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Spaccio non lieve, pena proporzionata (Cass. 12690/19)

21 marzo 2019, Cassazione penale

La fattispecie del fatto di lieve entità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati espressamente dalla disposizione (mezzi, modalità e circostanze dell’azione), sia quelli che attengono all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa), dovendosi escludere qualsivoglia preclusione derivante dalla eterogeneità delle sostanze o dalle modalità organizzate della condotta, essendo quest’ultimi elementi idonei ad escludere l’ipotesi del fatto lieve soltanto qualora siano dimostrativi di una significativa potenzialità offensiva.

Nella trasformazione da attenuante ad effetto speciale a titolo autonomo di reato, la fattispecie di cui si tratta ha conservato la sua funzione di individuare quei fatti che si caratterizzano per una ridotta offensività, allo scopo di sottrarli al severo regime sanzionatorio previsto dalle altre norme incriminatrici contenute nell’art. 73 T.U. stup. - al cui ambito applicativo, come si è detto, gli stessi fatti sarebbero altrimenti riconducibili - nella prospettiva di rendere il sistema repressivo in materia di stupefacenti maggiormente rispondente ai principi sanciti dall’art. 27 Cost.

La circostanza attenuante del contributo di minima importanza, che è configurabile quando l’apporto del concorrente non solo abbia avuto una minore rilevanza causale rispetto alla partecipazione degli altri concorrenti, ma abbia anche assunto un’importanza obiettivamente minima e marginale ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell’iter criminoso.

La recidiva, operando come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del contraddittorio, ma può essere ritenuta non configurabile dal giudice, a meno che non si tratti dell’ipotesi di recidiva reiterata prevista dall’art. 99 c.p., comma 5, nel qual caso va anche obbligatoriamente applicata. In presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi, dell’art. 99 c.p., è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.

L'art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea si limita a codificare il principio di proporzionalità della pena, il quale - al pari del principio di ragionevolezza, che nella giurisprudenza costituzionale è spesso richiamato unitamente ad esso - non permette al giudice di determinare autonomamente la misura della pena, ma semmai di emendare le scelte del legislatore in riferimento a grandezze già rinvenibili nell’ordinamento.

Corte di Cassazione

sez. III Penale, sentenza 17 gennaio – 21 marzo 2019, n. 12690
Presidente Liberati – Relatore Gai

Ritenuto in fatto

1. La Corte d’appello di Brescia, con l’impugnata sentenza, in accoglimento del ricorso del Procuratore generale, in parziale riforma della sentenza del Giudice dell’Udienza preliminare del Tribunale di Brescia, previa qualificazione dei fatti quale violazione del D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, ha condannato G.K. alla pena di anni undici, mesi dieci e giorni 7 di reclusione e Euro 40.000,00 di multa, e N.L. alla pena di anni sei di reclusione e Euro 20.000 di multa. Gli imputati sono stati condannati perché ritenuti responsabili dei reati di cui all’art. 110 c.p., D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, per avere illecitamente detenuto grammi 53,06 di cocaina, destinata allo spaccio (capo C) e di cui all’art. 110 c.p., D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, per avere occultato e detenuto in area boschiva grammi 524,91 di eroina (capo D).

In accoglimento del ricorso del Procuratore generale, e a diversa qualificazione giuridica dei fatti contestati quale violazione di cui al D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, in luogo di quella ritenuta dal G.U.P., la corte territoriale è pervenuta dando rilievo al dato ponderale, il cui quantitativo pari a grammi 53,6 di cocaina era già di per sé preclusivo della configurazione dell’ipotesi lieve, all’elevato grado di purezza della medesima sostanza (80%), alla contestuale detenzione di sostanze di diversa qualità (cocaina ed eroina), all’inserimento a pieno titolo nel circuito del narcotraffico bresciano, ai contatti con ambienti criminali con riguardo ai fornitori e alla platea dei clienti di vaste proporzioni. Nel resto, i giudici territoriali hanno respinto gli appelli degli imputati e rideterminato il trattamento sanzionatorio nei termini sopra indicati per effetto della diversa e più grave imputazione.

2. Avverso la sentenza hanno presentato separati ricorsi gli imputati, a mezzo del difensore, e ne hanno chiesto l’annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti necessari per la motivazione come disposto dall’art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Il difensore di G.K. , con il primo motivo di ricorso deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al diniego del riconoscimento del reato di cui al D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, in relazione al diniego di riconoscimento del fatto di lieve entità. La Corte d’appello ha erroneamente escluso l’ipotesi lieve dando rilievo al dato ponderale, valutato al lordo e non relativo al principio attivo, e al dato qualitativo delle sostanze detenute, dato ponderale che, avuto riguardo al caso concreto, non era di rilievo tale da escludere la riconducibilità alla fattispecie del comma 5, all’esito della disciplina risultante dalla sentenza della Corte costituzionale n. 32 del 2014 e del conseguente ripristino della misura della pena edittale previgente da cui il conseguente trattamento sanzionatorio fortemente squilibrato.
Con il secondo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione alla mancata esclusione della recidiva contestata, esclusione argomentata sulla scorta dell’esistenza di precedenti penali, ritenuti sintomatici di una maggiore pericolosità, senza considerare l’aspecificità e la risalenza di questi nel tempo.

2.2. Il difensore di N.L. deduce, con il primo motivo di ricorso, il vizio di motivazione in relazione all’affermazione della responsabilità penale per il capo D), mancata assoluzione dell’imputato.

La Corte d’appello avrebbe illogicamente ritenuto la partecipazione nel reato dell’imputato in relazione alla detenzione dell’eroina occultata in zona boschiva sulla scorta del compendio probatorio anche costituito dalle intercettazioni telefoniche, e con deduzioni presuntive sulla consapevolezza in capo al N. dell’occultamento dell’eroina.Con il secondo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p.p..
Con il terzo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al diniego di riconoscimento del reato di cui al D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5, in relazione al diniego di riconoscimento del fatto di lieve entità secondo quanto indicato sub 2.1.
Con il quarto motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al mancato riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 62 bis c.p., motivazione carente in relazione alla circostanza che l’imputato aveva confessato, che era persona incensurata e inserita socialmente svolgendo attività lavorativa.
Con il quinto motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione all’art. 49, comma 3, della Carta dei Diritti Fondamentali dell’Unione Europea in relazione all’art. 6, comma 1, del Trattato di Lisbona, art. 4 comma 1 della decisione quadro 2004/757/GAI. Secondo il ricorrente le sanzioni comminate dal legislatore, all’esito della disciplina risultante dalla pronuncia della Corte costituzionale n. 32 del 2004, non soddisferebbero il requisito di proporzionalità ai sensi della normativa sovranazionale come anche indirettamente stabilito dalla successiva sentenza dei Giudici delle leggi n. 179 del 2017.
Con il sesto motivo chiede sollevarsi questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, per contrasto con gli artt. 3, 25 e 27 Cost., non essendo proporzionale una pena edittale minima di anni otto di reclusione ben lontana dal massimo di anni quattro previsto per l’ipotesi di cui al D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 5. La questione sarebbe rilevante poiché con la citata pronuncia n. 179 del 2017, la Corte costituzionale aveva espresso un monito al legislatore affinché intervenisse per porre fine alla sproporzione, monito rimasto inascoltato, e dunque si giustificherebbe un nuovo intervento del giudice delle leggi.
In data 05/11/2018, il difensore di G.K. ha depositato motivi nuovi, ex art. 585 c.p.p., con cui ha dedotto la violazione di legge in relazione all’erronea applicazione dell’art. 99 c.p., comma 6, per avere la Corte d’appello determinato l’aumento di pena in misura superiore al cumulo delle pene risultanti dalle condanne precedentemente inflitte.
3. Il Procuratore Generale ha chiesto l’annullamento della sentenza con rinvio nei confronti di G. in relazione all’applicazione della recidiva e inammissibilità nel resto, e l’inammissibilità del ricorso del N. .

Considerato in diritto

4. Il ricorso di G.K. è fondato con riguardo al motivo nuovo, ex art. 585 c.p.p., di violazione dell’art. 99 comma 6 c.p., nel resto i motivi non sono fondati; il ricorso di N.L. è fondato con riguardo al riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche, infondati sono gli altri motivi di ricorso.

5. Seguendo l’ordine logico, non è fondato il primo motivo di ricorso di N. in relazione all’affermazione di responsabilità penale per il reato di cui al capo D, relativa al concorso nella detenzione e occultamento in zona boschiva di grammi 524,01 di eroina. Oltre a riprodurre le medesime argomentazione già esposte dinanzi ai giudici di merito, e dagli stessi vagliate e correttamente disattese, la censura in punto affermazione di responsabilità per il reato di cui al capo D, più che volta a denunciare vizi riconducibili al disposto di cui all’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), mira a sollecitare nuovamente una valutazione alternativa delle risultanze processuali non praticabile in questa sede (S.U. n. 47289 del 24/09/2003, Petrella, Rv 226074).

L’affermazione della responsabilità del N. , oggetto di doppio accertamento conforme, poggia su un solido apparato argomentativo nel quale assumono rilievo le conversazioni registrate a bordo dell’autovettura Opel Astra, dalle quali emerge la piena partecipazione del N. all’attività illecita di detenzione e cessione di sostanza stupefacente svolta dal G. , attività illecita riscontrata dalla piena ammissione della detenzione a fini di spaccio della cocaina di cui al capo C, rispetto al quale la censura appare diretta a sovrapporre una diversa ricostruzione dei fatti in relazione alla detenzione concorsuale dell’eroina occultata nella zona boschiva, che è preclusa in questa sede a fronte di una motivazione che non appare né carente, né manifestamente illogica (cfr. pag. 10) laddove la corte territoriale trae il convincimento della consapevolezza che il N. si stesse recando, con un connazionale del G. , a controllare che la sostanza stupefacente fosse ancora sul posto ove era stata occultata, dal complesso delle conversazioni registrate di cui dà una logica lettura che non presenta profili di illogicità manifesta ed è aderente al dato probatorio.

In tale ambito, la circostanza dedotta dalla difesa dalla non comprensione della lingua albanese, da cui la non conoscenza delle ragioni per le quali il 28/02/2017 si era recato sul posto ove era rimasto al bar in attesa che il complice procedesse al controllo nella zona boschiva, oltre che diretta a richiedere una diversa valutazione dei fatti, risulta smentita dagli atti, in quanto risulta, dal provvedimento impugnato, che il G. aveva messo a parte il N. dell’occultamento dell’eroina e del timore che qualcuno potesse appropriarsene, circostanza da cui la corte bresciana trae la conclusione della consapevolezza che il N. si era recato in compagnia di un connazionale del G. proprio allo scopo di scongiurare il paventato rischio di appropriazione dell’eroina da parte di terzi e dunque la prova della partecipazione del N. è stata correttamente e congruamente argomentata.
La motivazione della sentenza di appello a sostegno della affermazione della responsabilità non presta il fianco a censure di illogicità e/o contraddittorietà.

6. Allo stesso modo la motivazione sul diniego di riconoscimento della circostanza attenuante di cui all’art. 114 c.p., non presta il fianco a rilievi di manifesta illogicità. La corte territoriale, proprio in ragione del sopra descritto ruolo del N. , partecipe a pieno titolo nell’attività illecita posta in essere dal G. , attività svolta in modo non occasionale, ha escluso che il contributo nel reato di cui al capo D potesse essere di minima importanza essendosi recato, su richiesta del G. , a controllare che nessuno avesse sottratto la droga occultata, comportamento che non può dirsi di minima partecipazione nel reato, contributo rilevante ai fini del controllo sull’avvenuto occultamento. Correttamente la corte territoriale ha escluso la circostanza attenuante del contributo di minima importanza, che è configurabile quando l’apporto del concorrente non solo abbia avuto una minore rilevanza causale rispetto alla partecipazione degli altri concorrenti, ma abbia anche assunto un’importanza obiettivamente minima e marginale ossia di efficacia causale così lieve rispetto all’evento da risultare trascurabile nell’economia generale dell’iter criminoso (Sez. 4, n. 50307 del 20/07/2018, Rv. 274002 - 01, Sez. 3, n. 9844 del 17/11/2015, Barbato, Rv. 266461, Sez. 3, n. 34985 del 16/07/2015, Caradonna e altro, Rv.264455; Sez. 1, n. 29168 del 31/05/2011, Atowi e altri, Rv. 250751; Sez. 1, n. 26031 del 09/05/2013, Di Domenico, Rv. 256035; Sez. 4, n. 12811 del 08/02/2007, Muggeri e altro, Rv. 236198; Sez. 6, n. 45248 del 30/11/2005, Cirillo, Rv. 232619).

7. La comune censura oggetto del primo motivo di ricorso di G. e terzo motivo di ricorso di N. , di violazione di legge e vizio di motivazione in relazione al diniego di riconoscimento del fatto di lieve entità, D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, ex art. 73, comma 5, è anch’essa infondata.

Va preliminarmente ricordato che è orientamento consolidato nella giurisprudenza della Corte di cassazione, quello secondo cui la fattispecie del fatto di lieve entità di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, anche all’esito della formulazione normativa introdotta dal D.L. n. 23 dicembre 2013, n. 146, art. 2, conv. nella L. 10 febbraio 2014, n. 10, può essere riconosciuta solo nella ipotesi di minima offensività penale della condotta, desumibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati espressamente dalla disposizione (mezzi, modalità e circostanze dell’azione), sia quelli che attengono all’oggetto materiale del reato (quantità e qualità delle sostanze stupefacenti oggetto della condotta criminosa), dovendosi escludere qualsivoglia preclusione derivante dalla eterogeneità delle sostanze o dalle modalità organizzate della condotta, essendo quest’ultimi elementi idonei ad escludere l’ipotesi del fatto lieve soltanto qualora siano dimostrativi di una significativa potenzialità offensiva (S.U. n. 51063 del 27/09/2018, M., Rv. 274076 - 02; Sez. 6, n. 29132 del 09/05/2017, Merli, Rv. 270562; Sez. 3, n. 27064 del 19/03/2014, Rv. 259664; Sez. 6, n. 39977 del 19/09/2013, Rv. 256610).

In tale senso, si erano già espresse le Sezioni Unite (Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, P.G. in proc. Rico, Rv. 247911), ove, nel riconoscere la fattispecie in parola solo in ipotesi di "minima offensività penale della condotta", desumibile dalla valutazione dei parametri richiamati dalla disposizione - salvo che uno di essi non sia di per sé suscettibile di arrecare un’offesa e/o di realizzare una messa in pericolo del bene tutelato così significative da renderlo assorbente - si osservava come la questione circa l’applicabilità o meno della norma in parola "non possa essere risolta in astratto, stabilendo incompatibilità in via di principio, ma deve trovare soluzione caso per caso, tenuto conto di volta in volta di tutte le specifiche e concrete circostanze".

Nel solco della citata pronuncia si era posta la successiva giurisprudenza sino all’intervento, da ultimo, delle Sezioni Unite (S.U. n. 51063 del 27/09/2018. M., Rv. 274076 - 02) che hanno ribadito la validità e attualità dei principi affermati nei precedenti arresti del Supremo Collegio (Sez. U, n. 35737 del 24/06/2010, Rico, Rv. 247911 e Sez. U, n. 17 del 21/06/2000, Primavera, Rv. 216668) secondo cui, per l’appunto, la lieve entità del fatto può essere riconosciuta solo in ipotesi di "minima offensività penale della condotta, deducibile sia dal dato qualitativo e quantitativo, sia dagli altri parametri richiamati dalla disposizione (mezzi, modalità, circostanze dell’azione), con la conseguenza che, ove uno degli indici previsti dalla legge risulti negativamente assorbente, ogni altra considerazione resta priva di incidenza sul giudizio".

Nella trasformazione da attenuante ad effetto speciale a titolo autonomo di reato, ricordano le citate Sezioni Unite, la fattispecie di cui si tratta ha conservato la sua funzione di individuare quei fatti che si caratterizzano per una ridotta offensività, allo scopo di sottrarli al severo regime sanzionatorio previsto dalle altre norme incriminatrici contenute nell’art. 73 T.U. stup. - al cui ambito applicativo, come si è detto, gli stessi fatti sarebbero altrimenti riconducibili - nella prospettiva di rendere il sistema repressivo in materia di stupefacenti maggiormente rispondente ai principi sanciti dall’art. 27 Cost., ed è parimenti necessario che "il percorso valutativo così ricostruito si rifletta nella motivazione della decisione, dovendo il giudice, nell’affermare o negare la tipicità del fatto ai sensi dell’art. 73, comma 5, T.U. stup., dimostrare di avere vagliato tutti gli aspetti normativamente rilevanti e spiegare le ragioni della ritenuta prevalenza eventualmente riservata a solo alcuni di essi. Il che significa, come illustrato, che il discorso giustificativo deve dar conto non solo dei motivi che logicamente impongono nel caso concreto di valutare un singolo dato ostativo al riconoscimento del più contenuto disvalore del fatto, ma altresì di quelli per cui la sua carica negativa non può ritenersi bilanciata da altri elementi eventualmente indicativi, se singolarmente considerati, della sua ridotta offensività".


8. Nel caso in scrutinio la corte territoriale mostra di aver fatto corretta applicazione dei principi qui enunciati e con motivazione congrua è pervenuta ad un giudizio di non lievità del fatto ancorato ad una valutazione globale del fatto nel quale assume rilievo 1) il dato ponderale della cocaina, non certo modica, pari a grammi 36,5 di principio attivo cocaina con purezza all’80% e grammi 6 di eroina; 2) la contestuale detenzione di sostanze di tipo diverso, che se non sono di ostacolo alla configurazione dell’ipotesi di reato di cui al comma 5, non di meno possono rilevare ai fini della valutazione, unitamente alle altre circostanze dell’azione, a connotare in termini di maggiore offensività il fatto. Ed infatti, dalla contestuale detenzione di sostanze di tipo diverso e dal quantitativo non modico di cocaina, la corte territoriale ha argomentato 3) l’inserimento a pieno titolo nel circuito del narcotraffico bresciano, i contatti con ambienti criminali con riguardo ai fornitori e alla platea dei clienti di vaste proporzioni. La motivazione non è solo congrua, ma è anche corretta in diritto.

9. Il secondo motivo di ricorso di G. con cui si censura la motivazione in punto riconoscimento della recidiva, non è fondato, mentre è invece fondato il collegato motivo nuovo di violazione dell’art. 99 c.p.p., u.c..

Come è noto, in tema, al fine di porre alcuni punti fermi, sono intervenute le Sezioni Unite di questa Corte (S.U. n. 35738 del 27/05/2010 P.G. in Calibè, Rv. 247838) che hanno stabilito che la recidiva, operando come circostanza aggravante inerente alla persona del colpevole, va obbligatoriamente contestata dal pubblico ministero, in ossequio al principio del contraddittorio, ma può essere ritenuta non configurabile dal giudice, a meno che non si tratti dell’ipotesi di recidiva reiterata prevista dall’art. 99 c.p., comma 5, nel qual caso va anche obbligatoriamente applicata. Nell’enunciare tale principio, la Corte ha precisato che, in presenza di contestazione della recidiva a norma di uno dei primi quattro commi, dell’art. 99 c.p., è compito del giudice quello di verificare in concreto se la reiterazione dell’illecito sia sintomo effettivo di riprovevolezza della condotta e di pericolosità del suo autore, avuto riguardo alla natura dei reati, al tipo di devianza di cui essi sono il segno, alla qualità e al grado di offensività dei comportamenti, alla distanza temporale tra i fatti e al livello di omogeneità esistente tra loro, all’eventuale occasionalità della ricaduta e a ogni altro parametro individualizzante significativo della personalità del reo e del grado di colpevolezza, al di là del mero e indifferenziato riscontro formale dell’esistenza di precedenti penali.
Proprio con richiamo alla pluralità di precedenti penali e alla violazione di un ordine di espulsione, che attesta l’elevata pericolosità sociale del ricorrente, ha ancorato il giudizio di maggiore pericolosità, la corte bresciana, ha ritenuto che i reati oggetto del procedimento costituivano indice di ulteriore pericolosità e insensibilità ai precetti di legge, sicché, contrariamente all’assunto difensivo, ha positivamente individuato e dato atto delle ragioni per operare l’aumento di pena previsto dalla menzionata aggravante.
Merita accoglimento il profilo di violazione di legge denunciato nel motivo aggiunto.
L’art. 99 c.p., u.c., introduce uno sbarramento quantitativo per l’aumento per la recidiva, per cui "l’aumento della pena non può superare il cumulo delle pene risultante dalle condanne precedenti alla commissione del nuovo delitto non colposo" (Sez. 2, n. 30437 del 16/06/2016, Cutrì, Rv. 267416 - 01).
Nel caso in esame, la corte territoriale, sulla pena base di anni otto di reclusione ed Euro 27.000,00 di multa, ha operato l’aumento per la recidiva di anni cinque di reclusione e Euro 18.000,00 di multa, aumento superiore alla somma delle precedenti condanne ammontanti ad anni tre e giorni dieci di reclusione e Euro 1.540,00 di multa, aumento, dunque in violazione del disposto di cui all’art. 99 c.p., u.c..
La sentenza, va, sul punto annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Brescia per un nuovo esame.

10. Parimenti è fondato il quarto motivo di ricorso nell’interesse di N.L. . Il diniego di riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche è stato argomentato in ragione dell’assenza di elementi positivi da valorizzare; tale motivazione, cumulativamente espressa per entrambi gli imputati, non si è confrontata con il motivo di appello del N. che aveva indicato una pluralità di circostanze che avrebbe dovuto essere valutate ai fini del riconoscimento/diniego delle menzionate attenuanti.
La sentenza, va, sul punto annullata con rinvio ad altra Sezione della Corte d’appello di Brescia per un nuovo esame.

11. Infine, non sono fondati in forza delle ragioni qui esposte, gli ulteriori motivi devoluti dal N. .

Secondo il ricorrente sarebbe stata applicata una sanzione sproporzionata al reato, in violazione dell’art. 4, comma 1, della Decisione-quadro 2004/757/GAI del Consiglio del 25/10/2004 e dell’art. 49, comma 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, norma direttamente applicabile ai sensi dell’art. 6, del TUE e art. 51 della CDFUE. In ogni caso, la norma di cui al D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, sarebbe sospetta di illegittimità costituzionale e chiede sollevarsi incidente di costituzionalità.

Secondo il ricorrente, sotto il primo profilo, la disciplina sanzionatoria prevista dal D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, commi 1 e 5, violerebbe il principio di proporzione tra offensività della fattispecie e della pena anche in relazione all’art. 4 della Decisione-quadro 2004/757/GAI del Consiglio del 25/10/2004 e dell’obbligo del legislatore di esercitare la potestà legislativa nel rispetto dei vincolo derivanti dall’ordinamento comunitario di cui all’art. 117 Cost., comma 1, e, nella specie, di quelli derivanti dall’art. 4 della Decisione-quadro citata e dell’art. 49 comma 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea secondo cui “le pene inflitte non devono essere sproporzionate rispetto al reato”, atto immediatamente precettivo negli Stati membri ai sensi dell’art. 6, comma 1, Trattato UE.

Secondo il ricorrente, sebbene la Decisione-quadro citata detti “norme minime (...) alle sanzioni applicabili in materia di traffico illecito di stupefacenti” sarebbe irragionevole la previsione di una pena detentiva minima per il reato di cui all’art. 73 comma 1 D.P.R. n. 9 ottobre 1990, n. 309 in misura superiore alla stessa “durata massima” di anni cinque prevista per i “grandi quantitativi” per “gli stupefacenti più dannosi per la salute”, risultando, altresì, manifestamente sproporzionata ai sensi dell’art. 49, comma 3 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea.

Osserva questa Corte che l’art. 4, comma 1 della citata Decisione quadro prevede che "Ciascuno Stato membro provvede affinché i reati di cui all’art. 2, siano soggetti a pene detentive della durata massima compresa tra almeno 1 e 3 anni". Tale dizione, come affermato da questa Corte (Sez. 3, n. 33512 del 09/05/2012, Valle; Sez. 3, n. 12635 del 02/03/2012 non massimate) deve essere interpretata nel senso che non vengono indicati il termine minimo (anni uno) e quello massimo (anni tre), bensì vengono indicati i termini massimi che non possono essere inferiori ad uno e tre anni.

Infatti, ove fosse attendibile l’opposta tesi, la norma si sarebbe espressa nei termini che la pena irrogabile sarebbe stata "da 1 a 3 anni", e non "tra 1 e 3 anni", essendosi voluto indicare che il massimo doveva "almeno" non essere inferiore a quello compreso tra 1 e 3 anni.

Prescindendo da ciò, la questione è superata dal fatto che l’art. 4, comma 2, prevede la pena della durata massima compresa tra almeno 5 e 10 anni in caso, fra l’altro, di grandi quantitativi e di fornitura di stupefacenti più dannosi per la salute: l’eroina e la cocaina ricadono ovviamente tra questi per il suo maggiore effetto drogante.

Infine, come osservato dalla sentenza della Corte Costituzionale n. 23 del 2016, con cui ha dichiarato inammissibile la questione di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 5, sollevata dal Tribunale per il Minorenni di Reggio Calabria, "nella parte in cui 1) non distingue - nel trattamento sanzionatorio - tra fatti di lieve entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope di cui alla tabella I e fatti di lieve entità aventi ad oggetto sostanze stupefacenti o psicotrope appartenenti alla differente tabella II del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 14; 2) non prevede dei limiti di pena differenziati e conformi ai parametri di cui all’art. 4 della Decisione quadro 2004/757/GAI del Consiglio (...) e all’art. 49, 3 paragrafo, Carta dei Diritti Fondamentali dell’UE", ha, con riferimento al profilo qui in esame, affermato al par. 2.4. che “nessun elemento può ricavarsi, in proposito, dall’invocato art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea, che si limita a codificare il principio di proporzionalità della pena, il quale - al pari del principio di ragionevolezza, che nella giurisprudenza costituzionale è spesso richiamato unitamente ad esso - non permette a questa Corte di determinare autonomamente la misura della pena, ma semmai di emendare le scelte del legislatore in riferimento a grandezze già rinvenibili nell’ordinamento”.

Sotto altro profilo, rammentato che sia il principio di proporzionalità della pena che quello della ragionevolezza sono chiaramente espressi nella Carta costituzionale agli artt. 3 e 27 Cost., manifestamente infondata deve essere dichiarata la questione di costituzionalità prospettata dal ricorrente.

In virtù del carattere incidentale del giudizio di legittimità costituzionale, il giudice a quo deve in primo luogo verificare che il giudizio alla sua attenzione "non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione della questione di legittimità costituzionale" (c.d. "rilevanza"), vale a dire, che la disposizione della cui costituzionalità si dubita dovrà essere applicata nel giudizio a quo e quindi che quel medesimo giudizio non potrà essere definito se prima non viene risolto il dubbio di legittimità costituzionale che ha investito la relativa disposizione. Il presupposto della rilevanza della questione nel giudizio a quo deriva dal disposto della L. 11 marzo 1953, n. 87, art. 23, secondo cui la questione di legittimità costituzionale può essere proposta solo quando "il giudizio non possa essere definito indipendentemente dalla risoluzione" della suddetta questione di costituzionalità. Presupposto sussistente nel caso in esame dovendo la norma trovare applicazione nel caso in scrutinio.

Non di meno, con riguardo all’ulteriore profilo della non manifesta infondatezza, ritiene il Collegio che la questione sia manifestamente infondata in quanto tesa ad investire la Corte costituzionale di una questione che rientra nell’ambito che si deve ritenere riservato alla discrezionalità del legislatore.

La Corte costituzionale ha, infatti, ripetutamente avvertito che - ove questa sia investita di questioni che sollecitano l’emissione di pronunce manipolative - la decisione deve essere "a rime obbligate", ossia trovare la propria necessità costituzionale già nel tessuto normativo esistente; solo una manipolazione del testo a rime costituzionalmente obbligate consente di ritenere che la Corte costituzionale eserciti una propria prerogativa interpretativa, senza appropriarsi di prerogative di scelta riservate al legislatore.

Nel caso qui in esame, non si ravvisa l’esistenza di una risposta "a rime obbligate" non essendovi dubbi, a fronte di una pluralità di sanzioni processuali, che la scelta di una di questa, sia rimessa alla discrezionalità del legislatore.

Tale conclusione trova conforto proprio della pronuncia resa dalla Corte costituzionale nel 2017 (sentenza n. 179 del 2017) che ha dichiarato inammissibili le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 1, (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza), sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 25 Cost., e art. 27 Cost., comma 3, dal Tribunale ordinario di Ferrara, e le questioni di legittimità costituzionale del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 1, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e 11, art. 27, comma 3, e art. 117, comma 1, quest’ultimo in relazione agli artt. 4 e 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea e in relazione all’art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dal Giudice dell’udienza preliminare presso il Tribunale di Rovereto.

In tale pronuncia la Corte costituzionale, nel ricordare che le due ipotesi di reato delineate rispettivamente dall’art. 73, comma 1 e dal comma 5, sono due fattispecie autonome, come è stato riconosciuto dalla Corte di cassazione nell’esercizio del proprio compito istituzionale di interpretazione e applicazione della legge in chiave nomofilattica, ha rimarcato la diversità delle due fattispecie non del tutto omogenee e non sovrapponibili (il fatto di non lieve entità di cui al citato art. 73, comma 1, riguarda le sole droghe "pesanti", mentre il fatto di lieve entità di cui allo stesso art. 73, comma 5, si caratterizza per l’indistinzione tra i diversi tipi di droghe), situazione che pur in presenza delle rilevate differenze tra i due reati tali da non giustificare "salti sanzionatori di entità così rilevante come quello attualmente presente nei diversi commi dell’art. 73", ha, tuttavia, evidenziato che "contrariamente a quanto ritenuto dai rimettenti, a tale incongruenza può porsi rimedio attraverso una pluralità di soluzioni tutte costituzionalmente legittime. Sicché, la determinazione del minimo edittale per il fatto non lieve D.P.R. n. 309 del 1990, ex art. 73, comma 1, in misura pari al massimo edittale del fatto lieve ex art. 73, comma 5, dello stesso decreto, non costituisce l’unica soluzione in armonia con la Costituzione.

Né può ritenersi imposto, dal punto di vista costituzionale, che a continuità dell’offesa debba necessariamente corrispondere una continuità della risposta sanzionatoria. In particolare, deve rilevarsi che la tenuità o la levità del fatto possono essere (e sono) prese in considerazione dal legislatore a diverso titolo e con effetti che possono determinare spazi di discrezionalità discontinua nel trattamento sanzionatorio. Più precisamente simile discontinuità può corrispondere a una ragionevole esigenza di politica criminale volta a esprimere, attraverso un più mite trattamento sanzionatorio, una maggiore tolleranza verso i comportamenti meno lesivi e, viceversa, manifestare una più ferma severità, con sanzioni autonome più rigorose, nei confronti di condotte particolarmente lesive".

Tale conclusione non può dirsi superata dal mancato intervento legislativo e non può giustificare un nuovo intervento del Giudice delle leggi.

12. Conclusivamente la sentenza va annullata, quanto al G. , limitatamente all’aumento di pena disposto per la recidiva, e, quanto a N. , limitatamente alla riconoscibilità delle circostanze attenuanti generiche. Nel resto i ricorsi vanno rigettati.

P.Q.M.

Annulla la sentenza impugnata, quanto al G. , limitatamente all’aumento di pena disposto per la recidiva, e, quanto a N. , limitatamente alla riconoscibilità delle circostanze attenuanti generiche, e rinvia per nuovo giudizio su tali punti ad altra sezione della Corte d’appello di Brescia. Rigetta nel resto i ricorsi.