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Marijuana mai legale per assunzione umana (Cass. 33101/22)

26 settembre 2022, Cassazione penale

La commercializzazione e, dunque, anche la detenzione a fine di spaccio di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, anche se il contenuto di THC dovesse essere inferiore alle concentrazioni indicate alla L. n. 242 del 2016 (art. 4, commi 5 e 7) ed indipendentemente, ai fini della configurabilità della ipotesi delittuosa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, dal superamento o meno della dose media giornaliera: già, infatti, le Sezioni unite avevano in precedenza affermato che quel che rileva è soltanto la circostanza che la sostanza ceduta avesse effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacent.

La coltivazione di canapa, per essere legale, deve essere funzionale "esclusivamente" alla produzione di fibre o alla realizzazione di usi industriali, "diversi" da quelli relativi alla produzione di sostanze stupefacenti.

 La L. 2 dicembre 2016, n. 242 qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nei Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, per le finalità tassativamente indicate dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, attribuendo, a seguito di un ampio esame della normativa di riferimento nazionale ed Europea, appunto natura "tassativa" alle sette categorie di prodotti, ossia:

1) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori;

2) semiiavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico;

3) materiale destinato alla pratica del sovescio;

4) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia;

5) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati;

6) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonchè di ricerca da parte ci istituti pubblici o privati;

7) coltivazioni destinate al florovivaismo) elencate dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, concernenti prodotti che pessorio essere ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L., sul rilievo che detti prodotti derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato.

L destinazione fiorovivaistica consente solo la produzione e la commercializzazione di piante e parti di esse (e dunque anche i rami fioriti), per esclusivo uso ornamentale, ma non per essere destinate ad una assunzione da parte dell'uomo, rimanendo vietata, dunque, qualunque produzione o cessione al di fuori delle ipotesi previste dalle norme comunitarie e dalla L. n. 242 del 2016, art. 2.

Nell'affrontare il tema il tema delle soglie di percentuali di THC che, secondo alcuni orientamenti giurisprudenziali, costituivano il discrimine della liceità della commercializzazione dei suddetti prodotti, le Sezioni unite hanno affermato come i valori indicati dalla L. 2 dicembre 2016, n. 242, art. 4, commi 5 e 7, per la coltivazione della canapa, fossero volti a tutelare esclusivamente l'agricoltore che, pur impiegando qualità consentite, nell'ambito della filiera agroalimentare delineata dalla legge, avesse coltivato canapa che, nel corso del ciclo produttivo, contenesse, nella struttura, una percentuale di THC compresa tra lo 0,2 per cento e lo 0,6 per cento, ovvero superiore a tale limite massimo, stabilendosi, ai comma 5, che, nel caso di rispetto della forbice tra lo 0,2% e lo 0,6%, alcuna responsabilità potesse porsi a carico dell'agricoltore che avesse rispettato e prescrizioni di cui alla L. n. 242 del 2016 e, al comma 7, che - pur potendosi disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa le quali, se pure impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge, avessero presentato un contenuto di THC superiore allo 0,6 per cento - fosse esclusa, anche in tal caso, la responsabilità dell'agricoltore.

Le richiamate percentuali di THC sono erroneamente valorizzate, al fine di affermare la liceità della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 per cento ovvero allo 0,2 per cento.

 

Corte di Cassazione

Sez. III penale, Sent., (data ud. 07/06/2022) 08/09/2022, n. 33101
 
 
Sentenza

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. SARNO Giulio - Presidente -

Dott. DI NICOLA Vito - rel. Consigliere -

Dott. SOCCI Angelo Matteo - Consigliere -

Dott. CORBO Antonio - Consigliere -

Dott. MAGRO Maria B. - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposta da:

P.I., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza dei 29-01-2021 della Corte di appello di Bologna;

Visti gi atti, il provvedimento impugnato e il ricorso trattato ai sensi del D.L. n. 137 del 2020, art. 23, comma 8, con discussione orale;

udita la relazione del Consigliere Dr. Vita Di Nicola;

udita la requisitoria del Procuratore Generale, Dr. Giordano Luigi, che ha concluso per il rigetto del ricorso;

udito il difensore, avvocato EDC, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo

1. P.I. ricorre per la cassazione della sentenza emessa in data 29 gennaio 2021 con la quale la Corte d'appello di Bologna ha confermato la pronuncia resa dal Tribunale della stessa città in data 21 maggio 2020, con la quale il ricorrente è stato condannato, esclusa la recidiva, alla pena di anni uno, mesi quattro e giorni venti di reclusione ed Euro 3.600,00 di multa, previo riconoscimento della continuazione fra i reati, pena diminuita di un terzo per il rito (muovendo dalla pena base di anni due di reclusione ed Euro 4.950,00 di multa, aumentata di mesi uno ed Euro 450,00 per la continuazione con la condotta di cessione di grammi 10,9, all'acquirente A., e diminuita di un terzo per il rito). E' stata altresì disposta la confisca e distruzione dello stupefacente, la confisca della somma di Euro 80, quale prezzo della cessione e la restituzione della restante somma.

Al ricorrente è stato contestato il delitto di cui al D.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309, art. 73, comma 4, per aver detenuto a fini di spaccio:

- 385,547 grammi di hashish, di cui grammi 28,991 occultati sulla persona, grammi 10,9 ceduti all'acquirente A. dietro corrispettivo di 80 Euro, e il restante quantitativo, già suddiviso in 31 ovuli, detenuto in parte nell'auto, e in parte presso l'abitazione (grammi 66,40);

- 121,45 grammi di marijuana suddivisa in due parti, di cui una del peso di grammi 43,50 e l'altra già frazionata in 11 involucri, del peso di grammi 77,95, detenuta in auto e che l'imputato riferiva essere canapa con principio attivo sotto il limite fissato dalla legge;

- 1.305 grammi di sostanza in fiori e capsule di tipo marijuana, detenuta presso l'abitazione e che l'imputato dichiarava essere canapa con principio attivo sempre sottosoglia.

2. Il ricorso, presentato dal difensore di fiducia, è affidato a due motivi, di seguito riassunti ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p..

2.1. Con il primo motivo il ricorrente chiede sollevarsi questione pregiudiziale di rinvio alla Corte di Giustizia UE per contrasto con i regolamenti EU 1307/18 e 1308/18 e con gli artt. 34 e 36 TFUE ovvero, in subordine, chiede che la normativa nazionale (Legge 02/12/2016, n. 242) sia interpretata in conformità ai regolamenti EU 1307/18 e 1308/18 e agli artt. 34 e 36 TFUE. Osserva che la questione del rinvio pregiudiziale della causa alla Corte di giustizia UE si pone in quanto la sentenza impugnata sostiene una interpretazione della L. n. 242 del 2016 in contrasto con i regolamenti EU 1307/18 e 1308/18 e con gli artt. 34 e 36 del TFUE. Premette che il la Corte d'appello ha affermato che "il giudice di primo grado ha fatto richiamo all'autorevole orientamento della Suprema Corte a Sezioni Unite che ha sottolineato come la citata L. n. 246 del 2016 non ponga solo un limite quantitativo alla commercializzazione dei derivati dalla canapa, individuato nella percentuale massima di THC consentita, ma ha altresì posto un limite qualitativo che riguarda cioè il tipo di prodotti che possono essere legittimamente ottenuti dalla coltivazione della cannabis, sulla base dell'elenco, a carattere tassativo, di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2. Ne consegue che la commercializzazione di derivati diversi da quelli indicati dalla norma continua ad essere penalmente rilevante e sottoposto alla disciplina del D.P.R. n. 309 del 1990; in particolare proprio perchè le foglie e le infiorescenze di cannabis non sono espressamente ricomprese nell'elenco, la loro detenzione ai fini di commercializzazione da parte del ricorrente ha rilevanza penale e non assume alcun rilievo il fatto della quantità di THC: contenuta nella sostanza sequestrata, poichè le condotte in considerazione sono estranee all'ambito di operatività della norma".

Tuttavia, a tal proposito, il ricorrente richiama la sentenza della Corte di giustizia dell'Unione Europea del 19 novembre 2020 causa Euro 663-18 la quale, a suo avviso, ricostruisce la disciplina Europea legata alla canapa da fibra e i suoi rapporti con le normative e gli obblighi derivanti dalle convenzioni internazionali in tema di stupefacenti.

Ricorda come la Corte di Giustizia abbia dapprima analizzato le disposizioni internazionali in materia doganale di cui alla Organizzazione mondiale delle Dogane (d'ora in poi, OMD) e al sistema armonizzato (d'ora in poi, SA) di definizioni di cui alle convenzioni internazionali che istituiscono un Consiglio di organizzazione mondiale delle dogane e istituiscono il sistema armonizzato di designazione e codificazione delle merci concluse a Bruxelles rispettivamente il 15 dicembre 1950 e il 14 giugno 1983 e recepite dalla decisione 87/369/Cee del Consiglio del 7 aprile 1987 nel diritto Europeo.

Tal, definizioni sono relative anche alla canapa ed anche segnatamente alla "canapa greggia, come proviene dal raccolto, anche se sgranata".

Successivamente, la Corte di Giustizia ha proceduto ad esaminare le disposizioni di cui alla Convenzione Unica sugli stupefacenti siglata a New York nel 1961 che dispone all'art. 1 lettera b) che il termine cannabis indica le sommità fiorite o fruttifere della pianta di cannabis (esclusi i semi e le foglie che non siano uniti agli apici), la cui resina non sia stata estratta, qualunque sia la loro appicazione e che l'elenco degli stupefacenti di cui alla tabella I ricomprende la cannabis, la resina di cannabis, gli estratti e le tinture di cannabis, precisando come a Convenzione sulle sostanze psicotrope conclusa a Vienna il 21 febbraio 1971 ricomprenda altresì la cannabis tra le sostanze psicotrope ed analizzando poi il contesto del diritto Europeo e della decisione quadro 2004/757/GAI nonchè i regolamenti 1307/15 e 1308/15 in materia di politiche agricole comunitarie.

Quanto a questi ultimi, il Regolamento 1307/13 recante norme sui pagamenti diretti agli agricoltori nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune, all'art. 32, par. 6, dispone che "Le superfici utilizzate per la produzione di canapa (cannabis sativa L.) sono ettari ammissibili solo se il tenore di tetraidrocannabinolo delle varietà coltivate non supera lo 0,2%". L'art. 35, comma 3, ha poi subordinato il pagamento dei contributi all'uso di sementi certificate di varietà di canapa entro lo 0.2% di THC. Il ricorrente osserva come il Regolamento 1308/17 abbia istituito un'organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli, tra cui "lino e canapa", quest'ultima definita come "canapa greggia, come proviene dal raccolto, anche se sgranatà secondo le note esplicative del SA, senza distinzioni tra parti della pianta di canapa sativa L. nella normativa comunitaria trovandosi ciò perfettamente in linea con la ratio della Convenzione Unica e delle normative sugli stupefacenti dei degli Stati Membri dell'Unione Europea.

A livello comunitario, poi, il TFUE (Trattato sul Funzionamento dell'Unione Europea), nell'allegato I, ha elencato alla lettera a) i prodotti agricoli cui si applicano le disposizioni del medesimo Trattato, tra cui la "canapa greggia, macerata, stigliata, pettinata o altrimenti preparata, ma non filata".

Pertanto, la canapa, a livello comunitario, è stata qualificata come prodotto agricolo e come "pianta industriale" ai sensi del Reg. Ue n. 220/15.

Ne momento in cui la canapa è stata qualificata come prodotto agricolo nel TFUE ed è stata istituita una apposita organizzazione del mercato comune, in ultimo con i Reg. n. 1307/2013 e n. 1308/2013, la Corte di Giustizia, con la sentenza del 19 novembre 2020 C.663/18, ha ribadito come ogni valutazione circa le problematiche attinenti alla salute pubblica, riguardo la cannabis sativa L, fosse già stata eseguita dall'Unione Europea.

Ad avviso del ricorrente, non si rinviene pertanto alcun tipo di distinzione tra le parti della pianta nè alcuna esclusione di fiori, foglie, olio e resina se derivate da tali varietà, per cui non sarebbe condivisibile l'assunto della sentenza impugnata che richiama la pronuncia n. 30475/19 delle Sezioni Unte che, in ordine a tali parti della pianta, prevede un divieto assoluto di commercializzazione ritenendole estranee al disposto della L. n. 242 del 2016.

Il ricorrente comunque obietta che, se così fosse, il diritto interno si porrebbe in contrasto con il diritto Europeo non essendo condivisibile l'assunto per cui tali valori di principio attivo della L. n. 242 del 2016 sarebbero validi sul campo ma non per la commercializzazione o per i prodotti derivati.

Osserva il ricorrente come alcuni dei prodotti, per cui si procede al capo secondo e terzo di imputazione, abbiano un principio attivo pari o inferiore allo 0,2 ma la Corte d'appello ha ritenuto che essi abbiano efficacia stupefacente e fuoriescano perciò dalla normativa italiana di cui alla L. n. 242 del 2016.

In tal modo però verrebbero ignorati i dati processuali, come le certificazioni delle sementi, usate per la coltivazione, conformi alla normativa italiana ed Europea ed il fatto che la percentuale di THC sarebbe quella per cui l'Unione Europea, in ordine a tali prodotti agricoli, avrebbe già compiuto le più opportune valutazioni in tema di salute.

Per queste ragioni, il ricorrente insta per il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia Europea laddove si ritenga che foglie, infiorescenze, olio e resine di cui alle varietà di cannabis sativa L. previste dalla L. n. 242 del 2016 e dai Regolamenti Europee e successive direttive (art. 17 Dir. Consiglio EU 2002/57/CE e Direttiva EU 2002/53/CE) non siano liberamente commerciabili, in quanto tale interpretazione, ad avviso del ricorrente, violerebbe i Regolamenti sopra citati e si porrebbe altresì in contrasto con gli artt. 34 e 36 TFUE imponendo una restrizione a prodotti analoghi leciti coltivati e commercializzati in altri stati membri.

Precisa che il rinvio, tuttavia, non sarebbe necessario laddove la Corte ritenga invece che anche foglie, olio, resine e infiorescenze, se derivate da tali varietà di sementi e con un tenore pari allo 0,2% di THC, siano liberamente commercializzabili, derivando da ciò il conseguente annullamento della sentenza impugnata in parte qua.

2.2. Con il secondo motivo, il ricorrente lamenta l'inosservanza o l'erronea applicazione della legge penale o di altre norme giuridiche di cui si deve tener conto nell'applicazione della legge penale per violazione del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 4 e correlativamente per aver escluso l'applicabilità della L. n. 242 del 2016 alle condotte di detenzione al fine di cessione a terzi della sostanza stupefacente di tipo marijuana di cui al capo di imputazione (art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b).

Il ricorrente sostiene che l'impugnata sentenza, nell'escludere l'applicazione della L. n. 242 del 2016 alle condotte di detenzione al fine di cessione a terzi di sostanza marijuana di cui al capo di imputazione, facendole così rientrare nel D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 4, limiti in maniera eccessiva e, al di fuori dei dettami normativi, l'ambito di operatività di detta legge e dunque erroneamente applichi le disposizioni penali del Testo Unico sugli Stupefacenti.

La Corte d'appello, secondo l'assunto del ricorrente, riprenderebbe infatti pedissequamente l'argomentazione seguita dalle Sezioni Unite Penali della Corte di Cassazione nella sentenza Castignani (n. 30475 del 30.05.2019,) in tema di commercializzazione dei derivati della coltura di cannabis, pervenendo a una lettura rescrittiva della destinazione a uso di florovivaismo della canapa ex L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, lett. g).

Il ricorrente - nel precisare che l'oggetto del presente ricorso riguarda esclusivamente la condotta di detenzione al fine di cessione a terzi della sostanza definita marijuana nel capo d'imputazione (condotte di cui ai punti secondo a terzo), escludendosi dunque qualsiasi doglianza con riferimento alla sostanza hashish - chiarisce che il contenuto della censura riguarda la sostanza vegetale rinvenuta sull'auto, pari a 121,45 gr. netti suddivisi in due parti di rispettivamente 43,5 gr. e 11 involucri di 77,95 gr. totali, nonchè riguarda la sostanza ritrovata nell'abitazione dell'imputato, di 1.305 gr. netti sotto forma di fiori e capsule.

Ribadendo le argomentazioni già sollevate nelle fasi di merito concernenti la tipoiogia di vegetale sequestrato, il ricorrente osserva che, come richiesto dalla L. n. 242 del 2016, art. 1, comma 2, le sementi, da cui la sostanza deriva, rientrano tutte nel catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole di cui all'art. 17 del a Direttiva 2002/53/CE del Consiglio del 13 giugno 2002, di cui l'imputato ha prodotto le certificazioni.

Ne consegue che le condotte contestate in parte qua non sarebbero sussumibili nella detenzione a fine di spaccio, bensì andrebbero lette in termini di commercializzazione ad uso florovivaistico conseguente ad attività di lecita coltivazione di canapa da fibra ai sensi della L. n. 242 del 2016.

Osserva che soltanto una visione complessiva dell'intervento normativo sul punto permette di rivalutare i termini della questione in senso ampliativo.

Infatti, dopo aver proceduto ad una ampia interpretazione della legge del 2016 in relazione alla ratio che la sostiene, il ricorrente osserva come l'attività di florovivaismo non riguardi soltanto le piante, bensì i vegetali che consistono in piante, parti di piante (inclusi fiori recisi e foglie) e sementi.

Appare pertanto evidente come il dettato normativo sia estremamente ampio a ivelio definitorio e non preveda limitazioni alle operazioni che possono essere compiute in ambito florovivaistico per assicurare la crescita, la riproduzione o la moltipicazione dei vegetali.

Appare pertanto incomprensibile al ricorrente come la Corte d'appello abbia riconosciuto che la L. n. 246 del 2016, art. 2, lett. G), abbia ammesso la finalità dei florovivaismo, salvo affermare poi che tale attività possa consentire solo la produzione e la commercializzazione di piante e di parte di esse (e dunque anche i rami fioriti) per esclusivo uso ornamentale, ma non per essere destinate ad una assunzione da parte dell'uomo.

Parimenti incomprensibile sarebbe la conclusione secondo la quale i prodotti di cui capo secondo e terzo siano stati esclusi dal novero dei prodotti leciti ai sensi della L. n. 242 del 2016, che prevede un tenore di THC inferiore allo 0.6%.

Osserva che, nel caso di specie, buona parte della sostanza rinvenuta attestava un livello di principio attivo al di sotto della soglia di 0,2% per un totale di 242,5325 grammi netti di canapa, su un totale di sostanza sequestrata pari a 2.536,7584 grammi.

Le analisi tecniche sul quantitativo restante di vegetale, pari complessivamente a 1.055,8467 grammi netti, documentavano una percentuale di principio attivo al di sotto del limite soglia di 0,6%. Sul reperto n. 8, inoltre, di 173,6213 grammi netti, non sarebbe stato rintracciato alcun residuo di THC. Il ricorrente sottolinea come, oltre e prima della L. n. 242 del 2016, la giurisprudenza di legittimità avesse costantemente ritenuto che la quantità di THC di 0,5% del vegetale fosse priva di qualsivoglia effetto drogante e, per inoffensività in concreto, non penalmente rilevante.

Rileva come i Giudici di primo e secondo grado abbiano affermato la responsabilità del ricorrente in ordine alla detenzione di cd. marijuana per spaccio, escludendo in radice la destinazione per attività di florovivaismo, meramente sulla base delle affermazioni del Sig. A..

Ritiene pertanto che sussistano tutti gli elementi per una corretta riqualificazione della condotta, limitatamente alla marijuana, in ragione del rispetto di tutti i parametri di cui alla L. n. 242 del 2016.
Motivi della decisione
1. Il ricorso è inammissibile sulla base delle seguenti considerazioni.

2. Con accertamento di fatto, adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, insuscettibile, come tale, di sindacato in sede di giudizio di legittimità, i giudici di merito, con doppia e conforme pronuncia, hanno ricostruito i fatti nel seguente modo.

La mattina del 18 aprile 2020, a seguito di un servizio di prevenzione e contrasto del fenomeno dello spaccio delle sostanze stupefacenti intrapreso nella zona circostante la cineteca, ove si stava svolgendo il mercato settimanale contadino, i carabinieri di Bologna notavano giungere il cittadino egiziano, tale A.M.G.E., il quale si posizionava vicino al cancello di ingresso del mercato, effettuava una telefonata e, subito dopo, veniva raggiunto dal ricorrente.

Entrambi si appartavano in prossimità di un mezzo parcheggiato nelle vicinanze dell'ingresso del mercato e, dopo una breve scambio di battute, si passavano qualcosa per poi separarsi rapidamente.

I carabinieri, ritenendo essere avvenuta una cessione di stupefacente, fermavano e controllavano il cittadino egiziano il quale spontaneamente consegnava un involucro di carta contenente un ovulo di sostanza stupefacente di tipo hashish per un peso di circa 10,9 grammi.

Le stesso riferiva di avere ricevuto la sostanza da un cittadino italiano che aveva incontrato per la prima volta quel giorno e che aveva contattato sul numero di telefono che gli era stato fornito da un connazionale. Eseguita una individuazione fotografica, riconosceva nella fotografia di P.I. il soggetto che gli aveva ceduto l'hashish.

I carabinieri procedevano pertanto a rintracciare il P. che veniva sottoposto a perquisizione personale.

In possesso dello stesso, venivano rinvenuti due involucri, l'uno detenuto nella tasca sinistra della camicia e l'altro nella tasca dei pantaloni; all'interno erano contenuti ovuli di sostanza di tipo hashish simili a quello ceduto all'acquirente egiziano, per un peso complessivo di 28,2 grammi. Erano, tra l'altro, rinvenuti due telefoni cellulari, uno dei quali si accertava essere quello usato per i contatti con l'acquirente egiziano.

La perquisizione era estesa all'auto del ricorrente, con esito positivo, in quanto erano rinvenute tre buste contenenti complessivi 30 ovuli di hashish per un peso totale ci Grammi 333,56. Nell'auto vi erano poi una busta termosaldata, e vari involucri di diverso peso, contenenti complessivi 121,100 grammi di sostanza che il ricorrente sosteneva essere fiori di canapa con livello di THC inferiore ai limiti di legge.

I carabinieri procedevano infine a perquisizione domiciliare; presso l'abitazione dell'imputato venivano rinvenuti strumenti per pesare e confezionare lo stupefacente, fra cui un bilancino di precisione. Era altresì rinvenuto altro hashish suddiviso in sei ovuli per un peso di ulteriori 66,40 grammi nonchè sostanza di tipo marijuana, suddivisa in numerose buste, per un peso totale di Kg. 1,383 che il P. sosteneva trattarsi di canapa con THC inferiore ai limiti di legge e che lo stesso specificava di vendere, nel rispetto della legge, attraverso il marcht (OMISSIS).

La perizia tossicologica sullo stupefacente in sequestro accertava che:

- quanto all'hashish si trattava di complessivi grammi 385, 4, di cui 39 ovuli contenenti un principio attivo del 33,76% con idoneità a ricavare 5.073,3 dosi medie singole e il restante ovulo contenente un principio attivo della 34,16% con idoneità a ricavare 132,7 dosi medie singole;

- quanto alla marijuana si trattava di 1.471,98 grammi suddivisi in parte in capsule e in parte in bustine. In 11 bustine era contenuta sostanza per grammi 51,94 con un principio attivo di 0,59% e idoneità ricavare 12,2 dosi medie singole; in tre bustine contenenti 51,94 grammi di marijuana il principio attivo è pari a 0,64% con idoneità a ricavare 25,5 dosi medie singole; in altre quattro bustine contenenti grammi 144,5 il principio attivo è pari a 0,25% con idoneità a ricavare 14,4 dosi medie singole; nelle ultime due bustine contenenti grammi 7,3 il principio attivo è pari a 0,56% con idoneità a ricavare 1,6 dosi medie singole.

La sostanza detenuta invece in capsule era pari a grammi 269,66, di cui solo grammi 96,04 aveva effettiva capacità drogante, contendendo un principio attivo pari a 3,22% con idoneità a ricavare 8,4 dosi medie singole.

In sede di giudizio di convalida dell'arresto, l'imputato ammetteva la cessione dell'hashish al cittadino egiziano, dichiarando di averlo fatto per rendere un favore ac un amico.

Per quanto riguardava il restante quantitativo di hashish, affermava che era destinato in parte ad un uso personale, asserendo di essere un consumatore, e in parte ad un consumo di gruppo con terzi, di cui non aveva tuttavia indicato i nomi.

Per quanto riguardava la sostanza di tipo marijuana, l'imputato riferiva trattarsi di sostanza legalmente commerciabile alla luce della L. 2 dicembre 2016, n. 242 (Disposizioni per la promozione della coltivazione e della filiera agroindustriale della canapa), in quanto contenente principio attivo inferiore ai limiti fissati dalla legge e documentava di essere titolare della ditta (OMISSIS) che si occupava della coltivazione e commercializzazione di piante e infiorescenze di cannabis sativa, che venivano periodicamente sottoposte a controlli su campionatura da parte dei carabinieri.

3. Ciò precisato, la Corte di appello, dopo aver ripercorso gli approdi ai quali è pervenuta la giurisprudenza di legittimità sulla commercializzazione della cannabis sativa L., ha richiamato, in particolare, il principio di diritto espresso dalle Sezioni unite della Corte, secondo il quale, in tema di stupefacenti, la cessione, la vendita e, in genere, la commercializzazione al pubblico dei derivati della coltivazione di cannabis sativa L., quali foglie, inflorescenze, olio e resina, integrano il reato di cui all'art. 73, T.U. STUP, anche a fronte di un contenuto di THC inferiore ai valori indicati dalla L. 2 dicembre 2016, n. 242, art. 4, commi 5 e 7, salvo che tali derivati siano, in concreto, privi di ogni efficacia drogante o psicotropa, secondo il principio di offensività (Sez. U, n. 30475 del 30/05/2019, Castignani, Rv. 275956).

In aliena sostanza, la Corte ha precisato che la L. 2 dicembre 2016, n. 242, qualifica come lecita unicamente l'attività di coltivazione di canapa delle varietà iscritte nei Catalogo comune delle varietà delle specie di piante agricole, ai sensi dell'art. 17 della direttiva 2002/53/CE del Consiglio, del 13 giugno 2002, per le finalità tassativamente indicate dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, attribuendo, a seguito di un ampio esame della normativa di riferimento nazionale ed Europea, appunto natura "tassativa" alle sette categorie di prodotti (ossia a: 1) alimenti e cosmetici prodotti esclusivamente nel rispetto delle discipline dei rispettivi settori; 2) semiiavorati, quali fibra, canapulo, polveri, cippato, oli o carburanti, per forniture alle industrie e alle attività artigianali di diversi settori, compreso quello energetico; 3) materiale destinato alla pratica del sovescio; 4) materiale organico destinato ai lavori di bioingegneria o prodotti utili per la bioedilizia; 5) materiale finalizzato alla fitodepurazione per la bonifica di siti inquinati; 6) coltivazioni dedicate alle attività didattiche e dimostrative nonchè di ricerca da parte ci istituti pubblici o privati; 7) coltivazioni destinate al florovivaismo) elencate dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, concernenti prodotti che pessorio essere ottenuti dalla coltivazione agroindustriale di cannabis sativa L., sul rilievo che detti prodotti derivano da una coltivazione che risulta consentita solo in via di eccezione, rispetto al generale divieto di coltivazione della cannabis, penalmente sanzionato.

Nel pervenire a tale conclusione, la Corte ha osservato che la stessa disposizione derogatoria, di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 26, comma 2, nel delimitare l'ambito applicativo della richiamata eccezione, in cui si colloca l'intervento normativo del 2016, si riferisce espressamente alla finalità della coltivazione, che deve essere funzionale "esclusivamente" alla produzione di fibre o alla realizzazione di usi industriali, "diversi" da quelli relativi alla produzione di sostanze stupefacenti.

Nell'affrontare poi il tema il tema delle soglie di percentuali di THC che, secondo alcuni orientamenti giurisprudenziali, costituivano il discrimine della liceità della commercializzazione dei suddetti prodotti, le Sezioni unite hanno affermato come i valori indicati dalla L. 2 dicembre 2016, n. 242, art. 4, commi 5 e 7, per la coltivazione della canapa, fossero volti a tutelare esclusivamente l'agricoltore che, pur impiegando qualità consentite, nell'ambito della filiera agroalimentare delineata dalla legge, avesse coltivato canapa che, nel corso del ciclo produttivo, contenesse, nella struttura, una percentuale di THC compresa tra lo 0,2 per cento e lo 0,6 per cento, ovvero superiore a tale limite massimo, stabilendosi, ai comma 5, che, nel caso di rispetto della forbice tra lo 0,2% e lo 0,6%, alcuna responsabilità potesse porsi a carico dell'agricoltore che avesse rispettato e prescrizioni di cui alla L. n. 242 del 2016 e, al comma 7, che - pur potendosi disporre il sequestro o la distruzione delle coltivazioni di canapa le quali, se pure impiantate nel rispetto delle disposizioni stabilite dalla legge, avessero presentato un contenuto di THC superiore allo 0,6 per cento - fosse esclusa, anche in tal caso, la responsabilità dell'agricoltore.

Sulla base di ciò, dunque, le Sezioni unite hanno affermato che le richiamate percentuali di THC sono state erroneamente valorizzate, al fine di affermare la liceità della commercializzazione dei derivati dalla coltivazione della cannabis sativa L., ove contenenti percentuali inferiori allo 0,6 per cento ovvero allo 0,2 per cento.

Ne consegue che, contrariamente all'assunto del ricorrente, la commercializzazione (e, dunque, anche la detenzione a fine di spaccio) di cannabis sativa L. o dei suoi derivati, diversi da quelli elencati dalla legge del 2016, integra il reato di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, commi 1 e 4, anche se il contenuto di THC dovesse essere inferiore alle concentrazioni indicate alla L. n. 242 del 2016 (art. 4, commi 5 e 7) ed indipendentemente, ai fini della configurabilità della ipotesi delittuosa di cui al D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, dal superamento o meno della dose media giornaliera: già, infatti, le Sezioni unite avevano in precedenza affermato che quel che rileva è soltanto la circostanza che la sostanza ceduta avesse effetto drogante per la singola assunzione dello stupefacente (Sez. U, n. 47472 del 29/11/2007, Di Rocco, Rv. 237856), essendo, quindi, indispensabile che il giudice di merito verificasse la concreta offensività della condotta, riferita alla idoneità della sostanza a produrre un effetto drogante (Sez. U, n. 28605 del 24/04/2C08, Di Salvia, Rv. 239920).

4. Passando ora all'esame del primo motivo di ricorso, la Corte osserva come la sentenza della Corte di Giustizia dell'Unione Europea del 19 novembre 2020 nella causa C-663/18 non collide, diversamente da quanto opina il ricorrente, con i principi espressi dalle Sezioni unite Castignani, in quanto la decisione Europea si limita ad affermare che "gli artt. 34 e 36 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che vieta la commercializzazione del cannabidiolo (CBD) legalmente prodotto in un altro Stato membro, qualora sia estratto dalla pianta di Cannabis sativa nella sua interezza e non soltanto dalle sue fibre e dai suoi semi, a meno che tale normativa sia idonea a garantire la realizzazione dell'obiettivo della tutela della salute pubblica e non ecceda quanto necessario per il suo raggiungimento", sottolineando che "il regolamento (UE) n. 1307/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, recante norme sui pagamenti diretti agli agricoltori nell'ambito dei regimi di sostegno previsti dalla politica agricola comune e che abroga il regolamento (CE) n. 617/2008 del Consiglio e il regolamento (CE) n. 73/2009 del Consiglio, e il regolarento (UE) n. 1308/2013 del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 17 dicembre 2013, recante organizzazione comune dei mercati dei prodotti agricoli e che abroga i regolamenti (CEE) n. 922/72, (CEE) n. 234/79, (CE) n. 1037/2001 e (CE) n. 1234/2007 del Consiglio, devono essere interpretati nel senso che non si applicano a una siffatta normativa".

La decisione della Corte Europea fa, quindi, salva la persistenza di divieti finalizzati alla tutela della salute pubblica ("gli artt. 34 e 36 TFUE devono essere interpretati nel senso che ostano a una normativa nazionale che vieta la commercializzazione del cannabidiolo (CBD) legalmente prodotto in un altro Stato membro (...) a meno che tale normativa sia idonea a garantire la realizzazione dell'obiettivo della tutela della salute pubblica e non ecceda quanto necessario per il suo raggiungimento").

E non vi è dubbio che tra i divieti finalizzati alla tutela della salute pubblica si annoverano quelli penalmente sanzionati dal D.P.R. n. 309 del 1990, il che significa che si applica la disciplina penale in materia di sostanze stupefacenti ogniqualvolta si ecceda dai limiti e dalle finalità di cui alla L. n. 242 del 2016 (come nel caso di specie in cui, con accertamento di fatto adeguatamente e logicamente motivato, i civaici di merito, con doppia e conforme pronuncia, hanno ritenuto che anche lo stupefacente de quo - ossia la marijuana rinvenuta a casa e nell'autovettura dell'imputato - fosse detenuto per fini di spaccio, sul fondamentale rilievo che anche ia documentazione prodotta dalla difesa rimandava ad una pratica di vendita finalizzata al consumo spicciolo o al dettaglio, tanto che la sostanza era destinata ad una commercializzazione disallineata rispetto agli scopi tassativamente individuati dal richiamato elenco di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 2 ed a nulla rilevando l'effettiva quantità di THC contenuta nella droga repertata, essendo tute le condotte in contestazione estranee all'ambito di operatività di detta legge e non applicandosi pertanto la clausola di esclusione della responsabilità ivi prevista per il coltivatore. Del resto, gli esiti degli accertamenti chimici hanno univocamente deposto per una efficace drogante della sostanza stupefacente).

In altri termini, la sentenza della Corte Europea indicata dal ricorrente non ha inciso sulla normativa nazionale, avente rilievo penale, in materia di sostanze stupefacenti (Sez. 4, n. 10012 del 25/02/2021, Diaz, non mass.).

Va aggiunto che i Giudici Europei chiariscono, con la richiamata pronuncia, che i cannabidiolo (d'ora in poi CBD) non è una sostanza stupefacente, dal momento che non è contemplato nè dalla Single Convention (d'ora in poi SC), nè dall'azione comune 97/396 (alle quali fa riferimento l'art. 1, punto 1) m lett. b) della decisione quadro 2004/757), cosicchè la pronuncia parte dal presupposto che, sulla base delle attuali conoscenze scientifiche, il CBD (e, quindi, non le sostanze che contengono, come nella specie, THC) non contiene principi psicoattivi per cui sarebbe contrario all'obiettivo ed alla ratio della SC includere il CBC tra gli stupefacenti in quanto estratto dalla cannabis.

Tant'è che nessuna legislazione degli Stati Membri ha mai ritenuto che il CBD di sintesi fosse uno stupefacente (in linea, per quanto attiene alla normativa nazionale, Sez. 6, n. 10645 del 03/02/2022, Bruch, Rv. 283004 - 01), apparendo perciò incomprensibile ai Giudici Europei come la medesima sostanza chimica, o meglio la medesima molecola, potesse essere stupefacente o meno in base al metodo ci produzione.

Su queste basi, non essendo il CBD uno stupefacente, i Giudici Europei hanno concluso che ad esso non possono applicarsi gli artt. 34 e 36 del TFUE, ossia delle norme inerenti al divieto di restrizioni quantitative tra gli scambi commerciali nei MS. Ne consegue che il CBD di cui tratta la sentenza della Corte di Europea è un componente chimico della cannabis che pacificamente non ha effetti stupefacenti, a differenza del THC (cfr. Sez. 4, n. 10012 del 25/02/2021, Diaz, cit.; Sez. 4, n. 18371 del 29/04/2021, Fiorentino, non mass. sul punto; Sez. 6, n. 10645 del 3/02/2022, cit.), sicchè anche sotto questo profilo la sentenza citata non ha effettiva incidenza sulla concreta fattispecie di che trattasi.

5. Sulla base delle precedenti considerazioni, in presenza di una manifesta infondatezza della questione, la quale non è neppure pertinente rispetto all'oggetto e al contenuto della richiamata sentenza del 19 novembre 2020, non vi è ragione per rimettere alla Corte di Giustizia Europea la questione pregiudiziale che il ricorrente chiede alla Corte di sollevare.

A questo proposito, va ricordato - quanto all'obbligo di rinvio, di cui all'art. 267, comma 3, TFUE che si riferisce al giudice di ultima istanza - come la Corte di giustizia, nel valorizzare il suo rapporto di cooperazione, anzichè di sovraordinazione, con il giudice nazionale, abbia affermato, interpretando l'art. 267, comma 3, TFUE, che tale obbligo non è assoluto, poichè può venire meno in presenza di determinate condizioni, individuate in funzione delle caratteristiche proprie dei diritto dell'Unione, delle particolari difficoltà che la sua interpretazione presenta e del rischio di orientamenti divergenti nella giurisprudenza all'interno dell'Unione.

Ne consegue che il rinvio pregiudiziale della causa alla Corte di Giustizia delle Comunità Europee, ai sensi dell'art. 234 del Trattato C.E., presuppone: che la questione interpretativa riguardi norme comunitarie, che la stessa sia rilevante ai fini della decisione e che sussistano effettivi dubbi sulla interpretazione, essendo il rinvio non obbligato quando l'interpretazione della norma sia evidente o il senso della stessa sia già stato chiarito da precedenti pronunce della Corte di Lussemburgo.

Su questa scia, in base ai criteri delineati dalla Corte di Giustizia nella nota sentenza Cilfit, la giurisprudenza di legittimità ha affermato che l'obbligo di rimettere in via pregiudiziale le questioni relative all'interpretazione delle norme comunitarie alla Corte di giustizia non sussiste allorchè il giudice nazionale abbia constatato, come nel caso di specie, che la questione non è pertinente, la disposizione comunitaria abbia già costituito oggetto di interpretazione e la corretta applicazione del diritto comunitario, come nella specie, si imponga con tale evidenza da non lasciar adito a ragionevoli dubbi (Sez. 4, n. 34753 del 17/05/2C12, Preziosi, Rv. 253491 - 01).

E' anche utile ricordare come non vi sia alcuna esigenza per gli organi giurisdizionali, in generale, di rivolgersi alla Corte di Giustizia se la questione di interpretazione dei diritto dell'Unione non sia, come nella specie, rilevante o se non possa in alcun modo influenzare l'esito della controversia.

Con specifico riferimento poi al giudice di ultima istanza, la Corte di Giustizia, anche recentemente nella sua più autorevole composizione, non ha mancato di precisare, confermando i precedenti approdi, che l'art. 267 TFUE deve essere interpretato nel senso che un giudice nazionale avverso le cui decisioni non possa proporsi ricorso giurisdizionale di diritto interno deve adempiere il proprio obbligo di sotoporre alla Corte una questione relativa all'interpretazione del diritto dell'Unione sollevata dinanzi ad esso, a meno che constati che tale questione non è rilevante o che la disposizione di diritto dell'Unione di cui trattasi è già stata oggetto d'interpretazione da parte della Corte o che la corretta interpretazione del diritto cell'Unione si impone con tale evidenza da non lasciare adito a ragionevoli dubbi (sentenza Grande Sezione, 6 ottobre 2021 nella causa CS561/19, Consorzio Italian Management, Catania Multiservizi SpA contro Rete Ferroviaria Italiana SpA).

Ne deriva come il primo motivo sia inammissibile per manifesta infondatezza e come, in presenza di una questione non rilevante per le ragioni in precedenza espresse, non si ravvisi perciò l'obbligo del Giudice di ultima istanza di sollevare il rinvio pregiudiziale alla Corte di Giustizia della Comunità Europea.

6. Passando ad esaminare il secondo motivo di ricorso, la Corte di merito, con congrua e logica motivazione, ha escluso che le infiorescenze di canapa possano rientrare nell'ambito delle coltivazioni destinate al florovivaismo, come sostenuto con l'atto di impugnazione.

Ne prevenire a tale conclusione, la Corte territoriale si è attenuta ai principi affermati dalle Sezioni unite Castignani, le quali hanno sottolineato che, sebbene l'art. 2, lettera g), della L. n. 242 del 2016 espressamente prevede la destinazione fiorovivaistica, nondimeno tale disposizione (tenendo conto della ratio legis) consente solo la produzione e la commercializzazione di piante e parti di esse (e dunque anche i rami fioriti), per esclusivo uso ornamentale, ma non per essere destinate ad una assunzione da parte dell'uomo, rimanendo vietata, dunque, qualunque produzione o cessione al di fuori delle ipotesi previste dalle norme comunitarie e dalla L. n. 242 del 2016, art. 2.

A tale proposito la Corte di appello - con accertamento di fatto adeguatamente motivato e privo di vizi di manifesta illogicità, insuscettibile pertanto si sindacato in sede di giudizio di legittimità - ha desunto la destinazione all'assunzione dell'uomo della sostanza sequestrata dalla valutazione complessiva dei fatti che hanno portato al sequestro dello stupefacente.

L'evidente destinazione alla commercializzazione è stata, infatti, desunta dal dato quantitativo, di oltre 1400 grammi, dalle modalità di detezione (suddivisione in una pluralità di confezioni con etichettatura indicante i diversi quantitativi), dall'accertata cessione (intervenuta nella zona del mercato settimanale contadino, che ha offerto l'occasione per procedere alla perquisizione personale, locale e domiciliare dell'imputato che dava esisto positivo consentendo il ritrovamento di altro stupefacente).

Sul punto, peraltro, lo stesso imputato ha ammesso di commercializzare le foglie e le infiorescenze sequestrategli, pur sostenendone la liceità, poichè contenenti un livello di THC inferiore ai limiti di legge.

Ma anche tale specifico profilo, è risultato irrilevante al fine di escludere la illiceità della condotta, avendo la Corte distrettuale richiamato le disposizioni di cui alla L. n. 242 del 2016, art. 4, commi 5 e 7, sottolineando come nel caso di specie la marijuana sequestrata contenesse una percentuale di principio attivo inferiore allo 0,6% (con eccezione di una sola modesta quantità di 51,4 grammi ove l'analisi tossicologica individuava un THC di 0,64% pur sempre assai prossimo al valore soglia indicato dalla norma), e come ciò non avesse alcuna incidenza nella valutazione del caso in esame, posto che la specifica attività dell'imputato non rientrava nella coltivazione agroindustriale della canapa per la realizzazione lecita di uno dei prodotti elencati dalla L. n. 242 del 2016, art. 2, comma 2, ma riguardava esclusivamente la commercializzazione dei derivati, ossia infiorescenze e foglie, che costituisce reato penalmente rilevante ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 73, comma 4, essendo stato accertato, anche attraverso gli esami tossicologici, che il principio attivo contenuto nello stupefacente di tipo marijuana sequestrato all'imputato, fosse in quantità tale da produrre, comunque, in concreto un effetto drogante.

L'accertamento tossicologico ha, infatti, consentito di rilevare la presenza, nei diversi reperti sequestrati, di principio attivo, in percentuali diverse - dal 0,64% al 59%, 56%, al 0,25 e allo 0,22% - ma tutti con idoneità a ricavare dosi medie singole che complessivamente sono state conteggiate in circa 60.

Ne consegue l'inammissibilità, per manifesta infondatezza, anche del secondo motivo di ricorso.

7. Sulla base delle precedenti considerazioni, la Corte ritiene, pertanto, che il ricorso debba essere dichiarato inammissibile, con conseguente onere per il ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., di sostenere le spese del procedimento.

Non essendovi ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato versando in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità, il ricorrente non può essere condannato al versamento di somme in favore della Cassa delle Ammende.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Conclusione
Così deciso in Roma, il 7 giugno 2022.

Depositato in Cancelleria il 8 settembre 2022