Commette il reato di truffa chi, sfruttando la notorietà creatasi di mago o di guaritore, ingeneri nelle persone offese il pericolo immaginario dell'avveramento di gravi malattie e faccia credere alle stesse di poterle guarire o di poterle preservare e le induca in errore, compiendo asseriti esorcismi o pratiche magiche o somministrando e prescrivendo sostanze e si procura così, nel richiedere e accettare da quelle, un ingiusto profitto con danno delle stesse.
Non si può affermare che il mago nel somministrare la pozione (che non ha natura di medicamento) per allontanare un male (che non è una definita patologia) ha esercitato la professione medica che ha invece fondamenti scientifici ed è riservata a professionisti iscritti in apposito albo.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA PENALE
(data ud. 19/12/2005) 18/01/2006, n. 1862
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. NARDI Domenico - Presidente
Dott. CARMENINI Secondo - Consigliere
Dott. PAGANO Filiberto - Consigliere
Dott. PODO Carla - Consigliere
Dott. MACCHIA Alberto - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sul ricorso proposto da:
1) L.F., N. IL (OMISSIS);
2) Z.F., N. IL (OMISSIS);
avverso SENTENZA del 05/05/2004 CORTE APPELLO di BARI;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. PAGANO FILIBERTO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. DELEHAYE Enrico che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;
Udito il difensore avv. FAT che ha chiesto l'accoglimento del ricorso dello Z..
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
L.F. e Z.F. ricorrono avverso la sentenza sopra indicata che ha accertato la loro responsabilità in ordine al delitto continuato di concorso in truffa aggravata ed esercizio abusivo della professione medica (art. 81 c.p., art. 110 c.p., art. 61 c.p., n. 7, art. 640 c.p., comma 2, n. 2, art. 348 c.p.). L. è stato condannato alla pena di anni 1 mesi 8 di reclusione ed Euro 600,00 di multa e Z. alla pena di anni 1 mesi 2 di reclusione ed Euro 350,00 di multa.
I giudici di merito hanno accertato che il L., svolgendo attività di mago guaritore con somministrazione di sostanze per guarigioni da presunte malattie, e lo Z., effettuando attività di suo aiutante ed assistente, si sono fatte consegnare varie somme da più persone che si sono loro rivolte.
L. deduce la violazione dell'art. 550 c.p.p. per nullità del decreto di citazione emesso direttamente dal Pubblico Ministero e non anche con la procedura di cui all'art. 416 c.p.p., e segg., essendo il reato addebitato punito con pena edittale superiore nel massimo a 4 anni di reclusione. Rileva che decreto di citazione è stato notificato ad esso prevenuto dopo l'entrata in vigore della L. 16 dicembre 1999, n. 479, nulla rilevando che fosse stato emesso prima di detta data. Con altro motivo deduce l'insussistenza del delitto di truffa non essendovi stata coercizione o inganno in quanto "le persone coinvolte hanno scelto liberamente di affidarsi a prestazioni ipoteticamente soprannaturali" consapevoli dell'effetto "aleatorio o meramente placebo della prestazione" liberamente richiesta senza indurre alcuno in errore. Rileva che la fattispecie potrebbe essere compresa nella previsione normativa di cui all'art. 661 c.p. che sanzione con pena contravvenzionale l'abuso della credulità popolare. Eccepisce inoltre l'insussistenza del reato di esercizio abusivo della professione medica in quanto l'attività di mago guaritore è tipica ed è effettuata senza somministrazione di medicinali in quanto la condotta è consistita in presunti sortilegi e suggestioni di carattere metafisico senza esercizio di attività medica. Deduce che nella fattispecie difetta l'elemento materiale del reato non avendo l'attività dell'agente avuto rilevanza esterna e non essendosi esplicata in attività riferibili alla professione medica. Lamenta il difetto di motivazione in ordine alla colpevolezza e la grave entità della sanzione non proporzionata al mutamento di vita di esso ricorrente ed al suo compiuto recupero sociale. Rileva che il giudice di merito doveva considerare l'eventuale continuazione con altra sentenza richiamata da un provvedimento di cumulo di pene presente negli atti del procedimento.
Z. deduce la violazione dell'art. 640 c.p. rilevando che il suo accertato ruolo marginale esclude il delitto, essendo il L. l'unico interlocutore con le persone che si rivolgevano a lui e lo retribuivano direttamente. Eccepisce di non avere diagnosticato malattie e somministrato medicamenti.
Il ricorso relativo alle formalità della citazione a giudizio è infondato in quanto detta citazione è stata disposta con decreto del 21 dicembre 1998, precedentemente all'entrata in vigore della L. 16 dicembre 1999, n. 479. Nella fattispecie, come già statuito da questa Corte di legittimità, in assenza di specifica disciplina transitoria, trova applicazione il principio "tempus regit actum" con la conseguenza che deve aversi riguardo al momento in cui è stato emesso il decreto di citazione diretta a giudizio, il quale, in quanto legittimamente formato secondo la previgente disciplina e nel periodo in cui essa era applicabile, ha già prodotto l'effetto della "vocatio in ius", con il conseguente valido ed irreversibile trapasso alla fase ulteriore del dibattimento. Si tratta infatti di successione nel tempo di norme aventi natura esclusivamente processuale, soggette al principio "tempus regit actum" e a quello della irretroattività della legge stabilito nell'art. 11, comma 1 delle disposizioni sulla legge in generale, disposizione nella specie non derogata stante l'assenza di una apposita norma transitoria. (Cass. 4^ 29/11/2000 n. 4724, ud. 25/10/2000, rv. 219260; Cass. 4^ 8/11/2000 n. 4313, ud. 22/09/2000, rv. 217761).
Deve essere respinto anche il ricorso relativo alla insussistenza del delitto di truffa non rientrando la fattispecie, così come accertata dal giudice del merito, nel minore fatto contravvenzionale di cui all'art. 661 c.p. (abuso della credulità popolare), il cui elemento costitutivo e differenziato è costituito dal turbamento dell'ordine pubblico e da una azione rivolta nei confronti di un numero indeterminato di persone, come testualmente prescritto dal termine "pubblicamente", il cui contenuto è indicato nell'art. 266 c.p., comma 4. Il fatto, così come ricostruito dalla Corte Territoriale è correttamente compreso nel delitto di truffa aggravata, come già statuito da questa Corte in analoga fattispecie nei confronti di colui che, sfruttando la notorietà creatasi di mago o di guaritore, ingeneri nelle persone offese il pericolo immaginario dell'avveramento di gravi malattie e faccia credere alle stesse di poterle guarire o di poterle preservare e le induca in errore, compiendo asseriti esorcismi o pratiche magiche o somministrando e prescrivendo sostanze e si procura così, nel richiedere e accettare da quelle, un ingiusto profitto con danno delle stesse (Cass. 2^, 21/01/2005 n. 1910, ud. 20/12/2004, rv. 230694; Cass. 3^ 27/05/1996 n. 5265, ud. 24/04/1996, rv. 205106).
E' invece fondato il ricorso relativo alla sussistenza del ritenuto delitto di esercizio abusivo della professione medica (art. 348 c.p.), non avendo i ricorrenti, come in fatto accertato, posto in essere comportamenti di esclusiva pertinenza e competenza del medico.
L'art. 348 c.p. (abusivo esercizio di una professione), è norma penale in bianco, che presuppone l'esistenza di norme giuridiche diverse, qualificanti una determinata attività professionale, le quali prescrivono una speciale abilitazione dello Stato ed impongono l'iscrizione in uno specifico albo, in tal modo configurando le cosiddette professioni protette (Cass. 6^ 21/02/1997 n. 1632, ud. 6/12/1996, rv. 208185; Cass. 6^ 25/08/1995 n. 9089, ud. 3/04/1995, rv. 202273). Il delitto presuppone quindi l'accertamento di una condotta costituente espletamento di professione medica: il reato sussiste solo nei casi in cui il prevenuto abbia posto in essere condotte proprie dei professionisti abilitati, non essendo sufficiente una mera assimilazione analogica tra le finalità perseguite da soggetti che tendano al conseguimento di benessere fisico o psicologico con attività metafisiche non curative del corpo e della psiche senza con ciò porre in essere attività medica.
Questa è genericamente definibile come una professione che si estrinseca nella individuazione e nella diagnosi di patologie con prescrizione di cure e rimedi (Cass. 4^, 29/11/2000 n. 4724, ud. 25/10/2000, rv. 219260) ed è una attività dalla quale sono escluse mere pratiche che hanno riferimento a supposti poteri paranormali esclusivi di guaritori che accampino personali doti connaturate alla propria persona che influenzano ed agiscano in un supposto campo metafisico e non fisico del soggetto. La professione medica per le sue caratteristiche di scientificità è praticabile e controllabile da qualunque soggetto munito di idoneo titolo professionale e non è riservata, per presunti doti personali metafisiche e metascientifiche, a soggetti che pretendono di possedere ed usare poteri superiori alla norma per il conseguimento di benessere fisico (vedi Cass. 6^ 20/10/1995, ric. Ottobre, dep. 5/04/1996 in Cass. pen. 1996 m. 1817, sentenza che ha escluso il delitto con riferimento alla pratica della pranoterapia). Non si può conclusivamente affermare che il mago nel somministrare la pozione (che non ha natura di medicamento) per allontanare un male (che non è una definita patologia) ha esercitato la professione medica che ha invece fondamenti scientifici ed è riservata a professionisti iscritti in apposito albo.
Il ricorso del L. relativo alla determinazione della pena è manifestamente infondato in quanto la quantificazione della pena risponde a criteri discrezionali, il cui esercizio deve essere motivato nei soli limiti idonei a far emergere in misura sufficiente il pensiero del giudice circa l'adeguamento della sanzione alla gravità effettiva del reato ed alla personalità del prevenuto (Cass. 1^ 16/06/1992 n. 6992, ud. 30/01/1992, rv. 190645). Trattasi di giudizio di fatto sottratto al controllo di legittimità, giudizio conseguente alla valutazione della concreta fattispecie che nel caso in esame il giudice di appello ha compiutamente e logicamente effettuato avendo riferimento ai gravi precedenti penali ed alla entità dei fatti. Parimenti inammissibile il ricorso relativo alla continuazione con altra decisione non richiesta con i motivi di appello e genericamente proposta senza allegare al giudice del merito la sentenza dalla quale riscontrare gli elementi induttivi della preesistenza dell'unicità del disegno criminoso (Cass. 2^, 23/10/2003 n. 40342, ud. 13/05/2003, rv. 227172).
Il ricorso dello Z. relativo all'accertamento di concorso nella responsabilità è infondato in quanto il contributo concorsuale assume rilevanza non solo quando abbia efficacia causale, ponendosi come condizione dell'evento lesivo, ma anche quando assuma la forma di un contributo agevolatore, e cioè quando il reato, senza la condotta di agevolazione, sarebbe ugualmente commesso ma con maggiori incertezze di riuscita o difficoltà. Ne deriva che, a tal fine, è sufficiente che la condotta di partecipazione si manifesti in un comportamento esteriore che arrechi un contributo apprezzabile alla commissione del reato, mediante il rafforzamento del proposito criminoso o l'agevolazione dell'opera degli altri concorrenti e che il partecipe, per effetto della sua condotta, idonea a facilitarne l'esecuzione, abbia aumentato la possibilità della produzione del reato, perchè in forza del rapporto associativo diventano sue anche le condotte degli altri concorrenti (Cass. 5^ 5/05/2004 n. 21082, ud. 13/04/2004, rv. 229200). Nella fattispecie corretto è il giudizio di colpevolezza per l'accertamento dell'attività di collaborazione con il L. e i diretti rapporti con le parti offese.
Peraltro anche nei confronti dello Z. la sentenza deve essere annullata con riferimento all'affermazione di colpevolezza per il delitto di cui all'art. 348 c.p., il cui aumento in continuazione (non determinato specificatamente per questo reato dal giudice di merito che sulla pena base ha operato un aumento anche per un ulteriore episodio di truffa) deve essere eliminato con nuova determinazione della sanzione, fermo restando il passaggio in giudicato dei restanti punti della decisione confermati in questo giudizio di legittimità (Cass. S.U. 23/05/1997 n. 4904, ud. 26/03/1997, rv 207640).
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente al reato di cui all'art. 348 c.p. perchè il fatto non sussiste. Rinvia ad altra sezione della Corte di Appello di Bari per la determinazione della pena.
Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2005.
Depositato in Cancelleria il 18 gennaio 2006