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La testimonianza ‘debole’ della vittima nel processo penale

2 febbraio 2011, Sandra Recchione

Lle limitazioni al pieno esplicarsi dei diritti della difesa quando siano escusse vittime vulnerabili, con la  rinuncia  all’oralità ed alla cross examination diretta, costringe a chiedersi,  proprio in un’ottica di garanzia, quali rimedi debbano essere  portati al sacrificio dei diritti difensivi  che cedono nella tensione del bilanciamento con i diritti della vittima   ed, ancora, più timidamente,  se il metodo dell’esclusione  probatoria delle dichiarazioni unilaterali  sia  realmente  compatibile con il complesso (e mai uguale) bilanciamento tra diritto della vittima e diritto dell’imputato nei processi fondati su dichiarazioni che provengono da  un offeso vulnerabile.

 

 La testimonianza ‘debole’ della vittima nel processo penale

d.ssa Sandra Recchione, relaione all'incontro studio del CSM "I reati con vittima vulnerabile: indagini e giudizio", Roma 31 gennaio – 2 febbraio 2011

Sommario

1. Individuazione del testimone “vulnerabile” e del “doppio binario”; 1. Le fonti; 1.2. I problemi; 1.3.Le soluzioni allo stato praticabili; 1.3.1.Iincidente probatorio e ammissibilità della testimonianza dibattimentale;1.3.2. L’estensione dell’accesso alle  modalità protette; 1.3.3. L’accesso all’ incidente probatorio delle vittime non comprese nell’elenco dell’art. 392 comma 1 bis c.p.p: in particolare degli offesi del reato di sfruttamento della prostituzione; 2. Tecniche di escussione; 2.1. Le caratteristiche della “testimonianza debole”; 2.2. La escussione della vittima  nel corso delle indagini. La documentazione”aggravata”; 2.3.La escussione della vittima vulnerabile in contraddittorio; 3. La valutazione della  prova dichiarativa proveniente dalla vittima vulnerabile; 3.1.La progressione dichiarativa; 3.2. La giurisprudenza della Corte EDU  in materia di testimonianza “debole”; 3.3. La valutazione del testimone debole nella giurisprudenza della Corte di cassazione; 3.3.1.La valutazione delle dichiarazioni della vittima e del minore in particolare; 3.3.3 L’incidente  ex art. 500 comma IV c.p.p. e la ritrattazione; 3.3.4 La valutazione di attendibilità delle dichiarazioni predibattimentali acquisite ex art. 512 c.p.p.; 3.3.5.La attendibilità frazionata; 3.4. Alcune considerazioni di sistema

 

 1. Individuazione del testimone “vulnerabile” e del “doppio binario”

 

1.1. Le fonti

Occorre in via preliminare individuare quali siano  attualmente le fonti  utili alla individuazione delle vittime “ vulnerabili”.

Le indicazioni provengono:

  • dall’art. 392 comma 1 bis c.p.p che ha individuato alcuni reati i cui offesi (sia minorenni che maggiorenni) possono essere uditi in contraddittorio incidentale a prescindere dalle condizioni di deperibilità della prova normalmente richieste per l’anticipazione del contraddittorio (con conseguente rinuncia all’oralità);
  • dall’art. 398 c.p.p. che  consente il ricorso a modalità protette di audizione per le vittime di alcuni reati,
  • dall’art. 190 bis c.p.p. che limita il ricorso alla ri-audizione dibattimentale per le vittime minori di sedici anni di alcuni  reati  se le stesse devono essere chiamate  deporre su circostante  in relazione alle quali sono già state escusse in contraddittorio incidentale,
  • dall’art. 498 commi 4,  4 bis e 4 ter  p.p.che prevedono le modalità protette di audizione per il teste minorenne vittima  di alcuni reati,
  • dalla sentenza della Corte costituzionale 63 del 29 gennaio 2005  che ha esteso il ricorso alle modalità protette di audizione di cui all’art. 398 e 498  c.p.p. anche al maggiorenne  infermo di mente quando le esigenze di questi lo rendano  necessario ed opportuno,
  • dalla sentenza della Corte costituzionale n. 283 del 30 luglio 1997 che ha dichiarato l’illegittimità costituzionale dell’art. 498 c.p.p. nella parte in cui non consente nel caso di testimone maggiorenne infermo di mente che il Presidente, ove ritenga che l’esame del teste ad opera delle parti possa nuocere alla personalità del teste medesimo,  sentite le parti, ne conduca direttamente  l’esame.
  • dalla decisione quadro 2001/220 GAI sulla posizione  della vittima nel procedimento penale  che  tra le definizioni  individua la “vittima" “nella persona fisica che ha subito un pregiudizio, anche fisico o mentale, sofferenze psichiche, danni materiali causati direttamente da atti o omissioni che costituiscono una violazione del diritto penale di uno Stato membro”; ed all’art. 8 comma 4 stabilisce che “ove sia necessario proteggere le vittime, in particolare le più vulnerabili, dalle conseguenze della loro deposizione in udienza pubblica, ciascuno Stato membro garantisce alla vittima la facoltà, in base a una decisione del giudice, di rendere testimonianza in condizioni che consentano di conseguire tale obiettivo e che siano compatibili con i principi fondamentali del proprio ordinamento
  • da alcune decisioni delle Corti sopranazionali che individuano alcuni indici di vulnerabilità della vittima. In particolare la Corte EDU li ha individuati caso per caso nell’età della vittima, ma anche nella condizione di soggezione e dipendenza dall’autore del reato (sentenza nel caso Siliadin c. Francia del 26.7.2005), nella scarsità di risorse economiche e di strumenti culturali, ovvero nella posizione socio- economica complessiva della persona (pronuncia Salah Sheekh c. Paesi Bassi dell’11.1.2007). Non mancano tuttavia pronunce che collegano la condizione d i vulnerabilità al tipo di reato subito, ovvero al patimento di violenza sessuale (S.N. c. Svezia del 2.7.2002) o di violenza domestica (sentenza Opuz  Turchia del 9 giugno 2009)
  • da ultimo si segnale che la Legge 4 giugno 2010, n. 96 (Disposizioni per l'adempimento di obblighi derivanti dall'appartenenza dell'Italia alle Comunità europee - Legge comunitaria 2009), recante i “Principi e criteri direttivi di attuazione della decisione quadro 2001/220/GAI del Consiglio, del 15 marzo 2001, relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale”, prevede che, nell'esercizio della delega di  cui  all'articolo  52,  comma  1 lett. a), il Governo debba seguire alcuni principi e criteri direttivi “specifici” tra i quali  “introdurre nel libro V, titoli VII e IX, e nel libro VII, titolo II, del codice di procedura penale una o più disposizioni che riconoscano alla persona offesa dal reato, che sia da considerare, per ragioni di età o condizione psichica o fisica, particolarmente vulnerabile, la possibilità di rendere la propria testimonianza, nel corso dell'incidente probatorio, dell'udienza preliminare e del dibattimento, secondo modalità idonee a proteggere la sua personalità e a preservarla dalle conseguenze della sua deposizione in udienza”.

 

1.2. I problemi

 

Possono delinearsi due “macroaree” nell’ambito della quali appare evidente la necessità di rivedere in modo critico  rapporti tra vittima e processo, al fine di garantire la tutela sostanziale dei diritti dell’offeso.

La prima è l’area della formazione della prova dichiarativa proveniente dalla vittima: l’offeso dichiarante, se non adeguatamente  tutelato, è infatti esposto al “trauma da processo” connesso alla riedizione  giudiziale dell’evento  traumatico primario.

La seconda è l’area delle misure cautelari ed in particolare di quelle specificamente dirette alla protezione della vittima da reato, prima e durante il processo.

Sullo sfondo resta il problema delle prerogative della vittima nel corso dell’intero procedimento: il diritto all’informazione, il diritto alla corretta e tempestiva formazione della prova, il diritto alla protezione effettiva della incolumità attraverso l’esecuzione di misure cautelari appropriate.

Dal sistema di fonti sopra indicato si intravede  comunque nel nostro ordinamento  l’esistenza di un “doppio binario” riservato alla gestione processuale di alcune vittime particolarmente vulnerabili.

Tale sistema appare caratterizzato dalla individuazione delle vittime attraverso il tipo di reato da cui sono  offese e dall’aggravamento delle cautele  nel caso in cui   gli offesi  siano minorenni. In tal caso oltre che all’accesso al contraddittorio anticipato è  prevista infatti anche la possibilità dell’audizione in forme “protette”.

La  limitata barriera alla ri-audizione dibattimentale  (art. 190 bis c.p.p) restringe ancora di più la categoria dei destinatari della cautela in questione  riservata solo ai minori di sedici anni di alcuni reati.

Si rileva che l’accesso al contraddittorio anticipato è previsto oltre che per tutti i reati di violenza sessuale e per i reati di ci agli artt. 600 bis, 600 ter, 600 quater, 600 quinquies, 601 e 602 c.p.  anche per il reato di atti persecutori e per il reato di  maltrattamenti in famiglia.

Le modalità protette non sono invece estese (dall’art. 398  e 498 c.p.p.) alle vittime del  reato di  maltrattamenti in famiglia (e dall’art. 498 neanche alla vittima del reato di cui all’art. 609 quinquies c.p.).

La norma dell’art. 190 bis c.p.p. relativa alla inammissibilità della testimonianza dibattimentale “conforme”  si riferisce solo alle vittime infrasedicenni di reati sessuali e dei reati di cui agli artt. 600 bis 600 ter 600 quater  e 600 quinquies: non sono tutelati invece gli offesi dai maltrattamenti in famiglia, atti persecutori, tratta di persone (601) e d acquisto ed alienazione di schiavi (602 c.p.), anche se le vittime di tali reati sono  minori infrasedicenni. 

Dal doppio binario indicato è  inoltre escluso il  reato di sfruttamento della prostituzione.

La disorganicità della indicata normativa produce una serie di difficoltà nella ordinaria gestione dei processi con vittima vulnerabile ed appare non del tutto conforme al quadro di garanzie e diritti previsti  dalla normativa sopranazionale.

Di seguito alcuni dei problemi:

 

  1. a) Deve essere osservato come sia particolarmente arduo stabilire in via pregiudiziale quali siano le vittime che hanno patito un trauma dall’evento idoneo a renderle vulnerabili.

La resilienza agli effetti di un evento traumatico è infatti diversa  per ogni individuo e  mentre alcune vittime si dimostrano capaci di affrontare la cross examination anche in forme non protette (nonostante possano essere considerate, in astratto e sulla base di massime di comune esperienza, riconducibili al genus delle vittime vulnerabili), altre manifestano una tendenza alla vittimizzazione secondaria  non  facilmente prevedibile in relazione al fatto per cui si procede.

Il nostro legislatore ha effettuato – allo stato - una scelta  di individuazione della vittima sulla base del reato;  ed ha privilegiato nella individuazione delle persone cui destinare le cautele, i reati a fondo sessuale o quelli di maltrattamento e persecuzione  caratterizzati da una condotta  abituale.

Tuttavia tale scelta può non essere adeguata a rispondere alle esigenze di tutela  che riguardano una categoria certamente più ampia di quella individuabile attraverso il ricorso alla indicazione di  specifici reati che, attraverso una valutazione pregiudiziale e astratta, sono stati ritenuti idonei ad individuare la vittima “vulnerabile”.

Basti pensare alla vittima di estorsione consumata con modalità di intimidazione mafiosa o alle persone vittime di sfruttamento della prostituzione: tali vittime possono avere caratteristiche  vulnerabilità accentuate che, tuttavia, non  vengono - ad oggi - prese in  considerazione.

De iure condendo – quindi – appare rispondente alle esigenze di tutela sostanziale delle vittima  la creazione di un sistema che consenta  la valutazione della condizione di vulnerabilità  caso per caso, in relazione alle specifiche emergenze  processuali e delle eventuali sollecitazioni processuali della parte interessata.

E’ ragionevole infatti che sia il giudice a  ritenere se un presunto offeso debba o meno essere considerato “vulnerabile” ed essere trattato con le cautele processuali conseguenti.

Tale scelta se, da un lato, ha il difetto di introdurre nel processo un giudizio discrezionale prevedibilmente  produttivo di  contenzioso, dall’altro, presenta il pregio di evitare il ricorso a presunzioni assolute in una materia, come quella della tutela endoprocessuale delle vittime, che si  caratterizza per le sue ricadute sulla tutela di diritti fondamentali della persona [1]

La valutazione della vulnerabilità appare sganciata dal riferimento a categorie predefinite anche nella interpretazione che della stessa ha fornito la Grande sezione della Corte di giustizia di Lussemburgo nella decisione del 16 giugno 2005 (caso Pupino), quando i giudici europei scrivono che “la decisione quadro non definisce la nozione di vulnerabilità della vittima ai sensi dei suoi artt. 2, n. 2, e 8, n. 4. Tuttavia, indipendentemente dalla questione se la circostanza che la vittima di un'infrazione penale sia un minore basti, in linea di massima, per qualificare tale vittima come particolarmente vulnerabile ai sensi della decisione quadro, non può essere contestato che qualora, come nella causa principale, bambini in età infantile sostengano di aver subìto maltrattamenti, per giunta da parte di un'insegnante, tali bambini possano essere così qualificati alla luce, in particolare, della loro età, nonché della natura e delle conseguenze delle infrazioni di cui ritengono di essere stati vittime”. Da un lato, dunque, non si assume in modo apodittico che l’età minore sia per ciò solo idonea a configurare la vulnerabilità e, dall’altro, si fa riferimento ad altri elementi emergenti dal caso concreto.

Analoghe indicazioni  provengono dalla Direttiva del 14.12.2010 sulla repressione del traffico degli esseri umani e sulla tutela delle relative vittime che all’art,  12 comma 4 demanda espressamente alla “valutazione individuale delle autorità competenti” la situazione della vittima dichiarante.

La soluzione proposta prevede tuttavia – in un modello virtuoso – che l’offeso, ed in particolar modo quello vulnerabile, possano godere di una adeguata assistenza tecnica, fin dalle fasi iniziali del procedimento.

Al riguardo si registra che in materia l’unica apertura verso la promozione della difesa tecnica, non obbligatoria per l’offeso, è contenuta nel comma  dell’art. 76  comma 4 ter della legge sul patrocinio dei non abbienti (DPR n. 115 del 2002), che consente l’accesso al beneficio a prescindere dalla valutazione della soglia di reddito per le persone offese da reati sessuali. La norma in parola si presenta tuttavia  isolata ed sistematica, in quanto introduce una previsione a tutela di una particolare  vittima all’interno della disciplina di un istituto, come quello del patrocinio a spese dello stato, fondato sul requisito della non abbienza, con l’effetto, da un lato, di snaturare il beneficio (concedibile nei casi indicati  a prescindere dalla valutazione della situazione economica dell’istante) e, dall’altro, di non rispondere all’esigenza di apprestare un’adeguata difesa a tutte le vittime potenzialmente vulnerabili. In difformità rispetto alle  indicazioni che provengono dall’art. 6 della decisione quadro 2001/220 GAI e (più specificamente) dall’art. 12 comma 2 della  nuova direttiva sulla repressione del traffico degli esseri umani  circa il diritto all’assistenza legale gratuita delle vittime, ove ne sussistano  i requisiti, ovvero se le stesse non dispongono di risorse finanziarie sufficienti (fermo il diritto al rimborso delle spese a causa della legittima partecipazione al procedimento penale  previsto dall’art 7 della decisione quadro 2001\220 GAI).

Del pari, se si volesse affidare al giudice il compito di valutare la effettiva vulnerabilità della vittima l’interlocuzione con l’autorità giudiziaria dovrebbe essere garantita all’offeso non solo attraverso facilitazioni all’accesso alla difesa tecnica, ma anche attraverso la tempestiva attivazione  dei canali informativi  indicati  dalla decisione quadro che, all’art 4, prevede espressamente il diritto della vittima ad accedere alle informazioni rilevanti per la tutela dei suoi interessi.

La scelta di non “ingessare” la categoria delle vittime vulnerabile effettuando scelte pregiudiziali  trova conforto anche in diverse pronunce della Corte di Strasburgo in materia.

Gli indici di vulnerabilità sono stati infatti  rinvenuti dai giudici europei non solo nell’età dell’offeso, ma anche nella condizione di soggezione e dipendenza dall’autore del reato (sentenza nel caso Siliadin c. Francia del 26.7.2005), nella scarsità di risorse economiche e di strumenti culturali, ovvero nella posizione socio-economica complessiva della persona (pronuncia Salah Sheekh c. Paesi Bassi dell’11.1.2007). Non mancano tuttavia pronunce che collegano la condizione di vulnerabilità al tipo di reato subito, ovvero al patimento di violenza sessuale  (S.N. c. Svezia del 2.7.2002) o di violenza domestica (sentenza Opuz  c. Turchia del 9 giugno 2009).

 

  1. b) Ma al di là dei limiti normativi evidenziati, deve essere rilevato che si registra qualche resistenza all’accoglimento dell’incidente probatorio “incondizionato” previsto dall’art. 392 comma 1 bis c.p.p. Sono infatti non insoliti provvedimenti di rigetto emessi dai giudici per le indagini preliminari.

L’ordinanza di rigetto della richiesta di incidente probatorio è  peraltro un provvedimento pacificamente ritenuto inoppugnabile, in quanto espressione di un potere discrezionale di natura strumentale  rispetto alla speditezza del processo (in tal senso: Cass. Sez. 4, n. 2678 del 30.11.2000).

Tuttavia se, come nei casi previsti dal comma 1 bis dell’art. 392 c.p.p., si rinviene il fondamento dell’istituto nell’obiettivo di tutelare la vittima, la reiezione dell’incidente dovrebbe fare  riferimento,  per essere legittima, non alle tempistiche del processo, ma alla rilevanza della prova ed ai prevedibili effetti dell’eventuale esame dibattimentale sulla vittima da escutere.

Sul punto sarebbe  auspicabile un intervento legislativo che, da un lato consenta l’accesso incondizionato a vittime vulnerabili di fatto, ma ora escluse e, dall’altro,  espliciti la ratio dell’istituto attraverso l’individuazione dei parametri per l’esercizio della discrezionalità nella decisione sull’ammissibilità dell’incidente.

Infatti, condivisa la valutazione della Suprema Corte circa l’incompatibilità dell’impugnazione  dell’incidente con le esigenze di speditezza che caratterizzano la fase investigativa, un intervento chiarificatore sui parametri utilizzabili per la decisione  sull’accesso all’istituto avrebbe, comunque, l’effetto di limitare reiezioni ingiustificate.

 

  1. c) Deve inoltre essere rilevato il mancato coordinamento tra la norma che prevede l’accesso al contraddittorio incidentale e la norma che impedisce la audizione dibattimentale della persona offesa quando questa sia già stata udita in incidente probatorio, nei casi in cui la  testimonianza da assumere non riguardi circostanze diverse da quelle sulle quali il teste è già stato sentito (art. 190 bis c.p.p): mentre l’accesso alla fase incidentale è stata estesa a tutte le vittime, anche maggiorenni, dei reati indicati nell’art. 392 comma 1 bis c.p.p., lo sbarramento alla ammissibilità della testimonianza dibattimentale,  è limitato alle audizioni dei minori di anni sedici e non  comprende tra gli offesi protetti, le vittime dei reati di atti persecutori, maltrattamenti in famiglia, né dei reati di cui agli artt. 601 e 602 c.p. (ammesse  invece al contraddittorio anticipato ex art. 392 comma 1 bis c.p.p.).

Il risultato  della evidenziata disarmonia normativa è quello di vanificare, in un numero rilevante di casi, l’intento di tutela della vittima insito nella novella, che ha l’obiettivo di anticipare la audizione dell’offeso vulnerabile, di effettuarla in forma protetta e di contrarre il numero di audizioni giudiziali.

 

  1. d) Ancora, deve essere evidenziato come all’ampliamento del numero delle persone le cui dichiarazioni possono essere assunte con l’incidente probatorio (con conseguente sacrificio dell’oralità) non sia corrisposto un analogo ampliamento della possibilità di accedere alle modalità protette di audizione, che restano riservate ai sensi dell’art. 398 c.p.p solo alle vittime minorenni di tutti i reati indicati dall’art. 392 comma 1 bis c.p. ad eccezione delle vittime del reato di maltrattamenti (?).

Questa scelta mal si concilia con le indicazioni che provengono dalla decisione quadro  2001|220 GAI che invece all’art, 8 comma 4  prevede che “ciascuno Stato membro garantisce alla vittima la facoltà in base a una decisione del giudice, di rendere testimonianza  in condizioni che consentano di conseguire tale obiettivo e che siano compatibili con i  principi fondamentali del proprio ordinamento”.

 

  1. e) Nell’area delle cautele si è registrata una significativa modifica del nostro sistema, attraverso l’introduzione di misure ricalcate sugli ordini di protezione del processo civile, caratterizzate dalla specifica finalizzazione alla tutela di vittime determinate. Il che costituisce una novità nel nostro sistema cautelare e rappresenta un segnale non trascurabile di attenzione per i diritti degli offesi da reato.

Le misure in questione (previste dagli artt. 282 bis e 282 ter c.p.p.) appaiono dirette ad evitare i contatti tra l’indagato ed  una determinata vittima (ed, al più, i suoi familiari) e sono caratterizzate da uno specifico obiettivo di prevenzione, in quanto finalizzate ad evitare la reiterazione della condotta nei confronti di una persona offesa individuata (recentemente, peraltro, il Parlamento europeo, con delibera del 14 dicembre 2010, ha approvato una direttiva che prevede l’emissione di un ordine di protezione europeo, OPE, che consentirà l’estensione delle cautele disposte nello stato di provenienza, anche nello stato ove la persona perseguitata intenda risiedere o soggiornare).

Discusso è il grado di effettività della tutela connessa alla esecuzione di tali misure, sostanzialmente monitorie,  la cui efficacia dipende  essenzialmente dalla collaborazione dell’indagato e dal suo grado di autodisciplina. 

Quel che rileva tuttavia, come dato di sistema, è che  attraverso la loro introduzione, si è dato ingresso a cautele non dirette a prevenire la reiterazione generica di reati analoghi, ma piuttosto la reiterazione specifica di condotte illecite nei confronti di una persona determinata.

La rivoluzione è copernicana: a fondamento della cautela non c’è l’interesse generale della collettività, ma  l’interesse determinato di una persona individuata.

La valenza protettiva marcatamente individuale di tali misure consente dunque di ritenere che, anche nel nostro ordinamento, trova legittimazione il diritto dell’offeso ad essere specificamente ed individualmente “protetto”  attraverso l’imposizione  di  cautele penali.

Circa tale diritto della vittima da reato alla protezione attraverso l’applicazione di cautele appropriate,  importanti  indicazioni provengono anche dalla Corte EDU.

Da ultimo infatti, i giudici di Strasburgo hanno ravvisato una violazione dell’art. 2 della Convenzione in un caso in cui non era stata data adeguata  protezione ad una donna che si era rivolta a più riprese all’autorità giudiziaria ed era stata, infine, uccisa nell’ambito di una interminabile vicenda di violenza domestica (sentenza  C. Edu OPUZ c. Turchia del 19 giugno 2009 [2]).  In tale frangente, è stato riconosciuto dalla Corte di Strasburgo un diritto dell’offeso ad essere protetto attraverso l’applicazione di misure cautelari appropriate  e tale diritto  è stato ricondotto al’interno del  più ampio spettro di tutela  previsto dall’art. 2 della Convenzione,  che garantisce la tutela del diritto alla vita [3]

In quel caso è particolarmente significativo che il ritiro della querela è stato considerato un evento prevedibile e, ragionevolmente riconducibile alle pressioni dell’indagato, dunque inidoneo ad inibire l’obbligo positivo dello Stato di proteggere la vita attraverso l’imposizione di cautele appropriate: secondo i giudici europei, tenuto conto della gravità degli illeciti  che l’indagato aveva commesso in passato,  il pubblico ministero “avrebbe dovuto proseguire nella sua attività  nonostante la rimessione della querela da parte della vittima” e garantire una protezione adeguata attraverso l’applicazione di misure appropriate.

Il riconosciuto diritto alla tutela della vita, attraverso il tempestivo ricorso a misure cautelari appropriate, si distingue dunque, nettamente, dalla pretesa alla punizione dell’autore del reato rappresentata nella querela.  

La “forza” del diritto alla vita ed all’incolumità fisica impone infatti obblighi positivi di azione alle autorità pubbliche particolarmente stringenti e tempestivi, che non possono essere “condizionati” dalla volontà della vittima.

Il che costringe a chiedersi se il nostro ordinamento sia sufficientemente “attrezzato” a reagire contro ingiustificate inerzie del pubblico ministero nella gestione delle misure mirate alla protezione dell’incolumità dell’offeso da reato. E se sia conforme alle garanzie richieste dall’ordinamento integrato affidare, in via esclusiva, al pubblico ministero il compito di rispondere alle istanze di protezione della vita dell’offeso, senza che sulla sua azione (ma soprattutto sulla sua inazione) sia possibile alcun intervento di controllo (o di impugnazione) da parte della vittima.

 

  1. f) Così come ci si chiede, per altro verso, se la previsione della facoltà di rimettere la querela in relazione a reati che segnalano un serio pericolo per la vita dell’offeso, come quello di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) sia compatibile con una tutela effettiva dei diritti delle vittime.

La necessità di depotenziare il ruolo della querela trova conferma, per quanto riguarda i procedimenti per il reato di traffico degli esseri umani, nel contenuto della direttiva approvata dal Parlamento europeo il 14 dicembre 2010 (COM (2010)0095-c7-0087/2010 –2010/0065(COD)  che, all’art. 9, espressamente prevede che “gli stati membri adottano  le misure necessarie  affinché le indagini o l’azione penale relative ai reati di cui agli artt. 2 3 non siano subordinate alle dichiarazioni o all’accusa formulate dalla vittima ed il procedimento penale possa continuare anche se la vittima ritratta le proprie dichiarazioni”. Posizione questa di estremo rilievo: sia perché evidenzia la naturale inattendibilità della ritrattazione  effettuata da alcune  vittime (nella specie offese dal reato di tratta, dunque particolarmente vulnerabili in quanto ragionevolmente destinatarie di minacce e pressioni),  sia perché  invita a strutturare alcuni procedimenti penali in modo da non “centrarli”  esclusivamente sulla testimonianza dell’offeso.

Ma il diritto alla protezione della vittima da reato, oltre che dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, emerge con chiarezza anche dalla decisione quadro 2001\220 GAI, che il nostro  legislatore è  stato chiamato ad attuare con la legge n. 96 del 4 giugno 2010.

L’art. 8 della citata decisione prevede infatti, in modo espresso, il diritto delle vittime, ed in particolare di quelle più vulnerabili, ad essere protette, all’interno del processo, con la predisposizione di misure adeguate per la assunzione della testimonianza e,  fuori dal procedimento, con misure che contrastino le prevedibili conseguenze della loro partecipazione al processo  e, naturalmente,  le  prevedibili ritorsioni dell’accusato.

 

  1. g) Accanto al diritto alla tempestiva applicazione di cautele appropriate  si delinea poi il diritto  della vittima alla corretta e tempestiva acquisizione della prova ed, in modo implicito, alla  verifica che può (deve?) essere effettuata dall’offeso sulla azione investigativa  del pubblico ministero, anche solo ai fini dell’esercizio della  pretesa civile.

Al riguardo si rileva come, allo stato, la persona offesa nella fase delle indagini preliminari ha alcune rilevanti prerogative, come la facoltà di chiedere al pubblico ministero l’incidente probatorio,  o il diritto  di essere coinvolta nel confronto pre-processuale previsto dall’art. 360 c.p.p.  in caso di accertamenti irripetibili.  Ma non è destinataria  tuttavia dell’avviso ex art. 415 bis. c.p.p. e, di conseguenza, non è messa nelle condizioni di indicare, previa visione del compendio probatorio raccolto, elementi di prova ritenuti essenziali (e, forse, dalla stessa unicamente conosciuti).

Circa il diritto dell’offeso all’esperimento immediato dei mezzi di prova la Corte di Strasburgo in una significativa decisione del 24 febbraio 2005, nel caso Sottani c. Italia, ha affermato, riguardo alla richiesta di incidente probatorio proposto dalla persona offesa attraverso la “mediazione” del pubblico  ministero, che il sistema legislativo previsto dagli articoli 392  e 394 del c.p.p. potrebbe “fare sorgere dei dubbi quanto al rispetto del diritto della parte lesa  alla  uguaglianza delle armi  come a quello di accedere a un Tribunale garantito dall’art. 6 paragrafo 1 della Convenzione”.

La pronuncia  in questione fa espresso riferimento al diritto dell’offeso all’esperimento immediato di un mezzo di prova ed evidenzia come tale diritto “può rivelarsi essenziale per una efficace costituzione di parte civile”,  sicchè deve essere tutelato anche nella fase antecedente a quella in cui la costituzione può essere effettuata.

Emerge dunque, seppur tra le righe, il sospetto della Corte di Strasburgo sulla compatibilità dell’art. 6 della Convenzione con la previsione di un accesso “mediato” dell’offeso alle prove ed agli strumenti di tutela in genere: nel caso di specie era in discussione il diritto all’accesso diretto alla richiesta di incidente probatorio, ma il ragionamento potrebbe essere esteso a tutti i diritti della vittima  tutelabili, nella delicata fase delle indagini preliminari solo attraverso la mediazione del pubblico ministero, il quale potrebbe (in ipotesi) assumere un atteggiamento ingiustificatamente inerte.

 

In sintesi,  si rileva che il  quadro  emergente dalla normativa sovranazionale  e dalle decisioni della Corte europea dei diritti dell’uomo evidenzia alcune criticità del nostro sistema:

  1. in particolare, nella fase delle indagini preliminari la protezione del diritto alla vita attraverso la tempestiva ed appropriata imposizione di cautele penali, pone il problema dei controlli sulle inerzie del pubblico ministero;
  2. del pari, emerge la critica previsione della remissione di querela in alcuni reati, come quello di atti persecutori: dato normativo, questo, che  potrebbe porsi in  serio contrasto con l’effettività della tutela di vittime particolarmente vulnerabili, proprio perché soggiogate dall’accusato che induce la remissione( analoga criticità emerge nella gestione processuale delle ritrattazioni);
  3. inoltre il fatto che la costituzione di parte civile sia possibile per la prima volta nella fase dell’udienza preliminare e che durante le indagini la persona offesa possa promuovere l’interesse alla completa e tempestiva raccolta della prova, fondamentalmente attraverso istanze rivolte al pubblico ministero, evidenzia il livello di critica effettività delle garanzie dell’offeso anche nel settore della raccolta degli elementi di prova funzionali alla efficace costituzione di parte civile.

Sulla possibilità della vittima di censurare l’operato del pubblico ministero il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa nell’ambito della  Raccomandazione sul  ruolo del pubblico ministero nel sistema di giustizia penale adottata il 6 ottobre 2000, ha rilevato che “les victimes doivent avoir la possibilité de contester la décision prise par le ministère public de ne pas engager de poursuites, notamment en les autorisant à les mettre en œuvre elles-mêmes (paragraphe 29 ci-dessus)”: risoluzione che sembra  individuare uno spazio di “reazione” dell’offeso più  ampio di quello previsto dagli artt. 408 e ss. del nostro codice di procedura penale.

 

1.3.Le soluzioni allo stato  praticabili.

 

1.3.1.L’ incidente probatorio e  ammissibilità della testimonianza dibattimentale

 

Mentre l’accesso alla fase incidentale è stata estesa a tutte le vittime, anche maggiorenni, dei reati indicati nell’art. 392 comma 1 bis c.p.p., lo sbarramento alla ammissibilità della testimonianza dibattimentale, è limitato alle audizioni dei minori di anni sedici e non  comprende tra gli offesi protetti, le vittime dei reati di atti persecutori, maltrattamenti in famiglia, né dei reati previsti dagli artt. 601 e 602 c.p. (ammesse  invece al contraddittorio anticipato ex art. 392 comma 1 bis c.p.p.).

Il risultato della evidenziata disarmonia normativa è quello di vanificare, in un numero rilevante di casi, l’intento di tutela della vittima insito nella novella, raggiungibile attraverso la anticipazione della audizione dell’offeso vulnerabile,  la sua effettuazione  in forma protetta ed, infine, proprio attraverso la contrazione del  numero di audizioni giudiziali. 

In relazione al problema evidenziato sembrano difficilmente praticabili soluzioni interpretative “tampone”, dato che una eventuale decisione negativa circa l’ammissibilità della testimonianza contrasterebbe in modo particolarmente netto  con il  diritto dell’imputato alla formazione della prova orale. La via della interpretazione conforme appare in questo caso particolarmente complessa in quanto il diritto della vittima entra in diretto conflitto con il diritto dell’imputato alla formazione della prova in (pieno) contraddittorio: il bilanciamento è talmente delicato che l’intervento del legislatore appare più che opportuno.

Si segnala la recente direttiva sulla repressione del traffico degli esseri umani (all’art. 12 comma 4) lettera a) impone gli stati  membri dell’ Unione di strutturare il procedimento penale in modo da “evitare ripetizioni non necessarie delle audizioni nel corso delle indagini e del procedimento penale”: il che lascia ben sperare circa il futuro superamento delle evidenziate disarmonie.

 

1.3.2.L’estensione dell’accesso alle  modalità protette 

 

E’ ragionevole che i decreti attuativi della legge 4 giugno 2010 n. 96 espanderanno l’accesso alle modalità protette anche agli offesi  attualmente esclusi dal beneficio.

Allo stato, ed  in attesa di eventuali  interventi del legislatore,  potrebbe essere percorribile, ai fini della estensione della tutela, la strada della interpretazione conforme, secondo lo schema interpretativo indicato dalla nota sentenza Pupino della Corte di giustizia dell’Unione europea.

Nel caso in questione il giudice dell’udienza preliminare italiano in relazione alla richiesta di ammissione della audizione in forma protetta di un bimbo di  soli cinque anni nel corso di un procedimento per il reato di abuso di mezzi di disciplina, non previsto dall’art. 392 comma 1 bis c.p.p., sollevava  questione pregiudiziale ai sensi dell’art. 35 Trattato UE, sollecitando la Corte di Lussemburgo ad interpretare gli artt. 2,3, ed 8 della decisione quadro 2001\220\GAI in merito al possibile contrasto tra tale disposizione e la disciplina processuale italiana in materia di audizioni protette incidentali. La Corte ha chiarito che il giudice nazionale è tenuto ad interpretare le disposizioni del proprio ordinamento in maniera conforme alla lettera ed alle finalità della normativa europea nel rispetto del limite di compatibilità con i principi dell’ordinamento nazionale e con quelli  della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. Ed ha  stabilito, nel caso specifico,  che le norme della decisione quadro devono essere interpretate nel senso che il giudice nazionale deve avere la possibilità di autorizzare minori offesi dal reato di maltrattamenti a rendere la loro deposizione, secondo modalità che permettano di garantire un livello di tutela adeguato (ad esempio al di fuori dell'udienza e prima della tenuta di quest'ultima)[4].

La sentenza in questione  pone diversi problemi. 

La stessa infatti con un’interpretazione non da tutti condivisa  assegna alle decisioni quadro emanate  nell’ambito delle materie dell’ ex terzo pilastro una forza di conformazione degli ordinamenti interni non irrilevante e per molti versi inedita. 

Le decisioni quadro pur non essendo direttamente vincolanti, impongono infatti  al giudice nazionale  di interpretare il diritto interno alla luce della  loro lettera e del loro scopo al fine di conseguire il risultato perseguito da queste. Dunque in capo al giudice nazionale si insedia un obbligo di interpretazione conforme che trova i suoi limiti solo nel rispetto dei principi generali del diritto (certezza del diritto e non retroattività) e nella  compatibilità dell’interpretazione correttiva  con  il diritto nazionale nel suo complesso e con i principi costituzionali  in particolare.

Circa il  problema rilevato, ovvero l’estensione delle modalità protette di audizione anche quando  si procede per ipotesi di reato diverse da quelle indicate[5] la Corte costituzionale italiana si è già espressa negativamente circa la  fondatezza  delle questioni di legittimità costituzionale dell’art. 398 comma 5 bis c.p.p.. La Corte ha sostenuto che non è irragionevole la scelta del legislatore di limitare l'operatività di quella disposizione alle sole ipotesi di testimonianza resa dall' (allora solo) infrasedicenne in procedimenti per reati sessuali, trattandosi di illeciti per i quali “si pone con maggiore intensità ed evidenza l'esigenza di proteggere la personalità del minore, nell'ambito del suo coinvolgimento processuale, e la genuinità della prova”; sia anche perché  una interpretazione estensiva di quella norma finirebbe per attribuire ingiustificatamente una rilevanza costituzionale all’incidente probatorio, la cui funzione è di derogare eccezionalmente alla regola generale secondo cui la prova penale è assunta in dibattimento  (principio al quale il legislatore ha inteso porre l'eccezione dell'ascolto anticipato del teste minore di sedici anni esclusivamente per l'indicata categoria di reati).

La Consulta ha posto dunque in risalto la eccezionalità della vittima (all’epoca presa in considerazione solo se minore) di reato sessuale rispetto alle vittime di reati comuni ed ha ritenuto giustificato dalla speciale vulnerabilità di tali offesi il ricorso allo strumento dell’incidente probatorio, con il conseguente sacrificio dell’oralità nella formazione della prova. Proprio laddove la Corte di Lussemburgo, nel caso Pupino ha chiarito  che la vulnerabilità  della vittima  deve essere valutata prescindendo da ogni  inquadramento formalistico (§4.1.).

Ci si chiede se la presa di posizione della Corte di Lussemburgo, successiva a quella della nostra Consulta, sia in grado di consentire al giudice nazionale l’interpretazione adeguatrice diretta, senza il ricorso all’incidente di costituzionalità, sia per consentire l’accesso al contraddittorio anticipato di vittime di reati non previsti dall’art. 392 comma 1 bis c.p.p., sia per utilizzare le modalità  protette di audizione nei casi non previsti dall’art. 398 c.p.p.

La forza riconosciuta dalla Corte di giustizia alle norme della decisione quadro  2001/220/GAI sembra infatti consentire al  giudice nazionale  di scegliere modalità adeguate di audizione della vittima vulnerabile, anche  fuori dei casi tassativamente previsti dall’art. 392 comma 1 bis c.p.p., ovviamente previa positiva valutazione della compatibilità di tali modalità con i principi  dell’ordinamento nazionale, in genere, e del giusto processo, in specie.

In particolare l’estensione delle modalità speciali di audizione, infatti, oltre che sicuramente “conforme” alle indicazione della decisione quadro - in considerazione dei chiarimenti circa la nozione “elastica” di vulnerabilità forniti dalla Corte di Lussemburgo -  non risulta neppure incompatibile con i principi della nostra legislazione, in considerazione del fatto che questa prevede, in casi del tutto omologhi, l’accesso a forme di contraddittorio “attenuato” rispettose dello stato di vulnerabilità delle vittime.

Infine, quanto alla compatibilità dell’istituto dell’incidente probatorio  con i principi convenzionali, la Corte Edu si è già espressa in senso positivo, ritenendo rispettato il diritto dell’imputato al processo equo,   nel caso Accardi c. Italia di cui si dirà in seguito (§4.4.)

 

 

1.3.2.L’accesso all’ incidente probatorio delle  vittime non comprese nell’elenco dell’art. 392 comma 1 bis c.p.p.;  in particolare degli offesi del reato di sfruttamento della prostituzione.

 

L’accesso al contraddittorio predibattimentale per alcuni offesi da reato è un approdo raggiunto  solo di recente con l’estensione della possibilità di utilizzare l’istituto anche per l’audizione delle vittime maggiorenni di reati sessuali, atti persecutori o maltrattamenti in famiglia[6].

Malgrado la richiamata estensione, la  attuale limitazione dell’accesso all’istituto solo alle vittime di alcuni reati impedisce il ricorso allo strumento  in  numerosi altri casi in cui il dichiarante si trova in una situazione di analoga vulnerabilità.

Esemplare al riguardo è l’esclusione dal novero dei reati che consentono l’accesso “incondizionato” al contraddittorio incidentale del delitto di sfruttamento della prostituzione di cui all’art. 3 della legge n. 75 del 1958.

Ferma la possibilità di  tentare il ricorso al percorso interpretativo “correttivo” indicato dalla Corte di Lussemburgo (e sopra richiamato), si registra che, nella prassi, l’accesso della vittima all’audizione con contraddittorio anticipato viene  - talvolta-  ottenuto attraverso una interpretazione estensiva della condizione del “grave impedimento” previsto dalla lettera a) dell’art. 392 c.p.p.  attraverso una  valutazione ex ante della irreperibilità della persona da sentire.

Si tratta, in tal caso, di una estensione motivata dalla esigenza di preservazione dell’utilizzabilità della fonte di prova, più che da esigenze di tutela della vittima: che tiene conto della giurisprudenza della Corte di Strasburgo, la quale ha in più occasioni ribadito  il carattere “non equo” del processo fondato in modo esclusivo o determinante sulle dichiarazioni di chi non è si è sottoposto alle domande dell’imputato[7], oltre che della giurisprudenza della Corte di Cassazione, particolarmente rigorosa  circa la valutazione dell’utilizzabilità delle dichiarazioni predibattimentali acquisiste ai sensi dell’art. 512 c.p.p. (tra le altre, Cass. Sez. 2 n. 43331 del 2007, Poltronieri, nonché Cass. Sez. 1, n. 44158 del 23.9.2009, Marinkovic;  Cass. sez. 3, n. 27582 del 15.6.2010, R.).   

 

2.  Tecniche di escussione

 

2.1. Le caratteristiche della “testimonianza debole”

 

I problemi maggiori  in tema di tutela delle vittime da reato si  registrano  tuttavia   nell’area  della  formazione della prova dichiarativa proveniente dall’offeso.

La assunzione della testimonianza di una vittima vulnerabile necessita  infatti di particolare accortezza e specializzazione [8].

Principalmente nella fase investigativa. Il pubblico ministero deve infatti essere particolarmente accorto nella gestione della raccolta della prima  testimonianza  giudiziale e nel decidere quando effettuare la richiesta di incidente probatorio cui consegue la completa discovery  degli atti ex art. 393 comma 2 bis c.p.p.

Al riguardo  è diffusa tra gli operatori una sensazione di depotenziamento dell’effettività del  valore probatorio della testimonianza quando la stessa viene assunta a distanza di diversi anni dall’accadimento dei fatti che il teste è chiamato ad evocare. I limiti del nostro sistema di formazione della prova dichiarativa  tuttavia si manifestano -  e vengono  percepiti -  con maggiore evidenza proprio nel caso delle audizioni dei testi cd. “deboli”, ovvero delle (presunte) vittime di reato, quando queste sono chiamate ad evocare l’evento reato fonte di trauma.

La evoluzione della giurisprudenza e degli studi sulla psicologia della testimonianza hanno consentito di evidenziare l’estrema complessità della formazione della prova dichiarativa del teste vulnerabile.

Le difficoltà indicate  trovano il loro acme nella audizione del minore in età pre-scolara: in tal caso, i problemi connessi alla assunzione ed  alla valutazione della  testimonianza si intrecciano con quelli di gestione della prova scientifica, ovvero delle consulenze e perizie psicologiche che, nella prassi, vengono disposte sul teste minore.

Le dichiarazioni accusatorie provenienti da vittime traumatizzate inoltre, difficilmente sono immediatamente esaustive. Esse emergono a seguito di  faticosi itinerari di rivisitazione e superamento del trauma patito. In genere sono  rese  nella inconsapevolezza degli effetti processuali che producono. Appaiono dunque frammentarie, simboliche, non veritiere (per timore, vergogna, soggezione, induzione).

E’ raro che la vittima conceda immediatamente ed in un’unica soluzione la intera rappresentazione dei fatti per cui si procede, dato che essa dovrà confrontarsi con gli effetti del trauma primario denunciato e con gli esiti del trauma  (secondario)  scaturente dal  processo.

Le dichiarazioni rese saranno dunque condizionate dall’affidamento (o dal  rifiuto) che la vittima maturerà nei confronti dell’autorità procedente durante un percorso giudiziario che si intreccerà e confonderà  con quello psicologico di rielaborazione del trauma da reato.

Il merito dell’approfondimento compiuto dalla psicologia in materia di testimonianza (in genere e) del  minore  (in particolare)  risiede essenzialmente  nel fatto di avere evidenziato,  da un lato, come  i meccanismi del ricordo siano influenzati dal setting della audizione (e, principalmente, dal rapporto con l’intervistatore) e, dall’altro, come la testimonianza si presenta, di regola, non omogenea  in occasione  delle varie audizioni effettuate nel corso del procedimento e del processo: si assiste, in tali casi, alla emersione di una  “progressione dichiarativa”, che si sviluppa  attraverso le diverse fasi processuali,  spesso (anche se non sempre) in coerenza con  il richiamato  percorso di  (accresciuto o, talvolta, diminuito) affidamento  del dichiarante alla autorità giudiziaria.

Tale modalità di emersione del ricordo, è particolarmente evidente nel caso del minore presunte vittima di abusi sessuali, ma è riconoscibile anche nel comportamento testimoniale di molte persone offese, quando queste sono chiamate ad evocare un evento-reato di natura traumatica.

Si assiste infatti ad una visibile differenziazione dei comportamenti dei testi in relazione al rapporto che  gli stessi hanno  con l’evento che sono chiamati ad editare  in sede giudiziale.

La deposizione assume dunque caratteristiche diverse a seconda che il dichiarante abbia consapevolmente “partecipato” al fatto (come nel caso di un imputato di reato connesso), o   abbia, invece,  patito dal fatto un trauma “diretto” (persona vittima di violenza o di estorsione) o “indiretto” (teste oculare di un evento violento). Diversa, ancora, è la posizione del teste “indifferente”, ovvero  di colui che  non è in alcun modo coinvolto nell’evento chiamato a rievocare (la psicologia della testimonianza avverte, al riguardo, sulle particolari insidie connesse alla rievocazione del ricordo effettuata da tali  dichiaranti “neutri”).

Il nodo problematico maggiore in materia di assunzione della testimonianza “debole” è il bilanciamento tra la tutela dei diritti dell’imputato, che passa attraverso la difesa del presidio del contraddittorio e,  la tutela della vittima-testimone del reato,  che non può prescindere dalla presa d’atto che il metodo del confronto diretto con l’imputato, al centro del processo accusatorio, entra in conflitto con la tutela dell’offeso, e si presenta non del tutto adeguata a garantire una testimonianza attendibile, dato che la presenza dell’accusato può porre la vittima  in condizione di soggezione (se non di intimidazione) ed interferire con la deposizione.

La  consolidata scelta del contraddittorio come sistema processuale di garanzia per la difesa dei diritti dell’imputato, al quale non può essere negata la possibilità di sottoporre ad esame la fonte da cui promanano le accuse, deve dunque fare i conti con la difficile compatibilità del metodo del confronto tra accusatore ed accusato, quando il soggetto da cui provengono le accuse sia offeso dal reato e, più in particolare, vittima “vulnerabile”, in quanto il tipo di reato per cui si procede  lede beni primari della persona (libertà personale  e sessuale in primo luogo), sicchè la vittima- testimone, a causa della tensione emotiva con l’imputato, rischia di patire dal contraddittorio dibattimentale oltre che pervasivi effetti di “vittimizzazione” secondaria o “da processo”,  anche  traumi direttamente incidenti sulla riedizione del ricordo,  cui consegue un danno imponente sulla  formazione della prova testimoniale.

Il nodo problematico sopra rilevato non riguarda solo il soggetto che ha patito direttamente l’offesa, ma anche tutti i testi “vulnerabili”, ovvero quelli che, a causa della gravità dei fatti  oggetto del processo e della rilevanza delle dichiarazioni testimoniali da rendere, rischiano di  mettere in serio pericolo beni primari della loro esistenza.

Emblematico  al riguardo è il caso del teste oculare di un delitto consumato in ambiente mafioso.

Dunque il problema del bilanciamento tra diritto dell’imputato al esame dell’accusante e tutela del dichiarante “debole” investe una fascia ampia di persone, tra le quali la vittima del reato è sicuramente  compresa, ma che ad essa non si  limita, né in essa  si  esaurisce.

La rilevanza del problema appare  accentuata dal collegamento tra emersione di alcuni crimini   e la volontà delle vittime degli stessi. I reati contro la libertà sessuale, come anche i delitti di usura ed estorsione, soprattutto quando questi ultimi non risultano inseriti in contesti di criminalità organizzata,  emergono per lo più attraverso  la denuncia degli offesi, i quali giungono alla determinazione dell’affidamento alla autorità giudiziaria, attraverso percorsi tormentati,  che passano  anche  attraverso la difficile accettazione del percorso traumatico (di “vittimizzazione secondaria”, appunto) legato allo svolgimento del processo.

Inoltre la essenzialità della testimonianza delle persone offese non solo per la formazione della prova, ma per la stessa emersione di alcuni reati, rende quanto mai urgente il tentativo di trovare una soluzione equilibrata al  bilanciamento degli interessi sopra accennato.

Non si può non considerare infatti che il trauma da processo legato alla inadeguatezza degli strumenti  preposti alla tutela della vittima dichiarante inibisca in modo consistente non solo la formazione della prova e l’eventuale condanna, ma anche  la stessa  possibilità di perseguire molti crimini  “invisibili”,  la cui emersione dipende  unicamente dalla volontà di denuncia degli offesi.  Sovente infatti la vittima  effettua un bilanciamento tra il costo del trauma indotto dal processo ed il beneficio  della persecuzione del reo che si risolve nella determinazione di non denunciare il reato.

Il che ha effetti gravi per l’efficacia del sistema penale, sia perché produce la mancata persecuzione dello specifico fatto di reato, sia perché quando la rinuncia al procedimento penale viene effettuata da vittime di reati di criminalità organizzata (estorsioni in primo luogo), il sistema  criminale in cui il reato non denunciato si innesta,  ne  risulta irrobustito in quanto la forza di intimidazione espressa  trova nella rinuncia della vittima  un riscontro significativo.

La normativa sovranazionale, ed in particolare  la decisione quadro del 15 marzo 2001  relativa alla posizione della vittima nel procedimento penale emanata dal Consiglio dell’Unione Europea, costituisce, ancora una volta, il punto di riferimento anche per il giudice nazionale nella gestione del difficile equilibrio tra  diritto dell’imputato ad essere giudicato in esito ad un processo equitable  e il diritto della vittima ad essere tutelata.

 

 

2.2. La escussione della vittima  nel corso delle indagini. La documentazione”aggravata”

 

Sebbene il sistema  processuale italiano soffra i limiti derivanti dalla scelta di un modello accusatorio la cui ortodossia arriva ad elidere - in modo pressoché totale -  la  validità probatoria delle dichiarazioni rese in fase di indagine (qualora il processo si sviluppi attraverso il rito ordinario), non si può che rimarcare  la estrema rilevanza della ricezione  pre-dibattimentale delle dichiarazioni  sia  per gli effetti processuali endofasici (eventuale emissione di misure di cautela) che sotto  lo specifico profilo dell’ “accoglienza” della vittima anche ai fini della attenuazione della   creazione di traumi da processo.

Il percorso di vittimizzazione secondaria infatti ha inizio  fin dal  momento del primo contatto con gli  organi inquirenti, che devono essere per questo preparati a mitigarne al massimo  gli effetti negativi.

Il percorso di rafforzamento della tutela del dichiarante offeso non può che partire dalla predisposizione  di un sistema adeguato di “accoglimento” di tale soggetto da parte degli organi preposti alla ricezione della denuncia.

La decisione quadro al riguardo  impone un significativo indirizzo laddove all’art. 13  che prevede che gli Stati  membri  promuovano l’intervento nell’ambito del procedimento penale  “di servizi di assistenza alle vittime con il compito di organizzare la loro accoglienza iniziale e di offrire loro  sostegno ed assistenza successivi  attraverso la messa a disposizione  di persone all’uopo preparate nei servizi pubblici o mediante il riconoscimento ed il finanziamento  di organizzazione di assistenza alle vittime”. Significativo anche il secondo comma  dove è previsto che alla vittima debbano essere fornite le  informazioni adeguate circa la sua situazione e che la stessa debba essere assistita nel momento iniziale, nel corso del procedimento (attraverso la individuazione di un diritto della vittima all’accompagnamento) e – anch’essa previsione fondamentale – dopo  la  fine del procedimento.

Nello stesso senso  si indirizza l’art. 14  della decisione quadro 2001/220/GAI che prevede  che alle vittime  più vulnerabili  sia garantito il contatto, nell’ambito del procedimento penale con persona fornite di adeguata preparazione professionale.

La decisione quadro prevede dunque che alla vittima  sia fornita  assistenza materiale durante tutte e fasi del procedimento ed addirittura dopo la conclusione  dello stesso, e che alla  stessa siano fornite tutte le  informazioni relative al procedimento.

In Italia  il sistema di accoglienza  non appare sempre conforme alle direttive europee. Il nostro sistema penale appare infatti essenzialmente improntato alla repressione e dunque al perseguimento dell’autore del reato e poco attento alle esigenze dell’offeso.

Il deficit di tutela è particolarmente evidente nella fase iniziale del procedimento, ovvero nel momento della raccolta delle prime dichiarazioni accusatorie della vittima.

La assenza di un sistema organizzato  preposto alla tutela ed all’accoglienza  affida alla buona volontà degli operatori la  buona riuscita di questa delicata ed essenziale fase del procedimento penale [9]

In realtà  spesso la vittima, quando si risolve alla denuncia si affida in modo incondizionato   agli operatori, senza informarsi previamente sulla loro specializzazione.

Al riguardo non può non essere rimarcato che il contatto tra il  soggetto traumatizzato e  coloro che ne  raccolgono le prime dichiarazioni è estremamente rilevante ed in grado di condizionare il futuro del processo in relazione all’affidamento che si ingenera  circa  il livello di accoglienza del sistema.

 Il nostro ordinamento prevede   una specifica forma di assistenza solo per la vittima minore di una particolare tipologia di reati: l’art. 609 decies del codice penale  prevede infatti che il minore vittima di abusi sessuali sia “accompagnato” nel corso del procedimento da persone deputate alla sua assistenza psicologica, che vengono individuate nei genitori o in personale specializzato dei servizi sociali.

Tale disposizione ha il pregio di svolgere la funzione di presidio di assistenza nei confronti del minore vittima di abusi nel corso dell’intero procedimento, dunque sia nella fase della raccolta delle dichiarazioni predibattimentali, che durante l’escussione in contraddittorio nelle fasi dell’incidente probatorio  o in dibattimento. La continuità[10] di tale assistenza dovrebbe costituire un argine contro il trauma indotto dalle numerose escussioni giudiziali e  le diverse analisi psicologiche cui di regola il minore è sottoposto nel corso dell’intero procedimento.

Deve essere tuttavia evidenziato che si tratta di un norma speciale  destinata ad essere applicata solo nel limitato settore dei  processi relativi ad abusi su minori e che non esiste una norma di analogo tenore applicabile alla tutela processuale di ogni vittima.

Sicchè la tutela psicologica dell’offeso e la sua difesa dai traumi secondari indotti dal processo resta affidata  - allo stato - alle buone prassi ed alla  volontà degli operatori.

Uno dei problemi di maggiore rilievo che emergono nella prassi  riguarda l’“opacità” dei metodi di assunzione della prova dichiarativa c.d. “debole”.

Emblematica al riguardo è la raccolta delle dichiarazioni del minore presunta vittima di abusi sessuali.

In materia si registra una notevole disomogeneità nelle prassi di assunzione della testimonianza,  soprattutto in fase investigativa.

Le criticità maggiori si insediano principalmente all’atto delle audizioni “unilaterali”,  precedenti alla effettuazione dell’incidente probatorio, quando si registra lo scarso  (pressoché nullo) ricorso a forme di documentazione aggravata, ovvero alla audio e video registrazioni. 

Il ricorso a verbali sintetici, scritti utilizzando moduli linguistici non riconducibili alle forme  espressive tipiche dei minori,  impedisce alla difesa (come al giudice che entra “in contatto” con i verbali delle dichiarazioni rese in fase investigativa), la piena cognizione delle  circostanze concrete che hanno caratterizzato l’audizione.

In particolare, non essendo documentato il setting dell’intervista, non risultano percepibili  i meccanicismi di interazione con chi pone le domande, e non sono  seriamente valutabili eventuali fenomeni di suggestione.  Tale prassi consente, pertanto, l’insinuarsi nel procedimento di dubbi sulla genuinità delle dichiarazioni riconducibili ad interferenze sul processo mestico  derivanti dalle suggestioni dell’interlocutore. Interferenze che non possono che restare “presunte”, se non sono documentate ed analizzabili.

Sul punto è necessario prendere atto degli approdi della psicologia della testimonianza[11] che hanno  studiato[12] le interferenze sui meccanismi del ricordo delle interviste suggestive, come anche di alcune pronunce della giurisprudenza di legittimità, che hanno evidenziato che la motivazione sull’attendibilità delle dichiarazioni dei minori deve prendere  in esame sia le interferenze causate da eventuali suggestioni (più o meno volontariamente) poste in essere dall’intervistatore,  sia le altre condizioni esterne del setting auditivo [13].

La conclamata emersione della valenza processuale di tali interferenze impone una particolare attenzione in fase investigativa, al loro evitamento ed, in fase cognitiva, alla  loro valutazione.

Se la analisi dell’attendibilità, almeno per quanto riguarda il teste minore, non può non  prendere  in esame tali relazioni e i possibili inquinamenti che ne derivano, l’utilizzo di metodi di documentazione aggravata diventa vieppiù necessaria, pur non essendo obbligatoria.

Solo la documentazione aggravata consente infatti di rendere pienamente fruibile anche l’assunzione delle dichiarazioni assunte unilateralmente in fase investigativa:  il giudice  e  le parti sono, in tal modo, messe nelle condizioni di esaminare direttamente le eventuali suggestioni e di valutarne la portata al fine del giudizio sull’attendibilità.

La audio e videoregistrazione nella audizione predibattimentale delle vittime rappresenta dunque l’unico strumento idoneo a consentire una valutazione seria e completa delle dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio. Che, qualora venisse sistematicamente utilizzato, potrebbe  anche condurre la difesa alla scelta di riti a prova contratta, con evidenti benefici, tanto in termini di economia processuale, quanto in termini di riduzione delle audizioni giudiziali, con conseguente rilevante abbattimento del rischio di trauma da processo.    

Si rileva, ancora, come la documentazione  in questione consente il confronto delle parti (già nella fase della ostensione ex art. 415 bis c.p.p.) su dati preprocessuali non criptici, ma pienamente fruibili: dunque,  accresce i diritti sostanziali della difesa, consentendo una analisi critica ed effettiva degli elementi raccolti nella fase investigativa.

Le dichiarazioni unilaterali adeguatamente documentate si presentano infatti finalmente valutabili anche nel contenuto extradichiarativo e  consentono alla difesa  di “addentrarsi”  nel  terreno oscuro degli atti raccolti nella fase segreta del procedimento e di estendere il confronto processuale anche sugli elementi di prova raccolti  in indagine.

In sintesi, il ricorso sistematico a tale forma di documentazione consentirebbe alla difesa di effettuare un effettivo controllo (ex post)  sui dettagli del percorso investigativo e si presenta idoneo ad aprire nuovi scenari nella dialettica tra le parti, permettendo l’arretramento del confronto tra le parti e consentendo alla difesa l’analisi effettiva  degli “elementi” di prova dichiarativa raccolti in indagine.

Tale arretramento  è probabilmente una delle nuove frontiere del “giusto processo”. 

Solo attraverso l’introduzione della possibilità per la difesa di controllare  gli elementi raccolti  nella fase germinale del procedimento si rende, infatti, veramente equo il processo penale.

Si tratta di un passaggio particolarmente significativo nel senso della rivisitazione in senso sostanziale dei principi del  processo accusatorio,  che appare peraltro caldeggiata dalla normativa europea.

Una conferma alla rilevanza della documentazione aggravata nei reati con vittima vulnerabile si trova nella recente direttiva sulla repressione della tratta degli esseri umani approvata il 14 dicembre 2010  dove è previsto che “gli Stati membri adottano le misure necessarie affinché nelle indagini relative ai reati  di cui agli artt. 2 e 3 le audizioni del minore vittima di reato ovvero del minore testimone dei fatti possano essere videoregistrate e le videoregistrazioni  possano essere utilizzate come prova nel procedimento penale conformemente alle disposizioni del diritto interno” (art. 15 comma 4).

Di contro, nel nostro sistema, l’importanza di documentare con la videoregistrazione i dati di comunicazione non dichiarativi provenienti da vittime vulnerabili emerge già dalle norme che disciplinano le modalità di svolgimento dell’incidente probatorio, che prevedono l’obbligo di documentazione  fonografica o audiovisiva (art. 398 comma 5 bis c.p.p).

Da ultimo, si rileva che la corretta assunzione delle “prime” dichiarazioni (in particolare di quelle extragiudiziali, ma a maggior ragione, anche di quelle giudiziali), è ritenuta dalla giurisprudenza di legittimità indispensabile al fine  di  sterilizzare eventuali fenomeni di contagio e di interferenza che, se non immediatamente inibiti, rischiano di introdurre un vulnus incorreggibile nella formazione di prove fondamentali  per la decisione.  Tuttavia se la prima dichiarazione non è ostensibile in forma fruibile,  ogni valutazione effettiva sull’attendibilità non potrà che essere  “concentrata” al momento della formazione della testimonianza in contraddittorio; mentre sui modi di assunzione della dichiarazione predibattimentale potranno essere avanzati dubbi che, in mancanza di documentazione, non potranno essere facilmente sciolti, e si ripercuoteranno  inevitabilmente sulla valutazione della attendibilità delle dichiarazioni successive.

La propugnata fruibilità dovrebbe essere naturalmente estesa (come suggerito dalla Corte di Cassazione nella pronuncia Cass. Sez. 3 n. 37147 del 18.9.2007) anche alle dichiarazioni rese dall’offeso nel corso degli eventuali accertamenti tecnici sulla capacità a testimoniare.

Al riguardo  si segnala che la Corte di legittimità  - in una pronuncia, seppur isolata -  ha dichiarato l’utilizzabilità ai fini del giudizio abbreviato anche delle dichiarazioni rese al perito (Cass. Sez. 3 n..2101  dell’11.11.2008,  RV 242256 contra Sez. 3, Sentenza n. 16854 del 04/03/2010, Rv. 246984), mentre, in altra pronuncia, ha stabilito che  non vi è alcun obbligo per il perito di far presenziare alle operazioni tecniche  i consulenti di parte, né è prevista alcuna sanzione in relazione alla loro assenza (Cass. Sez. 3 n. 42984 del 4.10.2007).

La documentazione aggravata delle audizioni effettuate in ambito peritale diventa dunque uno strumento indispensabile anche per la salvaguardia della effettività del “contraddittorio tecnico”. 

In definitiva con il ricorso  sistematico a tali forme di documentazione consentirebbe alla difesa la valutazione concreta degli elementi di prova raccolti in indagine e la conseguente dissoluzione di  gran parte delle opacità  denunciate nella nota introduttiva. 

Da ultimo, forse non è retorico sottolineare che il garante  dell’effettività del  diritto  di difesa nella fase delle indagini,  è il pubblico ministero.  La sede normativa di tale onere di salvaguardia  si rinviene nell’ 358 c.p.p., che onera l’organo della pubblica accusa alla raccolta di elementi di prova utili alle determinazioni per l’esercizio dell’azione penale, che siano – è questo un onere implicito -  idonei ad essere effettivamente valutati  (sia dal giudice che  dalla difesa) al momento della loro  ostensione.

L’onere della raccolta di elementi di prova  in forma fruibile si accompagna,  ovviamente, a quello di svolgere le indagini in regime di segretezza in tutti i casi in cui la discovery degli atti potrebbe pregiudicare l’esito delle indagini o, addirittura, mettere in pericolo la persona offesa [14].

Gli approfondimenti sulla formazione della prova dichiarativa del teste minore presunta vittima di abusi  sessuali sono destinati ad estendersi alle testimonianze delle altre vittime vulnerabili in considerazione della crescente e diffusa attenzione degli operatori del diritto nei confronti della psicologia della testimonianza e del funzionamento dei meccanismi del ricordo, soprattutto quando le dichiarazioni provengono dalla persona offesa.

Gli approdi scientifici e giurisprudenziali in tale materia devono essere considerati importanti avamposti verso la acquisizione di una maggiore consapevolezza nella gestione di un evento, come la testimonianza, che ha una complessità straordinaria e che deve essere sottoposta a vagli particolarmente attenti quando viene posta a fondamento di sentenze di  assoluzione o  condanna

 

 

2.3.La escussione della vittima vulnerabile in contraddittorio

 

Un nodo particolarmente critico è poi quello delle modalità di  concreto svolgimento dell’esame (in incidente probatorio, ma anche in dibattimento)  nel caso in cui il teste è minore. In tali casi l’esame viene condotto dal giudice (ed in alcuni casi dal perito del giudice) su domande e contestazioni proposte dalle parti.

La norma che consente la “contrazione” del contraddittorio attraverso l’intervento di  mediazione del giudice è stata ritenuta conforme a Costituzione dalla Corte  di legittimità  (Cass. Sez. 3, Sentenza n. 42899 del 30/09/2009) che, nel dichiarare manifestamente infondata la  questione di costituzionalità sollevata in relazione all’art. 498 c.p.p. ha chiarito che “Il principio del contraddittorio nella formazione della prova fissato dal quarto comma dell'art. 111 Cost., disposizione che recepisce ed esprime nel diritto interno i principi contenuti nella Convenzione Europea dei Diritti dell'Uomo (cfr. sentenze n. 348 e 349 del 2007 della Corte Costituzionale), viene "bilanciato" dal successivo quinto comma mediante il rinvio alla legge ordinaria per la determinazione dei casi in cui la prova a carico può legittimamente formarsi in assenza di un contraddittorio diretto. E non vi è dubbio che la disposizione contenuta nell'art. 498 c.p.p., rappresenta una ipotesi di legittimo bilanciamento tra i diritti dell'imputato e i diritti del minore”.

La Corte di Cassazione ha inoltre ritenuto, da ultimo,  che possono essere poste dal giudice domande suggestive nel corso dello svolgimento dell’esame del minore (Cass. Sez. 3, n. 9157 dell’8.3.2010).  Mentre, in più risalente pronuncia la Corte ha anche chiarito che la questione relativa alla proposizione di domande suggestive deve essere contestata direttamente al giudice di fronte al quale si forma al prova, e nei successivi gradi di giudizio può essere oggetto di valutazione solo la motivazione con cui sia stata accolta o rigettata l’eccezione  (Cass. Sez. 1, n. 22204 del 31.5.2005).

Allo stato, dunque, appare preclusa la proponibilità di ogni questione relativa all’utilizzabilità della prova dichiarativa per violazione delle regole dell’esame, mentre sono possibili questioni sulla legittimità della motivazione, in  punto di valutazione dell’attendibilità della testimonianza. 

Gli approdi della giurisprudenza di legittimità circa la ricaduta dei vizi delle regole dell’esame sulla attendibilità della testimonianza invece che sulla utilizzabilità della prova appaiono largamente condivisibili.

La eventuale previsione della sanzione dell’inutilizzabilità in caso di violazione delle regole dell’esame testimoniale si risolverebbe, infatti, nella introduzione di un caso di esclusione probatoria particolarmente insidioso,  in quanto  idoneo ad espungere dal processo dati dichiarativi essenziali.

Inoltre la sanzione in questione non appare compatibile con la natura dell’ “evento” testimonianza che è un evento progressivo e non istantaneo, sicchè la esclusione di parti del dichiarato renderebbero di complessa gestione l’apporto testimoniale, che verrebbe privato della dovuta consequenzialità. 

Da salutare con favore sono invece le sollecitazioni all’approfondimento delle valutazioni dell’attendibilità, spesso sbrigative proprio in punto di  analisi degli effetti di possibili  suggestioni. 

Tanto premesso, non può non essere rilevato che  il progresso della psicologia della testimonianza e le richiamate  aperture della giurisprudenza di legittimità  circa la valutazione delle ricadute sull’attendibilità delle suggestioni derivanti dalle interazioni con  l’intervistatore,  impongono una seria riflessione sulle prassi di audizione dei testi, in genere, e della vittima  vulnerabile in particolare.

Nell’ambito di tale percorso  appare non eludibile la rivisitazione delle prassi giudiziarie in materia di escussione del minore, che tenda all’abbandono del costume (del giudice, dei periti e delle parti) di porre domande suggestive: queste infatti, per quanto non vietate,  introducono nel processo un vulnus  difficilmente sanabile che  rende  difficoltosa l’analisi dell’attendibilità del teste.  

Riflessione che non può che condurre a rivedere le prassi della cross examination attraverso  la condivisione di regole comuni con l’avvocatura.

In tale settore appare virtuoso il percorso avviato dal Laboratorio Permanente sull’Esame Incrociato[15], finalizzato all’individuazione dei nodi critici dei processi di formazione della prova dichiarativa ed  all’impegno  verso il  loro superamento attraverso la ricerca di prassi condivise tra magistrati ed avvocati nella gestione dell’esame (particolare attenzione nell’ambito del L.A.P.E.C  è dedicata  proprio alla formazione della prova dichiarativa del teste cd. “debole”).

 

 

  1. La valutazione della prova dichiarativa proveniente dalla vittima vulnerabile

 

3.1.La progressione dichiarativa

 

Il dato che   non  appare considerato dalla normativa italiana (e che per la verità non risulta adeguatamente preso in c adeguata considerazione dalla giurisprudenza) è la circostanza che le dichiarazioni accusatorie della vittima di un trauma  spesso non si esauriscono in un’unica soluzione, ma si sviluppano attraverso un  complesso percorso di svelamento  che  dalla  prima dichiarazione di denuncia prosegue  attraverso le  dichiarazioni rese nelle altre fasi processuali.

Le dichiarazioni accusatorie provenienti da vittime traumatizzate difficilmente sono immediatamente esaustive.

Esse emergono a seguito di  faticosi itinerari di rivisitazione e superamento del trauma patito. In genere tali dichiarazioni sono emesse nella inconsapevolezza degli effetti processuali che producono. Appaiono dunque frammentarie, simboliche, non veritiere (per timore, vergogna, soggezione, induzione). E’ raro che la vittima conceda immediatamente ed in un’unica soluzione la intera rappresentazione dei fatti per cui si procede, dato che essa dovrà confrontarsi con gli effetti del trauma primario denunciato e con gli esiti del trauma  (secondario)  scaturente dal  processo.

Le dichiarazioni rese saranno dunque condizionate dall’affidamento (o dal  rifiuto) che la vittima maturerà nei confronti dell’autorità procedente durante un percorso giudiziario che si intreccerà e confonderà  con quello psicologico di rielaborazione e superamento del trauma da reato.

La progressione in questione  si articola spesso attraverso dichiarazioni non sovrapponibili,  che  valutate con alcuni parametri di  giudizio spesso  utilizzati  nella prassi  relativa alla  valutazione della  attendibilità, potrebbero anche condurre ad una valutazione giudiziale  negativa.

In realtà  il tratto specifico del  dato dichiarativo proveniente  dall’offeso traumatizzato è proprio la dichiarazione per stadi successivi, che ripercorre e visualizza anche il percorso interiore di affidamento (o piuttosto di rifiuto) della vittima  alla giurisdizione.

La progressione dichiarativa della vittima di un trauma da reato dovrebbe pertanto essere valutata nel suo complesso ed il giudizio  sull’attendibilità del dichiarato dovrebbe essere una valutazione d’insieme  che comprenda  tutti gli stadi di tale percorso.

Al riguardo deve essere rilevato che il sistema italiano non consente -  ad oggi -  la  piena valorizzazione  processuale di tale percorso ai fini della valutazione della attendibilità, se non  attraverso il meccanismo delle contestazioni.

La scelta per il rito accusatorio impone  infatti di dare il massimo rilievo  alle dichiarazioni rese in contraddittorio e di relegare nel campo dell’utilizzo a fini  di valutazione della credibilità, attraverso le contestazioni, le dichiarazioni  predibattimentali.

La conformazione progressiva del dichiarato  della vittima che si è appena evidenziato “aggrava il valore delle contestazioni in punto di valutazione della credibilità. Ma per essere effettive tali contestazioni devono   essere effettuate con  verbali  realmente riproduttivi del dichiarato..

Tuttavia  solo l’analisi dell’attendibilità complessiva del percorso dichiarativo compiuto, consentirà al giudice  di effettuare  la valutazione (non approssimativa) della credibilità delle accuse.

Si rileva che anche quando il materiale raccolto nel corso delle indagini sia documentato in modo da consentirne la piena “fruibilità” alle difese, la struttura del rito consente solo al giudice dell’udienza preliminare la  cognizione integrale del dichiarato raccolto.

Al giudice del dibattimento ne è precluso invece l’utilizzo. Anche qualora si disponga di videoregistrazione,  la stessa resta  una modalità di documentazione,  ed i supporti audio-video non possono essere considerati documenti,  dunque non possono entrare nel fascicolo del dibattimento.

In quel fascicolo, le uniche dichiarazioni rilevanti sono quelle rese in contraddittorio formale tra le parti,  mentre l’eventuale videoregistrazione  potrebbe,  al più,  essere fatta visionare al giudice, con l’adattamento  del meccanismo della lettura non acquisitiva, prevista dall’art. 500 comma 2 c.p.p. in sede di contestazione (effettuabile sia in dibattimento, che in incidente probatorio) restando formalmente fuori dal materiale utilizzabile come prova.

Il che se è un apporto conoscitivo da non sottovalutare (il percorso di svelamento  emergerebbe comunque dal  materiale osteso durante le contestazioni) presenta degli evidenti limiti.

Infatti se la ostensione  avviene in sede di incidente probatorio non può essere adeguatamente valutata dal giudice della cognizione.  Considerato che non è prevista la acquisizione al fascicolo processuale del materiale utilizzato per le contestazioni, al giudice del dibattimento non resterà che prendere atto della ostensione, senza potere esaminare le videoregistrazioni, esibite solo al giudice “supplente” dell’incidente probatorio.  

Le sollecitazioni della Corte regolatrice italiana alla creazione di atti di indagine “fruibili”,  che consentano il contraddittorio “differito”,  in  materia di formazione della prova dichiarativa “debole”  sono  in linea con la esposta tendenza – presente nei paesi di common law e nella giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo – ad avvicinare il rito accusatorio alle esigenze dell’accertamento processuale, assegnando il giusto valore alle dichiarazioni extradibattimentali (scritte ed – auspicabilmente - videoregistrate), senza ledere il principio del “giusto processo” di cui all’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo.

 

3.2. La giurisprudenza della Corte EDU  in materia di testimonianza “debole”

 

Circa le testimonianze delle vittime, l’art. 6 della Convenzione non richiede espressamente che gli interessi dei testimoni in generale, e quelli delle vittime in particolare, siano presi in considerazione. Tuttavia, la loro vita, la loro libertà e la loro sicurezza sono valori protetti dall’art. 8 e da altre disposizioni convenzionali, che impongono agli Stati di non metterli indebitamente in pericolo.

L’art. 6, dal canto suo, esige che gli interessi della difesa siano messi in bilanciamento con quelli delle vittime testimoni[16]. Le misure prese per proteggere le vittime devono infatti conciliarsi con i diritti della difesa e controbilanciare  i sacrifici  imposti a quest’ultima[17].

Come sempre in materia di diritti fondamentali confliggenti la Corte ricorre alla tecnica del   bilanciamento e non conclude nel senso della esclusione probatoria, ma piuttosto  in quello della indicazione di appropriate regole di valutazione: alla acquisizione di dichiarazioni con compressione del diritto di difesa oltre i limiti di compatibilità con l’art. 6, consegue infatti (solo) il depotenziamento, ma non l’abbattimento, del valore probatorio assoluto della dichiarazioni: queste non possono fondare la condanna in maniera unica o determinante, ma devono, anche in tal caso,  essere corroborate da altri elementi di prova.

Nei casi specificamente portati alla sua attenzione  la Corte ha, ad esempio,  ritenuto l’equità del processo quando l’imputato, pur senza ottenere la comparizione personale e l’esame diretto del minore, abbia comunque avuto una adeguata opportunità di esercitare il suo diritto di difesa, in virtù della possibilità, conferita al  difensore, di porre domande attraverso un ufficiale di polizia in occasione dell’escussione della vittima nel corso delle indagini preliminari, e di contestarne la credibilità nell’ambito del dibattimento, in cui era stata mostrata la registrazione audiovisiva dell’assunzione di informazioni da parte della polizia (sentenza nel caso S.N. c. Svezia del 2.7.2002).

Particolarmente rilevante, in quanto il caso ha consentito alla Corte  di Strasburgo di pronunciarsi sulla  equità di un procedimento fondato su dichiarazioni assunte  con le forme dell’ incidente probatorio è il contenuto della  decisione (di irricevibilità) nel caso Accardi e altri c. Italia del 20.1. 2005, già citata. In questo caso il teste ascoltato era un minore al quale le domande  erano state  poste da un perito e non dal giudice. 

I giudici europei hanno in tal caso ritenuto che la attuazione del contraddittorio, attraverso la posizione di domande effettuata dalle parti a mezzo dell’ausiliario del giudice, con le modalità previste per la protezione del  minore,  non  è  idoneo a  comprimere i diritti della difesa in modo incompatibile con le garanzie dell’art. 6 della Convenzione:  pertanto non ha ritenuto iniquo il procedimento fondato, anche in via esclusiva e determinante, su quelle dichiarazioni.

Diversamente la Corte europea si è orientata in materia di testimonianza anonima ritenendo d’obbligo il depotenziamento probatorio della prova (ritenuta ammissibile e di recente introdotta nel nostro ordinamento solo in relazione alle persone impegnate in operazioni sotto copertura[18])  che  non può  fondare  in modo esclusivo o determinante la sentenza di condanna[19].

 

 

3.3. La valutazione del testimone debole nella giurisprudenza della Corte di cassazione

 

3.3.1.La valutazione delle dichiarazioni della vittima e del minore in particolare

La nostra Corte di legittimità, circa la valutazione delle dichiarazioni degli offesi,  ha in  più occasioni  ribadito come  le dichiarazioni provenienti dalla vittima possono  essere poste  anche da sole a base della decisione, precisando tuttavia che, in tal caso, il vaglio di attendibilità deve essere  particolarmente attento e va effettuato  conducendo una indagine positiva  circa la credibilità  oggettiva e soggettiva, che tenga conto degli altri elementi emergenti dalle indagini.[20] 

Il controllo deve essere poi particolarmente penetrante quando il teste in questione è un  minore offeso da reati sessuali[21].

La idoneità delle dichiarazioni dell’offeso a fondare da sole la condanna  può attenuarsi  secondo la nostra Corte di legittimità, quando l’offeso è costituito parte civile e vanta un interesse economico in conflitto con quello dell’imputato. In tal caso il controllo di attendibilità può richiedere  un maggiore controllo e rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi[22].  L’opportunità di tali verifiche non è presa in considerazione  in caso di emissione di misure cautelari: in tale caso il quadro indiziario può prescindere dai “riscontri” [23].   

Dalla giurisprudenza  della Corte  emerge dunque,  in  modo abbastanza chiaro,  la figura di un teste che non è “neutro”, ma neanche “coinvolto”  nel fatto,  come l’imputato di reato connesso: si tratta  invece di una persona che ha con il fatto ed il suo autore  una relazione qualificata  dalla “offesa”  patita.

Tale testimonianza non può non distinguersi da quella del teste indifferente (ad es. il  teste oculare che interviene  nei pressi della scena del delitto e osserva,  per avventura, alcuni elementi utili al giudizio).

Mentre per teste-offeso  la riedizione del fatto in sede testimoniale  è traumatica il teste-indifferente  presenta solo problemi di valutazione dell’attendibilità connessi alla caducità del ricordo in relazione ad elementi “neutri” per lui.

Si tratta evidentemente di testimonianze diverse ed  solo in relazione alla prima si pone un  problema di bilanciamento con i diritti di difesa dell’imputato.

La giurisprudenza della Corte di Cassazione costantemente richiede,  quando in esame sono le dichiarazioni della persona offesa che le stesse siano vagliate con “opportuna cautela”,   attraverso una indagine positiva sulla credibilità sia oggettiva che soggettiva, ponendo la testimonianza “in relazione”  con altri elementi emergenti dalle risultante processuali. 

Sembra delinearsi, tra le righe delle sentenze della Cassazione, un orientamento abbastanza esplicito  circa la indicazione della opportunità che la prova dichiarativa  proveniente dal  teste vulnerabile non sia l’unico elemento su cui fondare  il giudizio. Anche se gli elementi di conforto non devono costituire riscontri in senso tecnico.

Tale orientamento si ricava dal  rigore della  Corte circa la valutazione della attendibilità, che deve essere ritenuta solo dopo attenta verifica della compatibilità del dichiarato con i dati di realtà emergenti dal processo.

La rilevanza delle valutazioni dei dati di contesto  e della loro relazione di compatibilità con le dichiarazioni della vittima è particolarmente evidente nella giurisprudenza che si occupa della valutazione delle dichiarazioni provenienti da minori presunte vittime di abusi sessuali.

 La giurisprudenza ha in  tali casi legittimato la  valutazione giudiziale del  setting dell’audizione [24].

 Come anche dei fenomeni di contagio dichiarativo[25].

 Quando il teste è in età prepubere la Cassazione fornisce esplicite indicazioni circa la necessità che la valutazione relativa alla  sua testimonianza sia effettuata anche prendendo  in esame gli esiti di accertamenti tecnici di natura psicologica sul minore[26].

Questi tuttavia non devono mai trasmodare in  valutazioni giudiziali, ma devono limitarsi a valutare la capacità a testimoniare del minore e  il suo stato psicologico ai fini delle successive valutazioni giudiziali sulla attendibilità[27]. In particolare potranno essere analizzati la disponibilità alla suggestione ed alla affabulazione anche con specifico riferimento ad alcune relazioni personali qualificate,  alla presenza di stati psicologici influenti nella gestione della valutazione giudiziale, alla esistenza di stati traumatici, con espresso divieto della loro riconduzione ad eventi traumatici specifici[28].

Dovrà con cura essere evitato di affidare all’esperto valutazioni di compatibilità dello stato psichico rilevato con eventuali fatti di reato.

L’esistenza o non esistenza del comportamento deviante  oggetto del giudizio è un fatto  che deve essere ricondotto rigorosamente alla competenza dei magistrati.

In linea con  la netta demarcazione delle competenze  tra tecnici e magistrati  si pone anche quella giurisprudenza della Corte di legittimità che stabilisce la non incidenza del mancato rispetto nell’ambito degli eventuali accertamenti tecnici disposti di linee guida condivise dagli esperti di settore[29].

Se il minore  è in età  adolescenziale la Cassazione evidenzia, peraltro,   la  non  necessità del ricorso all’indagine psicologica se non emergano circostanze e particolari che inducano ad effettuarla nel caso concreto[30]

 

3.3.2. La valutazione delle dichiarazioni de relato. L’ipotesi del silenzio in contraddittorio del  teste vulnerabile e del minore in particolare

 

Di rilievo, nella gestione processuale dei processi fondati su  prova dichiarativa di vittima vulnerabile è la  valutazione delle testimonianze de relato.

Deve essere chiarito che secondo il costante orientamento della Corte di cassazione, se  non viene attivato il meccanismo previsto dall’art. 195 c.p.p., ovvero se nessuna del parti sollecita la deposizione del teste “diretto” le dichiarazioni dei testi di riferimento devono considerarsi  utilizzabili.

La Corte di legittimità ritiene infatti che l’imputato abbia in tal modo rinunciato, seppur in modo implicito,  alla audizione del teste diretto  consentendo la formazione della prova in  conformità con i principi  enunciati nell’art. 111 della Carta [31]

Problemi particolari si pongono quanto il teste di riferimento è un minore che potrebbe patire dalla audizione un  trauma significativo “da processo”.

La giurisprudenza della Corte di cassazione è orientata nel senso di  dare rilievo al trauma da testimonianza sempre che lo stesso  possa essere inquadrato in un danno seppur  transeunte alla salute e non in  un mero disagio.  Se così fosse, nessun teste vulnerabile dovrebbe infatti mai essere udito. Per la prova della critica situazione psichica del teste minore e gli effetti negativi della audizione testimoniale, la Corte fa espresso riferimento alla opportunità che la situazione psicologica  del teste minore sia  valutata da un esperto competente.[32] 

 Dunque al consulente o al perito eventualmente nominato dovrà essere espressamente richiesto di indicare quali potrebbero essere gli effetti sullo stato di salute del minore di un audizione giudiziale.

Quando il teste minore chiamato a deporre si rifiuti di rispondere, la condizione  per la  utilizzabilità   delle dichiarazioni de relato  si ritiene  comunque verificata: il teste diretto è stato infatti chiamato a deporre  come richiesto dalla norma ed a nulla rileva  ai fini della  utilizzabilità  delle testimonianze indirette che egli si sia rifiutato di rispondere.

Sul punto una significativa  sentenza della Corte di Cassazione ha chiarito che  le dichiarazioni de relato non sono “indizi” e come tali non devono essere valutate, ma sono comunque delle prove storiche rappresentative dei fatti narrati ed in particolare del fatto di cui i testi sono relatori mediati.  La sentenza in questione contrapponendosi fermamente a precedente indirizzo  afferma  che – poste le necessarie cautele per  la valutazione dell’attendibilità – deve essere chiaro che “il carattere indiretto della testimonianza  si riferisce alla  mediazione personale rispetto al fatto conosciuto e non già alla mediazione logica  che caratterizza la prova indiziaria”.

Pertanto le dichiarazioni indirette devono essere configurate “al pari di ogni altra prova storica  come rappresentazione dello stesso fatto determinato  che si assume di voler provare, sia pure soggettivamente mediata  attraverso il testimone indiretto e non già come una prova logica  o indizio che ha per oggetto un fatto diverso dal quale si po’  logicamente dedurre il  fatto determinato che deve essere accertato[33].

Diversa è la questione della possibilità di fondare la condanna  (in abbreviato) su dichiarazioni di un minore che si sia rifiutato di rispondere nell’audizione in contraddittorio. Al riguardo il parametro legislativo di riferimento è la regola di valutazione contenuta nell’ art. 526 bis c.p.p.

Si segnala al riguardo  un rilevante intervento della Corte di legittimità che ha ritenuto, nel caso concreto che il rifiuto del minore di rispondere  data la giovane età del teste (minore di 10 anni) non fosse riconducibile ad una scelta libera e cosciente ed a una volontà altrettanto cosciente,  con conseguente  inapplicabilità  della regola di inutilizzabilità sopra richiamata [34].

 

 

3.3.3 L’incidente  ex art. 500 comma IV c.p.p. e la ritrattazione.

 

La rilevanza  delle dichiarazioni accusatorie provenienti dall’offeso e la  sua naturale vulnerabilità, spesso riconducibile  alla relazione di soggezione che lo lega all’imputato, rendono frequente  il fenomeno della ritrattazione, sia in fase investigativa che in fase  dibattimentale (come anche nel corso dell’incidente probatorio)[35].

Se la ritrattazione si traduce nella rimessione di querela, ne  consegue il difetto della condizione di procedibilità in relazione a tutti i reati non perseguibili d’ufficio.

 Per questi ultimi si pone invece  un serio problema di valutazione dell’attendibilità della testimonianza “modificata”, e la necessità di valutare l’eventuale ricorso alla acquisizione delle dichiarazioni assunte  nella fase investigativa ai sensi dell’art. 500 comma 4 c.p.p..

Quando la ritrattazione si verifica in dibattimento  è  infatti onere del giudice  la verifica delle cause  del comportamento del testimone quando vi sia il dubbio che la testimonianza dibattimentale non sia frutto di una libera scelta, ma piuttosto di pressioni,  intimidazioni o subornazione. Sul punto la giurisprudenza della Corte di cassazione ha fornito alcuni importanti indicazioni per l’effettuazione del giudizio previsto dall’art. 500 comma 4. 

Si riportano sinteticamente alcuni  punti fermi indicati dalla giurisprudenza della Suprema Corte in materia:

  • la acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni rese in fase investigativa dal testimone che risulta oggetto di minaccia offerta o promessa di denaro può essere disposta dal giudice anche d’ufficio, indipendentemente  dalla richiesta delle parti (Cass. Sez. 6 n. 44491 del 9.10.2009, RV 245164, nonché Cass. sez. 3 n. 27582 del 15.6.2010,  RV 248052),
  • ai fini della acquisizione nel fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni rese in fase investigativa  gli “elementi concreti” da valutare non devono coincidere con gli elementi di prova necessari per una pronuncia di condanna, ma “non possono risolversi in vaghe ragioni o in meri sospetti disancorati da qualunque dato reale ma devono consistere, secondo parametri correnti di ragionevolezza e persuasività, in fatti sintomatici della violenza o della intimidazione subita dal teste purchè connotati da precisione, obiettività e significatività” (Cass. Sez. 1 n. 29421 del 9.5.2006, RV 235103; Cass. Sez. 6 n. 27042 del 18.2.2008, RV 245578);[36]

Fermo dunque che il giudice nell’effettuare il giudizio sulla minaccia o subornazione deve fare riferimento ad uno standard di prova che non deve essere parificato a quello necessario per l’affermazione di responsabilità (pur essendo connotato da un  convincente grado di ragionevolezza  e persuasività), sono tuttavia  emersi diversi  problemi  nella gestione del giudizio ai sensi dell’art. 500 comma 4  c.p.p., che non hanno trovato soluzioni univoche nella giurisprudenza della Suprema Corte. 

In particolare si segnala:

  1. la questione della sufficienza  dei dati emersi nel dibattimento - ed in particolare il contegno del teste - ai fini del giudizio in questione. Nello specifico risulta non univoca la valutazione circa la possibilità di fondare il giudizio di minaccia o subornazione (e la conseguente acquisizione dei verbali di dichiarazioni predibattimentali) sui soli dati emersi in dibattimento;
  2. la valutazione circa l’utilizzabilità delle dichiarazioni degli ufficiali di polizia giudiziaria che, nell’ambito del giudizio incidentale attivato per le verifiche ex art. 500 comma 4 c.p.p., riferiscono di dichiarazioni (rilevanti e non verbalizzate) provenienti da soggetti terzi utili ad inquadrare lo “stato” del teste ritrattante: l’utilizzo di tali dichiarazioni risulta problematico, stante il divieto  di testimonianza indiretta posto dall’art. 195  comma 4 c.p.p.

Su primo punto si registrano due orientamenti della Corte di legittimità: un primo secondo il quale  le condizioni per l’acquisizione dei verbali predibattimentali non va valutata con riferimento ai soli fatti verificatisi in dibattimento, ma invece  sulla base dei “complessivi elementi di fatto” presenti in atti (Cass. Sez.  3 n. 48140  dell’8.10.2009, RV 245414,  nonché Cass. Sez. 3 n. 49579 del 4.11.209; Cass. Sez. 1 n. 11203 del 2007, RV 236546); ed un secondo, in base al quale, invece,  si ritiene che il giudizio in questione possa essere effettuato anche solo sulla base delle sole circostanze emerse in dibattimento (Cass. Sez. 2 n. 25069 del 19.5.2010, RV 247848). La divergenza delle interpretazione nasce dalla diversa valutazione del significato da attribuire alla locuzione “anche per le circostanze emerse nel dibattimento” contenuta nel comma 4 dell’art. 500 c.p.p.

Anche  in relazione al secondo problema evidenziato, relativo all’utilizzo dei dati (anche dichiarativi) appresi dall’ufficiale di polizia giudiziaria, da questi non verbalizzati, né annotati, ma  solo “riferiti” in dibattimento emergono diverse prospettive. Da un lato, infatti la Corte ha  evidenziato che l’ufficiale di polizia giudiziaria può riferire su quanto da lui percepito e non verbalizzato trattandosi di fatti  da lui “constatati de visu” relativi allo stato di timore del teste  (Cass. Sez. 2 n. 25069 del 19.5.2010, RV 247848): tale impostazione evidenzia il contenuto di osservazione di fatti e comportamenti  da parte dell’ufficiale che assista a episodi indicativi dello stato di  timore o subornazione del teste, lasciando in ombra   il fatto che   la testimonianza dell’ufficiale  “traspone” in dibattimento  dati di osservazione che hanno anche natura dichiarativa. Dall’altro ha invece ritenuto  non utilizzabile la deposizione proprio perché effettuata in violazione dell’art. 195 comma 4 c.p.p. (Cass. Sez. 1 n. 11203 del 2007, RV 236546), in tal modo ipervalutando il contenuto squisitamente dichiarativo dei dati  osservati (circa lo stato del teste) e poi  riversati in dibattimento.

Particolarmente complesso è poi il ricorso alla acquisizione delle dichiarazioni predibattimenatli quando la testimonianza viene resa nel corso dell’incidente probatorio.

Al riguardo, si ritiene  irragionevole che il procedimento incidentale che viene attivato quando il giudice  ritiene necessario verificare la minaccia o la subornazione s’insedi in quello che è -  a sua volta  - un “incidente”, ovvero l’anticipazione del contraddittorio in fase investigativa.

Non sembra  infatti che il giudice  per le indagini preliminari abbia i poteri istruttori che  caratterizzano il giudice del dibattimento nella gestione del procedimento ex art. 500 comma 4. c.p.p.

Di contro, si rileva che per il giudice del dibattimento soprattutto  quando l’incidente probatorio non è documentato in forma aggravata, diventa difficile valutare la genuinità del dichiarato, di cui è indice anche (seppur non solo) il contegno extradichiarativo  del teste nel corso della deposizione[37].  E’ questa, peraltro, una delle conseguenze negative del sacrificio dell’oralità conseguente alla anticipazione del contraddittorio.

 La Corte di legittimità, sul punto, ha  tuttavia stabilito che il giudice per le indagini preliminari può, nell’ambito del giudizio cautelare successivo alla  acquisizione della prova testimoniale in incidente probatorio, effettuare una valutazione delle risultanze investigative compiendo una anticipata valutazione  non solo dell’attendibilità del teste, ma anche dell’esistenza di  pressioni da questo patite che “facciano prevedere  la acquisizione in giudizio delle dichiarazioni rese al Pm o alla polizia giudiziaria  ai sensi dell’at. 500 comma 4 c.p.p.”  (Cass. Sez. 6 n. 10680 dell’11.2.2009 Rv 243074, nonché Cass.  Sez. 1n. 31188 del 11/06/2004 Rv.  229797).

La legittimazione di questa “prognosi” in capo al giudice della cautela (nell’ambito del giudizio pre-cognitivo sulla libertà), conferma  che la “sede” della decisione sulla acquisizione  del verbale di dichiarazioni raccolte in modo unilaterale, non  possa che essere il dibattimento, anche quando il contraddittorio viene anticipato.

Sebbene, in tal caso,  il giudizio sull’acquisizione rischi, se non basato sull’analisi di testimonianze audio e video registrate di trasformarsi in una difficile  comparazione  “cartolare” tra dichiarazioni: sicchè il ricorso (per il giudizio sulla acquisizione) ad elementi “altri”diventa (forse) indispensabile. 

 

3.3.4 La valutazione di attendibità delle dichiarazioni pre dibattimentali  acquisite ex art. 512 c.p.p.

 

 I processi con vittima vulnerabile – ed in particolare quelli per il resto di sfruttamento della prostituzione – sono spesso caratterizzati dalla acquisizione delle dichiarazioni rese nel corso delle indagini che vengono lette in dibattimento ai sensi dell’art. 512 c.p.p.

 Tale meccanismo di acquisizione delle dichiarazioni unilaterali può  creare qualche problema di compatibilità con  le garanzie previste dalla Convenzione EDU in materia di diritto al processo “equo”.

L’art. 6 CEDU  individua il  diritto di ogni persona accusata di  esaminare o far esaminare i testimoni a carico e che gli elementi di prova siano prodotti in  pubblica udienza, in vista di un esame in  contraddittorio.

Tale regola non è tuttavia esente da eccezioni. I paragrafi 1 e 3 d) dell’art. 6 CEDU impongono, come  non eludibile garanzia, di concedere all’imputato un’occasione adeguata e sufficiente per contestare una testimonianza a carico e di interrogarne l’autore, al momento delle sue prime deposizioni o successivamente[38]. E’ dunque ritenuto compatibile con le soglie di garanzia individuate dall’art. 6 della Convenzione anche il ricorso a deposizioni rese nella fase delle indagini preliminari, se l’imputato ha avuto “un’occasione adeguata e sufficiente di contestarle”, al momento in cui sono state rese, o più tardi [39]

Quello che la Corte europea propone come metodo processuale idoneo a tutelare il diritto dell’imputato, al di là della vecchia contrapposizione fra modello accusatorio e modello inquisitorio, è la  promozione di un “tipo” di processo qualificato come ‘contradictoire[40], che pur basandosi  sul diritto dell’accusato di interrogare  i testi da cui provengono le accuse, non nega pregiudizialmente valore alle dichiarazioni predibattimentali, sempre che all’imputato sia stata  concessa  una adeguata  possibilità di criticare la fonte delle accuse.

La regola “d’oro” che emerge dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo è infatti quella “di concedere all’imputato un’occasione adeguata e sufficiente di contestare una testimonianza a carico e di interrogarne l’autore, al momento della deposizione o successivamente”[41]. Se così non è, la dichiarazione in questione non viene “esclusa” dalle prove valutabili, ma patisce un abbattimento significativo del peso probatorio, dato che la stessa viene ritenuto inidonea a fondare in modo esclusivo o determinante una sentenza di condanna.

La Corte EDU ritiene dunque  compatibile con il diritto dell’imputato ad un processo equo l’utilizzo  a fini probatori delle dichiarazioni predibattimentali,  mentre il nostro ordinamento lo esclude (salvi appunto  i  casi previsti dagli artt. 512, 500 comma 4 c.p.p. e  l’utilizzo  delle dichiarazioni a fini contestativi).

Le soglie di garanzie “interne” rispetto al diritto al contraddittorio appaiono dunque più elevate di quelle convenzionali: è “equo” per  i giudici di Strasburgo ciò che per il nostro sistema è illegittimo. 

Nel confronto con gli altri ordinamenti che hanno scelto il rito accusatorio la nostra legislazione appare particolarmente rigida ed, in qualche misura, unica.

La valutazione probatoria “in positivo” delle dichiarazioni predibattimentale ha trovato, infatti, qualche ragionevole spazio anche nell’ordinamento inglese, che ha approvato nel 2003 il Criminal Justice Act, il quale, nell’introdurre profonde innovazione all’hearsay rule, ha determinato una significativa modificazione nelle procedure di acquisizione della prova. Tale atto ha, in effetti, assegnato in casi particolari valore probatorio “in positivo” alle dichiarazioni extradibattimentali dei testi, consentendo, in particolare, l’utilizzo delle precedenti dichiarazioni difformi, quando il teste, udito in contraddittorio, ammetta di averle rese, nonché delle dichiarazioni rese quando le circostanze oggetto di deposizione erano “fresche” nella memoria del teste, il quale ne ha invece perso il ricordo  al momento dell’audizione dibattimentale (section 120 del Criminal Justice Act)[42]. In particolare  in materia di violenza sessuale anche prima della approvazione della riforma del 2003, l’ordinamento inglese prevedeva una eccezione alla rule hagainst hersay,  nella c.d. complainant rule, che consentiva la valutazione, a supporto della testimonianza della vittima della violenza sessuale (dunque attraverso un utilizzo “in positivo”) delle lamentele da essa espresse in prossimità dell’evento delittuoso. 

Tale evoluzione dell’ordinamento inglese appare del tutto compatibile con l’orientamento interpretativo seguito dalla Corte europea dei diritti dell’uomo in materia di utilizzabilità delle dichiarazioni rese in assenza di contraddittorio.

La Corte di Strasburgo ritiene però – e questo presidio si presenta insuperabile - che diritti della difesa siano compressi in maniera incompatibile con le garanzie  previste dalla Convenzione quando una condanna si fonda, unicamente o in misura determinante, sulle deposizioni rese da una persona che l’imputato non ha potuto interrogare o far interrogare durante le indagini o successivamente[43]

Dunque secondo i giudici europei  la testimonianza rese fuori dal contraddittorio, non è inutilizzabile tout court, ma inidonea a fondare da sola una sentenza di condanna[44].

Laddove nel nostro sistema le condanne possono in astratto  fondarsi, anche in modo esclusivo, sul dichiarato predibattimentale, quando lo stesso sia acquisito agli atti ai sensi dell’ art. 512 c.p.p per impossibilità oggettiva di ripetizione (ostandovi in caso  di irripetibilità da causa soggettiva, il disposto dell’art. 526 comma 1 bis c.p.p). Sul punto, come si dirà, la Corte di cassazione ha fornito tuttavia  importanti indicazioni circa la necessità di effettuare una interpretazione adeguatrice alle indicazioni provenienti dalla Corte europea[45].

Nel caso  previsto dall’art. 512 c.p.p  la nostra soglia di garanzia del contraddittorio, in astratto  più elevata di quella europea, (imprevedibilmente) si rivela più bassa di quella convenzionale, salvo correzioni interpretative.

La crisi di garanzia che caratterizza il nostro ordinamento  è stata presa in attenta considerazione dalla Corte di Cassazione che  indirizza verso una interpretazione  del diritto interno conforme a quello convenzionale  (come risulta dalla giurisprudenza dalla Corte di Strasburgo: Corte costituzionale  sentenze  nn. 348  e 349  del 2007).

Si evidenzia una rilevante evoluzione della giurisprudenza di legittimità  relativamente alla complessa gestione processuale dell’art. 512 c.p.p. (e 512 bis c.p.p) che di seguito si sintetizza nei passaggi essenziali:

  • nella sentenza Poltronieri (Cass. Sez.2 sent. N. 43331 del 2007) viene individuato in capo al pubblico ministero un onere  di valutazione  ex ante della reperibilità del teste  quando si svolgerà il dibattimento; se tale prognosi dà esito negativo deve essere chiesto l’incidente probatorio.  Il corretto assolvimento di tale onere diventa fondamentale per la valutazione circa la utilizzabilità ex art. 512 c.p.p. del teste irreperibile: solo quando, con prognosi postuma,   il giudice  riterrà che la irreperibilità era imprevedibile  nella fase delle indagini si potrà seriamente porre la questione circa l’utilizzo delle dichiarazioni. Diversamente, se il pubblico ministero non avrà  effettuato correttamente tale prognosi, si verifica una condizione ostativa all’ingresso delle dichiarazioni predibattimentali. Tale impostazione legittima evidentemente una estensione interpretativa dell’impedimento di cui all’art. 392 lett. a)  p.p. che - evidentemente - comprende anche  la prevedibile irreperibilità. Al riguardo la Corte precisa:   il suddetto giudizio di imprevedibilità deve essere espresso con riferimento all'intera fase in cui è possibile chiedere l'incidente probatorio (art. 392 c.p.p.). Il criterio dell'imprevedibilità costituisce il nesso tra gli istituti dell'incidente probatorio e quello dell'irripetibilità sopravvenuta, poiché si ricollega logicamente alla possibilità di instaurare un meccanismo procedurale che consenta di acquisire la prova in contraddittorio prima del dibattimento per evitarne la dispersione. Occorre, dunque, accertare che nella fase delle indagini preliminari non sussistevano le condizioni che, facendo presagire un'impossibilità della ripetizione dell'atto in sede dibattimentale, avrebbero dovuto indurre la parte a richiedere l'espletamento dell'incidente probatorio. Il controllo del giudice, pertanto, si svolgerà non solo sul complesso delle informazioni disponibili al tempo dell'atto, ma anche sui dati successivamente acquisiti, per verificare che non fossero emersi indizi circa l'intervento di fattori che avrebbero reso l'atto irripetibile”.

Ancora, nella sentenza in questione viene evidenziato  come  l’impossibilità di ripetizione dell’atto debba essere “oggettiva” ovvero non dipendere dalla volontà del testimone di sottrarsi all’esame: “Il giudice di merito deve, poi, accertare che l'irreperibilità sia oggettiva anche nel senso che non dipenda da una libera scelta di sottrarsi volontariamente all'esame. Tale accertamento assume un ruolo di primo piano alla luce del principio dell'art. 111 Cost., comma 4, secondo periodo, riprodotto nell'art. 526 c.p.p., comma 1 bis, aggiunto dalla L. 1 marzo 2001, n. 63, art. 19, comma 1. Questa Suprema Corte ha opportunamente chiarito, nelle pronunce più recenti, che l'irreperibilità è di per sè una situazione "neutra", nel senso che le sue cause potrebbero essere le più diverse e affatto indipendenti dal processo nel cui ambito assume rilievo (Sez. 6^, 8 gennaio 2003, n. 8384, Pantini, riv. 223731; Sez. 6^, 19 febbraio 2003, n. 18150, Bianchi, riv. 225250; Sez. 1^, 20 giugno 2006, n. 23571, Ogaristi, riv. 234281), così che ai fini della lettura ex art. 512 c.p.p. il giudice deve poter escludere che la irreperibilità del teste sia la conseguenza di una scelta del dichiarante per sottrarsi all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore, scelta che deve essere volontaria e libera da influenze esterne che la rendano non spontanea”.

Da ultimo, la sentenza in questione indirizza l’interprete a valutare la testimonianza “cartolare” acquisita ai sensi dell’at. 512 c.p.p in congiunzione con altri elementi  in ossequio ai principi della Corte EDU. Le dichiarazioni predibatimentali devono, secondo  giudici di legittimità essere “poste in relazione” con altri elementi emergenti dalle risultanze processuali".

  • I principi enunciati nella sentenza citata vengono rivisitati dalla Corte nella pronuncia Marinkovic (Cass. sez.1 n. 44158 del 23.9.2009; in tal senso anche Cass. Sez. 1, n. 20254 del 6.5.2010, Mzoughia): in tale pronuncia si legittima l’acquisizione ex art. 512 c.p.p anche quando  l’irripetibilità dipende da cause soggettive; secondo la Corte  il compito di “chiudere” il sistema in armonia con i principi costituzionali e convenzionali è lasciato all’art. 526  bis c.p.p.   in base al quale la sentenza di condanna non può fondarsi sulle dichiarazioni di chi si è sempre sottratto per libera scelta al contraddittorio e,  dunque, anche di coloro  le cui dichiarazioni sono state acquisite ex art. 512 bis c.p.p. per sopravvenuta imprevedibile irreperibilità soggettiva. In tal modo si consente l’ingresso di dichiarazioni favorevoli all’imputato  (anche se raccolte dal difensore o in sede di udienza preliminare) o alle dichiarazioni del teste minacciato. Sostiene la Corte: “il quinto comma [dell’art. 111 Cost] permette al legislatore di derogare al principio del contraddittorio nella formazione della prova in ragione di determinate situazioni soggettive (meglio, riferibili a scelta dell'imputato) od oggettive. Non impone però, il quinto comma, di realizzare tali deroghe con una disposizione singola anziché mediante un sistema normativo più articolato, purché del precetto costituzionale nel suo complesso sia assicurata l'attuazione; ne', per la parte in cui autorizza a disciplinare i casi di oggettiva impossibilità di assunzione dell'atto in contraddittorio, il dettato costituzionale diviene idoneo a sovrapporsi ex se all'art. 512 c.p.p.. La disposizione codicistica, d'altronde, da un lato arricchisce la garanzia con la prescrizione della imprevedibilità, dall'altro è suscettibile d'applicazione anche in relazione ad atti a favore dell'imputato, a prove assunte dal suo difensore, alle dichiarazioni raccolte in udienza preliminare. Una sua interpretazione nel senso che la lettura sarebbe preclusa in caso di oggettiva impossibilità di ripetere l'assunzione dell'atto imputabile ad un comportamento volontario anche se non libero del dichiarante, impedirebbe la utilizzazione delle dichiarazioni rese fuori dal contraddittorio anche se il dichiarante si fosse sottratto ad esso perché sottoposto a minacce; mentre, a tentare di correggere tale interpretazione nel senso di ritenere che la lettura è preclusa in caso di oggettiva impossibilità dipendente da comportamento volontario e libero del dichiarante (come potrebbero far intendere, nonostante i percorsi motivazionali non del tutto espliciti, il principio affermato da Sez. 2^, n. 43331 del 18/10/2007, Poltronieri o la massima CED. 223731 tratta da Sez. 6^, n. 8384 in data 8/1/2003, Pantini), la norma sopravanzerebbe la portata di garanzia a presidio dell'imputato dell'art. 526 c.p.p., comma 1-bis e della stessa previsione dell'art. 111 Cost., art. 17 Cost., comma 4 dell'art. 111 Cost., perché si presterebbe a inibire il meccanismo di lettura-acquisizione, e quindi in radice la utilizzabilità, anche delle prove dichiarative a favore dell'imputato, da chiunque assunte.

Mentre si scrive è  in corso di stesura la motivazione della sentenza  della Cassazione a  sezioni unite  penali della Corte di Cassazione: il caso sottoposto  alla Corte è stato sollevato con riferimento al meccanismo acquisitivo disciplinato dall’art. 512 c.p.p ed ha stabilito che l’impossibilità sopravvenuta di ripetizione deve essere di natura oggettiva.

Merita di essere segnalata una recente sentenza che  circoscrivendo l’irripetibilità necessaria per l’acquisizione a quella dipendente da cause oggettive, dunque non riferibili ad atti  volontari (liberi o no) del dichiarante individua una particolare possibilità di acquisizione delle dichiarazioni  divenute irripetibili per impossibilità soggettiva nell’art. 500 comma 4 c.p.p.:  se il teste non compare e  risulta minacciato si possono acquisire le dichiarazioni predibattimentali. Si ritiene  cioè attivabile il meccanismo  ex art. 500 comma 4  c.p.p. anche in caso di assenza del teste, recuperando il  dichiarato predibattimentale per tale via.  Stabilisce la Corte:  “il regime delle contestazioni (che, all'evidenza, implicano la presenza fisica del dichiarante) è previsto dall'art. 500 c.p.p., comma 1 e 2. Il comma[4] della norma disciplina la diversa situazione del teste condizionato ed ammette il recupero delle precedenti dichiarazioni senza indicare la necessità che siano passate al filtro delle contestazioni; la dizione letterale, secondo cui le dichiarazioni "sono acquisite" indica un automatismo che prescinde, anche, dalla richiesta delle parti.

La sentenza in questione  è  inoltre particolarmente “netta” nell’indicare al giudice la strada dell’ interpretazione “conforme”: Una sentenza di condanna che si fonda sulle sole dichiarazioni rese dai testi fuori del contraddittorio con la difesa ed acquisite a norma dell'art. 512 c.p.p., è in sintonia con i principi desumibili dal nostro assetto costituzionale, ma non con quelli derivanti dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo. L'art. 526 c.p.p., comma 1 bis, riproducete l'art. 111 Cost., sancisce che la colpevolezza dello imputato non può essere provata sulla base delle dichiarazioni assunte fuori del contraddittorio solo se chi le ha rese si sia volontariamente sottratto allo esame da parte dell'imputato o del suo difensore; l'art. 111 Cost., comma 5 pone come limite alla formazione della prova fuori del contraddittorio (oltre ai casi di consenso dell'imputato o di condotta illecita) l'impossibilità accertata di acquisizione avente natura oggettiva.
Tale sistema normativo non è stato ritenuto conforme all'art. 6 della Convezione europea dai Giudici di Strasburgo che hanno in più occasioni affermato che la impossibilità di reiterare un atto compiuto nel corso delle indagini preliminari non può privare l'imputato del diritto di esaminare o fare esaminare ogni elemento di prova decisivo a suo carico; le emergenze accusatorie sorte fuori del contraddittorio non sono inutilizzabili in assoluto, ma possono essere usate a condizione che non si attribuisca ad esse un peso determinante ai fini della decisione. Secondo la Corte di Strasburgo, i diritti dello imputato sono limitati in modo incompatibile con le garanzie della Convenzione quando una condanna si basi, unicamente o in misura preponderante, su deposizioni rese da persone che l'imputato non ha potuto interrogare o fare interrogare ne' nella fase delle indagini ne' in quella dibattimentale (ex plurimis: Corte europea dei diritti dell'uomo sentenze 10 gennaio 2005, Accardi c. Italia, 13 ottobre 2005, Bracci c. Italia, 15 maggio 2010, Ogaristic.Italia).
Al Giudice nazionale incombe l'obbligo di dare, se possibile, alle norme interne una interpretazione conforme ai precetti della Convenzione europea dei diritti dell'uomo nella esegesi giudiziale istituzionalmente attribuita alla Corte di Strasburgo dall'art. 32 della Convenzione stessa.
Di conseguenza, si deve rilevare che una interpretazione dell'art. 512 c.p.p. convenzionalmente orientata porta a concludere che al principio del contraddittorio si può derogare, in caso vi sia una oggettiva impossibilità di formazione della prova, con la precisazione che una declaratoria di condanna non può reggersi in modo esclusivo o significativo su dichiarazioni di chi si sia sottratto al confronto con l'imputato.

In conclusione: dalla giurisprudenza della Suprema Corte emerge con chiarezza la  difficile compatibilità dei nostri meccanismi di acquisizione delle dichiarazioni  predibattimentali con la  soglia minima di garanzia indicata dalla Corte Edu, irremovibile nel ritenere iniquo il giudizio di colpevolezza fondato solo sulle dichiarazioni di chi non si mai sottoposto al contraddittorio.

Emerge inoltre la indicazione del rimedio nella “espansione” dei casi di  contraddittorio anticipato e nella ricerca – fin dalla fase delle indagini - di elementi di conferma alla testimonianza del teste  “debole” che potrà divenire irreperibile o “reagire” con il silenzio e la ritrattazione al contraddittorio.

 

 

3.3.5.La attendibilità frazionata

 

Sull’attendibilità “frazionata” delle dichiarazioni provenienti dalla persona offesa non si registrano decisioni univoche della Corte di Cassazione.

 Infatti  in una pronuncia  risalente al 2006  (Cass. Sez. 3 n. 40170 del 26.9.2006) la Corte ha esteso alle dichiarazioni dell’offeso da reato i noti criteri circa la  frazionabilità delle dichiarazioni di regola utilizzati in materia di valutazione delle dichiarazioni degli imputati di reati connesso, evidenziando che “l’eventuale giudizio di inattendibilità riferito ad alcune circostanze non inficia la credibilità delle altre parti del racconto, sempre che non  esiste una interferenza fattuale e logica  tra le parti del narrato  per le quali non si ritiene raggiunta la prova della veridicità  e le altre parti che siano  intrinsecamente  attendibili ed adeguatamente riscontrate, tenendo conto che tale  interferenza si verifica  solo quando tra una parte e le altre esiste un rapporto di causalità necessaria o quando l’una  sia imprescindibile antecedente logico dell’altra sempre che  l’inattendibilità di alcune parti della dichiarazione  non sia talmente macroscopica per conclamato contrasto  con altre sicure emergenze probatorie  da compromettere per intero la stessa credibilità del dichiarante”.

Mentre in più recente pronuncia  (Cass. Sez. 3 sent n. 21640 dell’11.5.2010) la Corte ha invece stabilito, in  apparente contrasto con la precedente decisione che “è illegittima la valutazione frazionata delle dichiarazioni della persona offesa, riferibili ad un unico episodio avvenuto in un unico contesto temporale, in quanto il giudizio di inattendibilità su alcune circostanze inficia, in tale ipotesi, la credibilità delle altre parti del racconto, essendo sempre e necessariamente ravvisabile un'interferenza fattuale e logica tra le parti del narrato. (In motivazione la Corte ha precisato che, in tal caso, l'attendibilità della persona offesa deve essere valutata globalmente, tenendo conto di tutte le dichiarazioni e circostanze del caso concreto e di tutti gli elementi acquisiti al processo

La apparente discrasia altro  non è che  la manifestazione della particolare accuratezza richiesta dalla Corte in materia di valutazione dell’attendibilità e della credibilità delle dichiarazioni provenienti dalla persona offesa: si osserva come  le decisioni  in questione “entrino” nell’analisi dei sillogismi della dichiarazione fino a  giudicare le connessioni e le relazioni di interferenza tra le varie parti  stessa. Ed a stabilire se tra  tali parti ci sia o meno un relazione di connessione  scindibile  che possa o   meno condurre alla valutazione frazionata del dichiarato. 

La questione diventa particolarmente rilevante quando ad essere valutate sono le dichiarazioni di minori che riferiscono di abusi non in modo coerente con le altre parti della narrazione. La valutazione della attendibilità delle dichiarazioni accusatorie diventa in tali casi particolarmente complessa in quanto occorre verificare se la non compatibilità con i dati di realtà di alcune  parti della narrazione siano in grado  o meno di ripercuotersi in modo negativa sulla  evocazione del fatto di reato.

 

3.4. Alcune considerazioni di sistema

 

Nel nostro sistema non essendo ammesso l’utilizzo delle dichiarazioni predibattimentali (come  ammesso dalla Corte di Strasburgo) non si pone  invece alcun problema di bilanciamento nei termini  espressi dalla Corte europea, se non nei casi in cui la sentenza debba  essere motivata facendo riferimento alle dichiarazioni “lette” ai sensi dell’art. 512 c.p.p.[46]

In tale  ultimo  caso la Corte di Cassazione ha ormai segnato la strada imponendo  una regola di valutazione sovrapponibile a quella indicata dalla Corte europea, ovvero la inidoneità delle dichiarazioni assunte in assenza di contraddittorio a fondare da sole il giudizio  di condanna[47].

Il problema che si pone all’interno del nostro ordinamento è, piuttosto, quello di valutare se all’abbattimento di alcune garanzie difensive (come la rinuncia all’oralità ed all’accesso “diretto” all’esame del teste) debba conseguire un bilanciamento in termini di richiesta di elementi di conferma alla prova formatasi con contraddittorio “attenuato”. O quello di valutare se le dichiarazioni  del teste vulnerabile debbano essere  comunque valutate  soprattutto quando provengano da un minore,  unitamente ad altri elementi di “conferma”.

Quanto al primo dei problemi esposti si rileva come la Corte di Strasburgo ha già ritenuto la compressione dei diritti della difesa in caso di  escussione del teste in incidente probatorio  compatibile con  il presidio di garanzia dell’art. 6 della  Convenzione (decisione Accardi c. Italia), sicchè la questione non sembra porsi.

Il bilanciamento tra  diritti confliggenti appare pacificamente  effettuabile  attraverso il ricorso a forme speciali di gestione del contraddittorio, senza  che  il diritto di difesa  sia inciso oltre il limite di tutela  minimo previsto dalla Convenzione.

Quanto al secondo problema occorre chiarire cosa si intende per “conferma”. Se la stessa non è da intendersi come un vero e proprio “riscontro”, ma piuttosto come un attributo della testimonianza ricavabile dall’analisi dell’aderenza del racconto ai dati di realtà (che devono essere documentati  ed dal pubblico ministero ed emergere dall’eventuale istruttoria dibattimentale) non si può che essere favorevoli: ogni  testimonianza deve essere infatti  vagliata con la massima attenzione e deve essere aderente ai dati di realtà emergenti dall’indagine. 

Lascia perplessi,  invece, la  configurazione della testimonianza “debole” come prova,  in sé,  inidonea a  fondare la condanna, anche se assunta in contraddittorio, e malgrado i rigorosi vagli sull’attendibilità richiesti  dalla giurisprudenza della Corte di cassazione.

Tuttavia, se in un futuro (improbabile) riassetto della formazione della prova dichiarativa si tornasse a dare  rilevo probatorio alle dichiarazioni predibattimentali, la richiesta ex lege di documentazione aggravata e di veri e propri “riscontri” alle dichiarazioni  in questione sarebbe  ineludibile. Stessa indicazione varrebbe qualora si  legittimasse il ricorso “ordinario” alla testimonianza anonima. 

In conclusione, il confronto con l’assetto processuale di altri sistemi di matrice accusatoria, meno rigido del nostro in punto di utilizzo delle dichiarazioni acquisite in fase investigativa, sollecita alcune riflessioni sulla scelta di metodo effettuata nel nostro ordinamento di associare alla mancanza del contraddittorio regole di esclusione probatoria, cioè di inutilizzabilità,  piuttosto che regole di valutazione che impongano il depotenziamento (ma non l’abbattimento) della valenza probatoria delle testimonianze assunte senza il ricorso alla “regola d’oro”.

La  regola contenuta nell’art. 111 della Costituzione, infatti, se ha il pregio  di avere evidenziato la valenza maieutica del contraddittorio nella formazione della prova, mostra infatti i suoi limiti proprio quando la prova dichiarativa proviene da una vittima vulnerabile.

In tal caso la “regola d’oro” comincia  infatti a patire delle  evidenti “flessioni”:  ne sono esempi la rinuncia all’oralità quando si ricorre al contraddittorio anticipato in incidente probatorio, o ancora, l’accesso “mediato” (dall’intervento del giudice) all’esame del teste quando questo è minore  (o  maggiorenne infermo di mente):  che non richiedono – ad oggi – compensazioni né  in base al diritto interno,  né a quello convenzionale.

Inoltre, come già evidenziato, la struttura della testimonianza  “debole” è tale da  non  manifestarsi in forme sovrapponibili tutte le volte che il dichiarante viene ascoltato. Gli approdi della psicologia della testimonianza sul punto sono chiari: i meccanismi del ricordo agiscono in maniera differente, producendo variazioni nel recupero della traccia mnestica  dipendenti sia dal tempo  trascorso  tra la  dichiarazione e l’evento, sia  dalla  struttura stessa del ricordo che  si “edifica”  anche attraverso  le rievocazioni effettuate nel corso delle varie audizioni giudiziali, attraverso la “progressione dichiarativa”.

La conseguenza di tale dato strutturale della testimonianza della vittima di un evento traumatico è che la valutazione dell’attendibilità delle dichiarazioni non può che passare attraverso la analisi del “percorso” dichiarativo, che può essere o meno giudicato attendibile proprio in relazione al suo divenire (la omogeneità delle dichiarazioni e la persistente accuratezza nella riedizione di alcuni dettagli sono segnali, ad esempio, di testimonianza non veritiera). Se così è il peso delle contestazioni dibattimentali  si aggrava, inevitabilmente: la credibilità del dichiarato attuale della vittima può infatti essere pienamente valutata solo in relazione alle dichiarazioni pregresse e non in modo indipendente da queste (che dovrebbero essere  perciò adeguatamente documentate), sebbene alle stesse non sia riconoscibile alcun valore probatorio “in positivo”.

In conclusione, le limitazioni al pieno esplicarsi dei diritti della difesa quando siano escusse vittime vulnerabili, con la  rinuncia  all’oralità ed alla cross examination diretta, costringe a chiedersi,  proprio in un’ottica di garanzia, quali rimedi debbano essere  portati al sacrificio dei diritti difensivi  che cedono nella tensione del bilanciamento con i diritti della vittima   ed, ancora, più timidamente,  se il metodo dell’esclusione  probatoria delle dichiarazioni unilaterali  sia  realmente  compatibile con il complesso (e mai uguale) bilanciamento tra diritto della vittima e diritto dell’imputato nei processi fondati su dichiarazioni che provengono da  un offeso vulnerabile.

Di certo,  se si accede alla prospettiva del bilanciamento  tra diritti (fondamentali) dell’imputato e  della vittima, si  comprende che i meccanismi di compensazione “valutativa” della testimonianza resa con contraddittorio “contratto” o “assente” ritenuti  essenziali  dalla Corte europea dei diritti dell’uomo potrebbero garantire i diritti della difesa  più delle regole di esclusione probatoria attuali. 

Queste  regole conducono infatti alla “ipervalutazione” probatoria del dichiarato dibattimentale o assunto in contraddittorio incidentale. Il che non è necessariamente un fatto  idoneo a garantire i diritti dell’imputato.

Forse, ma è solo uno spunto di riflessione, il ripensamento della disciplina della prova dichiarativa dovrebbe partire da un ridimensionamento del ruolo della testimonianza in senso lato: la  presa d’atto che la  riedizione dei ricordi è  un meccanismo complesso, e non del tutto affidabile, dovrebbe indurre  fin dalla fase  delle indagini  i pubblici ministeri a “puntellare” gli elementi di (ogni) prova orale con tutti i dati oggettivi possibili (che, all’epoca del dispiegarsi  del dibattimento, potrebbero essere stati dispersi). Dati che consentano,  nel proseguimento del processo, la valutazione  avvertita e non “intuitiva” da parte dei giudici di merito dell’attendibilità giudiziale delle dichiarazioni,  in genere, e di quelle dell’offeso, in particolare.

Allo stato, dunque, non resta che la gestione accorta di un sistema  basato sulla  regola di esclusione probatoria  prevista dalla Carta, nella consapevolezza che l’evento testimonianza ha una complessità straordinaria, probabilmente non “trattabile” con la imposizione della condizione processuale della edizione del contraddittorio dibattimentale a distanza di molti anni dal fatto da evocare.

 

Roma, 1 febbraio 2011

                                                                                                                                                                                                                                                                       Sandra Recchione

 

 

  

 

[1] In materia di tutela di diritti fondamentali la Corte Costituzionale ha, anche  di recente (in occasione della pronuncia di incostituzionalità dell’art. 275 comma 3 c.p.p.: sent n. 265 del 25.5.2010) evidenziato che “le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di eguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioè se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell’id quod plerumque accidit”.

[2] Analoghe prese di posizione, circa la presenza in capo agli Stati di un obbligo positivo di  protezione della vita anche attraverso “misure preventive”  si rinvengono da parte della Corte EDU nei casi Kontrovà c. Slovacchia, sent del 31.5.2007, § 49  Kiliç c. Turchia, sent. del 28.3.2000,  § 62-76; 1, Osman c. Regno Unito, sent del 28.10 1998,  § 115, Maiorano c. Italia, sent del 15 dicembre 2009.

[3] Nel senso di evidenziare l’obbligo positivo degli atti  nel disporre “misure preventive di ordine pratico” per proteggere  la vita di un individuo determinato minacciato da azioni criminali altrui:  Kontrovà c. Slovacchia, cit; Kiliç c. Turchia, cit, Osman c. Regno Unito, cit; nonché  Bevacqua c. Bulgaria sent del 12.6.2008,   quest’ultima relativa agli obblighi positivi dello Stato in relazione alla protezione dell’art. 8 della Convenzione.

[4] La decisione della Corte di Lussemburgo fissa  tuttavia dei limiti alla  auspicata azione di interpretazione adeguatrice delegata al giudice nazionale, uno dei quali viene  - come si è detto – individuato  nella compatibilità dell’interpretazione  con i principi  fondamentali dello Stato  membro interessato. Tale limite di compatibilità  deve essere  dunque verificato dal  giudice nazionale  al momento della valutazione della possibile estensione dell’ambito di applicazione dell’istituto dell’incidente probatorio (punto 57 della decisione). Del pari deve essere valutato da quel giudice se l’interpretazione adottata sia o meno  rispettosa del principio dell’equo processo stabilito dall’art. 6  della Convenzione EDU (punto  60).

[5] Corte. Cost., 9 maggio 2001, n. 114, in  Cass Pen , 2001, p. 2325. In tema, v. Marandola,   Audizione del minore infrasedicenne: non irragionevole la limitazione ai soli reati sessuali dell'incidente probatorio «incondizionato», in Fam. e   dir., 2003, p. 221.

[6] La  novella è stata introdotta dal D.L. 23 febbraio  2009 nn.11 convertito con modificazioni nella legge 23 aprile 2009 n. 38.

[7] C.Edu (sent.), Balsyte-Lideikiene c. Lituania, 4.11.2008, §§ 64-66; (sent.), Majadallah c. Italia, 19.10.2006, §§ 39-43; (sent.), Vaturi c. Francia, 13.4.2006, §§ 52-59, (sent.) Bracci c. Italia, 13.10.2005, §§ 59-61; Hulki Gunes c. Turchia, 19.6.2003, §§ 88-96; (sent.) Craxi c. Italie (n°2), 5.12.2002, §§ 88-94; Lucà c. Italia, 27.2.2001, §§ 43-45; A.M. c. Italia, 14.12.1999, §§ 26-28.

[8] Sul punto v. la importante risoluzione   di indirizzo della Sesta Commisione del CSM  dell’ 11.2.2009  per migliorare la risposta di giustizia nell’ambito della violenza familiare reperibile sul sito  del CSM

[9] In alcuni casi sono previsti dalle forze di polizia  dei nuclei specializzati in materia di abusi su minori, ma la stessa specializzazione non è prevista nel caso in cui la vittima sia  offesa da gravi reati di tratta degli esseri umani o da sfruttamenti di  vario genere.

[10] Intesa anche come immutabilità della persona cui la funzione di assistenza è assegnata nel corso dell’intero processo. La tutela prevista dall’art. 609 decies c.p. peraltro  nella maggioranza dei casi si dispiega nelle fasi iniziali del procedimento durante la raccolta delle dichiarazioni predibattimentali e si esaurisce rapidamente, laddove l’art 13 della  decisione 2001\220\GAI  prevede la continuità dell’assistenza alla vittima, se richiesta, anche dopo  la chiusura del procedimento. La norma in questione evidenzia  la necessità che alla vittima che sceglie di  fornire il suo contributo al sistema penale sia garantita ogni forma di assistenza idonea se non ad eliminare, almeno ad attenuare gli effetti traumatici della partecipazione al processo.

 

[11] Sul punto A. FORZA, La psicologia nel processo penale,  Giuffrè, 2010

[12] Recentemente la Società britannica di psicologia ha redatto delle Linee Guida sulla Memoria a beneficio degli operatori del diritto: The British Psychological Society, Research Board Guidelines On Memory and the Law, recomendations from the Scientific Study of Human Memory, BPS, LEICESTER 2008

[13] Da ultimo, sul tema  Cass  Sez. 3, Sentenza n. 29612 del 05/05/2010 Ud.  (dep. 27/07/2010 ) Rv. 247740   secondo cui “La valutazione delle dichiarazioni testimoniali del minore persona offesa di reati sessuali presuppone un esame della sua credibilità in senso onnicomprensivo, dovendo tenersi conto a tal riguardo dell'attitudine, in termini intellettivi ed affettivi, a testimoniare, della capacità a recepire le informazioni, ricordarle e raccordarle, delle condizioni emozionali che modulano i rapporti col mondo esterno, della qualità e natura delle dinamiche familiari e dei processi di rielaborazione delle vicende vissute, con particolare attenzione a certe naturali e tendenziose affabulazioni”. Ma nel senso della importanza della valutazione delle circostanze “esterne” che hanno caratterizzato l’esame anche Cass. sez. 3  sentenza n. 4069 del 17.10.2007 RV 238543.

 

[14] Quando si ritenga di  disporre una consulenza tecnica volta a valutare la capacità a testimoniare di un minore offeso, di norma ripetibile e comunque “attualizzabile”  nel corso delle altre fasi processuali, deve essere attentamente valutato il rischio  conseguente alla discovery anticipata. Del pari deve essere attentamente valutato l’eventuale ricorso all’incidente probatorio immediato (ovvero prima ed a prescindere dalla audizione unilaterale del pubblico ministero), che se, in astratto ha il pregio di contrarre il numero delle audizioni cui deve essere sottoposta la vittima, ha  in concreto l’effetto di produrre ex art. 393 comma  2 bis c.p.p. il deposito di tutti gli atti compiuti  fino ad allora con  pregiudizio  dell’eventuale attività  investigativa a sorpresa ed anche della incolumità della vittima se si procede in assenza di cautele.  

[15] Il LAPEC  è un’associazione culturale che si è costituita a Siracusa nell’anno 2008 presso l’Istituto Superiore Internazionale di Scienze Criminali: ha come scopo  lo studio e l’approfondimento delle problematiche giuridiche connesse all’esame incrociato nel processo penale. L’associazione ha elaborato delle “Linee Guida”  a cura di Giovanni Canzio, Bruno Cherchi e Carmela Parziale  all’esito dei lavori del Convegno di Venezia del 5 e  6 marzo 2010.

[16] C.Edu (dec.), Oyston c. Regno Unito, 22.1.2002; (sent.), Van Mechelen e Altri, 23.4.1997, § 53; (sent.), Doorson c. Paesi Bassi, 26.3.96, § 70.

[17] C.Edu, V.D. c. Romania, (sent)  16.2.2010, § 112; Accardi e altri c. Italia,  (dec) 20.1.2005;  Lemasson e Achat c. Francia, 14.1.2003;  S.N. c. Svezia,  (sent) 2.7.2002, § 47.

[18] L’art. 8 della L. 13 agosto 2010, n. 136, ha introdotto importanti innovazioni nel codice di procedura penale e nelle relative disposizioni di attuazione. Viene di fatto  introdotto, nel nostro sistema processuale (attraverso la modifica dell’art. 497 c.p.p. dell’art. 115 disp att. c.p.p. e dell’art. 147 bis disp att. c.p.p.), uno “statuto speciale” applicabile al personale di polizia giudiziaria e ai suoi collaboratori privati che sono stati impegnati in attività sotto copertura. Si tratta di una disciplina eccezionale che impone: di menzionare esclusivamente l’identità fittizia assunta dai soggetti in questione nelle annotazioni redatte dalla polizia giudiziaria nel corso delle indagini preliminari; di indicare soltanto le medesime generalità di copertura nell’esame dibattimentale e nelle ulteriori deposizioni effettuate dai predetti soggetti in ogni stato e grado del procedimento; di procedere all’esame dibattimentale con le cautele idonee ad evitare che il volto di tali soggetti sia visibile e, di regola, con il mezzo della videoconferenza.

 

[19] In materia di testimoni anonimi, la Corte ha precisato che la Convenzione non impedisce di fondarsi, durante le indagini preliminari, su testi anonimi,  ma l’utilizzazione ulteriore delle loro dichiarazioni può sollevare problemi ex art. 6 C.Edu  Windisch c. Austria, 27.9.1990, (sent.)§ 30;  Kostovski c. Paesi Bassi, (sent.) 20.11.1989, § 44). Tale utilizzazione, tuttavia, non è in ogni circostanza incompatibile con la Convenzione: C.Edu  Krasniki c. Repubblica ceca, (sent.) 28.2.2006, § 76;  Birutis e altri c. Lituania, (sent.) 28.3.2002, § 29; Doorson c. Paesi Bassi, (sent.) 26.3.96, § 69). Anche se giustificato, il mantenimento dell’anonimato di un testimone sottopone la difesa a difficoltà inusuali (ad es., essa non può contestare la credibilità del testimone sulla base dei suoi antecedenti). Esso, tuttavia, non viola l’art. 6 §§ 1 e 3 d) CEDU se le autorità giudiziarie hanno seguito una procedura suscettibile di compensare  i sacrifici imposti alla difesa (C.Edu Sapunarescu c. Germania, (dec.) 1.9.2006;  Krasniki c. Repubblica ceca, (sent.) cit. § 76; Birutis e altri c. Lituania, (sent.) cit. § 29 ; Van Mechelen e Altri, (sent.) 23.4.1997, § 54; Doorson c. Paesi Bassi, (sent.) 26.3.96, §§ 72-75. Tuttavia, anche in presenza di tali compensazioni procedurali, una condanna non può fondarsi unicamente, o in misura determinante, sulle dichiarazioni di testimoni anonimi : C.Edu, Krasniki c. Repubblica ceca, (sent.) cit, §§ 76 e 84;  Visser c. Paesi Bassi, (sent.) 14.2.2002, §§ 43 e 50;  Birutis e altri c. Lituania, (sent.) cit, §§ 29 e 31; Van Mechelen e Altri, (sent.) 23.4.1997, § 55), e le dichiarazioni di questi ultimi devono essere trattate con estrema prudenza (C.Edu Sapunarescu c. Germania, (dec.)cit.; Krasniki c. Repubblica Ceca, (sent.) cit., §77;  Visser c. Paesi Bassi, (sent.) 14.2.2002, § 44; Doorson c. Paesi Bassi, (sent.) cit., §76). Nel determinare se le procedure seguite per l’interrogatorio di un testimone anonimo abbiano controbilanciato le difficoltà imposte alla difesa, un peso adeguato alla decisività della testimonianza anonima; se essa non  è stata decisiva, la difesa ha subito pregiudizi molto minori (C.Edu  Krasniki c. Repubblica ceca, (sent.) cit, § 79; Visser c. Paesi Bassi, (sent.) cit § 46; Kok c. Paesi Bassi, (dec.) 4.7.2000).  L’imputato non deve essere privato della possibilità di « testare » la credibilità dei testimoni anonimi (ad es., ponendo loro domande e/o verificando la modalità con le quali le dichiarazioni anonime erano state ottenute: cfr. C.Edu (sent.), Krasniki c. Repubblica ceca, (sent.) cit, § 76; Birutis e altri c. Lituania, (sent.) cit, §§ 29 e 33-34; Kostovski c. Paesi Bassi, (sent.) 20.11.1989, § 42). Se i testimoni di cui intende mantenere l’anonimato appartengono alle forze di polizia, la Corte osserva che i membri di tali forze si trovano in posizione diversa rispetto ai testimoni disinteressati ed alle vittime, in quanto hanno un dovere generale di obbedienza alle autorità esecutive e dei legami con il pubblico ministero; di conseguenza, essi possono essere utilizzati come testimoni anonimi solo in circostanze eccezionali (C.Edu  Van Mechelen e Altri, (sent.) cit, § 56, ove la precisazione che è « nella natura delle cose » che tra i doveri di un agente di polizia dotato del potere di procedere ad un arresto rientri quello di testimoniare in udienza pubblica). Cionondimeno, a condizione che i diritti della difesa siano rispettati, le autorità possono legittimamente conservare l’anonimato di un agente impiegato in attività segrete o di infiltrazione in ambienti criminali, tanto per preservare la sua incolumità e quella della sua famiglia, quanto per non compromettere la sua utilizzazione in operazioni future (C.Edu Van Mechelen e Altri, (sent.), cit, § 57, e Lüdi c. Svizzera, (sent.) 15.6.1992, § 49).

[20] Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3348 del 13/11/2003 Ud.  (dep. 29/01/2004 ) Rv. 227493; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 3348 del 13/11/2003 Ud.  (dep. 29/01/2004 ) Rv. 227493; Cass.Sez. 6, Sentenza n. 33162 del 03/06/2004 Ud.  (dep. 02/08/2004 ) Rv. 229755; Cass. Sez. 4, Sentenza n. 30422 del 21/06/2005 Ud.  (dep. 10/08/2005 ) Rv. 232018; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 34110 del 27/04/2006 Ud.  (dep. 12/10/2006 ) Rv. 234647.

[21]  Cass. Sez. 3, Sentenza n. 29612 del 05/05/2010 Ud.  (dep. 27/07/2010) Rv. 247740; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 42984 del 04/10/2007;  Cass. Sez. 3, Sentenza n. 39994 del 26/09/2007 Ud.  (dep. 29/10/2007) Rv. 237952;  Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5003 del 07/11/2006 Ud.  (dep. 07/02/2007) Rv. 235649; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 23278 del 06/04/2004 Ud.  (dep. 19/05/2004 ) Rv. 229421; Cass. Sez. 3, Sentenza n. 43303 del 18/10/2001 Ud.  (dep. 03/12/2001) Rv. 220362.

[22]  Cass Sez. 1, Sentenza n. 29372 del 24/06/2010 Ud.  (dep. 27/07/2010 ) Rv. 248016: “La deposizione della persona offesa può essere assunta, anche da sola, come prova della responsabilità dell'imputato, purché sia sottoposta a vaglio positivo circa la sua attendibilità e senza la necessità di applicare le regole probatorie di cui all'art. 192, commi terzo e quarto, cod. proc. pen., che richiedono la presenza di riscontri esterni; tuttavia, qualora la persona offesa si sia anche costituita parte civile e sia, perciò, portatrice di pretese economiche, il controllo di attendibilità deve essere più rigoroso rispetto a quello generico cui si sottopongono le dichiarazioni di qualsiasi testimone e può rendere opportuno procedere al riscontro di tali dichiarazioni con altri elementi”;  nello stesso senso Cass. Sez. 6, Sentenza n. 33162 del 03/06/2004 Ud.  (dep. 02/08/2004 ) Rv. 229755.

[23] Cass. Sez. 5, Sentenza n. 27774 del 26/04/2010 Cc.  (dep. 16/07/2010 ) Rv. 247883.In tema di misure cautelari personali, le dichiarazioni accusatorie della persona offesa, ancorché costituita parte civile, possono integrare i gravi indizi necessari per l'applicazione della custodia cautelare in carcere - nella specie in ordine al delitto di cui all'art. 612-bis cod. pen.) - senza necessità di riscontri oggettivi esterni ai fini della valutazione di attendibilità estrinseca. (La Corte ha riaffermato che la valutazione del giudice deve essere, in ogni caso, caratterizzata da rigore e prudenza)”.

 

[24]  Cass. Sez. 3, Sentenza n. 4069 del 17/10/2007 Ud.  (dep. 28/01/2008 ) Rv. 238543:È affetta dal vizio di manifesta illogicità, la motivazione della sentenza nella quale la valutazione sulla credibilità ed attendibilità delle dichiarazioni del minore, vittima di abusi sessuali, venga compiuta esclusivamente riferendosi alla intrinseca coerenza interna del racconto, senza tenere adeguatamente conto di tutte le circostanze concrete che possono influire su tale valutazione”.

[25] Sul punto particolarmente significativa è la sentenza  cass. Sez. 3, Sentenza n. 29612 del 05/05/2010 Ud.  (dep. 27/07/2010 ) Rv. 247740 nella cui massima si legge:  “La valutazione delle dichiarazioni testimoniali del minore persona offesa di reati sessuali presuppone un esame della sua credibilità in senso onnicomprensivo, dovendo tenersi conto a tal riguardo dell'attitudine, in termini intellettivi ed affettivi, a testimoniare, della capacità a recepire le informazioni, ricordarle e raccordarle, delle condizioni emozionali che modulano i rapporti col mondo esterno, della qualità e natura delle dinamiche familiari e dei processi di rielaborazione delle vicende vissute, con particolare attenzione a certe naturali e tendenziose affabulazioni”. Nello stesso senso la nota sentenza  Sez. 3, Sentenza n. 37147 del 18/09/2007 Cc.  (dep. 09/10/2007 ) Rv. 237554, Scancarello

 

[26]  Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5003 del 07/11/2006 Ud.  (dep. 07/02/2007 ) Rv. 235649:In tema di reati contro la libertà sessuale, la valutazione del contenuto delle dichiarazioni della persona offesa minorenne deve contenere un esame sia dell'attitudine psicofisica del teste ad esporre le vicende in modo esatto, ovvero di recepire le informazioni, raccordarle con altre e di esprimerle in una visione complessa, sia della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne che hanno regolato le sue relazioni con il mondo esterno”.

 

[27] Cass. Sez. 3, Sentenza n. 5003 del 07/11/2006 Ud.  (dep. 07/02/2007 ) Rv. 235649. “In tema di dichiarazioni rese dal teste minore vittima di abusi sessuali, mentre, al fine di valutare l'attitudine a testimoniare, ovvero la capacità di recepire le informazioni, di raccordarle con altre, di ricordarle e di esprimerle in una visione complessa, può farsi ricorso ad indagine tecnica che fornisca al giudice i dati inerenti al grado di maturità psichica dello stesso, nessun accertamento tecnico è consentito quando si tratti di valutare l'attendibilità della prova; tale operazione rientra, infatti, nei compiti esclusivi del giudice, che deve esaminare il modo in cui il minore abbia vissuto e rielaborato la vicenda, in maniera da selezionare sincerità, travisamento dei fatti e menzogna”.

 

[28]  Cass. Sez. 3, Sentenza n. 24248 del 13/05/2010 Ud.  (dep. 24/06/2010 ) Rv. 247285: In tema di reati contro la libertà sessuale, la valutazione del contenuto delle dichiarazioni della persona offesa minorenne deve contenere un esame sia dell'attitudine psicofisica del teste ad esporre le vicende in modo esatto, ovvero di recepire le informazioni, raccordarle con altre e di esprimerle in una visione complessa, sia della sua posizione psicologica rispetto al contesto delle situazioni interne ed esterne che hanno regolato le sue relazioni con il mondo esterno.

 

[29] Sez. 3, Sentenza n. 20568 del 10/04/2008 Ud.  (dep. 22/05/2008 ) Rv. 239879: I principi posti, in tema di esame testimoniale dei minorenni parti offese nei reati di natura sessuale, dalla cosiddetta "Carta di Noto", lungi dall'avere valore normativo, si risolvono in meri suggerimenti diretti a garantire l'attendibilità delle dichiarazioni del minore e la protezione psicologica dello stesso, come illustrato nelle premesse della Carta medesima. (Nella specie la Corte ha rigettato il ricorso avanzato, ex art. 606, comma primo, lett. e), cod. proc. pen. sul presupposto, tra gli altri, della prospettata assunzione della testimonianza con modalità ritenute contrastanti con detti principi).

 

[30] Cass. Sez. 3, Sentenza n. 44971 del 06/11/2007 Ud.  (dep. 04/12/2007 ) Rv. 238279:  In tema di valutazione della testimonianza del minore persona offesa del reato di violenza sessuale, non ricorre la necessità di indagine psicologica in relazione alle dichiarazioni di persona adolescente, la cui naturale maturazione è connessa all'età, ove si possa escludere la presenza di elementi, quali una particolare predisposizione all'elaborazione fantasiosa o alla suggestione, tali da rendere dubbio il narrato.

 

[31]  Cass Sez. 3, Sentenza n. 2001 del 13/11/2007 Ud.  (dep. 15/01/2008 ) Rv. 238848, nella motivazione della quale si legge:È pacifico che tutte le parti avevano espressamente rinunciato a sentire direttamente la teste di riferimento, per evitare alla minore traumi psichici per lei insopportabili.In questo caso, quindi, va affermata d'ufficio l'indubbia l'utilizzabilità delle testimonianze indirette ex art. 195 c.p.p.. Vero è che una dottrina autorevole, ma minoritaria, reputa che sia vietata l'utilizzazione della testimonianza indiretta ogni qual volta non sia stata assunta la testimonianza diretta del teste di riferimento, salvi i casi eccezionali tassativamente previsti in cui l'esame del teste di riferimento risulti impossibile per morte, infermità o irriperibilità.Contro questa tesi rigorista, però, militano più argomenti, di carattere logico, sistematico e storico:a) anzitutto le disposizioni dell'art. 195 c.p.p., commi 3 e 7 vietano la utilizzazione delle testimonianze indirette solo nel caso in cui il giudice, richiesto da una delle parti, non abbia disposto l'assunzione della testimonianza diretta (comma 3) o nel caso in cui il testimone indiretto non abbia voluto o potuto indicare la persona da cui aveva appreso la notizia (comma 7).Secondo il brocardo ubi lex voluit dixit, ubi noluit tacuit si deve concludere che il legislatore non ha voluto estendere l'inutilizzabilità della testimonianza indiretta a ipotesi diverse da quelle espressamente previste.In altri termini, poiché le disposizioni dei predetti commi 3 e 7 configurano norme eccezionali rispetto al principio di libertà della prova, desumibile dall'art. 189 c.p.p., e al principio della generale ammissibilità della prova testimoniale, desumibile dall'art. 194 c.p.p., a norma dell'art. 14 delle preleggi, le stesse disposizioni non possono applicarsi oltri i casi in esse considerati;b) in secondo luogo, quest'ultima interpretazione ha anche l'avallo della Relazione al progetto preliminare del codice, soprattutto laddove precisa che "resta salva, invece, la legittimità della testimonianza indiretta quando manchi la richiesta di parte e il giudice ritenga di non attingere alla fonte diretta delle informazioni" (pag. 62);c) siffatta interpretazione da una parte è confermata dalla Corte costituzionale con la sentenza n. 24/1992, dall'altra è perfettamente in linea con la formulazione del novellato art. 111 Cost., comma 5, secondo cui la formazione della prova può aver luogo senza il contraddittorio delle parti quando vi sia il consenso dell'imputato.Infatti, la mancata richiesta dell'imputato di chiamare a deporre il teste di riferimento, e più ancora la sua espressa rinunzia (com'è avvenuto nel caso di specie), possono essere interpretate come consenso alla utilizzabilità delle risultanze delle testimonianze indirette, ovverosia come rinuncia a sentire il teste diretto sotto il controllo dibattimentale incrociato;d) infine, sotto un profilo logico, la tesi rigorista qui criticata finirebbe per vanificare sostanzialmente l'istituto processuale della testimonianza indiretta, che pure è previsto dall'ordinamento, giacché in assenza della testimonianza diretta quella indiretta non potrebbe essere utilizzata, mentre in presenza della testimonianza diretta essa, nella maggior parte dei casi, perderebbe o vedrebbe comunque sminuito il suo valore probatorio”.

 

[32] Cass. Sez. 3, Sentenza n. 30964 del 11/06/2009 Ud.  (dep. 24/07/2009 ) Rv. 244939Sono utilizzabili le deposizioni "de relato" aventi ad oggetto le dichiarazioni rese dal minore vittima di reati sessuali ove all'esame di questi non si faccia luogo in ragione dell'accertamento di possibili danni, anche transeunti, alla sua salute, collegati all'assunzione dell'ufficio testimoniale, non essendo di contro sufficiente la previsione di un mero disagio da essa derivante”.  In parte motiva la Corte precisa “Il codice prevede numerose norme finalizzate ad evitare che la parte lesa sia vittima, oltre che del reato, anche dello stesso giudiziario .Nonostante le predisposte cautele, in molti casi di abuso sessuale ai danni di minori, non si assume la fonte diretta di conoscenza con una interpretazione estensiva dell'art. 195 c.p.p., comma 3 (vietata trattandosi di eccezione ad una regola generale) ed annoverando nella nozione di infermità la naturale fragilità del piccolo per il comprensibile timore che possa subire vittimizzazioni secondarie dalla audizione processuale. A tale previsione si sono riferiti i Giudici di merito anche se non hanno compiutamente esplicitato il loro pensiero e non hanno indicato il referente normativo. Il tema è di particolare delicatezza perché coinvolge il diritto dello imputato a confrontarsi con il suo accusatore, garantito dalla Carta Fondamentale, ed il diritto della giovane vittima alla salute, anche esso di rilevanza costituzionale. Dal momento che il processo in sè è portatore di sofferenza per i bambini (e per gli adulti), la testimonianza del minore non può essere esclusa sulla base della mera previsione che la audizione possa produrgli un disagio; se così fosse, mai nessun bambino dovrebbe essere sentito in ambito giudiziario. Di conseguenza, la Corte (consapevole che la problematica ha trovato variegate soluzioni nella giurisprudenza di legittimità) ritiene che la regola aurea del processo penale, per cui la prova si forma in contraddittorio tra le parti, possa essere violata, anche nel caso in esame solo in presenza di gravi ragioni ostative alla acquisizione della fonte diretta. Si può, quindi, prescindere dal contributo narrativo del minore laddove un professionista competente, con un motivato parere, segnali che il piccolo ha una personalità così fragile da potersi equiparare ad infermità oppure evidenzi la possibilità di insorgenza di danni, anche transeunti, alla salute del bambino, collegati alla testimonianza”.

[33] Cass.  Sez. 3, Sentenza n. 9801 del 29/11/2006 Ud.  (dep. 08/03/2007 ) Rv. 236005: “La testimonianza "de relato" è inutilizzabile solo quando sulla richiesta di parte il giudice non chiami a deporre il teste diretto, ma quando il teste diretto, chiamato, non abbia risposto, non sussiste più alcuna limitazione al valore probatorio delle testimonianze indirette, che devono essere configurate, al pari di ogni altra prova storica, come rappresentazione dello stesso fatto che si assume di voler provare, sia pure soggettivamente mediata attraverso il testimone indiretto e non come prova logica o indizio, dal quale desumere un fatto diverso. (Fattispecie relativa alla testimonianza indiretta dei genitori in relazione ad abusi sessuali subiti dal figlio minore, che, chiamato a deporre nelle forme dell'incidente probatorio, non abbia risposto alle domande)”.

 

[34]  Cass Sez. 3, Sentenza n. 21034 del 09/03/2004 Ud.  (dep. 05/05/2004 ) Rv. 229040:La regola dell'inutilizzabilità contenuta nell'art. 526, comma primo-bis cod. proc. pen., secondo la quale la colpevolezza dell'imputato non può essere provata sulla base di dichiarazioni rese da chi per libera scelta si è sempre volontariamente sottratto all'esame da parte dell'imputato o del suo difensore, non si applica in riferimento al caso in cui il minore, parte offesa di reati sessuali, sentito nel corso dell'incidente probatorio, si sia rifiutato di rispondere alle domande, dichiarando di aver riferito i fatti ad altra persona; infatti, in tale particolare situazione, non si può ritenere che il comportamento di un minore, soprattutto se inferiore ai dieci anni, sia stato determinato da una scelta libera e cosciente e da una volontà altrettanto cosciente”

[35] Ci si chiede se la previsione della facoltà di rimettere la querela in relazione a reati  che segnalano un serio pericolo per la vita dell’offeso, come quello di atti persecutori (art. 612 bis c.p.) sia compatibile con  una tutela effettiva dei diritti delle vittime.

La necessità di depotenziare il ruolo della querela trova conferma, per quanto riguarda i procedimenti per il reato di traffico degli esseri umani, nel contenuto della direttiva approvata dal Parlamento europeo il 14 dicembre 2010 (COM (2010)0095-c7-0087/2010 –2010/0065(COD)  che, all’art. 9, espressamente prevede che “gli stati membri adottano  le misure necessarie  affinché le indagini o l’azione penale relative ai reati di cui agli artt. 2 3 non siano subordinate alle dichiarazioni o all’accusa formulate dalla vittima ed il procedimento penale possa continuare anche se la vittima ritratta le proprie dichiarazioni”. Posizione questa di estremo rilievo: sia perché evidenzia la naturale inattendibilità della ritrattazione  effettuata da alcune  vittime (nella specie offese dal reato di tratta, dunque particolarmente vulnerabili in quanto ragionevolmente destinatarie di minacce e pressioni),  sia perché  invita a strutturare alcuni procedimenti penali in modo da non “centrarli”  esclusivamente sulla testimonianza dell’offeso

[36] In particolare, in materia di violenza sessuale si segnala, inoltre, che la Suprema corte ha ritenuto “la riappacificazione” un elemento concreo idoneo a fondare il giudizio sulla non genuinità della deposizione dibattimentale, proprio in ragione dl fatto che, in tale materia, la non rimettibilità della querela conduce ragionevolmente il teste minacciato non alla ritrattazione, ma piuttosto alla edulcorazione della testimonianza. (cass. sez. 3, n. 38109 del 3.10,.2006, RV 235756).

 

[37] Sulla rilevanza delle modalità di audizione e del contegno del teste , cass.  Sez. 3, Sentenza n. 49579 del 04/11/2009 Ud.  (dep. 28/12/2009 ) Rv. 245864 : “Le modalità della testimonianza ed il contegno tenuto dal testimone rientrano tra gli elementi valutabili come indicativi di "inquinamento probatorio", idonei a giustificare l'acquisizione al fascicolo del dibattimento delle dichiarazioni precedentemente rese dal testimone e contenute nel fascicolo del pubblico ministero. (In applicazione di detto principio la Corte ha ritenuto sintomatica di pressioni esterne la simultanea ed omogenea ritrattazione operata dalle otto testimoni d'accusa in assenza di una plausibile giustificazione)”: Cass. Sez. 3, Sentenza n. 49579 del 04/11/2009 Ud.  (dep. 28/12/2009 ) Rv. 245864

 

 

[38] Tra le altre  C.Edu, (sent.)  Carta c. Italia, 20.4.2006, § 48;  Ferrantelli e Santangelo c. Italia, (sent.) 7.8.1996, § 51; Saïdi c. Francia, (sent.)  20.9.1993, § 43.

[39] C.Edu (sent.), Carta c. Italia, 20.4.2006, § 49; (sent.), Isgrò c. Italia, 19.2.1991, Ludi c. Svizzera, (sent) 15.6.1992, § 47;  Asch c. Austria, (sent.) 26.4.1991 § 27.

[40] Per queste osservazioni, cfr. M. DELMAS-MARTY, La prova penale, in Ind. Pen., 1996, p. 609.

[41]  V. sentenze c. Edu citate alla nota 17).

[42] BALSAMO-LO PIPARO, Le contestazioni nei sistemi di common law e nel processo penale italiano: la ricerca di un “giusto” equilibrio tra scrittura e oralità, in Diritto penale e Processo, 2005, p. 485

[43] C.Edu , Orhan Çaçan c. Turchia, (sent) 23.3.2010, § 37; Majadallah c. Italia, (sent) 19.10.2006, § 38;  Bracci c. Italia, (sent) 13.10.2005, § 55;  Craxi c. Italia,  (sent) 5.12.2002, § 86;  A.M. c. Italia, (sent) 14.12.1999, § 25; Saïdi c. Francia, 20.9.1993, §§ 43-44.

[44] Esemplare in materia la sentenza emessa nel caso Bracci c. Italia. In tale pronuncia si evidenzia come la dichiarazione accusatoria non sottoposta al vaglio processuale in contraddittorio  sia considerata inidonea a fondare una condanna  conforme ai principi del processo equitable se è l’elemento  unico o determinante su cui si fonda la  condanna.  La stessa dichiarazione  rimane “valutabile” ma può fondare il giudizio solo se non è l’elemento determinate per la cognizione.

 

[45] Oltre alla citata sentenza della Cass. Sez 2 n. 43331 del 2007, da ultimo si segnala la più recente Cass Sez. 3, Sentenza n. 27582 del 15/06/2010 Ud.  (dep. 15/07/2010) Rv. 248053 che ha, di recente,  ribadito la necessità che le dichiarazioni rese in fase investigativa siano confortate da altri elementi, facendo leva sulla interpretazione “conforme”.

[46] Sulle condizioni di lettura  delle dichiarazioni predibattimentali  prevista dagli artt. 512  e 512 bis c.p.p., mentre si scrive, è in corso di stesura la motivazione della sentenza delle SU penali del 25 novembre 2010  che ha ritenuto che ai fini della lettura l’impossibilità della ripetizione dibattimentale debba essere intesa in senso oggettivo.

[47]  Cass Sez. 3, Sentenza n. 27582 del 15/06/2010 cit alla nota 22): la pronuncia  rileva in quanto la Corte, pur in presenza di una irripetibilità oggettiva ha ritenuto che la sentenza di condanna non potesse fondarsi in modo significativo  o esclusivo sulla dichiarazione assunta in assenza di  contraddittorio.