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Mago riceve denaro per esorcismi: condannato (Cass. 13968/18)

26 marzo 2018, Cassazione penale

Per il reato di circonvenzione di incapace, le condotte di abuso e di induzione consistono rispettivamente in qualsiasi pressione morale idonea al risultato avuto di mira ed in tutte le attività di sollecitazione e suggestione capaci di far sì che il soggetto passivo presti il suo consenso al compimento dell’atto dannoso.

 

CORTE DI CASSAZIONE, SEZ. II PENALE - SENTENZA 26 marzo 2018, n.13968

Pres. Cammino – est. Pellegrino
Ritenuto in fatto 

1. Con sentenza in data 23/03/2016, la Corte d’appello di Roma confermava la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale di Roma in data 25/06/2012 appellata da Q.M. con la quale lo stesso era stato condannato alla pena di anni tre di reclusione ed Euro 600,00 di multa per il reato di circonvenzione di incapace. Secondo l’Accusa, Q.M., in concorso con Q.N., al fine di procurarsi un profitto, abusando dello stato di infermità e deficienza psichica di S.N., qualificatisi rispettivamente come 'Mago (...)' e 'Mago (...)', inducevano la donna versare in proprio favore la somma complessiva di 11.000,00 Euro circa quale corrispettivo per contrastare asseriti fenomeni satanici dei quali la S. sarebbe stata vittima.

2. Avverso detta sentenza, nell’interesse di Q.M., viene proposto ricorso per cassazione per lamentare:

- violazione dell’art. 11 cod. proc. pen., con conseguente nullità del giudizio ex art. 178 cod. proc. pen. (primo motivo);

- violazione di legge e vizio di motivazione in relazione all’affermazione della penale responsabilità per il delitto di cui all’art. 643 cod. pen. (secondo motivo).

2.1. In relazione al primo motivo, si insiste nella dedotta questione di incompetenza territoriale del Tribunale di Roma in favore di quello di Perugia, atteso che la dott.ssa D.M.S., coniugata in comunione dei beni con la parte civile (P.A. ) costituitasi in proprio, aveva svolto sia in fase di indagini che in pendenza del giudizio di merito, funzione giurisdizionale, ivi compreso il grado di appello ove aveva svolto le funzioni di consigliere presso la medesima Corte d’appello ove si era svolto il giudizio.

2.2. In relazione al secondo motivo, si evidenzia come la diagnosi riguardante la circonvenuta nonché l’inattendibilità delle testimonianze 'non disinteressate' dei due figli e della consuocera avrebbero dovuto imporre l’espletamento del richiesto (e non disposto) accertamento tecnico sulla persona della vittima; di contro, proprio l’equilibrato rapporto sinallagmatico tra le prestazioni 'intellettuali' rese dall’imputato ed il loro congruo corrispettivo da parte della S., nonché le tutele (cambiali, dichiarazioni scritte) dalla stessa ottenute a garanzia del proprio credito, ingeneravano gli espressi ragionevoli dubbi sulla sussistenza sia di qualsivoglia attività di induzione o coazione da parte dell’imputato, sia di quegli atti giuridici perniciosi alla circonvenuta, sia del nesso causale tra l’attività posta in essere dall’agente e l’atto pregiudizievole, sia infine della riconoscibilità e conseguente approfittamento dell’imputato dello stato di minorazione psichica della circonvenuta, che non hanno avuto ragionevole e logico riscontro motivazionale nelle sentenze di merito.

 

Considerato in diritto

 1. Il ricorso è manifestamente infondato e, come tale, da ritenersi inammissibile.

2. Va preliminarmente evidenziato come, secondo la giurisprudenza della Suprema Corte (cfr., Sez. 6, n. 10951 del 15/03/2006, Casula, Rv. 233708), anche alla luce della nuova formulazione dell’art. 606, comma primo lett. e) cod. proc. pen., dettata dalla L. 20 febbraio 2006 n. 46, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve mirare a verificare che la relativa motivazione sia: a) 'effettiva', ovvero realmente idonea a rappresentare le ragioni che il giudicante ha posto a base della decisione adottata; b) non 'manifestamente illogica', ovvero sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell’applicazione delle regole della logica; c) non internamente 'contraddittoria', ovvero esente da insormontabili incongruenze tra le sue diverse parti o da inconciliabilità logiche tra le affermazioni in essa contenute; d) non logicamente 'incompatibile' con altri atti del processo, dotati di una autonoma forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione disarticoli l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità così da vanificare o radicalmente inficiare sotto il profilo logico la motivazione (nell’affermare tale principio, la Corte ha precisato che il ricorrente, che intende dedurre la sussistenza di tale incompatibilità, non può limitarsi ad addurre l’esistenza di 'atti del processo' non esplicitamente presi in considerazione nella motivazione o non correttamente interpretati dal giudicante, ma deve invece identificare, con l’atto processuale cui intende far riferimento, l’elemento fattuale o il dato probatorio che da tale atto emerge e che risulta incompatibile con la ricostruzione adottata dal provvedimento impugnato, dare la prova della verità di tali elementi o dati invocati, nonché dell’esistenza effettiva dell’atto processuale in questione, indicare le ragioni per cui quest’ultimo inficia o compromette in modo decisivo la tenuta logica e l’interna coerenza della motivazione).

2.1. Non è dunque sufficiente che gli atti del processo invocati dal ricorrente siano semplicemente 'contrastanti' con particolari accertamenti e valutazioni del giudicante e con la sua ricostruzione complessiva e finale dei fatti e delle responsabilità né che siano astrattamente idonei a fornire una ricostruzione più persuasiva di quella fatta propria dal giudicante.

Ogni giudizio, infatti, implica l’analisi di un complesso di elementi di segno non univoco e l’individuazione, nel loro ambito, di quei dati che - per essere obiettivamente più significativi, coerenti tra loro e convergenti verso un’unica spiegazione - sono in grado di superare obiezioni e dati di segno contrario, di fondare il convincimento del giudice e di consentirne la rappresentazione, in termini chiari e comprensibili, ad un pubblico composto da lettori razionali del provvedimento. È, invece, necessario che gli atti del processo richiamati dal ricorrente per sostenere l’esistenza di un vizio della motivazione siano autonomamente dotati di una forza esplicativa o dimostrativa tale che la loro rappresentazione sia in grado di disarticolare l’intero ragionamento svolto dal giudicante e determini al suo interno radicali incompatibilità, così da vanificare o da rendere manifestamente incongrua o contraddittoria la motivazione. Il giudice di legittimità è, pertanto, chiamato a svolgere un controllo sulla persistenza o meno di una motivazione effettiva, non manifestamente illogica e internamente coerente, a seguito delle deduzioni del ricorrente concernenti 'atti del processo'.

2.2. Tale controllo, per sua natura, è destinato a tradursi in una valutazione, di carattere necessariamente unitario e globale, sulla reale 'esistenza' della motivazione e sulla permanenza della 'resistenza' logica del ragionamento del giudice.

Al giudice di legittimità resta, infatti, preclusa, in sede di controllo sulla motivazione, la pura e semplice rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, preferiti a quelli adottati dal giudice di merito, perché ritenuti maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa. Queste operazioni trasformerebbero, infatti, la Corte nell’ennesimo giudice del fatto e le impedirebbero di svolgere la peculiare funzione assegnatale dal legislatore di organo deputato a controllare che la motivazione dei provvedimenti adottati dai giudici di merito (a cui le parti non prestino autonomamente acquiescenza) rispettino sempre uno standard di intrinseca razionalità e di capacità di rappresentare e spiegare l’iter logico seguito dal giudice per giungere alla decisione. Può quindi affermarsi che, anche a seguito delle modifiche dell’art. 606 cod. proc. pen., comma 1, lett. e) ad opera della L. n. 46 del 2006, art. 8, 'mentre non è consentito dedurre il travisamento del fatto, stante la preclusione per il giudice di legittimità si sovrapporre la propria valutazione delle risultanze processuali a quella compiuta nei precedenti gradi di merito, è invece, consentito dedurre il vizio di travisamento della prova, che ricorre nel caso in cui il giudice di merito abbia fondato il proprio convincimento su una prova che non esiste o su un risultato di prova incontestabilmente diverso da quello reale, considerato che in tal caso, non si tratta di reinterpretare gli elementi di prova valutati dal giudice di merito ai fini della decisione, ma di verificare se detti elementi sussistano' (Sez. 5, n. 39048 del 25/09/2007, Casavola e altri, Rv. 238215).

2.3. Pertanto, il sindacato di legittimità non ha per oggetto la revisione del giudizio di merito, bensì la verifica della struttura logica del provvedimento e non può quindi estendersi all’esame ed alla valutazione degli elementi di fatto acquisiti al processo, riservati alla competenza del giudice di merito, rispetto alla quale la Suprema Corte non ha alcun potere di sostituzione al fine della ricerca di una diversa ricostruzione dei fatti in vista di una decisione alternativa.

Né la Suprema Corte può trarre valutazioni autonome dalle prove o dalle fonti di prova, neppure se riprodotte nel provvedimento impugnato. Invero, solo l’argomentazione critica che si fonda sugli elementi di prova e sulle fonti indiziarie contenuta nel provvedimento impugnato può essere sottoposto al controllo del giudice di legittimità, al quale spetta di verificarne la rispondenza alle regole della logica, oltre che del diritto, e all’esigenza della completezza espositiva (Sez. 6, n. 40609 del 01/10/2008, Ciavarella, Rv. 241214).

2.4. La medesima giurisprudenza di legittimità considera, inoltre, inammissibile il ricorso per cassazione fondato su motivi che si risolvono nella pedissequa reiterazione di quelli già dedotti in appello e motivatamente disattesi dal giudice di merito, dovendosi gli stessi considerare non specifici ma soltanto apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso (v., tra le tante, Sez. 5, n. 25559 del 15/06/2012, Pierantoni; Sez. 6, n. 22445 del 08/05/2009, p.m. in proc. Candita, Rv. 244181; Sez. 5, n. 11933 del 27/01/2005, Giagnorio, Rv. 231708). In altri termini, è del tutto evidente che a fronte di una sentenza di appello che ha fornito una risposta ai motivi di gravame, la pedissequa riproduzione di essi come motivi di ricorso per cassazione non può essere considerata come critica argomentata rispetto a quanto affermato dalla Corte d’appello: in questa ipotesi, pertanto, i motivi sono necessariamente privi dei requisiti di cui all’art. 581 cod. proc. pen., comma 1, lett. c), che impone la esposizione delle ragioni di fatto e di diritto a sostegno di ogni richiesta (Sez. 6, n. 20377 del 11/03/2009, Arnone, Rv. 243838).

Sulla base di questi principi va esaminato l’odierno ricorso.

3. Manifestamente infondato è il primo motivo di ricorso.

Come rilevato dal giudice di secondo grado, l’eccezione di nullità per incompetenza del Tribunale di Roma è palesemente infondata atteso che 'in tema di competenza per i procedimenti riguardanti i magistrati, l’operatività dell’art. 11 cod. proc. pen. è subordinata alla condizione che il magistrato, nel procedimento penale, assuma formalmente la qualità di imputato ovvero di persona offesa o danneggiata dal reato' (Sez. F, n. 35729 del 01/08/2013, Agrama e altri, Rv. 256569). Si legge in sentenza: 'la correttezza di tale opzione esegetica è accreditata tanto dal risultato dell’interpretazione letterale, posto che l’art. 11 cod. proc. pen. collega la deroga alle normali regole di determinazione della competenza del giudice al fatto formale della 'assunzione', da parte del magistrato interessato, di una delle tre qualità innanzi indicate; quanto dall’esito della interpretazione logica che suggerisce di limitare l’operatività di tale speciale criterio di determinazione della competenza ad un elemento oggettivo non meramente fattuale, bensì avente carattere giuridico, qual è appunto la formale assunzione da parte del magistrato, nel procedimento penale, della qualità di imputato, di persona offesa o di danneggiato dal reato. D’altro canto, il legislatore codicistico ha previsto altri casi nei quali l’operatività di istituti processuali tesi a garantire le condizioni di indipendenza e di imparzialità del giudice è collegata a situazioni di concreta e non di astratta incompatibilità, derivanti da iniziative processuali che i soggetti interessati possono aver deciso di adottare: così, ad esempio, è pacifico che possono costituire ipotesi di astensione e di ricusazione quelle che vedono una posizione del giudice di cointeressenza o di contrasto diretto o indiretto con soggetti che abbiano acquisito la veste formale di parte del procedimento penale, nel quale, dunque, i medesimi siano direttamente intervenuti...'.

Fermo quanto precede, appare evidente come rimanga del tutto irrilevante ai fini della dedotta incompetenza che una parte processuale rivesta la qualità di congiunto, ancorché prossimo, del magistrato e che il giudizio nel quale il coniuge non magistrato assuma uno delle succitate qualità sia instaurato avanti il medesimo ufficio giudiziario ove, al momento del fatto o all’atto dell’iscrizione del procedimento o nel corso del successivo giudizio di merito, il coniuge magistrato abbia svolto o svolga le proprie funzioni, non potendo il semplice rapporto familiare mettere in dubbio la terzietà e, prima ancora, la trasparenza e serenità dell’organo giudicante, immaginando una - anche solo possibile o indiretta - influenza sulla decisione per la sola 'presenza esterna' di un collega.

4. Pari manifesta infondatezza involge il secondo motivo di ricorso.

4.1. Come è noto, ai fini della configurabilità del reato di cui all’art. 643 cod. pen., sono necessarie le sottoindicate - e, nella specie, pienamente ricorrenti - condizioni:

  1. l’instaurazione di un rapporto 'squilibrato' fra vittima ed agente, in cui quest’ultimo abbia la possibilità di manipolare la volontà della vittima, che, in ragione di specifiche situazioni concrete, sia incapace di opporre alcuna resistenza per l’assenza o la diminuzione della capacità critica;
  2. l’induzione a compiere un atto che importi per il soggetto passivo o per altri qualsiasi effetto giuridico dannoso;
  3. l’abuso dello stato di vulnerabilità, che si verifica quando l’agente, consapevole di detto stato, ne sfrutti la debolezza per raggiungere il suo fine e cioè quello di procurare a sé o ad altri un profitto;
  4.  la oggettiva esistenza e riconoscibilità all’esterno della minorata capacità, in modo che chiunque possa abusarne per raggiungere i suoi fini illeciti (cfr., Sez. 5, n. 29003 del 16/04/2012, Strino, Rv. 253311).

4.2. E, con specifico riferimento all’elemento materiale del reato, si è precisato che le condotte di abuso e di induzione consistono rispettivamente in qualsiasi pressione morale idonea al risultato avuto di mira ed in tutte le attività di sollecitazione e suggestione capaci di far sì che il soggetto passivo presti il suo consenso al compimento dell’atto dannoso (cfr., Sez. 2, n. 31320 del 01/07/2008, Raniolo, Rv. 240658).

4.3. Ciò premesso, con riferimento al caso di specie, dalla lettura della sentenza impugnata è emersa la prova in ordine alla sussistenza dell’elemento materiale del reato ipotizzato. Invero, l’attività di induzione e di abuso da parte del soggetto agente diretta a determinare o comunque a rafforzare nel soggetto passivo (S.N., persona di ottantaquattro anni all’epoca dei fatti) il proposito di adottare gli atti per sé pregiudizievoli viene logicamente ed inequivocabilmente tratta dai comportamenti tenuti dall’imputato, il quale - come si è detto in premessa - in concorso con altro soggetto, ha indotto la persona offesa a versare a proprio favore la somma di circa 11.000,00 Euro, quale corrispettivo per contrastare asseriti fenomeni satanici dei quali la S. sarebbe stata vittima. Come evidenziato dai giudici di merito, l’imputato, nel contestare la propria responsabilità, si limita a formulare solo delle congetture e dei sospetti sulla capacità della persona offesa di ottenere documentazione di favore (unico elemento - quello cartaceo - che proverebbe lo stato di circonvenibilità della S.), documentazione che il ricorrente non esita a ritenere che possa essere stata formata o ottenuta grazie ai 'buoni uffici' del figlio (medico) e della nuora (magistrato). In realtà, il giudizio sulle reali condizioni di salute della vittima si fonda solo in parte su detta documentazione (si tratta di certificazione medica rilasciata da USL Roma (...) in data 25/09/2006 nella quale si dà atto che la S. soffre di disturbi neurocognitivi ed è afflitta da idee subdeliranti con allucinazioni visive), essendo l’anziana vittima comparsa in dibattimento in data 21/01/2011, evidenziando in modo assolutamente chiaro la propria condizione di disorientamento nel tempo e nello spazio, condizione che aveva indotto il pubblico ministero a rinunciare al suo esame: una condizione talmente deteriorata - sia sotto il profilo cognitivo che sotto quello comportamentale - nella sua integrità, da imporre, da parte del giudice tutelare, la nomina del P. quale amministratore di sostegno della stessa. Ad ulteriore comprova di tale simile condizione, vi sono le testimonianze acquisite nel corso del processo che hanno riferito di 'delirio mistico', di allucinazioni e di condizione delirante a sfondo religioso (come riferito da una conoscente della S., tale C.L. ). In questo contesto di assoluta debolezza ed incapacità, si innesta il facile intervento del 'mago (...)' che, approfittando di detta condizione, vantando una sua 'capacità di liberazione' dalle sue molteplici afflizioni, si faceva consegnare dalla donna a più riprese denaro per importi complessivi pari a circa 11.000/12.000 Euro.

5. Alla pronuncia consegue, per il disposto dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali nonché al versamento, in favore della Cassa delle ammende, di una somma che, considerati i profili di colpa emergenti dal ricorso, si determina equitativamente in Euro duemila oltre al pagamento delle spese processuali sostenute dalla parte civile P.A., in proprio e quale amministratore di sostegno di S.N., che si liquidano in complessivi Euro 3.510,00 oltre spese forfetarie nella misura del 15%, CPA ed IVA. In caso di diffusione del presente provvedimento si dispone l’omissione delle generalità e degli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/2003 in quanto imposto dalla legge.

P.Q.M.

dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila a favore della Cassa delle ammende nonché alla rifusione a favore della parte civile P.A., in proprio e quale amministratore di sostegno di S.N., delle spese del grado che liquida in Euro 3.510,00 oltre spese forfetarie nella misura del 15%, CPA ed IVA. In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi, a norma dell’art. 52 D.Lgs. 196/2003 in quanto imposto dalla legge.