Home
Lo studio
Risorse
Contatti
Lo studio

Decisioni

Maltrattamenti sono reato abituale (Cass. 18175/18)

24 aprile 2018, Cassazione penale

Per accertare il reato di maltrattamenti in famiglia, ai fini dell’attendibilità della persona offesa non rileva che la vittima si sia determinata a riprendere la convivenza dopo poco tempo, nella speranza di un cambiamento dell’atteggiamento del compagno e di ricomporre il nucleo familiare, trattandosi di dinamiche frequenti e di motivazioni apprezzabili.

Nel reato permanente  l’azione è unica ed assume autonoma valenza antigiuridica fin dal primo atto della sua esecuzione, e protraendosi nel tempo, assume la qualità di condotta permanente: il luogo del commesso reato ai fini della determinazione della competenza è quindi quello in cui l’azione diviene complessivamente riconoscibile e qualificabile come maltrattamento, e si identifica nel luogo in cui la condotta viene consumata all’atto della presentazione della denuncia.

Nel reato abituale si è invece in presenza di singole condotte, da sole non idonee ad integrare quel determinato reato, che perdono la loro individualità come percosse, minacce, o quali condotte non rilevanti penalmente, per assumere la diversa configurazione giuridica per effetto della reiterazione.

L’antigiuridicità delle condotte nel reato di maltrattamenti è correlata alla reiterazione di più atti lesivi dell’integrità fisica e morale della vittima ovvero da una serie di atti lesivi, in cui ogni singola azione è elemento della serie, al realizzarsi della quale si perfeziona il reato: ne discende che la struttura del reato è perdurante e continuativa, in quanto ogni azione si salda alla precedente, dando vita ad un reato unitario, definito "reato di durata", che mutua la disciplina della prescrizione dai reati permanenti, ma che si perfeziona con il compimento dell’ultimo atto della serie.

 

Corte di Cassazione, sez. VI Penale, sentenza 6 marzo – 24 aprile 2018, n. 18175
Presidente Fidelbo – Relatore Criscuolo

Ritenuto in fatto

1. Il difensore di V.G. ha proposto ricorso avverso la sentenza indicata in epigrafe con la quale la Corte di appello di Palermo ha confermato la sentenza emessa in data 21 giugno 2016 dal Tribunale di Agrigento che aveva condannato l’imputato alla pena di anni 2 di reclusione per il delitto di maltrattamenti in danno della convivente, riconosciute attenuanti generiche equivalenti alla recidiva specifica reiterata infraquinquennale contestata.
Ne chiede l’annullamento per i seguenti motivi:
1.1 violazione dell’art. 8, comma 1, cod. proc. pen. in materia di competenza territoriale nonché contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione: deduce che la Corte di appello ha confermato la decisione del primo giudice, che aveva respinto l’eccezione di incompetenza territoriale sollevata, modificando la motivazione del giudice di primo grado, il quale aveva ritenuto che i fatti oggetto di distinte denunce, la prima sporta a (…), la seconda a (…), fossero in continuazione e di pari gravità con conseguente radicamento della competenza nel luogo di commissione del primo reato ai sensi dell’art. 16 cod. proc. pen. mentre la Corte di appello ha giustificato la competenza del giudice di Agrigento erroneamente assimilando il reato abituale al reato permanente, al quale unicamente si applica il criterio di cui all’art. 8, comma 3, cod. proc. pen.. Il reato di maltrattamenti si consuma nel momento e nel luogo in cui le condotte in essere divengono complessivamente riconoscibili e qualificabili come maltrattamenti e nel caso di specie ciò è avvenuto in (…), dove fu sporta la denuncia per l’ultimo episodio del luglio 2010, mentre nella precedente denuncia la persona offesa riferiva un unico episodio, senza menzionare condotte precedenti di maltrattamento, cosicché prima della seconda denuncia non era emersa l’abitualità della condotta;
1.2 errata applicazione dell’art. 572 cod. pen. e vizio di motivazione, mancando nel caso in esame gli elementi tipici dl reato, in quanto manca l’abitualità della condotta e la persona offesa non è stata in grado di riferire alcun episodio specifico di ingiurie, minacce o violenza, limitandosi ad affermare che il compagno la picchiava spesso e la ingiuriava dicendole che gli aveva rovinato la vita; anche dopo la separazione, la riconciliazione e la nuova separazione non ha indicato fatti specifici, cosicché è stata in grado di circostanziare solo i due episodi denunciati; manca lo stato di vessazione psicologica della vittima, non risultando che la persona offesa abbia vissuto in una condizione di soggezione o timore del compagno, tant’è che appena un mese dopo il primo allontanamento da casa, ritornò insieme al compagno a (…) e anche dopo la seconda denuncia condusse la figlia presso il padre;
1.3 violazione dell’art. 530, comma 1 e 2, cod. proc. pen. e vizio di motivazione, mancando la prova della responsabilità dell’imputato; è errata la valutazione delle dichiarazioni della persona offesa e della loro efficacia probatoria, non essendo la persona offesa attendibile per le lacune e contraddittorietà presenti nelle dichiarazioni rese in dibattimento, riportate nel ricorso, e per assenza di riscontri esterni, atteso che la madre della stessa non ha potuto riferire che un solo episodio né risultano episodi successivi a quello del 2009 né risultano acquisiti referti, annotazioni di p.g. o dichiarazioni testimoniali, mentre è stato trascurato l’unico documento prodotto dalla difesa, il verbale degli assistenti sociali presso il Tribunale per i minorenni, ai quali la persona offesa dichiarò che la conflittualità tra i coniugi era alta e l’aggressività reciproca;
1.4 erronea applicazione degli artt. 581, 612 e 660 cod. pen. e mancanza di motivazione sulla richiesta riqualificazione dei fatti;
1.5 manifesta illogicità della motivazione in relazione al trattamento sanzionatorio, essendo stata applicata una pena di gran lunga superiore al minimo edittale previsto all’epoca dei fatti.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato per i motivi di seguito illustrati.
2. L’eccezione preliminare relativa alla competenza territoriale è infondata, nonostante risulti erroneo il criterio utilizzato dai giudici di appello.
A differenza del giudice di primo grado, che aveva ritenuto le due denunce sporte dalla persona offesa, la prima il 18 luglio 2009 a (…), la seconda il 14 luglio 2010 a (…), indicative di due episodi di maltrattamenti distinti ed in continuazione tra loro, con conseguente applicazione del criterio previsto dall’art. 16, comma 1, cod. proc. pen., la Corte di appello ha ritenuto erronea la valutazione in ragione della natura abituale del reato di maltrattamenti, caratterizzato da una serie di condotte verificatesi in un apprezzabile lasso di tempo, che isolatamente considerate potrebbero anche essere non punibili o non perseguibili, ma acquistano rilevanza penale per effetto della reiterazione nel tempo, cosicché le condotte devono essere considerate unitariamente e non sono scindibili né frazionabili in relazione al mutamento del luogo e al diverso contesto temporale in cui vengono poste in essere: pertanto, ha ritenuto applicabile la disciplina prevista per il reato permanente.
Pur muovendo da una premessa esatta, la Corte di appello è pervenuta ad un’errata conclusione, in quanto, se è vero che l’antigiuridicità delle condotte nel reato di maltrattamenti è correlata alla reiterazione di più atti lesivi dell’integrità fisica e morale della vittima ovvero da una serie di atti lesivi, in cui ogni singola azione è elemento della serie, al realizzarsi della quale si perfeziona il reato, ne discende che la struttura del reato è perdurante e continuativa, in quanto ogni azione si salda alla precedente, dando vita ad un reato unitario, definito "reato di durata", che mutua la disciplina della prescrizione dai reati permanenti, ma che si perfeziona con il compimento dell’ultimo atto della serie.
Questa Corte ha già avuto modo di affermare che è erronea l’equiparazione tra reato abituale e reato permanente al fine di individuare il luogo di consumazione del reato e quindi, il giudice competente, in quanto nel reato permanente l’azione è unica ed assume autonoma valenza antigiuridica fin dal primo atto della sua esecuzione, e protraendosi nel tempo, assume la qualità di condotta permanente, mentre nel reato abituale si è in presenza di singole condotte, da sole non idonee ad integrare quel determinato reato, che perdono la loro individualità come percosse, minacce, o quali condotte non rilevanti penalmente, per assumere la diversa configurazione giuridica per effetto della reiterazione. In tal caso è del tutto irrilevante giuridicamente individuare il momento iniziale della consumazione, in relazione ad una condotta di cui non può prevedersi l’inquadramento futuro, o improcedibile per mancanza di una condizione di punibilità, ma che assume rilevanza penale nella considerazione del comportamento complessivo. In tale ipotesi, il luogo del commesso reato ai fini della determinazione della competenza è quello in cui l’azione diviene complessivamente riconoscibile e qualificabile come maltrattamento, e si identifica nel luogo in cui la condotta viene consumata all’atto della presentazione della denuncia (Sez. 6, n. 52900 del 04/11/2016, Rv. 268559; Sez. 6, n. 43221 del 25/09/2013, Rv. 257461).
Conseguentemente, deve ritenersi corretta la valutazione del giudice di primo grado, atteso che, contrariamente alla prospettazione difensiva, il reato risulta contestato dal maggio 2009 al settembre 2010, dunque, da epoca precedente alla presentazione della prima denuncia, sporta nel luglio 2009, ed evidentemente riferita ad una serie di episodi pregressi, connotati da abitualità ed integranti il reato di maltrattamenti, come ritenuto dai giudici di primo grado e dimostrato dagli elementi valorizzati dai giudici di merito.
2. Anche nel merito il ricorso è infondato, ai limiti dell’inammissibilità, nella misura in cui ripropone pedissequamente, come si evince dalla lettura della sentenza impugnata, e con argomentazioni in fatto, le censure già formulate in appello, disattese dai giudici di secondo grado con motivazione puntuale, lineare e completa, che si salda a quella di primo grado, ancor più analitica, con la quale il ricorrente non si confronta.
3. Quanto all’attendibilità della persona offesa, concordemente ritenuta dai giudici di merito con apprezzamento in fatto, non censurabile in questa sede in assenza di incongruenze e di incoerenze valutative, è stato sottolineato che non vi è motivo di dubitare delle dichiarazioni rese dalla stessa, non essendo emerso alcun proposito vendicativo o gratuitamente calunniatorio della G. né la tendenza ad esasperare o esagerare nella narrazione delle liti e del regime di vita, progressivamente deterioratosi per le difficoltà economiche e per la dipendenza dal gioco del ricorrente.
Tale circostanza ha trovato conferma nelle dichiarazioni della madre della G. , costretta ad inviarle periodicamente danaro, come ritenuto dai giudici di merito, i quali hanno anche dato atto dell’attendibilità della testimone, avendo la stessa ammesso di non aver assistito a litigi o atti di violenza nei confronti della figlia, residente in Sicilia, ma di aver appreso dalla stessa della critica situazione e del mortificante regime di vita cui era sottoposta e di aver visto i segni sul corpo della figlia in occasione della prima separazione, quando, dopo aver sporto denuncia, la figlia si era trasferita con la bambina presso di lei.
L’episodio, puntualmente ricostruito in sentenza e riscontrato dal referto medico, dà conto della gravità dello stesso, coinvolgente la figlia minore, e ben spiega la ragione della presentazione della denuncia, collocatasi al culmine di una serie di precedenti violenze, vessazioni e prevaricazioni, mai prima denunciate: a tal proposito, il giudice di primo grado ha dato atto che la persona offesa aveva riferito delle abituali minacce di morte rivoltele dal ricorrente, che minacciava anche di farle revocare la custodia della figlia, così da indurla ad evitare di sporgere denuncia.
Non rileva, contrariamente alla prospettazione del ricorrente, ai fini dell’attendibilità della persona offesa, il comportamento della persona offesa, determinatasi a riprendere la convivenza dopo poco tempo, nella speranza di un cambiamento dell’atteggiamento del compagno e di ricomporre il nucleo familiare, trattandosi di dinamiche frequenti e di motivazioni apprezzabili, che, tuttavia, non annullano le condotte maltrattanti precedenti, come ritenuto dai giudici di merito.
Tale argomentazione sostiene anche la valutazione del comportamento della persona offesa successivo alla nuova separazione ed al definitivo trasferimento presso la madre in Calabria: i giudici hanno infatti, rimarcato che le ragioni dell’allontanamento dalla casa familiare erano state ritenute valide anche dal Tribunale per i minorenni, che aveva dichiarato non luogo a provvedere in ordine alla denuncia, sporta dal ricorrente nei confronti della compagna per sottrazione della minore nel febbraio 2010.
In relazione a tale periodo sono state sottolineate le condotte del ricorrente, trasferitosi in Calabria in un paese vicino a quello di residenza della compagna per controllarla, minacciarla, seguirla, appostandosi sotto casa e raggiungendola anche presso il luogo di lavoro, ove si verificava il litigio denunciato: in merito a tali condotte, di cui il ricorrente lamenta la mancanza di riscontri, la sentenza di primo grado dà conto delle dichiarazioni rese dallo stesso imputato circa le minacce telefoniche e degli elementi, che ne smentiscono la versione- v. pag. da 6 a 8-.
Anche la rilevanza del contenuto del verbale degli assistenti sociali del Tribunale per i Minorenni di Palermo, asseritamente trascurata in sentenza, trova invece, puntuale valutazione nella sentenza di primo grado- pag. 6-, laddove si precisa che la persona offesa aveva riferito in dibattimento di essere stata istruita dal ricorrente sulle risposte da rendere anche con intimidazioni e minacce.
A fronte di tale ricostruzione analitica ed esaustiva risulta del tutto infondata la prospettata insussistenza del reato di maltrattamenti, dovendosi invece, ritenere corretta la valutazione dei giudici di merito, che hanno ravvisato nei fatti descritti la serialità e ripetitività degli atti lesivi descritti dalla persona offesa, tali da imporre un regime di vita mortificante, angosciante ed umiliante nonché di soggezione e timore nella persona offesa, indotto dalla gravità delle minacce di portarle via la figlia.
3. Manifestamente infondato è il dedotto vizio di motivazione in ordine alla richiesta derubricazione del reato nei reati di percosse, minaccia e molestia, disattesa dai giudici di merito con motivazione corretta ed ineccepibile in ragione della riconducibilità ad unità delle condotte in forza dell’abitualità dei comportamenti, non valutabili singolarmente ed isolatamente, bensì nella loro serialità, che li connota di ben maggiore gravità.
4. Generico è l’ultimo motivo, relativo al trattamento sanzionatorio, avendo i giudici giustificato la ritenuta congruità della pena inflitta, determinata in misura superiore al minimo edittale in ragione della pervicacia dimostrata dall’imputato nel seguire la persona offesa anche in Calabria nonché delle modalità e della non trascurabile durata della condotta, tenuto anche conto del benevolo riconoscimento di attenuanti generiche, equivalenti alla recidiva specifica reiterata infraquinquennale contestata.
Al rigetto del ricorso consegue la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.