L'interrogatorio condotto con aggressività, seppure asseritamente finalizzata all’accertamento della verità, costituisce illecito disciplinare.
Costituisce illecito disciplinare per il magistrato avere un atteggiamento ingiustificatamente aggressivo e intimidatorio nei confronti di un teste, interrogato con offese alla sua dignità, e con modalità tali da indurlo a mantenere una condizione di timore e soggezione.
In tema di iscrizione della notizia di reato nel registro degli indagati, il P.M. - non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto, di cui abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato - è tenuto a provvedere all’iscrizione della notitia criminis, senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo, laddove ugualmente, una volta riscontrati elementi obiettivi d’identificazione del soggetto cui il reato è attribuito, il P.M. è tenuto a iscriverne il nome con altrettanta tempestività.
In tutti i casi in cui la morte di una persona possa essere correlata all’intervento o all’uso della forza da parte degli agenti delle Forze dell’ordine o comunque si verifichi nell’ambito della custodia o altra forma di controllo fisico del soggetto da parte delle istituzioni dello Stato è necessario svolgere con tempestività correttezza un’inchiesta penale.
Appena acquisita la notizia di reato in termini di configurabilità oggettiva (ovverosia di base fattuale idonea a configurare un fatto come sussumibile in una determinata fattispecie di reato), il P.M. è tenuto a procedere, senza soluzione di continuità e senza alcuna sfera di discrezionalità, alla relativa iscrizione nel registro. Allo stesso modo, e sul versante dell’attribuibilità soggettiva, una volta conseguiti obiettivi elementi d’identificazione del soggetto indagabile (tali, dunque, da superare la soglia del generico e personale sospetto), con altrettanta tempestività il P.M. è tenuto a procedere alla iscrizione del relativo nominativo.
Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 26 settembre 2017 – 13 settembre 2018, n. 22402
Presidente Rordorf – Relatore Campanile
Fatti di causa
1. Con la sentenza indicata in epigrafe il Consiglio superiore della Magistratura ha ritenuto il Dott. A.A. e la dott.ssa Ar.Sa. responsabili dell’illecito disciplinare di cui agli articoli 1, comma 1, e 2, comma 1, lettera g), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, commesso nella qualità di sostituti procuratori della Procura della Repubblica presso il Tribunale di Varese, coassegnatari del procedimento penale n. 5509/2009 RGNR riguardante la morte di U.G. - avvenuta presso l’Ospedale di (omissis) la mattina del giorno (omissis) , dopo che lo stesso era stato nel corso della notte condotto nella locale Caserma dei Carabinieri.
In particolare, la contestazione derivava dall’aver trascurato la denuncia presentata da B.A. , il quale era stato condotto insieme all’U. nella predetta Caserma, senza assumere alcuna determinazione in ordine all’esercizio dell’azione penale, con particolare riferimento all’iscrizione degli appartenenti all’Arma dei Carabinieri e della Polizia di Stato intervenuti in quella notte nel registro previsto dall’art. 335 cod. proc. pen., e, nonostante la trasmissione degli atti disposta dal Tribunale di Varese con sentenza depositata in data 28 giugno 2012, al fine di verificare "gli accadimenti occorsi tra l’intervento dei Carabinieri e l’ingresso di U.G. al Pronto soccorso dell’Ospedale di (omissis)", avevano perpetuato tale omissione, provvedendovi - limitatamente al reato di cui all’art. 582 c.p.c - in data 27 giugno 2013, al solo fine di per consentire la citazione degli indagati, essendo stata richiesta l’archiviazione, "alla possibile udienza di opposizione".
2. Il solo dott. A. è stato poi ritenuto responsabile dell’illecito disciplinare di cui agli articoli 1, comma 1, e 2, comma 1, lettera d), del decreto legislativo 23 febbraio 2006, n. 109, perché, nell’esercizio delle funzioni di sostituto procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Varese, in grave violazione del dovere di correttezza, nel corso dell’audizione di B.A. , persona informata sui fatti in relazione al procedimento sopra indicato, aveva serbato una condotta ingiustificatamente aggressiva e intimidatoria nei confronti del teste, conducendo l’esame con modalità tali da indurre quest’ultimo a mantenere una condizione di timore e soggezione per tutta la durata (circa quattro ore) dell’incombente istruttorio.
3. Il Consiglio Superiore della Magistratura ha condannato il dott. A. alla sanzione della perdita di anzianità di due mesi con trasferimento al Tribunale di Como, ed ha inflitto alla dott.ssa Ar. la sanzione della censura.
3.1. In relazione al primo addebito, il Consiglio, disattendendo le prospettazioni difensive dei suddetti magistrati, ha ritenuto che fossero state violate le regole poste alla base del potere dovere di iscrizione nel registro previsto dall’art. 335 cod. proc. pen., in relazione sia alla suddetta denuncia, sia alla trasmissione degli atti da parte del Tribunale - che chiaramente aveva indicato il tema di indagine, concernente ipotesi di reato ascrivibili agli appartenenti alle Forze dell’ordine, sia ad ulteriori risultanze, che avrebbero poi comportato, a seguito di un’ulteriore richiesta di archiviazione, un’ordinanza di imputazione coatta.
3.2. Quanto all’addebito riguardante il solo dott. A. , si è posta in evidenza, sulla base delle trascrizioni delle sommaria informazioni testimoniali rese dal B. e dell’esame della relativa registrazione, una condotta ingiustificatamente aggressiva.
4. Per la cassazione di tale decisione i predetti magistrati hanno proposto ricorso, affidato ad otto motivi, mentre ulteriori due censure sono riguardano l’illecito disciplinare attribuito in via esclusiva al dott. A. .
5. Le parti intimate non hanno svolto attività difensiva.
Ragioni della decisione
1.1. Con il primo motivo si deduce mancanza della motivazione, in relazione tanto al travisamento della deposizione resa dal Procuratore della Repubblica di Varese, quanto all’omessa considerazione delle indagini svolte nell’immediatezza del decesso dell’U. e successivamente. In particolare, si afferma che il rilievo attribuito nella sentenza al provvedimento del GIP in data 8 ottobre 2013 ai fini della sussistenza di "omissioni investigative" sarebbe il frutto di un travisamento, in quanto nello stesso non si indicava alcuna indagine non eseguita, ma si richiedeva un nuovo esame dei testi in "una diversa prospettiva inquisitoria".
1.2. Con il secondo mezzo si deduce mancanza della motivazione in relazione al travisamento della portata della sentenza di assoluzione dei sanitari imputati di omicidio colposo in ragione del trattamento somministrato all’U. : non si sarebbe trattato di una notizia di reato qualificata, posto che non veniva indicata alcuna notizia di reato o segnalate persone da indagare, ma soltanto sottolineata l’esigenza di conoscere gli accadimenti intervenuti nel lasso temporale fra l’intervento dei Carabinieri e l’ingresso di U.G. nel Pronto Soccorso dell’Ospedale di (omissis).
1.3. Con la terza censura il vizio di omessa motivazione viene prospettato in ordine alla valutazione delle dichiarazioni - ritenute inattendibili - rese dal B. anche in relazione a reati commessi in suo danno, esclusi nella richiesta di archiviazione del 27 giugno 2013.
1.4. Il quarto motivo riguarda specificamente la tardiva iscrizione nel registro degli indagati, contestata con riferimento all’interpretazione dell’art. 335 cod. proc. pen., quale emergente anche dalle direttive al riguardo impartite dal Procuratore della Repubblica di Varese, nonché alla conferma della valutazioni operate dagli incolpati desumibile dai provvedimenti del Procuratore Generale presso la Corte di appello di Milano, che aveva rigettato le richieste di avocazione, confermando la correttezza dell’iscrizione a mod. 21, nonché dall’archiviazione disposta dalla Procura Generale presso la Corte di Cassazione nel dicembre del 2012.
1.5. Con il quinto mezzo si denunzia l’omessa considerazione: a) del provvedimento di archiviazione emesso dal GIP di Brescia in relazione alla denuncia proposta da una congiunta dell’U. nei confronti del dott. A. , con esclusione di qualsiasi omissione in merito all’attività di indagine relativa al decesso dell’U. ; b) della sentenza del 15 aprile 2016 con la quale la Corte di Assise di Varese aveva assolto gli appartenenti alle forze dell’ordine in ordine alle imputazioni elevate nei loro confronti dal GIP in data 11 marzo 2014 ai sensi dell’art. 409 cod. proc. pen. all’esito di una nuova richiesta di archiviazione; c) delle valutazioni espresse dal Procuratore della Repubblica dott. Grigo e dal Procuratore Generale della Repubblica, dott. Minale.
1.6. Con il sesto motivo, richiamando le prove difensive già allegate, si sostiene che le stesse smentirebbero l’assunto del giudice disciplinare in merito alla violazione, da parte degli incolpati, del principio di tempestività e correttezza nello svolgimento dell’azione penale, come sancito dall’art. 2 Cedu.
1.7. Con la settima censura si sostiene che sarebbe carente di adeguato supporto motivazionale l’assunto secondo cui la condotta degli incolpati sarebbe stata pregiudizievole, sotto il profilo della violazione del diritto di difesa, agli stessi appartenenti alle forze dell’ordine.
1.8. Con l’ultimo mezzo si sostiene che il costante controllo esercitato dagli organi sovraordinati alla Procura ordinaria, sempre conclusosi con un giudizio di correttezza, sia dal punto di vista formale che sostanziale, riguardo alla condotta degli incolpati, escluderebbe la sussistenza dell’elemento soggettivo.
2. I primi tre motivi, da esaminarsi congiuntamente, in quanto intimamente correlati, sono infondati.
2.1. Vale bene premettere che l’art. 24 del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, prevede che contro le sentenze della sezione disciplinare può essere proposto ricorso per cassazione nei termini e con le forme previsti dal codice di procedura penale (Cass., Sez. U, 1 ottobre 2010, n. 24305), nel quale i mezzi di ricorso costituiscono un numero chiuso (art. 606, terzo comma e primo comma, lett. e); artt. 581, primo comma, lett. c) e 591, primo comma, lett. c)).
Alla stregua di tale dato normativo, e della giurisprudenza formatasi al riguardo, è preclusa al giudice di legittimità la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata e l’autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. U, 8 giugno 2016, n. 11708), indicati dal ricorrente come maggiormente plausibili o dotati di una migliore capacità esplicativa rispetto a quelli adottati dal giudice del merito (Cass. pen., 7 ottobre - 27 novembre 2015, n. 47204), perché gli è estraneo il controllo sulla correttezza della motivazione in rapporto ai dati processuali (Cass. pen., Sez. U, 24 settembre - 10 dicembre 2003, n. 47289), pur dopo la modifica dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e) introdotta dalla L. 20 febbraio 2006, n. 46 (conf. Cass. pen., 22 marzo - 10 aprile 2006, n. 12634).
Sotto tale profilo, mette conto di richiamare, in particolare, il costante orientamento secondo cui il controllo di legittimità non mira a stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti, né deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento (Cass. pen., 2 dicembre 2003 - 6 febbraio 2004, n. 4842).
Con particolare riferimento alla denunzia di minime incongruenze argomentative o all’omessa esposizione di elementi di valutazione, che il ricorrente ritenga tali da determinare una diversa decisione, ma che non siano inequivocabilmente munite di un chiaro carattere di decisività, va ribadito che esse non possono dar luogo all’annullamento della sentenza, posto che non costituisce vizio della motivazione qualunque omissione valutativa che riguardi singoli dati estrapolati dal contesto, ma è solo l’esame del complesso probatorio entro il quale ogni elemento sia contestualizzato che consente di verificare la consistenza e la decisività degli elementi medesimi oppure la loro ininfluenza ai fini della compattezza logica dell’impianto argomentativo della motivazione (cfr., in termini, la recente Cass., Sez. U, 9 giugno 2017, n. 14430, nonché Cass. pen., 8 - 27 febbraio 2013, n. 9242).
2.2. Il tema che le censure sopra indicate propongono si incentra essenzialmente su aspetti valutativi privi del carattere di decisorietà, soprattutto ove si consideri che le questioni in ordine alle quali la motivazione del provvedimento impugnato si rileverebbe carente non attengono al nucleo centrale dell’incolpazione, costituito dall’inosservanza, in apicibus, della previsione dell’art. 335 cod. proc. pen., con l’iscrizione a mod. 21 del procedimento originato dalle dichiarazioni rese dal B. , come "Atti relativi alle dichiarazioni di B.A. ", senza alcuna indicazione né del titolo del reato, né delle generalità degli indagati, pur in presenza di una "notitia criminis" qualificata. Sotto tale profilo le deduzioni dei ricorrenti, intese a dimostrare l’insussistenza dell’incolpazione di non aver svolto adeguate indagini in merito alla denuncia circostanziata presentata dal B. , non colgono nel segno, in quanto, specialmente laddove si richiamano alcuni brani dell’esame del medico legale dott. M.M. , da un lato si omette di riferire in merito ai risultati di quella prima indagine, dall’altro ci si involge nell’intima contraddizione consistente nell’aver disposto una verifica in merito alla sussistenza di lesioni sul corpo del povero U. e nella reiterata affermazione di aver ritenuto "da subito" inattendibili e non credibili le dichiarazioni del B. .
2.3. Deve poi escludersi la ricorrenza del vizio motivazionale per omessa ovvero erronea valutazione della deposizione del dott. G., dovendosi rilevare che nella sentenza impugnata le affermazioni dello stesso sono state espressamente considerate: in proposito vale bene ribadire che il vizio di carenza di motivazione delle pronunce della Sezione Disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura, denun-ciabile con il ricorso alle Sezioni Unite della Corte di Cassazione, sia sotto forma di difetto assoluto di motivazione che di motivazione apparente, è rilevabile solo quando il giudice disciplinare omette di indicare nella sentenza gli elementi da cui ha tratto il proprio convincimento, ovvero indica tali elementi senza un’approfondita disamina logica e giuridica, mentre resta escluso nel caso di valutazione delle circostanze probatorie in senso difforme da quello preteso dalla parte (Cass. Sez. U, 21 dicembre 2009, n. 26825; Cass., Sez. U, 25 ottobre 2013, n. 24148).
2.4. Né può seriamente affermarsi che la sentenza del 28 giugno 2012, con la quale il medico F. veniva assolto dal resto di omicidio colposo, non potesse qualificarsi come notizia di reato qualificata nella parte in cui ordinava la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero "con riferimento agli accadimenti occorsi fra l’intervento dei Carabinieri e l’ingresso di U. G. al Pronto Soccorso dell’Ospedale di (omissis)". Prescindendo, per ora, dalla necessità di una tempestiva iscrizione nel registro degli indagati dei militi specificamente indicati nella denuncia del B. in ordine alla condotta lesiva agli stessi attribuita, deve rilevarsi che nella suddetta decisione, come in parte trascritta nello stesso ricorso, viene rimarcata la natura illegale dell’arresto e degli abusi commessi in danno delle persone sottoposte a custodia temporanea (non a caso nel provvedimento in data 11 marzo 2014 il g.i.p. del Tribunale di Varese, a seguito di nuova richiesta di archiviazione, disponeva imputazione coatta, fa gli altri, in ordine ai reati di cui agli artt. 606 e 608 cod. pen.).
Certamente è arduo sostenere che non fosse stata indicata alcuna ipotesi di reato, laddove nella motivazione della sentenza in maniera fin troppo esplicita si afferma: "...permangono ad oggi ignote le ragioni per le quali U.G. - nei cui confronti non risulta essere stato redatto un verbale di arresto o di fermo, mentre sarebbe stata operata una semplice denuncia per la contravvenzione di cui all’art. 659 cod. pen. - è stato prelevato e portato in caserma, così come tuttora sconosciuti rimangono gli accadimenti intervenuti all’interno della Stazione Cc di (omissis) (certamente concitati se è vero che sul posto confluirono anche alcune Volanti della Polizia) ed al cui esito U. - che mai in precedenza aveva manifestato problemi di natura psichiatrica - verrà ritenuto necessitare di un intervento particolarmente invasivo quale il trattamento sanitario obbligatorio”.
3. Nella quarta censura, inerente alla violazione dell’art. 335 cod. proc. pen., deve individuarsi l’ubi consistam del procedimento disciplinare in esame: le doglianze dei ricorrenti impingono contro il consolidato orientamento di questa Corte secondo cui integra la fattispecie prevista dall’art. 2, comma 1, lett. g) del d.lgs. 23 febbraio 2006, n. 109 il comportamento del P.M. che non proceda all’iscrizione immediata nel registro delle notizie di reato, previsto dall’art. 335 cod. proc. pen., della persona a cui il reato sia attribuito, trattandosi di adempimento per il quale non sussiste alcun margine di discrezionalità (Cass., Sez. U, 12 ottobre 2011, n. 20936).
Per altro verso deve ribadirsi l’indirizzo secondo cui integra apprezzamento di merito, insindacabile in sede di legittimità ove sorretto da motivazione congrua, stabilire se gli elementi raccolti in sede di indagine siano o meno sufficienti ad imporre l’iscrizione del nominativo della persona, oggetto dell’indagine, in detto registro (Cass. Sez. U, 21 settembre 2006, n. 20505; Cass. Sez. U, 14 novembre 2000, n. 1176).
3.1. Sotto tale profilo la decisione impugnata si sottrae alle critiche dei ricorrenti: il tema della necessità di una tempestiva iscrizione della notizia di reato nel registro previsto dall’art. 335 cod. proc. pen. è adeguatamente affrontato non solo con gli specifici riferimenti alla denunzia del B. e, in seguito, alla citata sentenza del Tribunale di Varese del 28 dicembre 2012 (con la sottilineatura che una iscrizione, per altro parziale, avvenne soltanto nel maggio del 2013), ma anche attraverso l’espressa menzione di ben determinati elementi di riscontro, quali la presenza, nel corpo del povero U. , di "lesioni e vistose ecchimosi nella parte ossea del naso e nella zona frontale" (relazione di servizio dell’Isp. Sup. T.T. ).
3.2. La sezione disciplinare ha quindi correttamente applicato le disposizioni di riferimento del codice di rito penale, nel solco dell’interpretazione resane da questa Corte, secondo cui, in tema di iscrizione della notizia di reato nel registro di cui all’art. 335 cod. proc. pen., il P.M. - non appena riscontrata la corrispondenza di un fatto, di cui abbia avuto notizia ad una fattispecie di reato - è tenuto a provvedere all’iscrizione della notitia criminis, senza che possa configurarsi un suo potere discrezionale al riguardo, laddove ugualmente, una volta riscontrati elementi obiettivi d’identificazione del soggetto cui il reato è attribuito, il P.M. è tenuto a iscriverne il nome con altrettanta tempestività (Cass. pen., Sez. U, 24 settembre 2009, n. 40538).
L’assoluta necessità del rispetto degli obblighi procedurali in esame è stata nella specie accertata dal giudice disciplinare con rigore logico giuridico e in piena aderenza alla dimensione fattuale della vicenda esaminata, non essendosi omesso, per altro, di porre in evidenza l’esigenza della tempestività e della correttezza dello svolgimento di un’inchiesta penale, ai sensi dell’art. 2 Cedu nell’interpretazione resane dalla Corte Europea dei diritti dell’uomo, in tutti i casi in cui la morte di una persona possa essere correlata all’intervento o all’uso della forza da parte degli agenti delle Forze dell’ordine o comunque si verifichi nell’ambito della custodia o altra forma di controllo fisico del soggetto da parte delle istituzioni dello Stato (Corte edu, 29 marzo 2011, Alicaj c. Italia; 14 dicembre 2010, Mizigarova c/ Slovacchia; 13 luglio 2010, Carabulea c. Romania).
Deve quindi ribadirsi che, appena acquisita la notizia di reato in termini di configurabilità oggettiva (ovverosia di base fattuale idonea a configurare un fatto come sussumibile in una determinata fattispecie di reato), il P.M. è tenuto a procedere, senza soluzione di continuità e senza alcuna sfera di discrezionalità, alla relativa iscrizione nel registro. Allo stesso modo, e sul versante dell’attribuibilità soggettiva, una volta conseguiti obiettivi elementi d’identificazione del soggetto indagabile (tali, dunque, da superare la soglia del generico e personale sospetto), con altrettanta tempestività il P.M. è tenuto a procedere alla iscrizione del relativo nominativo.
3.3. Il rilievo attribuito, sia pure in termini essenziali, al rapporto fra la situazione processuale e, con riferimento al principale illecito disciplinare, alla violazione dei doveri facenti capo agli incolpati, rende tale grumo motivazionale assolutamente efficace ed adeguato, nel senso che risulta pienamente soddisfatto l’obbligo del giudice disciplinare di giustificare in maniera chiara e corretta, sotto il profilo logico giuridico, le ragioni della decisione: si rivelano, pertanto, prive di reale significanza le deduzioni difensive, in ordine alle quali per il vero la stessa Sezione disciplinare ha espresso un giudizio di irrilevanza, incentrate sul richiamo a determinate prassi e direttive, nonché a valutazioni espresse in altra sede e ad altri fini in merito all’operato degli incolpati.
4. Alla luce delle superiori considerazioni appare quindi evidente l’irrilevanza delle decisioni relative, per fini diversi da quello in esame, alla delicata vicenda giudiziaria in questione, nonché delle valutazioni espresse al riguardo in altra sede, così come poste alla base del quinto motivo. Va in primo luogo osservato che l’obbligo di iscrizione previsto dall’art. 335 cod. proc. pen. va accertato sulla base delle circostanze emerse nel momento in cui la notizia di reato perviene al pubblico ministero ed acquista, unitamente al nominativo della persona alla quale il reato stesso è attribuito, indipendentemente dal grado di fondatezza, quella consistenza di "notitia criminis" che, come sopra rilevato, è stata nella specie ritenuta sussistente, con motivazione adeguata, dal giudice disciplinare: tale accertamento evidentemente prescinde dagli ulteriori sviluppi del procedimento penale e dalle valutazioni, anche sul comportamento del pubblico ministero, espresse in altre sedi o in momenti diversi, dovendosi in ogni caso ribadire l’autonomia della funzione giurisdizionale della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura (cfr., in motivazione, Cass., Sez. U, 12 gennaio 2011, n. 508).
5. Il sesto mezzo, nella misura in cui contiene un generico richiamo "alle prove difensive in atti e sopra richiamate", tali da dimostrare l’immediatezza e la correttezza delle indagini svolte, oltre a consistere in una mera reiterazione delle tesi già svolte, e sopra esaminate, contrasta con l’acribiosa ricostruzione della vicenda, anche sul piano diacronico, svolta dalla sezione disciplinare ed ampiamente esaustiva in merito alla disamina delle circostanze poste a fondamento dell’illecito disciplinare sub A, relativo al pluriennale ritardo nell’iscrizione – poi effettuata in maniera "riduttiva", vale a dire parziale, nel registro degli indagati dei soggetti indicati nella denuncia presentata dal B. .
6. La settima censura è inammissibile. In disparte l’assoluta carenza di decisività del rilievo, l’argomentazione del giudice disciplinare, in astratto condivisibile, secondo cui l’intempestiva iscrizione nel registro degli indagati di taluni soggetti pregiudicherebbe anche gli stessi non può essere inficiata dal fatto che i predetti non abbiano lamentato (et pour cause) "una qualsiasi lesione ai loro diritti processuali": l’astratta potenzialità lesiva di un comportamento illecito non si misura in base alle concrete conseguenze che di volta in volta vengano a verificarsi, laddove è sufficiente, per comprendere la validità dell’assunto in esame, porre mente all’importanza dell’iscrizione nel registro previsto dall’art. 335 cod. proc. pen. ai fini della durata massima delle indagini preliminari e alla sua rilevanza per i soggetti indagati, come dimostrano i divergenti indirizzi in merito alla sindacabilità ex post dell’inadempimento del pubblico ministero, tali da richiedere più volte l’intervento delle Sezioni unite penali di questa Corte (cfr. Cass. pen., Sez. U, 24 settembre 2009, n. 40538; id., 21 giugno 2000, n. 16).
Mette conto, a tale riguardo, di rimarcare come nelle testé richiamate decisioni si affermi, così risolvendosi i contrasti al riguardo manifestatisi, l’insussistenza del c.d. "potere di retrodatazione" dell’iscrizione ai fini della decorrenza dei termini di cui agli artt. 405 4 407 cod. proc. pen., "ferma restando la configurabilità di ipotesi di responsabilità disciplinari o addirittura penali nei confronti del pubblico ministero negligente".
7. L’ottavo motivo consiste in una sorta di epitome, con cui si conclude - affermata nella sola rubrica l’insussistenza dell’elemento soggettivo - nel senso che la conduzione delle indagini sarebbe stata sottoposta a costante controllo da parte degli organi sovraordinati alla Procura della Repubblica, i quali l’avrebbero ritenuta corretta "sia dal punto di vista formale che sostanziale". Vale bene ribadire come l’inosservanza delle norme processuali sopra indicate, reiterata nel tempo e sorda a varie sollecitazioni (istanze delle persone offese, indicazione contenute nella richiamata sentenza del Tribunale in data 23 aprile 2012), correttamente qualificata nel provvedimento impugnato in termini di "pervicace negligenza", non può essere elisa dagli apprezzamenti compiuti da altri soggetti, inidonei ad incidere sulla già richiamata autonomia della funzione giurisdizionale della Sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura.
8. Con il primo dei motivi riguardanti l’incolpazione ritenuta sussistente nei confronti del solo dott. A. si deduce l’erronea applicazione degli artt. 1 e 2 del d.lgs. n. 109 del 2006, sostenendosi che la contestata aggressività, rilevata nel corso dell’esame del B. , andrebbe intesa nel senso di una corretta "reattività", coessenziale all’espletamento del dovere professionale, e finalizzata all’accertamento della verità.
8.1. Il secondo mezzo attiene alla motivazione resa in merito alla suddetta incolpazione dal giudice disciplinare, ritenuta carente, contraddittoria ed illogica. Trascritti alcuni brani estrapolati dalla trascrizione della registrazione dell’esame della persona informata sui fatti, che si assumono corrispondenti a quelle parti indicate dal P.G. come quelle in cui si sarebbe manifestata la contestata aggressività, si assume che nella motivazione dell’impugnata decisione non si indicherebbero in concreto quali sarebbero i comportamenti gravemente scorretti, né si terrebbe conto delle valutazioni effettuate dal G.i.p. di Brescia e dal pubblico ministero d’udienza nel processo celebratosi nei confronti degli appartenenti alle forze dell’ordine, poi assolti da ogni accusa, davanti alla Corte di assise di Varese.
9. Dette censure, da esaminarsi congiuntamente in quanto intimamente correlate, sono in parte inammissibili ed in parte infondate.
Sotto il primo profilo, escluso - data l’eterogeneità dell’oggetto del giudizio penale rispetto a quello del giudizio disciplinare, per la diversità dei presupposti delle rispettive responsabilità (Cass., Sez. U, 24 novembre 2010, n. 23778; Cass., Sez. U, 19 settembre 2005, n. 18451) - che le valutazioni espresse in altri giudizi possano refluire nella vicenda di natura disciplinare, salva l’ipotesi - per il vero neppure dedotta - che oltre agli apprezzamenti siano specificamente indicati elementi fattuali trascurati nell’impugnata decisione, va osservato che la trascrizione, ancorché parziale, dell’audizione del B. evidentemente postula una non consentita valutazione in questa sede dei dati processuali.
Il giudizio espresso dal giudice disciplinare, poi, non sembra possa derivare, come pure si sostiene, da un acritico recepimento dell’ordinanza di imputazione coatta emessa dal G.i.p. di Varese, in quanto nella sentenza in esame, pur richiamandosi il contenuto di detta ordinanza, si dà atto dell’esame diretto, da parte del giudice disciplinare, del c.d. DVD relativo alla videoregistrazione, che ha comportato all’affermazione, insindacabile in questa sede, di una conduzione dell’atto di assunzione delle informazioni "caratterizzata dai toni sovente aggressivi e da affermazioni che tendevano a denigrare il teste al fine di sminuire la portata delle sue dichiarazioni". La valutazione di tale dato probatorio, contrariamente a quanto si assume nel ricorso, non deve essere necessariamente analitica, in quanto la violazione del dovere di correttezza ben può rapportarsi alle complessive modalità di svolgimento dell’audizione, tali da comportare, per tutta la sua durata di circa quattro ore, anche attraverso la reiterazione di offese alla dignità dell’esaminato, l’induzione di una condizione di timore e di soggezione. Tale comportamento appare riconducibile all’illecito disciplinare in esame, ove si consideri che l’art. 1 del citato d.lgs n. 109 del 2006, indicando i principi che devono ispirare la condotta del magistrato quali precondizioni essenziali di un corretto esercizio della giurisdizione, fa espresso riferimento alla correttezza, all’equilibrio e al rispetto della persona.
10. Al rigetto del ricorso non consegue alcuna statuizione in merito al regolamento delle spese, non avendo le parti intimate svolto attività difensiva.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.