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Intimidazione psicologica rende consenso viziato e rapporto sessuale reato (Cass. 33049/18)

7 luglio 2017, Cassazione penale

L'idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima nei reati di violenza sessuale va esaminata non secondo criteri astratti aprioristici, ma tenendosi conto, in concreto, di ogni circostanza oggettiva e soggettiva. Anche una semplice minaccia o intimidazione psicologica, attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, può esser sufficiente ad integrare, senza neppure necessità di protrazione nel corso della successiva fase della condotta tipica dei reati in esame, gli estremi della violenza.

in materia di delitti di violenza sessuale, la procedibilità d'ufficio determinata dalla ipotesi di connessione prevista dall'art. 609-septies c.p. , comma 4, n. 4, si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale ( art. 12 c.p.p. ), ma anche quando v'è connessione in senso materiale, cioè ogni qualvolta l'indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l'accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l'uno in occasione dell'altro, oppure l'uno per occultare l'altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell'art. 371 c.p.p

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE

(ud. 10/05/2017) 07-07-2017, n. 33049

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI NICOLA Vito - Presidente -

Dott. GAI Emanuela - rel. Consigliere -

Dott. CIRIELLO Antonella - Consigliere -

Dott. MENGONI Enrico - Consigliere -

Dott. MOLINO Pietro - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

M.A., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza del 20/01/2016 della Corte d'appello di Trento;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott.ssa Emanuela Gai;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore generale Dott.ssa FILIPPI Paola, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

1. Con sentenza del 20 gennaio 2016, la Corte d'appello di Trento ha confermato la sentenza del Giudice dell'Udienza preliminare del Tribunale di Rovereto con la quale M.A. era stato condannato, in esito al giudizio abbreviato condizionato, alla pena di anni due e mesi sei di reclusione, in relazione ai reati di cui all'art. 582 c.p. e art. 609-bis c.p. e art. 609-septies c.p. , comma 4, n. 4, per avere colpito con calci e pugni al volto e al torace la convivente, procurandole lesioni personali giudicate guaribili in giorni 25, e nel contesto qui descritto, costretto la stessa a subire atti sessuali consistiti in due rapporti sessuali completi. Fatti commessi l'(OMISSIS) presso la loro abitazione.

2. Avverso la sentenza ha presentato ricorso per cassazione il difensore di fiducia di M.A., e ne ha chiesto l'annullamento per i seguenti motivi enunciati nei limiti strettamente necessari per la motivazione, come disposto dall'art. 173 disp. att. c.p.p. , comma 1:

2.1. Con un primo motivo deduce la violazione di legge penale in relazione alla corretta applicazione degli artt. 609-bis c.p. e il vizio di motivazione in relazione alla illogicità, contraddittorietà e mancanza di motivazione sull'affermazione della responsabilità penale del M.. Argomenta il ricorrente che la corte territoriale sarebbe pervenuta alla conferma della sentenza di primo grado con motivazione illogica, sotto il profilo della configurabilità del reato di violenza sessuale, in assenza di manifestazione del dissenso della donna. Sostiene il ricorrente che la Corte d'appello avrebbe pretermesso ogni valutazione sulla sussistenza di un consenso viziato della persona offesa e sulla effettiva percezione del dissenso in capo al ricorrente. L'assenza di dissenso manifestamente opposto da parte della vittima, fondata su elementi inequivoci, escluderebbe, secondo il ricorrente, il dolo del reato. In tale ambito la corte territoriale non avrebbe considerato che la donna si era spogliata davanti al convivente, cosicchè doveva ritenersi superato l'eventuale iniziale dissenso; che dal referto medico in atti non risultavano lesioni nell'area genitale; che la coppia era solita avere abituali rapporti sessuali; che dopo un primo rapporto sessuale era seguito un altro, circostanza poco compatibile con un consenso viziato.

Il ricorrente avrebbe così agito nel convincimento del consenso della donna ai rapporti sessuali e tale errore, traducendosi in errore sul fatto, ex art. 47 c.p. , comporterebbe la non punibilità dell'agente per assenza del dolo.

2.2. Con un secondo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in relazione al diniego di riconoscimento dell'ipotesi di cui all'art. 609-bis c.p. , comma 3. La Corte d'appello avrebbe confermato il diniego di riconoscimento del fatto di minore gravità con motivazione meramente tautologica, omettendo di considerare gli ulteriori elementi quali il grado di coartazione esercitato sulla vittima, le condizioni fisiche e mentali, il grado di compromissione della libertà sessuale, non potendo avere rilievo esclusivo, per il diniego, l'essere avvenuti i fatti in costanza di rapporto coniugale.

2.3. Con il terzo motivo deduce la violazione di legge e il vizio di motivazione in ordine all'affermazione della responsabilità penale per il reato di lesioni personali. Premesso che il ricorrente non contesta la materialità del fatto contestato, deduce l'erronea valutazione della prova dichiarativa per non avere, la corte territoriale, dato rilievo alla circostanza che la persona offesa aveva dichiarato di essere guarita in dieci giorni, sicchè il reato sarebbe improcedibile per mancanza di querela. Avrebbe, al contrario, dato rilievo a quanto riportato nel referto medico in atti che indicava una prognosi di giorni 25, senza considerare che il referto medico fa prova limitatamente ai fatti oggetto di certificazione da parte del sanitario, non estendendosi alla prognosi, ovvero ad un circostanza futura e incerta.

2.4. Con il quarto motivo deduce la violazione della legge in relazione all'art. 609-septies c.p. , comma 4, n. 4, non sussistendo alcuna connessione tra il reato di lesioni personali, procedibile d'ufficio, e il reato di violenza sessuale per il quale non sussiste la condizione di procedibilità. Nel caso in esame non sarebbe necessario, per la prova del reato procedibile d'ufficio, indagare anche sul reato procedibile a querela. In ogni caso, le lesioni sarebbero esse stesse procedibili a querela (vedi 2.3.) e, dunque, a fortiori, non sussisterebbe la possibilità di applicare l'art. 609-septies c.p. , comma 4, n. 4.

3. Il Procuratore Generale ha chiesto, in udienza, che il ricorso sia rigettato.

Motivi della decisione

4. Il ricorso è inammissibile per la proposizione di motivi manifestamente infondati e, anche, ripetitivi di quelli già proposti.

5. Il primo motivo di ricorso, volto formalmente a contestare la motivazione con cui la sentenza impugnata ha ritenuto l'assenza di consenso della persona offesa, è manifestamente infondato.

Peraltro, la censura ripropone la medesima questione sollevate davanti alla Corte d'appello e dalla stessa vagliata e disattesa con motivazione congrua e corretta.

Quanto al profilo dedotto con il motivo di ricorso, va anzitutto chiarito che devono restare estranee all'orizzonte cognitivo di questa Corte le censure con cui, deducendosi apparentemente una carenza logica od argomentativa della decisione impugnata, si pretenda, in realtà, di rivisitare il giudizio valutativo sul materiale probatorio e in particolare delle dichiarazioni della persona offesa, rivestendo un tale aspetto natura prettamente fattuale.

A tale proposito deve rilevarsi che il ricorrente, nel censurare la congruità della motivazione in punto dissenso della donna al compimento dei rapporti sessuali con il convivente, introduce un elemento fattuale decontestualizzato ed estrapolato dalle dichiarazioni rese avanti al GUP (era stata avanzata richiesta di giudizio ex art. 442 c.p.p. condizionata all'assunzione della testimonianza della persona offesa) con cui, a distanza di due anni dal fatto e dopo la nascita di un secondo figlio, aveva ritrattato le accuse di violenza sessuale raccontate, all'indomani del fatto, ai Carabinieri e ai sanitari dell'ospedale di (OMISSIS), e successivamente al Pubblico Ministero alla presenza di un'interprete.

In tale contesto probatorio, entrambi i giudici del merito, nei due gradi di giudizio, hanno argomentato l'inattendibilità delle dichiarazioni rese nel giudizio abbreviato nel corso delle quali aveva dichiarato che, dopo un iniziale rifiuto "per motivi di orgoglio", aveva liberamente accettato il rapporto sessuale spogliandosi, ed hanno fondato la ricostruzione dei fatti sulle dichiarazioni rese dalla persona offesa il 14 maggio 2013 avanti all'interprete, corroborate da quelle rese ai sanitari nell'Ospedale di (OMISSIS), subito dopo i fatti, secondo cui dopo l'aggressione fisica, nel corso della quale aveva riportato lesioni personali, nello stesso contesto di prevaricazione e costrizione, aveva subito un rapporto sessuale, sicchè in tale contesto fattuale, non vi era stato bisogno di altri atti di violenza fisica da parte dell'imputato e la decisione della persona offesa di accondiscendere è stata ritenuta, dai giudici del merito, palesemente viziata.

Va ricordato che, oltre alla costrizione fisica, l'idoneità della violenza o della minaccia a coartare la volontà della vittima nei reati di violenza sessuale va esaminata non secondo criteri astratti aprioristici, ma tenendosi conto, in concreto, di ogni circostanza oggettiva e soggettiva. Anche una semplice minaccia o intimidazione psicologica, attuata in situazioni particolari tali da influire negativamente sul processo mentale di libera determinazione della vittima, può esser sufficiente ad integrare, senza neppure necessità di protrazione nel corso della successiva fase della condotta tipica dei reati in esame, gli estremi della violenza (Sez. 3, n. 14085 del 24/01/2013, R., Rv. 255022; Sez. 3, n. 1911 del 22/12/1999, Gubbi, Rv. 215695).

Nella specie, in coerenza con il principio appena ricordato, la Corte ha attribuito valenza decisiva alla circostanza che era stata appena picchiata con calci e pugni, era fuggita da casa, e al suo ritorno, il convivente, ancora sveglio, aveva ripreso al malmenarla (pag. 3), situazione che aveva indotto la donna a consentire, per evitare conseguenze lesive ulteriori, ad avere rapporti sessuali.

La Corte d'appello richiama, in continuità con il giudice di primo grado, quanto dichiarato dalla donna nel (OMISSIS), avanti al Pubblico Ministero, secondo cui aveva raccontato di essere dapprima stata accusata di aver avuto un rapporto sessuale con lo zio, di essere stata colpita al volto e al torace, di essere fuggita di casa e di essere tornate dopo circa 15 minuti, quando l'imputato, in preda ad un attacco di gelosia, aveva ricominciato a picchiarla e nello stesso tempo l'aveva "spinta" in camera da letto dove, in preda alla paura e di ulteriori violenze, aveva deciso di spogliarsi e subire un rapporto sessuale, elementi da quali ha tratto la prova positiva del dissenso della vittima manifestato da chiari ed inequivoci elementi esteriori.

Tanto basta, dunque, per ritenere adeguatamente motivato e coretto sul piano del diritto, nella specie, il profilo coercitivo del reato senza potersi pervenire a conclusioni contrarie argomentando, come fa il ricorrente della mancanza di percezione del dissenso/errore sul consenso, sulla base del dato estrapolato dalle dichiarazioni ritenute inattendibili rese nel giudizio abbreviato.

6. Il secondo motivo di ricorso con cui si censura la sentenza in relazione al diniego di concessione dell'attenuante di cui all'art. 609-bis c.p. , comma 3 di carattere generico.

Il ricorrente, nel censurare la motivazione del giudice dell'impugnazione, non si confronta con la sentenza impugnata che, in continuità con quella di primo grado, ha escluso l'attenuante in oggetto con motivazione logica e corretta sul piano del diritto.

I giudici del merito, contrariamente all'assunto difensivo, ancorano l'esclusione del fatto di minore lievità al contesto di prevaricazione e violenza nel contesto del quale è stata consumata la violenza sessuale (cfr. sentenza primo grado), da cui hanno tratto la non minima lesione della libertà sessuale, contestata dalla difesa con argomento del tutto generico nel quale si ripercorre il tema dell'assenza del consenso, tema già disatteso e, comunque, non rilevante per l'invocata attenuante.

7. Il terzo motivo di ricorso appare manifestamente infondato, oltre che meramente ripetitivo di quello già dedotto e valutato nei gradi di merito.

Entrambi di giudici del merito hanno disatteso, in coerenza con la ritenuta inattendibilità delle dichiarazioni della persona offesa rese nel corso del giudizio abbreviato, l'affermazione della donna di essere guarita in giorni dieci, dando rilievo alla natura e serietà delle lesioni riscontrate nel referto medico in atti che attestava una prognosi di giorni 25, da cui i giudici hanno tratto la condivisibile conclusione che la guarigione non potesse essere avvenuta nel più breve tempo indicato dalla persona offesa, rispetto al tempo stimati dai sanitari. Motivazione logica ed adeguata rispetto alla quale non si riscontrano cadute di logicità e/o contraddittorietà sindacabili in questa sede.

8. Parimenti manifestamente infondato è l'ultimo motivi di ricorso. Sussiste una stretta connessione tra il reato di lesioni personali, procedibile d'ufficio avuto riguardo alla durata della malattia, e il reato di violenza sessuale ex art. 609-septies c.p. , dal momento che la violenza sessuale è avvenuta in stretta connessione temporale nel contesto della quale gli atti lesivi hanno concretizzato la condotta di costrizione e violenza.

9. L'art. 609-septies c.p. , dopo avere fissato al comma 1 la regola generale che i delitti previsti dagli artt. 609-bis, 609-ter e 609-quater sono punibili a querela della persona offesa, prevede al quarto comma che si procede, tuttavia, d'ufficio: 1) se il fatto di cui all'art. 609 bis è commesso nei confronti di persona che al momento del fatto non ha compiuto gli anni diciotto; 2) se il fatto è commesso dall'ascendente, dal genitore, anche adottivo, o dal di lui convivente, dal tutore ovvero da altra persona cui il minore è affidato per ragioni di cura, di educazione, di istruzione, di vigilanza o di custodia o che abbia con esso una relazione di convivenza; 3) se il fatto è commesso da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio nell'esercizio delle proprie funzioni; 4) se il fatto è connesso con un altro delitto per il quale si deve procedere d'ufficio; 5) se il fatto è commesso nell'ipotesi di cui all'art. 609 quater, u.c..

Sul punto il Collegio ritiene di condividere e di dover riaffermare il principio ormai consolidato nelle pronunce di questa Corte di legittimità, secondo cui in materia di delitti di violenza sessuale, la procedibilità d'ufficio determinata dalla ipotesi di connessione prevista dall'art. 609-septies c.p. , comma 4, n. 4, si verifica non solo quando vi è connessione in senso processuale ( art. 12 c.p.p. ), ma anche quando v'è connessione in senso materiale, cioè ogni qualvolta l'indagine sul reato perseguibile di ufficio comporti necessariamente l'accertamento di quello punibile a querela, in quanto siano investigati fatti commessi l'uno in occasione dell'altro, oppure l'uno per occultare l'altro oppure ancora in uno degli altri collegamenti investigativi indicati nell'art. 371 c.p.p. (Sez. 3, n. 10217 del 10/02/2015, P.O. in proc. G., Rv. 262654; Sez. 3, n. 2856 del 16/10/2013, B., Rv. 258583).

Nel caso in esame, non v'è dubbio della ricorrenza della connessione tra i due reati e, pertanto, la censura è manifestamente infondata.

10. Il ricorso deve essere dichiarato inammissibile e il ricorrente deve essere condannato al pagamento delle spese processuali ai sensi dell'art. 616 c.p.p.. Tenuto, poi, conto della sentenza della Corte costituzionale in data del 13 giugno 2000, n. 186, e considerato che non vi è ragione di ritenere che il ricorso sia stato presentato senza "versare in colpa nella determinazione della causa di inammissibilità", si dispone che il ricorrente versi la somma, determinata in via equitativa, di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento di Euro 2.000,00 in favore della Cassa delle Ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 10 maggio 2017.

Depositato in Cancelleria il 7 luglio 2017