La libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile, tutelato «al massimo grado» dalla Costituzione. La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è «da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato, non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità».
Della libertà di religione il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale, che lo stesso art. 19 Cost. garantisce specificamente disponendo che «[t]utti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». L’esercizio pubblico e comunitario del culto, come questa Corte ha più volte precisato, va dunque tutelato, e va assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza.
La libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare e comporta perciò più precisamente un duplice dovere a carico delle autorità pubbliche cui spetta di regolare e gestire l’uso del territorio (essenzialmente le regioni e i comuni): in positivo – in applicazione del citato principio di laicità – esso implica che le amministrazioni competenti prevedano e mettano a disposizione spazi pubblici per le attività religiose; in negativo, impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici.
Naturalmente, nel destinare spazi pubblici alle sedi di attività di culto delle diverse confessioni, regioni e comuni devono tener conto della loro presenza nel territorio di riferimento, dal momento che, in questo contesto, il divieto di discriminazione «non vuol dire […] che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione».
Illegittima la norma della Regione Lombardia laddove subordini l'insediamento di attrezzature religiose a tempi di decisione del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica), determina una forte compressione della libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo del territorio.
In sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
CORTE COSTITUZIONALE
Sentenza 254/2019
(ECLI:IT:COST:2019:254)
Giudizio: GIUDIZIO DI LEGITTIMITÀ COSTITUZIONALE IN VIA INCIDENTALE
Presidente: LATTANZI - Redattore: DE PRETIS
Udienza Pubblica del 22/10/2019; Decisione del 22/10/2019
Deposito del 05/12/2019; Pubblicazione in G. U. 11/12/2019 n. 50
composta dai signori: Presidente: Giorgio LATTANZI; Giudici : Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 72, commi 1, 2 e 5, secondo periodo, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificati dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», promossi dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia con decisioni del 3 agosto e dell’8 ottobre 2018, rispettivamente iscritte ai numeri 159 e 172 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 45 e 48, prima serie speciale, dell’anno 2018.
Visti gli atti di costituzione dell’Associazione Culturale Islamica Ticinese (già Associazione Comunità Islamica Ticinese), nonché gli atti di intervento della Regione Lombardia e, fuori termine, dell’Associazione culturale Assalam di Cantù;
udito nell’udienza pubblica del 22 ottobre 2019 il Giudice relatore Daria de Pretis;
uditi gli avvocati Piera Pujatti per la Regione Lombardia e Aldo Travi per l’Associazione Culturale Islamica Ticinese (già Associazione Comunità Islamica Ticinese).
Ritenuto in fatto
1.– Con sentenza non definitiva del 3 agosto 2018, iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018, il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 72, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione.
L’art. 72, comma 1, stabilisce che «[l]e aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70». Il comma 2 dispone che «[l]’installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all’articolo 70».
Il TAR riferisce che l’Associazione Culturale Madni, una associazione volta a mantenere e valorizzare le tradizioni culturali dei paesi di origine dei musulmani residenti nel territorio e a rafforzare il legame con i cittadini locali, ha ottenuto il 15 gennaio 2016 un permesso edilizio al fine di adibire un complesso immobiliare ad attività di culto. Successivamente tale permesso è stato annullato d’ufficio dal Comune di Castano Primo con determinazione del 13 marzo 2017, dal momento che l’intervento edilizio, essendo preordinato alla realizzazione di un’attrezzatura religiosa ai sensi della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, avrebbe richiesto la preventiva approvazione del piano delle attrezzature religiose (di seguito: PAR), di cui invece il Comune di Castano Primo ha ritenuto di non dotarsi. L’Associazione ha impugnato l’annullamento d’ufficio (e il rapporto della Polizia locale del 9 novembre 2016) e ha chiesto il risarcimento del danno.
Il rimettente ricostruisce la cornice normativa in cui si inquadra la controversia e ricorda che la sentenza n. 63 del 2016 della Corte costituzionale, resa nell’ambito di un giudizio in via principale, ha annullato alcune delle norme introdotte dalla legge reg. Lombardia n. 2 del 2015 in materia di attrezzature religiose, senza però toccare – in quanto non impugnate – le previsioni dell’art. 72 che subordinano la realizzazione di tali attrezzature all’approvazione di un apposito piano.
Il TAR respinge come infondati tutti i numerosi motivi di ricorso presentati dall’associazione ricorrente, ad eccezione di quello relativo all’illegittimità costituzionale dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato nel 2015.
1.1.– Quanto alla rilevanza, il TAR spiega che la decisione della causa dipende esclusivamente dalla soluzione della questione di legittimità costituzionale dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sulla cui base è stato assunto il provvedimento di autotutela censurato. L’esercizio del potere di autotutela richiede, infatti, ai sensi dell’articolo 21-nonies della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi), anzitutto l’illegittimità del provvedimento annullato, e l’accertamento di tale profilo «riposa esclusivamente nella soluzione delle questioni di legittimità costituzionale prospettate nei confronti della legge regionale».
Il TAR non ritiene, invece, che incida sulla rilevanza della questione la sopravvenuta legge della Regione Lombardia 25 gennaio 2018, n. 5 (Razionalizzazione dell'ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge), la quale, all’art. 2 dispone che «[a] decorrere dall’entrata in vigore della presente legge sono o restano abrogate: [...] b) le seguenti leggi o disposizioni operanti modifiche alla legislazione regionale [...] 69) L.R. 3 febbraio 2015, n. 2 (Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi)». In primo luogo, il TAR rileva che il provvedimento impugnato nel presente giudizio è precedente alla legge reg. Lombardia n. 5 del 2018, sicché la norma regionale abrogatrice sopravvenuta non potrebbe comunque far venire meno la rilevanza delle questioni di legittimità costituzionale relative al testo della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nella formulazione in vigore al tempo del rilascio del permesso di costruire e della determinazione di autotutela censurata nel giudizio amministrativo. In secondo luogo, il TAR ritiene che comunque l’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 sia a tutt’oggi vigente nel tenore risultante dalle modificazioni apportate dalla legge reg. Lombardia n. 2 del 2015. La legge reg. Lombardia n. 5 del 2018, infatti, avrebbe attuato un mero riordino legislativo, come risulterebbe dall’art. 1 e in particolare dall’art. 4, ove si dispone che restano «confermate […] le variazioni testuali apportate alla legislazione vigente dalle leggi abrogate dalla presente legge, ove non superate da integrazioni, modificazioni o abrogazioni disposte da leggi intervenute successivamente». Le leggi modificate, dunque, non sarebbero state toccate dall’intervento di riordino.
Infine, il TAR precisa che nel giudizio a quo non è rilevante l’eventuale illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nella parte in cui «indica come meramente facoltativa l’adozione del Piano delle attrezzature religiose entro il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge regionale n. 2 del 2015».
1.2.– Quanto alla non manifesta infondatezza, il TAR ritiene che l’art. 72, commi 1 e 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, nel prevedere che in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del PAR i comuni non possano consentire l’apertura di spazi destinati all’esercizio del culto, sia di dubbia costituzionalità in quanto preordina «una completa e assoluta programmazione pubblica della realizzazione di “attrezzature religiose”, in funzione delle “esigenze locali” – rimesse all’apprezzamento discrezionale del Comune – a prescindere dalle caratteristiche in concreto di tali opere, e persino della loro destinazione alla fruizione da parte di un pubblico più o meno esteso, introducendo così un controllo pubblico totale, esorbitante rispetto alle esigenze proprie della disciplina urbanistica, in ordine all’apertura di qualsivoglia spazio destinato all’esercizio del culto».
Secondo il rimettente, «l’equivoco di fondo» da cui muove il legislatore regionale consisterebbe nell’individuazione di una «corrispondenza biunivoca» tra le «attrezzature religiose di interesse comune», di cui all’art. 71, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, costituenti opere di urbanizzazione secondaria, e le «attrezzature religiose» di cui all’art. 72, di modo che «tutte tali attrezzature sono trattate allo stesso modo, ossia quali opere di urbanizzazione secondaria soggette alla necessaria previa programmazione comunale», «prescindendo […] dalla circostanza che tali attrezzature siano o non siano strettamente necessarie ad assicurare la dotazione di standard urbanistici funzionale a un dato insediamento residenziale».
Che sia così si evincerebbe, secondo il rimettente, dal combinato disposto dell’art. 71, comma 1, e dell’art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005; inoltre, tale interpretazione sarebbe accolta nella prassi amministrativa fondata sulla circolare regionale 20 febbraio 2017, n. 3, recante «Indirizzi per l’applicazione della legge regionale 3 febbraio 2015, n. 2 “Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (legge per il governo del territorio) – Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi”».
1.3.– Tale impostazione contrasterebbe anzitutto con l’art. 19 Cost. Il TAR Lombardia richiama le sentenze della Corte costituzionale n. 59 del 1958 (secondo la quale la libertà religiosa comprende «tutte le manifestazioni del culto, ivi indubbiamente incluse, in quanto forma e condizione essenziale del suo pubblico esercizio, l’apertura di templi ed oratori») e n. 63 del 2016, che, giudicando proprio della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, ha ribadito che l’apertura di luoghi di culto «ricade nella tutela garantita dall’art. 19 Cost.».
Il TAR non intende negare che la Regione, nell’esercizio della propria potestà legislativa in materia di governo del territorio, attribuitale dall’art. 117, terzo comma, Cost., possa dettare una disciplina legislativa specificamente dedicata all’inserimento urbanistico delle attrezzature religiose e degli edifici di culto. Tuttavia, in base alla sentenza n. 63 del 2016, la legislazione regionale in materia di edilizia del culto «trova la sua ragione e giustificazione […] nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi», mentre non sarebbe «consentito al legislatore regionale, all’interno di una legge sul governo del territorio, introdurre disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione». In virtù delle norme impugnate, i luoghi di culto dovrebbero essere necessariamente realizzati nelle aree stabilite dai comuni, ai quali spetterebbe «ogni discrezionalità in ordine all’apertura di luoghi di culto, pubblici o privati, sul proprio territorio».
Secondo il TAR, un conto è che il PAR si preoccupi di assicurare l’adeguata dotazione di edifici di culto a servizio degli insediamenti residenziali, in base alle esigenze locali, un altro è che, in assenza o comunque al di fuori delle sue previsioni, non sia consentita l’apertura di alcun edificio di culto, «a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera». Ciò determinerebbe «un ostacolo di fatto al libero esercizio del culto», poiché la possibilità di esercitare collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume, garantita dall’art. 19 Cost., verrebbe «a essere subordinata alla pianificazione comunale e, quindi, al controllo pubblico».
Si avrebbe un’indebita limitazione della libertà di religione perché la pianificazione comunale interviene necessariamente con cadenze periodiche pluriennali, con conseguente differimento nella possibilità di soddisfare le esigenze di culto della collettività. Inoltre, il piano dei servizi non garantirebbe la previsione di luoghi di culto per tutte le confessioni religiose o per le singole comunità di fedeli.
La libertà di culto non potrebbe «risentire in termini così stringenti della programmazione urbanistica»; la Costituzione garantirebbe l’esercizio pubblico del culto, con il solo limite del rispetto del buon costume, anche a una comunità composta da pochi fedeli, come nel caso oggetto del giudizio a quo, riguardante la sede di un’associazione religiosa cui aderiscono circa sessanta famiglie.
1.4.– Inoltre, le limitazioni all’apertura di luoghi di culto stabilite dalla legge regionale eccederebbero lo scopo di assicurare il corretto inserimento sul territorio delle attrezzature religiose, con conseguente violazione «dei fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione posti dall’art. 3 della Costituzione».
Il TAR ricorda che l’art. 72, comma 7, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 stabilisce quali caratteristiche costruttive debbano avere le attrezzature religiose e quali dotazioni aggiuntive di parcheggi debbano essere assicurate. Gli edifici religiosi sarebbero realizzabili, in linea di principio, nelle zone residenziali, ferma restando la potestà comunale di porre limitazioni, in relazione alle dimensioni della struttura e al contesto (viabilità, parcheggi ecc.). Il rispetto di tutte le previsioni costruttive e di inserimento urbanistico delle attrezzature religiose potrebbe essere assicurato mediante le ordinarie prescrizioni degli strumenti urbanistici.
Il rimettente rileva che l’apertura di un luogo di culto non differisce dalla realizzazione di altri luoghi di aggregazione sociale, quali scuole, centri culturali, case di cura, palestre ecc.: per tali strutture, tuttavia, non sarebbe prevista analoga rigida programmazione comunale. Il differente trattamento previsto dalla legge regionale per le attrezzature religiose sarebbe «del tutto ingiustificato e discriminatorio, rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica, potenzialmente idonee a generare un impatto analogo, o persino maggiore, nel contesto urbanistico».
Secondo il rimettente, in definitiva, «l’avocazione al Comune dell’integrale programmazione della localizzazione e del dimensionamento delle attrezzature religiose» finirebbe «per eccedere gli scopi propri della disciplina dell’assetto del territorio comunale, producendo, di fatto, effetti simili all’autorizzazione governativa all’apertura dei luoghi di culto, prevista dall’art. 1 del regio decreto 28 febbraio 1930, n. 289, già dichiarato costituzionalmente illegittimo dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 59 del 1958».
1.5.– La violazione degli artt. 3 e 19 Cost. ridonderebbe anche nella lesione dei diritti inviolabili della persona, tutelati dall’art. 2 Cost. (si richiama la sentenza n. 195 del 1993), «stante la centralità del credo religioso quale espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua affermazione individuale e collettiva».
2.– È intervenuta in giudizio la Regione Lombardia, con atto depositato il 14 novembre 2018, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni.
2.1.– Le questioni sarebbero inammissibili per irrilevanza perché, mentre il TAR censura la sproporzione tra l’oggetto della norma in questione, che pone l’obbligo di approvare il PAR prima di aprire un luogo di culto, e le ipotesi «in cui un gruppo di fedeli intenda allestire una “piccola sala di preghiera”», il giudizio a quo riguarderebbe invece un luogo di preghiera frequentabile da un numero non determinato di fedeli e destinato a incidere in modo rilevante e permanente sul tessuto urbano, come rilevato dal Comune attraverso il rapporto della Polizia locale.
2.2.– Nel merito, le questioni sarebbero non fondate.
La Regione rileva che i luoghi dedicati al culto concorrono a conformare l’assetto urbanistico dei centri abitati e non possono prescindere da una regolamentazione urbanistico-edilizia. Ricorda che il concetto urbanistico di attrezzature religiose è stato introdotto per la prima volta dal decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), e osserva che l’impostazione che lascia ampio spazio alla pianificazione comunale in relazione agli edifici di culto come opere di urbanizzazione secondaria deriverebbe dalla legislazione statale.
La Regione riferisce i contenuti della sentenza della Corte costituzionale n. 63 del 2016 e, in relazione all’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, osserva che «la parola “intendono” utilizzata dalla norma non può certo essere intesa come intenzione soggettiva, ma come legata al nostro ordinamento giuridico»; «[o]ve i Comuni non dovessero attivarsi immotivatamente a fronte di richieste di nuove attrezzature religiose, tale comportamento potrà essere sanzionato nelle sedi competenti». I comuni non avrebbero discrezionalità nel valutare le esigenze di tipo religioso che il territorio esprime, ma dovrebbero sottoporre a valutazione tutte quelle legittimamente emerse; qualunque confessione religiosa avrebbe il diritto di vedere esaminata, da un punto di vista urbanistico-edilizio, la propria volontà di installare attrezzature religiose.
La norma censurata realizzerebbe un «punto di equilibrio» tra il diritto ad uno spazio per l’esercizio del proprio diritto fondamentale e il diritto della Regione di governare il proprio territorio: punto di equilibrio che la legislazione statale avrebbe lasciato alla pianificazione comunale.
Il TAR muoverebbe da un punto di vista erroneo: la norma regionale, lungi dal lasciare alla discrezionalità dei comuni le scelte in questa materia, compirebbe «una operazione di regolamentazione, obbligando i comuni a prendere in considerazione questo aspetto e a pianificare il proprio territorio anche con riferimento all’art. 19 Cost. e alla possibilità che tutte le confessioni religiose possano richiedere un proprio luogo di culto». Prevedendo la pianificazione comunale, la norma regionale censurata cercherebbe di rimediare alla situazione degli ultimi anni, in cui sono frequenti le decisioni dei giudici amministrativi su provvedimenti comunali di chiusura, per ragioni urbanistiche, di luoghi di culto.
Secondo la Regione, gli edifici di culto avrebbero «un impatto, che è spesso visivo, ma anche sul carico urbanistico», in quanto destinati «ad avere un accesso massiccio in un determinato momento».
Quanto alla pretesa sproporzionalità della norma, la Regione precisa, fra l’altro, che essa «non si applica alle opere temporanee».
Quanto alla asserita discriminazione rispetto ad altre strutture di aggregazione sociale, come le scuole, la Regione rileva che le situazioni sarebbero diverse, in particolare a causa della necessaria visibilità del luogo di culto «per richiamare i fedeli», e ricorda di aver già adottato discipline specifiche per alcune categorie di opere, come le grandi strutture di vendita. La Regione avrebbe scelto di non distinguere le strutture religiose a seconda delle loro dimensioni per non avvantaggiare le confessioni religiose con pochi aderenti. Inoltre, una limitazione basata sul numero dei frequentatori sarebbe contraria alla logica dell’edilizia di culto, che presuppone luoghi utilizzabili da tutti i fedeli di una determinata religione.
Infine, il parametro dell’art. 2 Cost. sarebbe «del tutto inconferente».
2.3.– Il 15 marzo 2019 la Regione Lombardia ha chiesto che la causa iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018 fosse discussa in udienza pubblica.
2.4.– Il 9 aprile 2019 la Regione Lombardia ha depositato una memoria integrativa. In essa ribadisce l’irrilevanza della questione di legittimità costituzionale sollevata dal TAR Lombardia. Nel merito, evidenzia che la norma censurata rispetta l’art. 19 Cost. in quanto non distingue le confessioni religiose a seconda della presenza o meno dell’intesa con lo Stato. Inoltre, il PAR sarebbe «un mezzo proporzionato e congruo rispetto al fine», consistente nella «razionale sistemazione urbanistica» di tali attrezzature. Infine, la Regione ricorda che la Corte costituzionale ha considerato legittimo l’art. 31-bis della legge della Regione Veneto 23 aprile 2004, n. 11 (Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio), inserito dall’art. 2 della legge della Regione Veneto 12 aprile 2016, n. 12 (Modifica della legge regionale 23 aprile 2004, n. 11 “Norme per il governo del territorio e in materia di paesaggio” e successive modificazioni), riguardante la pianificazione delle attrezzature religiose (è richiamata la sentenza n. 67 del 2017).
3.– Il 25 settembre 2019 l’Associazione culturale Assalam di Cantù, parte di un giudizio amministrativo oggetto di sospensione cosiddetta “impropria” (cioè, disposta in attesa della decisione della Corte sulle presenti cause), ha depositato atto di intervento ad adiuvandum.
4.– Con sentenza dell’8 ottobre 2018, iscritta al reg. ord. n. 172 del 2018, il TAR Lombardia ha sollevato questioni di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera m), e sesto comma, e 118, primo comma, Cost.
La disposizione censurata stabilisce che «[i] comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale recante “Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi”. Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT».
Il TAR riferisce che l’Associazione Comunità Islamica Ticinese (ora Associazione Culturale Islamica Ticinese), ricorrente nel giudizio amministrativo, formata da circa trecento persone di religione islamica residenti prevalentemente a Sesto Calende e nei comuni limitrofi, aveva chiesto al Comune di Sesto Calende fin dal 2011, nel corso della formazione del piano di governo del territorio (di seguito PGT), di prevedere nel proprio strumento urbanistico un’area per il culto islamico. Il Comune aveva rigettato la richiesta e l’Associazione aveva impugnato il PGT nella parte in cui non prevedeva alcuna area da destinare al culto islamico. Il ricorso era stato accolto con sentenza del TAR Lombardia 8 novembre 2013, n. 2485. A fronte dell’inerzia del Comune, l’Associazione aveva poi notificato un ricorso per ottemperanza, a seguito del quale il TAR (con sentenza 15 gennaio 2015, n. 146, non impugnata) aveva indicato le modalità per l’esecuzione della sua precedente pronuncia. Il procedimento avviato per adeguarsi alla sentenza di ottemperanza, tuttavia, era stato sospeso dal Comune per il sopraggiungere della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015 (che richiedeva il parere della Consulta regionale per la valutazione delle istanze relative alle attrezzature religiose). L’Associazione aveva quindi notificato un nuovo ricorso, ritenendo che la nuova legge regionale non potesse costituire ostacolo all’esecuzione delle precedenti statuizioni giurisdizionali, ma questo ricorso veniva respinto dal TAR (sentenza 16 aprile 2015, n. 943, non impugnata). Dopo la dichiarazione di illegittimità costituzionale della norma relativa al parere della Consulta regionale (sentenza n. 63 del 2016), al fine di non fare decorrere il termine di diciotto mesi previsto dalla legge regionale per l’approvazione dei piani comunali delle attrezzature religiose, l’Associazione aveva notificato al Comune un atto di diffida. Il Comune respingeva la domanda con provvedimento del Responsabile dei servizi dell’Area tecnica del Comune di Sesto Calende 25 ottobre 2016, n. prot. 24471, rilevando l’assenza dei requisiti di ente di confessione religiosa richiesti dalla legge 24 giugno 1929, n. 1159 (Disposizioni sull’esercizio dei culti ammessi nello Stato e sul matrimonio celebrato davanti ai ministri dei culti medesimi). Quest’ultimo diniego dava luogo al giudizio a quo e veniva sospeso dal TAR con ordinanza cautelare 20 gennaio 2017, n. 112, (poi confermata dal Consiglio di Stato con ordinanza 5 maggio 2017, n. 1885).
Il Comune adottava quindi la delibera consiliare 20 settembre 2017, n. 39, con cui respingeva la domanda per una pluralità di motivi. Il nuovo diniego veniva impugnato dall’Associazione con motivi aggiunti, sui quali il TAR deve dunque pronunciarsi nel merito.
4.1.– Il TAR rileva che la delibera n. 39 del 2017 avrebbe «natura di provvedimento di secondo grado» rispetto all’atto di diniego n. 24471 del 2016 e, dunque, avrebbe privato quest’ultimo di efficacia. Per questa ragione dichiara improcedibile il ricorso principale.
Quanto ai motivi aggiunti, il TAR afferma di dubitare «della legittimità costituzionale dell’art. 72 della L.R. Lombardia n. 12/2005 nella misura in cui tale norma, avuto riguardo alla tutela costituzionale riservata alla libertà religiosa, non detta alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando (comma 5) e in che senso (commi 1 e 2) determinarsi a fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto».
Tuttavia, dopo avere ricordato di avere già rimesso la questione di costituzionalità relativa all’art. 72, commi 1 e 2, con la sentenza non definitiva iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018, il TAR «[s]otto questo profilo […] reputa opportuno sospendere il giudizio ai sensi dell’art. 79 c.p.a. in attesa della decisione» della Corte costituzionale, e quindi solleva soltanto la questione relativa all’art. 72, comma 5, «per un ulteriore profilo di incostituzionalità della norma regionale, non sollevato nella precedente decisione di rinvio».
4.2.– Sulla rilevanza, il TAR riferisce che con il primo motivo aggiunto l’Associazione lamenta che «l’Amministrazione comunale non può legittimamente negare la sussistenza dei presupposti ad una individuazione di area di culto da assegnare a fedeli della religione islamica, né tanto meno [il che particolarmente rileva ai fini della questione di legittimità costituzionale – n.d.r.] può legittimamente differire ogni determinazione in tal senso ad una successiva ed ulteriore verifica in sede di futuro aggiornamento del PGT».
La decisione su questa prima censura, secondo il rimettente, passerebbe necessariamente attraverso l’applicazione dell’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, perché tale disposizione prevede che, decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, i comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose devono approvare il piano delle attrezzature religiose «unitamente al nuovo PGT». Il termine di diciotto mesi è spirato il 6 agosto 2016 e il Comune di Sesto Calende non ha approvato il piano delle attrezzature religiose e ha adottato l’atto di diniego il 20 settembre 2017. Per questa ragione verrebbe in rilievo l’applicazione del secondo periodo dell’art. 72, comma 5, giacché senza l’approvazione del nuovo PGT rimarrebbe senza tutela la posizione dell’Associazione e sarebbe dunque «innegabile» la rilevanza della questione.
4.3.– Quanto alla non manifesta infondatezza, l’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge regionale n. 12 contrasterebbe innanzitutto con gli artt. 2, 3 e 19 Cost., per l’irragionevole compressione della libertà religiosa dei fedeli, sotto il profilo del loro diritto di trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà, in quanto, a seguito della inutile decorrenza del termine di diciotto mesi per l’adozione del PAR, la norma non prevede la possibilità di «alcun intervento sostitutivo», e assegna all’amministrazione comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT «senza alcun ulteriore termine» e senza «alcuna disposizione “sanzionatoria”».
Resterebbe, secondo lo stesso rimettente, «fuori discussione il potere del Comune di decidere, all’esito di un’istruttoria adeguata, se accogliere o respingere la domanda degli interessati». Tuttavia, la perdurante situazione di attesa e di incertezza nella quale versano i fedeli non sarebbe compatibile con il rango costituzionale del diritto di libertà religiosa. La domanda di spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà, infatti, dovrebbe «trovare una risposta – in un senso positivo o in senso negativo – in tempi certi, ed entro un termine ragionevole» (si richiama la sentenza n. 63 del 2016).
4.4.– La norma regionale impugnata violerebbe anche l’art. 97 Cost. in quanto la mancata previsione di tempi certi di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa.
Inoltre, la mancata previsione di tempi certi violerebbe l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base all’art. 29 della legge n. 241 del 1990.
4.5.– Sotto un ulteriore profilo, il rimettente denuncia la violazione, da parte della norma regionale in questione, degli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost. Una volta decorsi i diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «la norma regionale condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione complessiva del piano di governo del territorio». Secondo il TAR, ciò determinerebbe la ingiustificata compressione dell’autonomia dei comuni nell’esercizio delle funzioni di loro competenza, non comprendendosi per quale ragione sia vietato ai comuni lombardi di adottare il PAR in un momento distinto rispetto alla revisione del PGT; inoltre, sarebbe compressa anche la potestà regolamentare in ordine alle funzioni attribuite ai comuni (art. 117, sesto comma, Cost.) e sarebbe violato il principio di sussidiarietà verticale di cui all’art. 118, primo comma, Cost.
5.– È intervenuta in giudizio la Regione Lombardia, con atto depositato il 17 dicembre 2018, eccependo l’inammissibilità e l’infondatezza delle questioni.
5.1.– Le questioni sarebbero inammissibili per irrilevanza, perché la norma della cui costituzionalità si dubita non influirebbe sulla decisione nel giudizio a quo.
La Regione rileva che la delibera del Consiglio comunale n. 39 del 2017 ha respinto la domanda dell’Associazione per diversi motivi, senza fare alcun cenno all’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 e alle scadenze temporali per l’approvazione del PAR. La circostanza che il Comune di Sesto Calende non si sia pronunciato nei diciotto mesi «non risulta essere censurata nel giudizio, né il provvedimento risulta motivato in relazione al suddetto art. 72 co. 5». Tale norma, pertanto, non troverebbe applicazione nel giudizio a quo.
La Regione ricorda che la deliberazione del Comune consegue ad una complessa vicenda giudiziale: in essa «si legge che, in considerazione delle ordinanze cautelari emesse dal TAR per la Lombardia e dal Consiglio di Stato, si determina ad analizzare l’osservazione al Piano di Governo del Territorio, prot. 18509 del 04.07.2011 presentata dall’Associazione Islamica e tesa all’identificazione nel P.G.T. di un’area destinata ad attrezzature per il culto islamico». L’istanza sarebbe stata dunque esaminata dal Comune proprio in sede di approvazione del PGT, cioè «nella sede propria, anche ai sensi dell’art. 72 oggetto del presente giudizio».
Il ricorso metterebbe in evidenza l’impossibilità, per il Comune, di negare un provvedimento positivo in presenza di una comunità di fedeli, per cui l’art. 72, comma 3 (recte: 5), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 non sarebbe applicabile.
Inoltre, la norma censurata non sarebbe applicabile perché la vicenda amministrativa e giudiziaria riguarda «un procedimento di approvazione di PGT già in itinere».
5.2.– Quanto al merito delle questioni, la difesa regionale, dopo avere richiamato gli argomenti già spesi in relazione all’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018, afferma che la disposizione dell’art. 72, comma 5, non violerebbe l’art. 19 Cost. in quanto non distingue fra le varie confessioni religiose, che siano di grandi, medie o piccole dimensioni.
Aggiunge che, essendo il PAR un nuovo elemento del più ampio PGT, la legge regionale ha voluto che fosse inserito in un momento di revisione organica di quest’ultimo. Successivamente alla prima variante generale del PGT, tuttavia, qualsiasi altra richiesta accolta dal comune potrebbe essere approvata con una semplice variante al PAR, e non ogni volta con una variante generale al PGT.
Quanto alla mancata previsione di un potere sostitutivo dopo la scadenza dei diciotto mesi, la Regione osserva che «la parola “intendono” utilizzata dalla norma non può certo essere ritenuta come intenzione soggettiva, ma come legata al nostro ordinamento giuridico»: nell’ipotesi in cui vi fossero state istanze pendenti nel lasso di tempo dal 5 febbraio 2015 al 5 agosto 2016, i comuni sarebbero stati tenuti ad esaminarle (eventualmente respingendole, come ha fatto il Comune di Sesto Calende). La mancanza di un potere sostitutivo regionale non sarebbe incostituzionale perché il nostro ordinamento prevede rimedi contro l’inerzia della pubblica amministrazione.
In virtù della previsione del termine di diciotto mesi, la certezza del rapporto sarebbe insita nella norma, con conseguente insussistenza della violazione degli artt. 97 e 117, secondo comma, lettera m), Cost.
La Regione rileva anche che, in ogni caso, i comuni possono ancora approvare il PAR in tempi ragionevoli, con la procedura prevista per le varianti generali al PGT, e, ove i comuni «non dovessero attivarsi, immotivatamente, a fronte di richieste di nuove attrezzature religiose, tale comportamento potrà essere sanzionato nelle sedi competenti».
La norma regionale avrebbe dato «la possibilità ai comuni di esaminare con procedimento semplificato le istanze già pendenti proprio in considerazione della necessità di una durata ragionevole del procedimento», e ciò dimostrerebbe che la scansione temporale della norma de qua non contrasta con gli artt. 2, 3, 19, 97 e 117, secondo comma, lettera m), Cost.
La previsione della variante generale del PGT non sarebbe eccentrica perché la gestione del territorio deve tener conto di tutti gli interessi coinvolti e la sede propria per questa attività è il PGT.
Il rispetto dell’autonomia comunale «deve armonizzarsi con la verifica e la protezione di concorrenti interessi generali, collegati ad una valutazione ampia delle esigenze diffuse sul territorio».
Dunque, la normativa regionale non violerebbe le norme costituzionali relative all’autonomia comunale: «i Comuni ben possono esercitare le proprie funzioni» ma «devono adottare un determinato procedimento». La discrezionalità del legislatore regionale non potrebbe risultare compressa al punto che ad esso non sarebbe consentito di «normare il procedimento attraverso cui si giunge all’approvazione» del piano delle attrezzature religiose.
6.– Nel giudizio di legittimità costituzionale si è costituita – con atto depositato il 21 dicembre 2018 – l’Associazione Culturale Islamica Ticinese, ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo che la disposizione censurata sia dichiarata incostituzionale.
La parte ripercorre le vicende amministrative e giudiziarie all’origine del giudizio di legittimità costituzionale, osservando, fra l’altro, che all’Associazione aderiscono oltre 150 capifamiglia e che tale comunità islamica non dispone di uno spazio per la preghiera, ragion per cui dal 2006 chiede al Comune di Sesto Calende l’individuazione di uno spazio nel territorio comunale. In occasione dell’approvazione del PGT, la richiesta dell’Associazione sarebbe stata respinta per ragioni «elettorali», e il rigetto è stato poi annullato dal TAR Lombardia. Nelle more del giudizio di ottemperanza per l’esecuzione di tale sentenza, la Regione approvava la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «meglio nota in Lombardia come “legge antimoschee”».
L’Associazione ricorda di aver contestato la delibera del Consiglio comunale n. 39 del 2017 in quanto «la disposizione regionale avrebbe consentito di subordinare a valutazioni ampiamente discrezionali […] la previsione di aree di culto»: invece si dovrebbe escludere che «in proposito l’amministrazione comunale fruisca dell’ordinaria discrezionalità (sia quanto ai contenuti, sia quanto ai tempi) di cui gode […] in materia di pianificazione urbanistica e cui fa rinvio l’art. 72, quinto comma, della l. reg. 12/2005». Secondo l’Associazione, l’amministrazione comunale, «alla stregua dei principi costituzionali, può “modulare” l’esercizio della libertà di culto nell’ambito del territorio comunale, per esempio attraverso l’individuazione delle aree più idonee, alla integrazione architettonica, ecc.», ma una legge regionale non può assegnare al comune «una potestà di pianificazione urbanistica come strumento per decidere “se” e “quando” individuare un luogo di culto nel territorio comunale sulla base di propri apprezzamenti ampiamente discrezionali». In altre parole, «non può essere conferita al Comune la possibilità di consentire o meno l’esercizio del culto nel territorio comunale (come invece si verifica nei Paesi dove non è riconosciuta la libertà religiosa)»: ai comuni dovrebbe spettare soltanto l’individuazione del luogo più adatto.
Con la deliberazione n. 39 del 2017, il Comune avrebbe esercitato l’ampia discrezionalità attribuita dall’art. 72, comma 5, della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, ragion per cui la questione sarebbe rilevante.
Quanto alla non manifesta infondatezza, l’Associazione rileva che, secondo la giurisprudenza costituzionale, i principi costituzionali della laicità “positiva” dello Stato e della libertà religiosa condizionano l’esercizio delle potestà urbanistiche. Per questo motivo i poteri di programmazione territoriale non potrebbero «prevaricare rispetto ai principi costituzionali sulla garanzia del culto» e la legislazione regionale non potrebbe penalizzare surrettiziamente l’insediamento delle attrezzature religiose. La giurisprudenza costituzionale imporrebbe di «differenziare con chiarezza l’individuazione di luoghi di culto dalla discrezionalità (che attiene sia all’‘an’, che al ‘quomodo’, che al ‘quando’) di cui fruisce ordinariamente l’amministrazione comunale nelle scelte in materia di pianificazione urbanistica».
L’Associazione nega la possibilità di un’interpretazione adeguatrice: l’interpretazione dell’art. 72, comma 5, seguita dal Comune di Sesto Calende, sulla cui base è stata sollevata la questione, sarebbe costantemente riscontrabile nella prassi amministrativa lombarda, tanto è vero che nella provincia di Varese sarebbe stato rilasciato un solo permesso per costruire un luogo di culto islamico. Infatti, i membri dell’Associazione, per celebrare il culto, si recano ogni settimana in provincia di Novara.
7.– Il 9 aprile 2019 la Regione Lombardia ha depositato una memoria integrativa. In essa ribadisce l’irrilevanza e l’infondatezza della questione sollevata dal giudice a quo.
8.– Il 17 aprile 2019 la Associazione Culturale Islamica Ticinese ha depositato a sua volta una memoria integrativa, in cui, in primo luogo, replica all’eccezione di inammissibilità per irrilevanza, osservando che la norma censurata assume rilievo nel giudizio a quo in quanto la sua applicazione comporterebbe il rigetto dei motivi aggiunti per carenza d’interesse. Infatti, il Comune ha respinto la richiesta dell’Associazione in una sede diversa dalla formazione del nuovo PGT, per cui, visto il contenuto dell’art. 72, comma 5, e il decorso del termine di diciotto mesi in esso previsto, la norma censurata «precluderebbe qualsiasi possibilità di risultato utile per l’Associazione ricorrente». Il TAR avrebbe espresso questo concetto osservando che la rilevanza deriva dal fatto che, senza l’avvio del procedimento di approvazione del nuovo PGT, «rimane senza tutela la posizione dell’Associazione».
Nel merito, l’Associazione rileva che la legislazione regionale sulla pianificazione urbanistica non può rendere più difficoltoso l’esercizio del diritto fondamentale di libertà religiosa: eppure questo sarebbe l’effetto della norma censurata, che vincola l’individuazione di luoghi di culto (e non delle altre opere di urbanizzazione secondaria) all’adozione del nuovo PGT. Nel complesso, le norme della Regione Lombardia avrebbero determinato l’«esclusione sistematica di luoghi di culto islamico».
9.– Il 25 settembre 2019 l’Associazione culturale Assalam di Cantù, parte di un processo amministrativo oggetto di sospensione c.d. “impropria” (in attesa della decisione della Corte sulle presenti cause), ha depositato anche in questo giudizio atto di intervento ad adiuvandum.
10.– Il 30 settembre 2019 la Regione Lombardia ha depositato una ulteriore memoria integrativa, in cui ribadisce gli argomenti svolti a sostegno dell’inammissibilità e dell’infondatezza della questione. Inoltre, la Regione osserva che, «non motivando sugli ulteriori profili di ricorso, nonostante la loro priorità logico-giuridica, di fatto il Giudice a quo svincola la proposizione del dubbio di costituzionalità dal nesso di pregiudizialità».
Considerato in diritto
1.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 159 del 2018 il Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia dubita della legittimità costituzionale dell’art. 72, commi 1 e 2, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), nel testo risultante dalle modifiche apportate dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi», per contrasto con gli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione.
L’art. 72, comma 1, stabilisce che «[l]e aree che accolgono attrezzature religiose o che sono destinate alle attrezzature stesse sono specificamente individuate nel piano delle attrezzature religiose, atto separato facente parte del piano dei servizi, dove vengono dimensionate e disciplinate sulla base delle esigenze locali, valutate le istanze avanzate dagli enti delle confessioni religiose di cui all’articolo 70». Il comma 2 dispone che «[l]’installazione di nuove attrezzature religiose presuppone il piano di cui al comma 1; senza il suddetto piano non può essere installata nessuna nuova attrezzatura religiosa da confessioni di cui all’articolo 70». Le attrezzature religiose sono identificate dall’art. 71 della stessa legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
Secondo il TAR, i citati commi 1 e 2 dell’art. 72, nel prevedere che, in assenza o comunque al di fuori delle previsioni del piano delle attrezzature religiose (di seguito, PAR), i comuni non possano consentire l’apertura di spazi destinati all’esercizio del culto, a prescindere dal contesto e dal carico urbanistico generato dalla specifica opera, violerebbero: a) l’art. 19 Cost., in quanto la possibilità di esercitare collettivamente e in forma pubblica i riti non contrari al buon costume verrebbe a essere subordinata alla discrezionale pianificazione comunale e, quindi, al controllo pubblico; b) l’art. 3 Cost., in quanto le norme censurate eccederebbero lo scopo di assicurare il corretto inserimento sul territorio delle attrezzature religiose e assegnerebbero a queste un trattamento discriminatorio rispetto a quello riservato ad altre attrezzature comunque destinate alla fruizione pubblica, con conseguente violazione «dei fondamentali canoni di ragionevolezza, proporzionalità e non discriminazione»; c) l’art. 2 Cost., «stante la centralità del credo religioso quale espressione della personalità dell’uomo, tutelata nella sua affermazione individuale e collettiva».
2.– Nel giudizio iscritto al reg. ord. n. 172 del 2018, lo stesso TAR Lombardia dubita della legittimità costituzionale del comma 5, secondo periodo, dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, per contrasto con gli artt. 2, 3, 5, 19, 97, 114, secondo comma, 117, secondo comma, lettera m), e sesto comma, e 118, primo comma, Cost.
La disposizione censurata stabilisce che «[i] comuni che intendono prevedere nuove attrezzature religiose sono tenuti ad adottare e approvare il piano delle attrezzature religiose entro diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge regionale […]. Decorso detto termine il piano è approvato unitamente al nuovo PGT».
Secondo il TAR, l’art. 72, comma 5, secondo periodo, in base al quale, una volta decorsi diciotto mesi dalla data di entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, il PAR è approvato unitamente al nuovo piano per il governo del territorio (di seguito, PGT), senza «alcun limite alla discrezionalità del Comune nel decidere quando […] determinarsi a fronte della richiesta di individuazione di edifici o aree da destinare al culto», violerebbe: a) gli artt. 2, 3 e 19 Cost., per l’irragionevole compressione della libertà religiosa dei fedeli, sotto il profilo del loro diritto di trovare spazi da dedicare all’esercizio di tale libertà, in quanto, a seguito della inutile decorrenza del termine di diciotto mesi per l’adozione del PAR, la norma non prevede «alcun intervento sostitutivo», e demanda all’amministrazione comunale la facoltà di introdurre il piano in sede di revisione o adozione del PGT «senza alcun ulteriore termine» e senza «alcuna disposizione “sanzionatoria”»; b) l’art. 97 Cost., in quanto la mancata previsione di tempi certi di risposta all’istanza dei fedeli, da un lato, contrasterebbe con il principio di buon andamento dell’azione amministrativa e, dall’altro lato, esprimerebbe «uno sfavore dell’Amministrazione nei confronti del fenomeno religioso», con conseguente violazione del principio di imparzialità dell’azione amministrativa; c) l’art. 117, secondo comma, lettera m), Cost., in quanto la predeterminazione della durata massima dei procedimenti atterrebbe ai livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili, in base all’art. 29 della legge 7 agosto 1990, n. 241 (Nuove norme in materia di procedimento amministrativo e di diritto di accesso ai documenti amministrativi); d) gli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost., in quanto, una volta decorsi i diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, «la norma regionale condiziona l’adozione del Piano delle attrezzature religiose alla revisione complessiva del piano di governo del territorio», con conseguente ingiustificata compressione dell’autonomia dei comuni.
3.– I due giudizi, riguardando norme sotto più profili connesse e sollevando questioni in parte sovrapponibili, vanno riuniti per essere definiti con un’unica pronuncia.
4.– L’intervento dell’associazione Assalam di Cantù è avvenuto in entrambi i giudizi oltre il termine previsto dall’art. 4, comma 4, delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale, in quanto l’atto di intervento è stato depositato il 25 settembre 2019, ben dopo i venti giorni dalla pubblicazione nella Gazzetta Ufficiale dell’atto introduttivo del giudizio, avvenuta il 14 novembre 2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 159 del 2018 e il 5 dicembre 2018 per la causa di cui al reg. ord. n. 172 del 2018. L’intervento è dunque inammissibile in quanto, secondo il costante orientamento di questa Corte, il termine per l’intervento nei giudizi dinanzi a essa è perentorio (tra le molte, sentenze n. 106, n. 90 e n. 78 del 2019).
5.– Venendo all’esame delle questioni sollevate nella prima causa (reg. ord. n. 159 del 2018), occorre innanzitutto precisare il thema decidendum sottoposto a questa Corte e affrontare i profili processuali.
Il TAR Lombardia censura i primi due commi dell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005: il comma 2 perché subordina in modo assoluto l’apertura di luoghi di culto alla previa adozione del PAR; il comma 1 perché, «anche dopo l’approvazione del Piano, nessuna attrezzatura è realizzabile al di fuori delle aree a ciò specificamente destinate».
A sostegno delle sue censure il giudice a quo sviluppa per le due disposizioni un’argomentazione unica, articolata in riferimento ai tre parametri invocati. In realtà, le due norme censurate presentano un contenuto differenziato e sono in effetti oggetto di distinte doglianze da parte del TAR, che contesta per un verso la subordinazione dei luoghi di culto alla previa approvazione del PAR (prevista al comma 2) e per altro verso il necessario rispetto della zonizzazione operata nel PAR stesso (prescritto al comma 1). Le censure devono dunque essere distinte anche in relazione all’oggetto, e non solo in relazione al parametro.
5.1.– Precisato ciò, le questioni relative all’art. 72, comma 1, sono inammissibili per irrilevanza. Il TAR censura infatti il carattere vincolante delle previsioni localizzative del PAR per l’insediamento di qualsivoglia nuova attrezzatura religiosa, ma, nel caso oggetto del giudizio a quo, il PAR non risulta adottato, con la conseguenza che al giudizio stesso è estraneo il tema – anche logicamente, oltre che fattualmente, subordinato al tema della previa esistenza del PAR – della necessaria conformità alla zonizzazione del piano e dunque in esso non viene in rilievo la questione di costituzionalità della norma che la prescrive (art. 72, comma 1).
5.2.– Passando alle questioni proposte con riferimento all’art. 72, comma 2, occorre esaminare, in primo luogo, l’eccezione di irrilevanza sollevata dalla Regione, secondo la quale, mentre il TAR censura la sproporzione tra l’obbligo generalizzato previsto dalla norma, che impone l’esistenza del PAR come condizione per l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa, e le ipotesi in cui questa consista per esempio in una piccola sala di preghiera, il giudizio a quo riguarderebbe invece un luogo di culto potenzialmente frequentabile da un numero non determinato di fedeli e destinato a incidere in modo rilevante e permanente sul tessuto urbano.
L’eccezione non è fondata.
Anche senza entrare nel merito del presupposto di fatto dell’eccezione (cioè, l’asserita rilevante consistenza della dimensione dell’immobile oggetto del giudizio a quo), si deve osservare che il TAR non censura l’art. 72, comma 2, solo nella parte in cui si applica ai luoghi di culto di dimensioni modeste, ma chiede una pronuncia ablativa dell’intera disposizione. Il riferimento all’applicazione della norma anche alle «modeste sale di preghiera» è diretto a mettere in evidenza gli effetti irragionevoli della norma stessa, non a limitare il petitum. L’effettiva consistenza della struttura oggetto del giudizio a quo non è dunque significativa ai fini della rilevanza delle questioni.
Complessivamente, la motivazione del TAR sulla rilevanza risulta adeguata. Il giudice a quo censura l’art. 72, comma 2, cioè esattamente la norma posta alla base del provvedimento di annullamento d’ufficio, impugnato nel giudizio a quo. Si sofferma inoltre espressamente sugli effetti della sopravvenuta legge della Regione Lombardia 25 gennaio 2018, n. 5 (Razionalizzazione dell’ordinamento regionale. Abrogazione di disposizioni di legge), che ha abrogato la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, argomentando in modo plausibile sulla permanenza della rilevanza delle questioni.
Si può osservare, infine, che la parte dell’atto di rimessione in cui si sollevano le questioni di legittimità costituzionale ha una propria autonomia e delinea in modo chiaro le questioni stesse, mettendone in evidenza la rilevanza ai fini della decisione del quinto motivo di ricorso (l’unico non deciso dal rimettente). Non rilevano dunque in questa sede eventuali profili di non coerenza fra la parte dell’atto di rimessione che solleva le questioni e altri capi della pronuncia in cui vengono respinti gli altri motivi di ricorso, in alcuni casi applicando le disposizioni che il TAR ha poi sottoposto al giudizio di questa Corte.
6.– Nel merito, la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, proposta in relazione agli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost., è fondata.
È opportuno, innanzitutto, ricordare la cornice costituzionale in cui si inserisce l’oggetto dei presenti giudizi.
La libertà religiosa garantita dall’art. 19 Cost. è un diritto inviolabile (sentenze n. 334 del 1996, n. 195 del 1993 e n. 203 del 1989), tutelato «al massimo grado» (sentenza n. 52 del 2016) dalla Costituzione. La garanzia costituzionale ha valenza anche “positiva”, giacché il principio di laicità che contraddistingue l’ordinamento repubblicano è «da intendersi, secondo l’accezione che la giurisprudenza costituzionale ne ha dato (sentenze n. 63 del 2016, n. 508 del 2000, n. 329 del 1997, n. 440 del 1995, n. 203 del 1989), non come indifferenza dello Stato di fronte all’esperienza religiosa, bensì come tutela del pluralismo, a sostegno della massima espansione della libertà di tutti, secondo criteri di imparzialità» (sentenza n. 67 del 2017).
Della libertà di religione il libero esercizio del culto è un aspetto essenziale, che lo stesso art. 19 Cost. garantisce specificamente disponendo che «[t]utti hanno diritto di professare liberamente la propria fede religiosa in qualsiasi forma, individuale o associata, di farne propaganda e di esercitarne in privato o in pubblico il culto, purché non si tratti di riti contrari al buon costume». L’esercizio pubblico e comunitario del culto, come questa Corte ha più volte precisato, va dunque tutelato, e va assicurato ugualmente a tutte le confessioni religiose, a prescindere dall’avvenuta stipulazione o meno dell’intesa con lo Stato e dalla loro condizione di minoranza (sentenze n. 63 del 2016, n. 195 del 1993 e n. 59 del 1958).
La libertà di culto si traduce anche nel diritto di disporre di spazi adeguati per poterla concretamente esercitare (sentenza n. 67 del 2017) e comporta perciò più precisamente un duplice dovere a carico delle autorità pubbliche cui spetta di regolare e gestire l’uso del territorio (essenzialmente le regioni e i comuni): in positivo – in applicazione del citato principio di laicità – esso implica che le amministrazioni competenti prevedano e mettano a disposizione spazi pubblici per le attività religiose; in negativo, impone che non si frappongano ostacoli ingiustificati all’esercizio del culto nei luoghi privati e che non si discriminino le confessioni nell’accesso agli spazi pubblici (sentenze n. 63 del 2016, n. 346 del 2002 e n. 195 del 1993).
Naturalmente, nel destinare spazi pubblici alle sedi di attività di culto delle diverse confessioni, regioni e comuni devono tener conto della loro presenza nel territorio di riferimento, dal momento che, in questo contesto, il divieto di discriminazione «non vuol dire […] che a tutte le confessioni debba assicurarsi un’eguale porzione dei contributi o degli spazi disponibili: come è naturale allorché si distribuiscano utilità limitate, quali le sovvenzioni pubbliche o la facoltà di consumare suolo, si dovranno valutare tutti i pertinenti interessi pubblici e si dovrà dare adeguato rilievo all’entità della presenza sul territorio dell’una o dell’altra confessione, alla rispettiva consistenza e incidenza sociale e alle esigenze di culto riscontrate nella popolazione» (sentenza n. 63 del 2016).
6.1.– Il quadro costituzionale descritto ha trovato attuazione nella normativa, sia statale che di molte regioni, che garantisce la previsione di adeguati spazi per i luoghi di culto per l’esercizio della libertà religiosa.
Quanto alla disciplina statale, è sufficiente ricordare che, in base all’art. 3 del decreto ministeriale 2 aprile 1968, n. 1444 (Limiti inderogabili di densità edilizia, di altezza, di distanza fra i fabbricati e rapporti massimi tra spazi destinati agli insediamenti residenziali e produttivi e spazi pubblici o riservati alle attività collettive, al verde pubblico o a parcheggi da osservare ai fini della formazione dei nuovi strumenti urbanistici o della revisione di quelli esistenti, ai sensi dell’art. 17 della legge 6 agosto 1967, n. 765), i luoghi di culto rientrano tra le «attrezzature di interesse comune» che devono essere previste dagli strumenti urbanistici al fine di soddisfare gli standard fissati dallo stesso decreto. Inoltre, l’art. 16, comma 8, del decreto del Presidente della Repubblica 6 giugno 2001, n. 380 (Testo unico delle disposizioni legislative e regolamentari in materia edilizia), ha confermato che gli oneri di urbanizzazione secondaria riguardano anche «chiese e altri edifici religiosi».
A livello regionale, negli anni Ottanta e Novanta molte regioni hanno dettato norme dirette a riservare alle attrezzature religiose un trattamento differenziato rispetto alle altre opere di urbanizzazione secondaria, al fine di agevolarne la realizzazione, in particolare con la previsione di contributi finanziari (regionali e comunali) e con l’innalzamento della dotazione minima richiesta dalla disciplina statale (così, fra le altre: legge della Regione Liguria 24 gennaio 1985, n. 4, recante «Disciplina urbanistica dei servizi religiosi»; legge della Regione Piemonte 7 marzo 1989, n. 15, recante «Individuazione negli strumenti urbanistici generali di aree destinate ad attrezzature religiose. Utilizzo da parte dei Comuni del fondo derivante dagli oneri di urbanizzazione»; legge della Regione Campania 5 marzo 1990, n. 9, recante «Riserva di standard urbanistici per attrezzature religiose»).
6.2.– In questo filone si inseriva anche la legge della Regione Lombardia 9 maggio 1992, n. 20 (Norme per la realizzazione di edifici di culto e di attrezzature destinate a servizi religiosi), che riservava alle attrezzature religiose il 25% della dotazione complessiva di attrezzature per interesse comune e prevedeva, fra l’altro, che in ciascun comune almeno l’8% delle somme riscosse per oneri di urbanizzazione secondaria fosse destinato alla loro realizzazione e manutenzione. Poiché tuttavia tali contributi erano riservati alla Chiesa cattolica e alle altre confessioni religiose dotate di intesa, questa Corte ha dichiarato costituzionalmente illegittima la disposizione che li prevedeva, nella parte in cui prescriveva il requisito dell’intesa (sentenza n. 346 del 2002).
La successiva legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), disciplinava poi, agli artt. da 70 a 73, la realizzazione di attrezzature religiose, stabilendo che esse sarebbero state regolate, insieme alle altre attrezzature di interesse pubblico, dal piano dei servizi. Tale normativa è stata oggetto, a partire dal 2006, di varie modifiche, che hanno progressivamente sottoposto l’apertura di luoghi di culto a controlli e limiti sempre più penetranti.
La prima modifica è stata apportata con la legge della Regione Lombardia 14 luglio 2006, n. 12 (Modifiche e integrazioni alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 «legge per il governo del territorio»), che ha assoggettato a permesso edilizio i mutamenti di destinazione d’uso di immobili, anche senza opere, «finalizzati alla creazione di luoghi di culto e luoghi destinati a centri sociali» (art. 52, comma 3-bis, aggiunto alla legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
Una nuova restrizione è stata introdotta dalla legge regionale 14 marzo 2008, n. 4, recante «Ulteriori modifiche e integrazioni alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio)», che, aggiungendo il comma 4-bis nell’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, ha limitato le zone in cui potevano essere realizzate le attrezzature religiose fino all’approvazione del piano dei servizi.
La successiva legge regionale 21 febbraio 2011, n. 3 (Interventi normativi per l’attuazione della programmazione regionale e di modifica e integrazione di disposizioni legislative - Collegato ordinamentale 2011), ha poi allargato la nozione di attrezzature religiose, comprendendovi «gli immobili destinati a sedi di associazioni, società o comunità di persone in qualsiasi forma costituite, le cui finalità statutarie o aggregative siano da ricondurre alla religione, all’esercizio del culto o alla professione religiosa quali sale di preghiera, scuole di religione o centri culturali» (art. 71, comma 1, lettera c-bis, aggiunta alla legge reg. Lombardia n. 12 del 2005).
È infine intervenuta la legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, oggetto del presente giudizio, che ha dettato una complessa disciplina in materia di attrezzature religiose, modificando l’art. 70 e sostituendo l’art. 72 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La disciplina del 2015 è stata impugnata, in alcune sue parti, dal Governo, e questa Corte ha deciso il ricorso con la sentenza n. 63 del 2016, fra l’altro dichiarando costituzionalmente illegittimi l’art. 70, commi 2-bis (nella parte in cui fissava alcuni requisiti solo per le confessioni non cattoliche senza intesa) e 2-quater (che istituiva la consulta regionale), e l’art. 72, comma 4, primo periodo (che prevedeva i pareri relativi ai profili di sicurezza pubblica, nel corso del procedimento di formazione del PAR), e comma 7, lettera e) (che richiedeva un impianto di videosorveglianza negli edifici di culto), della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005.
La sentenza n. 63 del 2016 non si è pronunciata nel merito sulle norme qui in esame, poiché i commi 1 e 2 dell’art. 72 non erano stati impugnati dal Governo e l’art. 72, comma 5, è stato oggetto di una pronuncia di manifesta inammissibilità.
6.3.– Così illustrato il contesto di riferimento, si possono ora esaminare le questioni sollevate dal giudice rimettente.
La disposizione censurata (art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, introdotto dalla legge reg. Lombardia n. 2 del 2015) subordina l’installazione di tutte le nuove attrezzature religiose al PAR (atto separato facente parte del piano dei servizi), che rappresenta a sua volta una novità introdotta dalla stessa legge reg. Lombardia n. 2 del 2015.
Occupandosi della potestà legislativa regionale in tema di edilizia di culto, questa Corte ne ha già chiarito finalità e limiti, affermando che «[l]a legislazione regionale in materia di edilizia di culto “trova la sua ragione e giustificazione – propria della materia urbanistica – nell’esigenza di assicurare uno sviluppo equilibrato ed armonico dei centri abitativi e nella realizzazione dei servizi di interesse pubblico nella loro più ampia accezione, che comprende perciò anche i servizi religiosi” (sentenza n. 195 del 1993)» (sentenza n. 63 del 2016). In questo contesto «la Regione è titolata, nel regolare la coesistenza dei diversi interessi che insistono sul proprio territorio, a dedicare specifiche disposizioni per la programmazione e la realizzazione dei luoghi di culto e, nell’esercizio di tali competenze, può imporre quelle condizioni e quelle limitazioni, che siano strettamente necessarie a garantire le finalità di governo del territorio affidate alle sue cure» (sentenza n. 67 del 2017). Nell’esercizio delle sue competenze, tuttavia, il legislatore regionale «non può mai perseguire finalità che esorbitano dai compiti della Regione», non essendogli consentito in particolare di introdurre «all’interno di una legge sul governo del territorio […] disposizioni che ostacolino o compromettano la libertà di religione» (sentenza n. 63 del 2016).
In sintesi dunque, nel regolare, in sede di disciplina del governo del territorio, l’edilizia di culto, le regioni possono perseguire esclusivamente finalità urbanistiche, nell’ambito delle quali deve essere ricondotta anche la necessaria specifica considerazione delle esigenze di allocazione delle attrezzature religiose. In ragione del peculiare rango costituzionale della libertà di culto, inoltre, la stessa disciplina urbanistico-edilizia deve far fronte, con riferimento alle attrezzature religiose, all’ulteriore esigenza della necessaria previsione di luoghi per il loro insediamento, con la conseguenza che essa non può comportare l’esclusione o l’eccessiva compressione della possibilità di realizzare strutture di questo tipo.
In questo quadro, la previsione – ad opera della legislazione regionale in materia di governo del territorio – di uno speciale piano dedicato alle attrezzature religiose, riconducibile al modello della pianificazione urbanistica di settore, non è di per sé illegittima. Non lo è, tuttavia, alla duplice condizione che essa persegua lo scopo del corretto insediamento nel territorio comunale delle attrezzature religiose aventi impatto urbanistico, e che, in questo orizzonte, tenga adeguatamente conto della necessità di favorire l’apertura di luoghi di culto destinati alle diverse comunità religiose (corrispondendo così anche agli standard urbanistici, cioè alla dotazione minima di spazi pubblici).
A tali condizioni non risponde l’art. 72, comma 2, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, che subordina l’installazione di qualsiasi attrezzatura religiosa all’esistenza del PAR. Questa Corte non può non rilevare infatti che tale soluzione legislativa per un verso non consente un equilibrato e armonico sviluppo del territorio e per altro verso finisce con l’ostacolare l’apertura di nuovi luoghi di culto.
A questo riguardo viene in evidenza innanzitutto il carattere assoluto della previsione, che riguarda indistintamente (ed esclusivamente) tutte le nuove attrezzature religiose, a prescindere dal loro carattere pubblico o privato, dalla loro dimensione, dalla specifica funzione cui sono adibite, dalla loro attitudine a ospitare un numero più o meno consistente di fedeli, e dunque dal loro impatto urbanistico, che può essere molto variabile e potenzialmente irrilevante. L’effetto di tale assolutezza è che anche attrezzature del tutto prive di rilevanza urbanistica, solo per il fatto di avere destinazione religiosa (si pensi a una piccola sala di preghiera privata di una comunità religiosa), devono essere preventivamente localizzate nel PAR, e che, per esempio, i membri di un’associazione avente finalità religiosa non possono riunirsi nella sede privata dell’associazione per svolgere l’attività di culto, senza una specifica previsione del PAR. Al contrario, qualsiasi altra attività associativa, purché non religiosa, può essere svolta senz’altro nella sede sua propria, liberamente localizzabile sul territorio comunale nel solo rispetto delle generali previsioni urbanistiche. In questa prospettiva, la potenziale irrilevanza urbanistica di una parte almeno delle strutture investite dalla previsione contestata rende evidente l’esistenza di un obiettivo ostacolo all’insediamento di nuove strutture religiose.
Va sottolineato inoltre il regime differenziato che, a dispetto dello specifico riconoscimento costituzionale – sopra ricordato – del diritto di disporre di un luogo di esercizio del culto, colpisce solo le attrezzature religiose e non le altre opere di urbanizzazione secondaria, quali per esempio scuole, ospedali, palestre, centri culturali. Si tratta in tutti i casi di impianti di interesse generale a servizio degli insediamenti abitativi che, in maniera non diversa dalle attrezzature religiose, possono presentare maggiore o minore impatto urbanistico in ragione delle loro dimensioni, della funzione e dei potenziali utenti. Il fatto che il legislatore regionale subordini solo le attrezzature religiose al vincolo di una specifica e preventiva pianificazione indica che la finalità perseguita è solo apparentemente di tipo urbanistico-edilizio, e che l’obiettivo della disciplina è invece in realtà quello di limitare e controllare l’insediamento di (nuovi) luoghi di culto. E ciò qualsiasi sia la loro consistenza, dalla semplice sala di preghiera per pochi fedeli al grande tempio, chiesa, sinagoga o moschea che sia.
In conclusione, la compressione della libertà di culto che la norma censurata determina, senza che sussista alcuna ragionevole giustificazione dal punto di vista del perseguimento delle finalità urbanistiche che le sono proprie, si risolve nella violazione degli artt. 2, 3, primo comma, e 19 Cost.
7.– Passando a esaminare la questione di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, occorre soffermarsi in primo luogo sulle eccezioni di inammissibilità sollevate dalla Regione Lombardia.
7.1.– Secondo la Regione Lombardia, la questione è irrilevante innanzitutto perché l’atto impugnato davanti al giudice rimettente non farebbe riferimento alla previsione censurata (art. 72, comma 5), che non troverebbe dunque applicazione nel giudizio a quo.
Sebbene sia vero che l’atto impugnato non menziona l’art. 72, comma 5, e che esso si pronuncia su un’osservazione presentata nel procedimento di approvazione del PGT, l’eccezione di irrilevanza non è fondata. Il TAR infatti non si limita a contestare la discrezionalità delle scelte urbanistiche affidate ai comuni in relazione al quando deliberare sulle istanze di individuazione di un luogo di culto, ma precisa espressamente che, nel caso di specie, viene in rilievo il secondo periodo dell’art. 72, comma 5, e la necessità, in esso prevista, che il PAR venga approvato «unitamente al nuovo PGT», con la conseguenza che resterebbero incerti e aleatori i tempi di risposta sull’istanza degli interessati, dato che, secondo il TAR, «l’Amministrazione non ha alcun obbligo di avviare il procedimento di revisione del PGT, per individuare le aree destinate a luogo di culto». E, in effetti, il baricentro delle questioni sollevate è proprio quello della necessaria approvazione del PAR contestualmente al nuovo PGT.
Ciò precisato, la motivazione offerta dal rimettente sulla rilevanza delle questioni investe due distinti profili.
Innanzitutto, è valorizzato il fatto che nel primo dei motivi aggiunti la ricorrente in due punti lamenta l’illegittimità del diniego perché, nella sua parte finale, la delibera impugnata afferma che «ogni determinazione in tal senso sarà oggetto di successiva ed ulteriore verifica in sede di futuro aggiornamento del PGT», come prescritto proprio all’art. 72, comma 5, secondo periodo. In secondo luogo, dopo aver affermato che l’art. 72, comma 5, vigente dal 2015, trova applicazione nel procedimento oggetto del giudizio a quo (iniziato con un’osservazione al PGT presentata nel 2011), il TAR osserva che, in base all’art. 72, comma 5, secondo periodo, «senza l’avvio del nuovo Piano del Governo del Territorio rimane senza tutela la posizione dell’Associazione: in tal senso è quindi innegabile la rilevanza della questione nel caso di specie».
Secondo il rimettente, pertanto, da un lato la legittimità dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, condiziona la legittimità del rinvio, operato dal provvedimento impugnato, al futuro aggiornamento del PGT, dall’altro la questione è comunque rilevante perché il Comune non avrebbe potuto accogliere l’istanza senza avviare il procedimento per il nuovo PGT, a causa del vincolo discendente dall’art. 72, comma 5, secondo periodo.
La motivazione fornita sulla rilevanza è dunque sufficiente e plausibile.
7.2.– La seconda eccezione di inammissibilità è sviluppata dalla Regione Lombardia nella memoria depositata il 30 settembre 2019, nella quale lamenta che, «non motivando sugli ulteriori profili di ricorso, nonostante la loro priorità logico-giuridica, di fatto il Giudice a quo svincola la proposizione del dubbio di costituzionalità dal nesso di pregiudizialità».
In realtà il TAR rimettente afferma espressamente, basandosi sull’ordine dei motivi aggiunti fissato dalla stessa ricorrente, che la seconda censura può essere esaminata solo dopo aver deciso sulla prima, e poi argomenta (come appena visto) sulla rilevanza della questione di costituzionalità relativa all’art. 72, comma 5, ai fini della decisione del primo dei motivi aggiunti.
È comunque il caso di ricordare che, secondo la giurisprudenza di questa Corte, non è sindacabile l’ordine di esame delle questioni seguito dal rimettente, qualora esso si sviluppi in modo non implausibile (ad esempio, sentenze n. 120 del 2019 e n. 125 del 2018).
Nemmeno questa eccezione, dunque, è fondata.
8.– Nel merito, anche la questione di legittimità costituzionale relativa all’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, sollevata in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 Cost., è fondata.
Come visto, la norma censurata stabilisce che, decorso il termine di diciotto mesi dall’entrata in vigore della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, il PAR «è approvato unitamente al nuovo PGT», il che significa che – come del resto precisato, con riferimento alla previsione in esame, anche nella circolare n. 3 del 20 febbraio 2017, recante gli indirizzi per l’applicazione della suddetta legge regionale – il PAR non può essere approvato «separatamente da un nuovo strumento di pianificazione urbanistica (PGT o variante generale)».
Seguendo un modello diffuso nella legislazione urbanistica regionale più recente, anche il legislatore regionale lombardo ha previsto un piano urbanistico comunale, denominato PGT, che si articola in tre atti: documento di piano, piano dei servizi e piano delle regole (art. 7 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005). Il documento di piano ha un contenuto ricognitivo-conoscitivo e determina gli obiettivi e le politiche di sviluppo del territorio. Esso ha validità quinquennale ed è sempre modificabile (art. 8 della citata legge regionale). Il piano dei servizi serve ad assicurare una dotazione globale di aree per attrezzature pubbliche e di interesse pubblico e generale, non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 9 della stessa legge regionale). Infine, il piano delle regole ha i diversi contenuti indicati nell’art. 10 della legge regionale in questione, e anch’esso non ha termini di validità ed è sempre modificabile (art. 10, comma 6). Il complesso procedimento di approvazione degli atti costituenti il PGT è regolato dall’art. 13 della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005; la stessa disciplina si applica «anche alle varianti agli atti costituenti il PGT» (art. 13, comma 13).
La contestualità di approvazione del PAR e del nuovo PGT (o di una sua variante generale), imposta dall’art. 72, comma 5, secondo periodo, fa sì che le istanze di insediamento di attrezzature religiose siano destinate a essere decise in tempi del tutto incerti e aleatori, in considerazione del fatto che il potere del comune di procedere alla formazione del PGT o di una sua variante generale, condizione necessaria per poter adottare il PAR (a sua volta condizione perché la struttura possa essere autorizzata), ha per sua natura carattere assolutamente discrezionale per quanto riguarda l’an e il quando dell’intervento.
La norma censurata, ostacolando la programmazione delle attrezzature religiose da parte dei comuni (a loro volta condizionati nell’esercizio della loro autonomia amministrativa in materia urbanistica, su cui, da ultimo, sentenza n. 179 del 2019), determina una forte compressione della libertà religiosa (che può addirittura spingersi fino a negare la libertà di culto), senza che a ciò corrisponda alcun reale interesse di buon governo del territorio. Secondo le regole generali, infatti, la realizzazione di un impianto di interesse pubblico che richieda la modifica delle previsioni di piano si può tradurre in una semplice variante parziale. E comunque, quand’anche la previsione del nuovo impianto possa richiedere una riconsiderazione dell’intero ambito interessato, la valutazione in concreto dell’impatto della nuova struttura sul contesto circostante spetterebbe in via esclusiva al comune. La previsione ad opera della legge regionale della necessaria e inderogabile approvazione del PAR unitamente all’approvazione del piano che investe l’intero territorio comunale (il PGT o la sua variante generale) è dunque ingiustificata e irragionevole, e tanto più lo è in quanto riguarda l’installazione di attrezzature religiose, alle quali, come visto, in ragione della loro strumentalità alla garanzia di un diritto costituzionalmente tutelato, dovrebbe piuttosto essere riservato un trattamento di speciale considerazione.
È significativo che per gli altri impianti di interesse pubblico la legge reg. Lombardia n. 12 del 2005 non solo non esiga la variante generale del PGT ma non richieda neppure sempre la procedura di variante parziale, visto che «[l]a realizzazione di attrezzature pubbliche e di interesse pubblico o generale, diverse da quelle specificamente previste dal piano dei servizi, non comporta l’applicazione della procedura di variante al piano stesso ed e` autorizzata previa deliberazione motivata del consiglio comunale» (art. 9, comma 15, della citata legge regionale).
Anche nel caso dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, si deve concludere che la disposizione censurata determina una limitazione dell’insediamento di nuove attrezzature religiose non giustificata da reali esigenze di buon governo del territorio e che essa, dunque, comprimendo in modo irragionevole la libertà di culto, viola gli artt. 2, 3 e 19 Cost.
9.– A seguito dell’accoglimento delle censure esaminate, le questioni riferite all’art. 97, all’art. 117, secondo comma, lettera m), e agli artt. 5, 114, secondo comma, 117, sesto comma, e 118, primo comma, Cost. restano assorbite.
Per Questi Motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
riuniti i giudizi,
1) dichiara inammissibili gli interventi spiegati dall’Associazione culturale Assalam di Cantù nei giudizi indicati in epigrafe;
2) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 2, della legge della Regione Lombardia 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio), come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge della Regione Lombardia 3 febbraio 2015, n. 2, recante «Modifiche alla legge regionale 11 marzo 2005, n. 12 (Legge per il governo del territorio) - Principi per la pianificazione delle attrezzature per servizi religiosi»;
3) dichiara l’illegittimità costituzionale dell’art. 72, comma 5, secondo periodo, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015;
4) dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 72, comma 1, della legge reg. Lombardia n. 12 del 2005, come modificato dall’art. 1, comma 1, lettera c), della legge reg. Lombardia n. 2 del 2015, sollevate dal Tribunale amministrativo regionale per la Lombardia, in riferimento agli artt. 2, 3 e 19 della Costituzione, con l’ordinanza iscritta al reg. ord. n. 159 del 2018.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 22 ottobre 2019.
F.to:
Giorgio LATTANZI, Presidente
Daria de PRETIS, Redattore
Roberto MILANA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 5 dicembre 2019.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: Roberto MILANA