sua autorità, o a lui affidata per ragione di educazione, istruzione, cura, vigilanza o custodia, o per l'esercizio di una professione o di un'arte, è punito con la reclusione da uno a cinque anni.
Se dal fatto deriva una lesione personale grave, si applica la reclusione da quattro a otto anni; se ne deriva una lesione gravissima, la reclusione da sette a quindici anni; se ne deriva la morte, la reclusione da dodici a venti anni."

 

Corte di Cassazione

SEZIONE VI PENALE

(ud. 13/07/1995) 15-09-1995, n. 3063

Composta dagli Ill.mi Sigg.:

Dott. Mario DANIELE Presidente

Dott. Antonino ASSENNATO Consigliere

Dott. Oreste CIAMPA Consigliere

Dott. Francesco TRIGONE Consigliere

Dott. Francesco IPPOLITO Rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

P.M. presso il Tribunale di Rimini nel procedimento penale contro Muccioli Vincenzo, nato a Rimini il 6.1.1934, avverso la ordinanza del tribunale di Rimini datata 10.11.1994;

- letti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

- udita la relazione del cons. Francesco IPPOLITO;

- letta la requisitoria del P.M, sost. procuratore generale Mario FRATICELLL che ha concluso per la inammissibilità del ricorso;

- letta la memoria del difensore dell'imputato, avv. <V. V.,> che ha richiesto dichiararsi inammissibile il ricorso;

Osserva quanto segue.

Svolgimento del processo


Vincenzo Muccioli fu rinviato a giudizio dinanzi al Tribunale di Rimini per rispondere del "delitto previsto dall'art. 589 cod. pen. per avere - per colpa, e precisamente dando vita all'interno della comunità di San Patrignano ad un reparto punitivo nel quale si sarebbe potuto e dovuto fare uso di mezzi di costrizione al fine di ottenere non solo il distacco dalla dipendenza dalla droga, ma il rispetto di regole severe, tollerando che nell'ambito di quel sistema venissero commessi atti di violenza, fisica e morale e, comunque, omettendo qualsiasi controllo onde evitare eccessi, e anzi ponendo a capo di quel reparto punitivo una persona come Alfio Russo con profonde turbe psicologiche e carattere violento ed aggressivo tanto da essere ricoverato in ospedale psichiatrico, persona che della violenza aveva fatto un sistema terapeutico - cagionato la morte di Maranzano Roberto a seguito di violente percosse e di uno strangolamento materialmente realizzato da Russo Alfio (in Ospedaletto di Coriano il 10 maggio 1989)", nonché, alternativamente, del reato di favoreggiamento continuato (art. 81 cod. pen., cpv., e art. 378 cod. pen.) per avere aiutato Russo Alfio ed i suoi correi ad eludere le investigazioni dell'autorità riguardanti l'uccisione di Roberto Maranzano.

A seguito di quanto emerse nel corso del dibattimento, all'udienza del 10 novembre 1994 il pubblico ministero modificò l'imputazione di omicidio colposo, contestando al Muccioli il reato di cui agli artt. 110, 81 cod. pen., cpv., dell'art. 572 cod. pen., commi 1 e 2, per avere, quale capo della Comunità terapeutica di San Patrignano e come tale affidatario per ragioni di rieducazione, cura, vigilanza e custodia di tossicodipendenti, costituendo all'interno della Comunità stessa un reparto punitivo nel quale sottoporre ad una serie di sofferenze fisiche e morali le persone più restie a liberarsi dalla dipendenza della droga o che non rispettavano le regole severe della Comunità, omettendo di esercitare qualsiasi controllo su quel reparto onde evitare eccessi nell'azione repressiva ed anzi ponendo a capo dello stesso Alfio Russo, persona priva di qualsiasi conoscenza in materia di terapia di recupero ed addirittura affetto da profonde turbe psicologiche e di carattere violento ed aggressivo, il quale esercitava il suo potere con mezzi esageratamente costrittivi e dolorosi, nella convinzione, suggeritagli dall'esempio dello stesso Muccioli, che quel metodo potesse avere una funzione rieducativa e di recupero; sottoposto Giuseppe Lupo, Ezio Persico, Luciano Lorandi, Franco Grizzardi, Stefano Grulli, Mariano Grillo, Alessandro Fiorini, Fabio Mazzetto, Marco Garofalo, Umberto Vitale, Massimo Mazzocchi, Fabrizio Arlengi, Laura Ghivarello e Roberto Maranzano, tutti assegnati al reparto di cui sopra, ad una serie di maltrattamenti consistiti in pugni, calci, docce gelate, bastonate e altre violenze, fatti dai quali derivarono lesioni personali gravi per Mariano Grillo e addirittura la morte per Roberto Maranzano, per uno strangolamento operato da Alfio Russo con l'aiuto di Roberto Lupo ed Ezio Persico (in Coriano fino al 5 maggio 1989)".

Il Tribunale, con ordinanza 10 novembre 1994, dichiarò "l'invalidità e l'irritualità" della contestazione effettuata nei confronti dell'imputato Muccioli e invitò le parti a "formulare e illustrare le rispettive conclusioni, tenendo conto delle imputazioni dedotte nel giudizio".

A tale decisione il Tribunale pervenne, ritenendo che la modificazione dell'imputazione da parte del P.M., sia consentita, secondo quanto disposto dall'art. 516 c.p.p., solo nell'ipotesi in cui il fatto diverso non appartenga alla competenza di un giudice superiore, mentre nel caso in esame la contestazione determinava la competenza della corte di assise. In ipotesi di tal genere, secondo il Tribunale, "al P.M. è inibita, ex art. 516 cod. proc. pen, la possibilità di contestare un fatto diverso eccedente la competenza del giudice del dibattimento, dovendo la pubblica accusa limitarsi, in un caso di tal fatta, a richiedere al giudice del dibattimento la declaratoria - anche immediata - di incompetenza per materia ex art. 23 cod. proc. pen., con pedissequa trasmissione degli atti al pubblico ministero presso il giudice ritenuto competente".

Avverso tale provvedimento ricorre per Cassazione il procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Rimini, deducendone l'abnormità per avere arbitrariamente dichiarato l'invalidità della contestazione di un fatto diverso (che avrebbe dovuto determinare il Tribunale a rimettere gli atti al pubblico ministero, a norma dell'art. 521, comma 3, c.p.p., trattandosi di contestazione di reato eccedente la competenza del Tribunale, e quindi, "fuori dei casi previsti dall'art. 516 c.p.p.".), sindacando la formulazione dell'imputazione, atto di competenza esclusiva del P.M.

Il procuratore generale, con requisitoria scritta, ha richiesto declaratoria di inammissibilità del ricorso, condividendo l'ordinanza del Tribunale e, comunque, escludendo che essa possa ritenersi abnorme. In senso analogo ha concluso il difensore dell'imputato Muccioli, che ha depositato memoria ai sensi dell'art. 611 cod. proc. pen.

 

 

Motivi della decisione
Nel sistema processuale vigente, l'esercizio dell'azione penale rientra nella esclusiva titolarità del pubblico ministero, che è il dominus esclusivo dell'azione e che, secondo la specifica direttiva della legge-delega, nel corso del dibattimento, ha l'autonomo "potere ... di procedere alla modifica dell'imputazione e di formulare nuove contestazioni inerenti ai fatti oggetto del giudizio": così Ìart. 2 n. 78 L. n. 81-1987, che aggiunge la "previsione di adeguate garanzie per la difesa", le quali sono state realizzate con le disposizioni di cui agli artt. 521 e 522 c.p.p.

L'esercizio del potere di contestazione è attribuito direttamente al pubblico ministero, che non deve rivolgere alcuna richiesta al giudice, diversamente da quanto era stato previsto dalla legge-delega del 1974. Il legislatore delegato ha, poi, specificato la direttiva n. 78, prevedendo la possibilità di modificazione "sostitutiva" della imputazione contenuta nel decreto che ha disposto il rinvio a giudizio ("fatto diverso", art. 516 cod. proc. pen.) e di contestazioni suppletive "aggiuntive" ("fatto nuovo", artt. 517-518 cod. proc. pen.).

Al giudice è inibito ogni controllo preventivo sulla nuova contestazione, salva l'ipotesi di cui aIl'art. 518.2, là dove si prevede, però, una deroga alla regola posta al P.M. (art. 518 comma

1) di procedere nelle forme ordinarie, cioé con azione separata, nei casi in cui non è ammessa la contestazione suppletiva "ordinaria" di cui all'art. 517: in questo caso, eccezionalmente, è richiesta, oltre al consenso dell'imputato presente, una autorizzazione presidenziale, al fine di evitare pregiudizio per la speditezza del procedimenti, non diversamente da quanto prevede l'art. 18 comma 1 c.p.p. per la riunione dei processi.

Il giudice ovviamente esercita il controllo successivo ed è obbligato a pronunciare nel merito della nuova contestazione (per fatto diverso o fatto nuovo) soltanto se essa rientra nella disciplina posta dagli artt. 516, 517 e 518 (art. 521.3) e, prima di tutto, se il fatto-reato, diverso o nuovo, rientra nella propria competenza. A ben vedere, però, la competenza, contrariamente a quanto sostenuto in una decisione di questa Corte (Cass. n. 3507-90, Di Sano, M. CED 185925), non costituisce un limite per la possibilità di contestazione del P.M. (tant'é che ditale limite non esiste cenno nella direttiva della legge-delega, alla cui stregua vanno lette le norme del codice, in una interpretazione che ne salvi la costituzionalità, ogni volta che sia possibile), ma per il giudice, che può giudicare sulla imputazione (originaria o modificata o aggiunta), dando ad essa anche una definizione giuridica diversa, soltanto se essa non ecceda la sua competenza.

Se il pubblico ministero ha effettuato una nuova contestazione fuori dei casi previsti dagli artt. 516, 517 e 518 comma 2, il giudice - come pure quando autonomamente accerta che il fatto è diverso da come è descritto nell'imputazione, comprensiva delle contestazioni dibattimentali - dispone con ordinanza la trasmissione degli atti al pubblico ministero.

Il giudice, dunque, non ha alcun potere sull'oggetto dell'imputazione e sulle autonome determinazioni del pubblico ministero circa le modalità di esercizio dell'azione penale, se non quelli previsti dai tre commi dell'art. 521.

Pronunciando nel merito, nei limiti della propria competenza, egli può ritenere infondata una contestazione e assolvere o può dare al fatto una definizione giuridica (nei miti della propria competenza) diversa da quella data dal P.M. (comma 1) o può ritenere fatto diverso da come descritto nel decreto che dispone il giudizio ovvero nella contestazione effettuata a norma degli artt. 516, 517, 518 - comma 2 (comma 2), ma nessuna norma e nessun principio dell'ordinamento processuale gli attribuisce il potere di invalidare (e, quindi, rendere tanquam non esset) una contestazione di fatto diverso, che non si aggiunge, ma sostituisce e comprende quella originaria, e di giudicare sulla originaria imputazione.

Attribuendosi tale potere, il giudice non solo coarta il titolare dell'azione penale nelle modalità di esercizio della stessa azione, travalicando illegittimamente i confini delle proprie attribuzioni, ma rischia - con ciò stravolgendo il sistema processuale - di pregiudicare anche la possibilità che il P.M. possa - come è doveroso ai sensi dell'art. 12 Cost. - esercitare separata azione per il fatto diverso, giacché il nuovo procedimento potrebbe essere precluso, ex art. 649 cod. proc. pen., dalla eventuale pronuncia sul fatto originariamente contestato, trattandosi di imputazioni riferite comunque allo stesso avvenimento storico, anche se diversamente connotate.

Nell'ordinanza impugnata si contesta la possibilità che il P.M. possa procedere a uova contestazione per fatto diverso, di competenza superiore, e si indica come via corretta la richiesta al tribunale di dichiararsi incompetente ai sensi dell'art. 23 c.p.p. Ma questa scelta (formale contestazione da parte del P.M. o sollecitazione al Tribunale a dichiararsi incompetente per materia) spetta unicamente alla parte e non può essere imposta dal giudice.

E', al contrario, il P.M. che, con le sue scelte, può determinare la doverosità per il giudice di taluni atti: mentre la "richiesta" a fare uso dei poteri d'ufficio, ai sensi dell'art. 23 c.p.p., lascia (non alla libertà, ma) all'apprezzamento motivato del giudice la decisione sulla competenza, la formale contestazione di fatto-reato di competenza superiore obbliga il giudice a trasmettere gli atti all'ufficio del P.M.. Ma in ciò non v'é nessuna sottrazione al giudizio da parte del P.M. (come si argomenta nell'ordinanza), posto che sul fatto dovrà pur sempre pronunciare il giudice competente.

Che la trasmissione degli atti al P.M. scaturisca dall'art. 521 comma 3 o dall'art. 23 comma 1 c.p.p., è questione non più rilevante. Nella Relazione al Progetto preliminare del uovo codice, si osserva che "a parte quanto è disposto nel comma 1, non è stata specificamente disciplinata l'ipotesi di incompetenza, né in questa sede, né negli articoli che prevedono le nuove contestazioni, che come si è detto non consentono un controllo preventivo del giudice: si applicherà, se necessario, l'art. 24" (divenuto 23 nel testo definitivo)" (pag. 119).

Il problema poteva porsi, anche con rilevanti risvolti pratici, nell'originario testo del codice, in cui l'art. 23.1 c.p.p. prevedeva che il giudice dichiarasse "con sentenza la propria incompetenza per qualsiasi causa", con ordine di trasmissione degli atti "al giudice competente", radicandosi in tal modo una perpetuatio jurisdictionis che precludeva la retrocessione del processo.

A seguito della sentenza n. 76-1993 della Corte cost., che ha dichiarato la illegittimità dell'art. 23 c.p.p. proprio nella parte in cui prevedeva la trasmissione degli atti al giudice competente anziché al pubblico ministero presso quest'ultimo, è venuta a determinarsi una unità di disciplina tra art. 23.1 e art. 521.3 c.p.p.. Residua una differenzia nominalistica circa la denominazione dell'atto (sentenza o ordinanza), che appare irrilevante per la questione che si sta esaminando.

Conclusivamente, ritiene il Collegio che l'ordinanza in esame, collocandosi del tutto fuori del sistema processuale penale, di cui stravolge principi generali e disciplina concreta, sia da qualificare abnorme e, come tale, autonomamente e immediatamente impugnabile. Il ricorso del P.M. è, pertanto, ammissibile, non potendosi contestare l'interesse del titolare dell'azione penale a rimuovere il provvedimento per ripristinare una situazione che consente la pronuncia di merito del giudice competente sul fatto diverso che, nel legittimo esercizio dei suoi poteri, ha ritenuto di contestare all'esito della istruttoria dibattimentale. Va, pertanto, dichiarata la nullità dell'impugnata ordinanza, con gli effetti che conseguono ai sensi dell'art. 185 cod. proc. pen.

P.Q.M.
La Corte annulla l'ordinanza impugnata senza rinvio.

Così deciso in Roma il 13 luglio 1995.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 15 SETTEMBRE 1995.