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Estrapolazione del profilo genetico ripetibile o irripetibile? (Cass., 18246/15)

30 aprile 2015, Cassazione penale

I prelievi sul DNA, attraverso il sequestro di oggetti contenenti residui organici, qualificabili come rilievi tecnici e delegabili ex art. 370 cod. proc. pen., non sono atti invasivi o costrittivi, essendo semplicemente prodromici all'effettuazione di successivi accertamenti tecnici - ripetibili o irripetibili - e non richiedendo conseguentemente l'osservanza di garanzie difensive.

Il procedimento di identificazione del DNA della persona attraverso i campioni di materiale genetico repertati mediante rilievi tecnici comporta lo svolgimento di attività qualificabili come ripetibili o irripetibili a seconda che, sulla base di una valutazione di natura esclusivamente tecnico- fattuale, comporti la distruzione o il grave deterioramento dei campioni utilizzati.

In particolare, il procedimento di identificazione del DNA della persona attraverso l'utilizzo del profilo genetico si articola in fasi distinte, rispettivamente costituite dall'estrapolazione del profilo genetico presente sui reperti; dalla decodificazione dell'impronta genetica dell'indagato; dalla comparazione tra i due profili. Delle tre operazioni necessarie per giungere all'identificazione profili di irripetibilità possono eventualmente rinvenirsi soltanto nella prima e risiedere sia nella scarsa quantità della traccia genetica, sia nella scadente qualità del DNA presente nella stessa.

La natura irripetibile dell'accertamento tecnico che conduce all'estrapolazione del profilo genetico presente su reperti sequestrati deve essere accertata in concreto, dipendendo dalla quantità della traccia e dalla qualità del DNA sulla stessa presente: in tema di accertamenti tecnici su materiale biologico, l'attività di comparazione tra profili genetici estratti dai reperti e riversati in supporti documentali è una operazione di confronto sempre ripetibile, a condizione che sia assicurata la corretta conservazione degli stessi supporti sui quali sono impresse le impronte genetiche,

Nell'ipotesi in cui l'espletamento degli accertamenti tecnici sul DNA comporti la distruzione dei reperti acquisiti attraverso i rilievi tecnici, tali accertamenti devono ritenersi irripetibili e soggiacciono, sotto il profilo delle garanzie difensive, alla disciplina dell'art. 360 cod. proc. pen., la cui applicazione presuppone l'individuazione di un soggetto indagato, con la conseguenza che i risultati di tali attività sono utilizzabili nei confronti di soggetti che al momento del conferimento dell'incarico non erano ancora indagati per assenza di elementi indiziari a carico.

Il prelievo di tracce biologiche su un oggetto rinvenuto nel luogo del commesso reato e le successive analisi dei polimorfismi del DNA, per l'individuazione del profilo genetico per eventuali confronti, sono utilizzabili se non sia stato possibile osservare, in quanto l'indagine preliminare si svolgeva contro ignoti, le garanzie di partecipazione difensiva previste per gli accertamenti tecnici irripetibili compiuti dal pubblico ministero.

La violazione delle prescrizioni da osservare nella formazione dei fascicoli processuali (nella specie la numerazione delle singole pagine e la predisposizione di un indice) non è causa di nullità degli atti.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

(ud. 25/02/2015) 30-04-2015, n. 18246

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CORTESE Arturo - Presidente -

Dott. NOVIK Adet Toni - Consigliere -

Dott. BONITO F. M. S. - Consigliere -

Dott. MAZZEI Antonella P. - Consigliere -

Dott. CENTONZE Alessand - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

Sul ricorso proposto da:

1) B.M.G., nato il (OMISSIS);

Avverso l'ordinanza n. 397/2014 emessa il 14/10/2014 dal Tribunale del riesame di Brescia;

Udita la relazione svolta in pubblica udienza dal Consigliere dott. Alessandro Centonze;

Udito il Procuratore generale, in persona del dott. Cedrangolo Oscar, che ha concluso chiedendo il rigetto del ricorso;

Udito per l'indagato l'avv. SC.

Svolgimento del processo

1. Con ordinanza emessa il 14/10/2014 il Tribunale del riesame di Brescia, pronunciandosi ai sensi dell'art. 310 cod. proc. pen., rigettava l'appello proposto nei confronti dell'ordinanza emessa il 15/09/2014 dal Giudice per le indagini preliminari presso il Tribunale di Bergamo, con la quale era stata rigettata l'istanza di revoca o in subordine di sostituzione con gli arresti domiciliari dell'ordinanza di custodia cautelare applicata a B.M. G. dallo stesso giudice il 19/06/2014.

All'indagato, in particolare, si era contestata, ai sensi dell'art. 61 c.p., nn. 4 e 5, art. 575 c.p., art. 577 c.p., comma 1, n. 4, in relazione all'art. 61 c.p., n. 4, di avere cagionato la morte della tredicenne G.Y., colpendola con pugni o corpi contundenti al capo e con uno strumento da taglio e uno da punta e taglio in diverse regioni del corpo, abbandonandola infine agonizzante in un campo isolato e causandone in tal modo la morte.

L'ipotesi delittuosa contestata all'indagato risultava aggravata dall'avere adoperato sevizie nei confronti della vittima, dall'avere agito con crudeltà e dall'avere profittato di circostanze di tempo, di luogo e di persona tali da ostacolare la privata difesa.

I fatti di reato contestati erano stati commessi a (OMISSIS).

1.1. La scomparsa della vittima veniva denunciata il (OMISSIS), presso la Stazione dei carabinieri di Ponte San Pietro, dal padre G.F., che dichiarava che la figlia, il pomeriggio del giorno precedente, intorno alle ore 17.30, si era allontanata da casa per recarsi in un centro sportivo di (OMISSIS), dove frequentava un corso di ginnastica ritmica e, da quel momento, i genitori non avevano più sue notizie; in sede di denuncia il padre della vittima precisava anche che, la sera prima, intorno alle ore 20, la moglie aveva già contattato i carabinieri, allertandoli.

Le ricerche della vittima si concludevano il 26/02/2011, quando il suo corpo privo di vita veniva trovato, in evidente stato di decomposizione, all'interno di un campo incolto di (OMISSIS).

Nell'immediatezza del rinvenimento veniva eseguita l'analisi medico- legale del cadavere da parte della dott.ssa C.C. e del dott. T.L., che consentiva di individuare l'epoca della morte a poche ore dalla sua scomparsa, in un arco temporale compreso tra le ore 19 e le ore 24 della stessa giornata.

In questa iniziale cornice investigativa, nell'ordinanza impugnata, innanzitutto, si esaminavano i gravi indizi di colpevolezza raccolti nei confronti dell'indagato, eminentemente costituiti dalle indagini tecnico-scientifiche effettuate sul cadavere della vittima, sul quale venivano rinvenute tracce biologiche e altri reperti microscopici, tra i quali alcune particelle di calce e delle sfere di ferro-cromo- nichel.

Nel corso delle indagini preliminari, sulla base del materiale biologico repertato su due indumenti rinvenuti sul corpo della vittima - gli slip e i leggins - si isolavano alcune tracce ematiche con profilo genotipico maschile, che veniva denominato convenzionalmente dagli investigatori "(OMISSIS)". Tali tracce, in particolare, erano localizzate, quanto agli slip, nell'area più vicina al margine destro che era stato reciso con un'arma da taglio e, quanto ai leggins, in una zona immediatamente soprastante e corrispondente.

A seguito del rinvenimento di tali tracce ematiche, definite dagli investigatori "straordinariamente di ottima qualità", venivano acquisiti campioni di materiale biologico di migliaia di cittadini residenti nel bergamasco, dai quali si estrapolava il DNA, fino a risalire a un soggetto, Gu.Da., appartenente allo stesso ceppo familiare dell'indagato. Ulteriori approfondimenti consentivano di appurare che il profilo genotipico maschile di "(OMISSIS)" discendeva, per parte di padre, da Gu.Gi.

B., deceduto il (OMISSIS), i cui due figli legittimi non erano congruenti rispetto al predetto profilo.

Gli sforzi investigativi, quindi, si concentravano sulle donne originarie del paese del Gu., (OMISSIS), che nel frattempo si erano trasferite nella zona dell'Isola Bergamasca, fino a quando, dopo numerosi confronti, si arrivava alla conclusione che il soggetto al quale apparteneva il profilo genotipico maschile di "(OMISSIS)" discendeva, per parte di madre, da A.E..

La A., a sua volta, risultava madre di tre figli, tra cui l'indagato B.M.G., il quale, in data (OMISSIS), veniva sottoposto ad alcool test, con il prelievo di un campione di sostanza organica rimasta sul boccaglio, il cui profilo genotipico veniva comparato con esito positivo con quello corrispondente al profilo genotipico maschile di "(OMISSIS)".

Nell'ordinanza si evidenziava ulteriormente che, secondo quanto esplicitato nel provvedimento genetico, il corpo e alcuni indumenti della vittima riportavano polveri riconducibili a calce, dovuti alla permanenza della vittima in un ambiente saturo di tali sostanze o comunque al contatto con parti anatomiche o vestiti impregnati delle stesse sostanze.

Tale elemento indiziario veniva ritenuto particolarmente pregnante, in quanto il B., dal 2001, risultava titolare di un'impresa edile non specializzata, che facevano ipotizzare agli investigatori che le tracce trovate sul corpo della vittima conseguissero a un contatto ravvicinato con l'indagato, anche perchè era stato escluso che le particelle rinvenute derivassero da altri contesti ambientali frequentati dalla persona offesa.

Questo elemento indiziario veniva correlato alla presenza del B., il giorno della scomparsa di G.Y., in una zona compatibile a quella nella quale si trovava la vittima. Tale elemento, in particolare, conseguiva al fatto che, il (OMISSIS), l'utenza cellulare numero (OMISSIS) utilizzata dall'indagato, agganciava la cella telematica di via (OMISSIS); dopo tale aggancio e fino alle successive ore (OMISSIS) l'utenza cellulare del B. non produceva ulteriore traffico telefonico.

Nell'ordinanza, inoltre, si segnalava, un ulteriore elemento indiziario, costituito dall'audizione del fratello minore della vittima, il quale, sentito il 19/07/2012, riferiva che la sorella gli aveva confidato di avere paura di un signore con una macchina grigia lunga che andava piano e la guardava male quando lei andava in palestra e tornava a casa. Tali indicazioni venivano ritenute compatibili sia con i connotati fisici del B., siccome risultanti dal suo profilo facebook, sia dall'autovetture Volvo V40 di colore grigio che l'indagato utilizzava all'epoca dei fatti.

In sede di convalida dell'arresto, il B. veniva sottoposto a interrogatorio, negando di avere commesso il delitto contestatogli e spiegando che, il (OMISSIS) presso il cantiere edile del cognato, dal quale, nel pomeriggio dello stesso giorno, stava tornando a casa; durante tale percorso era possibile che, alle ore 17.45, avesse utilizzato il suo apparecchio cellulare; affermava di ricordare tali particolari perchè conduceva una vita ripetitiva; negava, in ogni caso, di avere mai conosciuto G. Y..

1.2. Quanto alle doglianze difensive, nell'ordinanza impugnata, si esaminavano preliminarmente le nullità rituali dedotte dalla difesa del B., riguardanti due differenti questioni processuali.

Si censurava, innanzitutto, la decisione del pubblico ministero di conferire l'incarico al R.I.S. dei Carabinieri di Parma con delega di indagine alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 370 cod. proc. pen. anzichè con nomina di consulenti tecnici, nelle forme dell'art. 359 cod. proc. o dell'art. 360 cod. proc. pen., con l'omesso avviso ai difensore dell'unico indagato dell'epoca, F.M., pregiudicato nelle sue prerogative processuali.

In ordine a tale censura, si rilevava che la delega di indagine, conferita il 27/02/2011 ex art. 370 cod. proc. pen., rientrava tra le prerogative del pubblico ministero, rispetto alle quali nemmeno il F., all'epoca dei fatti l'unico indagato, poteva interloquire.

Si evidenziava, in ogni caso, che tale scelta processuale non era sindacabile a posteriori dal B., in quanto al momento del conferimento dell'indagine tecnica ai RIS nemmeno figurava tra gli indagati, sicchè non può lamentarsi di aver subito alcun pregiudizio.

Ne discendeva che dovevano ritenersi validamente eseguite le attività tecniche compiute dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma, con la conseguenza di ritenere integralmente utilizzabili gli esiti di tali verifiche, compendiati nella relazione conclusiva del 06/12/2013.

La difesa del B., inoltre, deduceva un'altra questione rituale, afferente all'inosservanza del D.M. 30 settembre 1989, n. 334, art. 3, comma 2, collegata alla parzialità dell'indicizzazione degli atti processuali, a proposito della quale evidenziava come tali omissioni avessero pregiudicato la possibilità di un'agevole consultazione del materiale probatorio acquisito nel corso delle indagini preliminari da parte dei difensori dell'indagato.

Tale questione rituale veniva ritenuta insussistente dal giudice del gravame, che rilevava come la norma richiamata in materia di indicizzazione degli atti processuali aveva natura regolamentare, con la conseguenza che la sua inosservanza non era sanzionata. Ne conseguiva che, in ossequio al principio di tassatività consacrato dall'art. 177 cod. proc. pen., eventuali violazioni di tale disposizione restavano senza conseguenze.

1.3. Dopo avere affrontato le questioni rituali che si sono esposte, il Tribunale del riesame di Brescia passava a esaminare i gravi indizi di colpevolezza da cui risultava raggiunto il B., in relazione ai quali si esprimeva un giudizio confermativo.

Si rilevava, innanzitutto, che non era possibile dubitare dell'attribuzione al B. dell'omicidio di G.Y., tenuto conto delle risultanze, evidenziate a suo carico nel provvedimento cautelare genetico.

Si rilevava, in particolare, che gli accertamenti tecnici del R.I.S. dei Carabinieri di Parma avevano consentito l'individuazione di materiale biologico diffuso sugli slip e sui leggins indossati dalla vittima riconducibile al B., attraverso un procedimento di verifica metodologicamente corretto, condotto sui due indumenti. Si era, in tal modo, riusciti a isolare, attraverso dodici prelievi, una diffusa presenza di materiale biologico di un individuo di sesso maschile, certamente riconducibile al B. e commisto al DNA della persona offesa, tanto sugli slip quanto sui leggins indossati dalla vittima, con particolare riferimento all'area anteriore destra dei lembi sottoposti a verifica.

Il profilo genetico maschile estrapolato dai due reperti era lo stesso del profilo di "(OMISSIS)" e apparteneva all'indagato B.M.G..

Sul punto, in replica alle note della difesa, che prospettava la possibilità che l'azione di agenti atmosferici o ulteriori fattori avessero determinato un "falso negativo", il giudice del gravame, nelle pagine 15 e 16, richiamava la parte conclusiva della relazione del R.I.S. dei Carabinieri di Parma del 10/12/2012, in cui si osservava che le ultime considerazioni in ordine alla quantità di DNA maschile, soprattutto in alcuni prelievi, portano a escludere che la presenza di (OMISSIS) sugli slip e sui leggins sia dovuta ad un fugace maneggiamento degli indumenti; appare invece analiticamente confortata l'evidenza che a produrre tracce sia stata un fluido abbondantemente cellularizzato e non compatibile con altre sostanze organiche notoriamente poco ricche di DNA ...

Tale ricostruzione scientifica veniva avvalorata dalla "abbondanza del materiale genetico" repertato, che, anche tenendo conto della decomposizione cadaverica intervenuta al momento del rinvenimento del corpo della persona offesa e dell'intervento di eventuali fattori atmosferici, non consentivano di dubitare della riconducibilità del materiale genetico estratto dai due indumenti della vittima al profilo di "(OMISSIS)", certamente corrispondente a quello del B.. Nell'ordinanza, in particolare, ci si soffermava sul dato ponderale relativo al materiale genetico estratto dai predetti indumenti, richiamando le tabelle allegate alla relazione del R.I.S. dei Carabinieri di Parma, che evidenziavano a pagina 212 i prelievi eseguiti sugli slip e a pagina 267 i prelievi eseguiti sui leggins, evidenziando che, attraverso tali verifiche, ripetute nel tempo, era stato possibile effettuare la tipizzazione di tutti i 21 marcatori STR autosomici necessari per la comparazione dei singoli individui.

Tale certezza, infine, veniva ricavata dalla relazione del Dipartimento di salute pubblica di Pavia del 16/06/2014, redatta dal dott. P.C. e dalla dott.ssa Gr.Pi., richiamata a pagina 17 dell'ordinanza impugnata, in cui si affermava la piena compatibilità genetica tra il profilo genotipico del soggetto maschile definito "(OMISSIS)" e quello ricavato dal campione di materiale biologico prelevato all'indagato il 15/06/2014.

Sulla scorta di tali elementi, in ordine al percorso scientifico attraverso cui si era giunti all'identificazione del B., il Tribunale del riesame di Brescia, a pagina 17 dell'ordinanza, rilevava: Perciò, nell'impossibilità di disattendere tali risultanze, assodate allo stato degli atti, si ribadisce l'appartenenza al prevenuto dei materiali biologici (siano essi sangue, per cui propende la relazione dei RIS, o altri liquidi repertati sul cadavere di G.Y..

Nell'ordinanza impugnata, quindi, si prendevano in considerazione le giustificazioni addotte dal B., anzitutto riguardanti la circostanza che non si sarebbe mai recato presso il campo di (OMISSIS) dove era stato rinvenuto il cadavere di G.Y..

L'indagato, inoltre, evidenziava di non conoscere la vittima e di non avere mai intrattenuto rapporti, anche solo occasionali, con la persona offesa.

L'indagato ipotizzava ulteriormente una simulazione della sua presenza nei luoghi del ritrovamento del cadavere, con il deposito, a tali scopi, del suo sangue sul cadavere della vittima.

Su ciascuno di tali argomenti difensivi, il giudice del gravame si soffermava, nelle pagine 17 e 18, confutandoli sulla base di un giudizio di resistenza di logica, sul presupposto dell'individuazione del B. attraverso il percorso scientifico che si è richiamato.

Nell'ordinanza si esaminavano anche gli esiti della consulenza tecnica genetico-forense della dott.ssa C., che esaminava le tracce delle polveri rinvenute sul cadavere della vittima, ritenute compatibili con quelle rinvenute nel cantiere di (OMISSIS). In relazione a tali profili difensivi, il giudice del gravame, riteneva che tali tracce, sotto il profilo indiziario, costituivano una generica conferma dell'ipotesi accusatoria, assumendo, come osservato a pagina 18, un significato generico di conferma dell'elemento principale, costituito dalle tracce biologiche sopra considerate.

Tuttavia, il rintraccio delle polveri, in quanto tale, non possedeva carattere individualizzante rispetto al B., essendo indubbio che il cantiere di (OMISSIS) era solo il possibile luogo di origine delle particelle rinvenute sul cadavere della vittima, dove comunque la persona offesa poteva essere stata condotta da chiunque, anche da un soggetto che non svolgeva alcuna attività edilizia. Ne conseguiva la neutralità di tale elemento, atteso che, se era vero che la professione dell'indagato era compatibile con l'origine di quei materiali, era parimenti vero che non vi era alcuna certezza che tale professione costituisse la fonte di tali tracce.

Rilevanza neutrale possedevano anche i dati provenienti dai tabulati telefonici acquisiti nel corso delle indagini, esaminati a pagina 19 dell'ordinanza, che attestavano che, il giorno del delitto, il B. gravitava nelle vicinanza dei luoghi frequentati dalla vittima quando era ancora in vita.

Veniva, infine, ridotta la portata delle dichiarazioni rese dal fratello della vittima il 19/07/2012, su cui ci si soffermava a pagina 20 dell'ordinanza in esame, in ordine all'esistenza di un soggetto che aveva seguito, a bordo della sua autovettura, la vittima, atteso che, per un verso, la descrizione fisica di tale soggetto non corrispondeva ai connotati del B., per altro verso, il fratello della persona offesa aveva riferito che la sorella gli aveva indicato tale individuo una domenica mentre erano a messa, ma non risultava che l'indagato avesse mai frequentato la parrocchia frequentata dalla famiglia G..

In questa cornice indiziaria, si rilevava ulteriormente la sussistenza del pericolo di recidiva nel reato, come conseguenza delle modalità particolarmente cruente di commissione del delitto, le quali si innestavano su un ulteriore profilo valutativo costituito dall'indifferenza alla sorte della vittima, abbandonata senza scrupoli nello sterrato di (OMISSIS) dove decedeva per le ferite riportate e per l'esposizione ipotermica.

Si ritenevano, infine, irrilevanti, le condizioni di vita dell'indagato, avvalorate dai riferimenti sociali, familiari e professionali forniti dalla sua difesa, atteso che il contesto ambientale di riferimento costituiva un indice della mancanza di freni inibitori, che evidenziava l'assenza di autocontrollo emotivo e il pericolo che, se rimesso in libertà, il B. avrebbe potuto aggredire altre giovani con la medesima disinvoltura criminale mostrata nel caso in esame.

Tali elementi rendevano evidente l'inadeguatezza della misura cautelare degli arresti domiciliari richiesti in favore del B., che non fornivano garanzie idonee in ordine all'osservanza dei limiti restrittivi che si imponevano nei suoi confronti, attesa la peculiarità della vicenda delittuosa.

Il compendio indiziario esaminato induceva il Tribunale del riesame di Brescia a rigettare l'appello presentato nell'interesse dell'indagato.

2. Avverso tale ordinanza l'indagato B.M.G., a mezzo dell'avv. CS, ricorreva per cassazione, eccependo quattro motivi di ricorso.

2.1. Quale primo motivo di ricorso la difesa dell'indagato eccepiva la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità assoluta, da parte del provvedimento impugnato, con riferimento all'art. 179 c.p.p., comma 2, artt. 370, 360 cod. proc. pen..

Si deduceva, in particolare, che, in sede di appello, la difesa del B. aveva eccepito preliminarmente l'esistenza di vizi procedurali insanabili attinenti alle indagini eseguite dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma e alle consequenziali risultanze investigative, trasfuse nella relazione del 10/12/2012. Tali patologie processuali conseguivano al fatto che le verifiche genetiche venivano eseguite mediante il conferimento di una delega di indagine ex art. 370 cod. proc. pen., a fronte della necessità di compiere accertamenti tecnici irripetibili ai sensi dell'art. 360 cod. proc. pen., che si imponevano sulla scorta di quanto specificato a pagina 3 della richiamata relazione, anche attesa la presenza di un indagato, F.M., che veniva irrimediabilmente pregiudicato nelle sue prerogative processuali dall'erronea scelta processuale del pubblico ministero.

In questi termini, si riteneva evidente la violazione del dettato normativo dell'art. 360 cod. pen., essendo il pubblico ministero pervenuto ai suddetti accertamenti tecnici in palese violazione di legge, avendo adottato un procedimento, quello per delega dalla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 370 cod. proc. pen., assolutamente illegittimo per l'espletamento delle predette incombenze processuali, afferenti ad atti irripetibili.

Dalla violazione evidenziata discendeva una nullità assoluta della relazione del 10/12/2012, rilevante ex art. 179 cod. proc. pen., cui si riconnetteva la nullità consequenziale degli atti successivi e funzionalmente collegati.

In via subordinata, la difesa del ricorrente chiedeva che gli atti richiamati fossero dichiarati inutilizzabili ai sensi dell'art. 191 cod. proc. pen., in quanto compiuti all'esito di un'attività d'indagine espletata in violazione di legge.

2.2. Quale secondo motivo di ricorso si eccepiva la mancanza, la contraddittorietà o la manifesta illogicità della motivazione dell'ordinanza impugnata ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all'eccezione di nullità ai sensi dell'art. 179 cod. proc. pen. degli accertamenti compiuti dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma.

Tale doglianza difensiva era connessa a quella esaminata nel punto che precede, riguardando la mancanza di motivazione dell'ordinanza impugnata in ordine alla nullità degli accertamenti svolti dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma, in relazione ai quali, il passaggio contenuto nelle pagine 12-13 non poteva ritenersi esaustivo. Infatti, pur avendo il giudice del riesame evidenziato, nel passaggio contenuto a pagina 11 dell'ordinanza in esame, che era indispensabile esaminare preliminarmente le doglianze di nullità di rito, non procedeva ad alcun esame di tali censure, eludendole nella sostanza.

A prescindere dai richiamati profili, si evidenziava che l'ordinanza impugnata si presentava comunque contraddittoria nell'inquadramento degli artt. 360 e 370 cod. proc. pen., la cui differenziazione si imponeva nel caso di specie, pur essendo stata disattesa dal giudice del gravame.

Si evidenziava, in particolare, che il provvedimento impugnato, per un verso, richiamando gli artt. 360 e 370 cod. proc. pen., riconosceva la disciplina sottesa alle due disposizioni come riferibile a distinti atti processuali, per altro verso, attribuiva alla pubblica accusa, a fronte di tale premessa, la facoltà di scegliere liberamente il percorso processuale da seguire in presenza di accertamenti tecnici irripetibili.

Nè poteva ipotizzarsi una soluzione processuale differente, in ragione del fatto che l'art. 370 cod. proc. pen. è utilizzabile esclusivamente per i rilievi tecnici e non certamente, come nel caso in esame, per gli accertamenti tecnici irripetibili, con la conseguenza ulteriore che non poteva riconoscersi al pubblico ministero alcuna facoltà di scelta della strada da percorrere allo scopo di perseguire i suoi obiettivi, violando disposizioni poste a presidio di insostituibili garanzie difensive. Non era, in ogni caso, ipotizzabile che dalla scelta discrezionale del pubblico ministero potevano discendere conseguenze sfavorevoli per l'indagato, nei cui confronti venivano utilizzati elementi indiziari, nonostante la violazione delle sue irrinunciabili garanzie difensive.

2.3. Quale terzo motivo di ricorso si eccepiva la manifesta illogicità del provvedimento impugnato ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all'art. 274 c.p.p., art. 275 c.p.p., comma 3, cui si collegava la violazione del combinato disposto dell'art. 274 c.p.p., art. 275 c.p.p., comma 3.

Si deduceva, in tale ambito, che il complesso motivazionale relativo alle esigenze cautelari ricorrenti con riferimento alla posizione del B., esplicitato nelle pagine 21 e 22 dell'ordinanza, rendeva evidente le discrasie argomentative, alla luce dei principi enunciati dalla sentenza della Corte costituzionale 12 maggio 2011, n. 164 in relazione all'art. 275 c.p.p., comma 3. Infatti, anche in ambito omicidiario, dovevano essere acquisiti elementi specifici dai quali ricavare che le esigenze cautelari non potevano essere soddisfatte da misure restrittive diverse da quella carceraria.

In questa cornice, che la difesa del ricorrente analizzava mediante appropriati richiami testuali dell'ordinanza, si evidenziava che il giudice del gravame errava nella valutazione dei presupposti cautelari, in ragione del fatto che le modalità e la gravità del fatto di reato potevano ritenersi sufficienti a consentire l'emissione di un provvedimento cautelare carcerario, ma a condizione di essere correlati con ulteriori elementi sintomatici, costituiti da condotte non occasionali, professionalità nel reato, personalità del soggetto indagato.

Tuttavia, a fronte di tali incontrovertibili premesse sistematiche, il tribunale del riesame valutava le modalità di estrinsecazione del fatto e la sua gravità in modo statico e astratto, senza rispettare i canoni ermeneutici stabiliti dalla giurisprudenza di legittimità.

Veniva, in questo modo, evidenziata l'incongruità dell'affermazione, contenuta a pagina 22 del provvedimento impugnato, secondo cui gli arresti domiciliari richiesti dalla difesa del B. costituivano una misura inadeguata per l'indole altamente trasgressiva del prevenuto, in assenza di un'effettiva analisi psicologica e caratteriale del prevenuto, con la conseguenza di dare vita un'inammissibile circolante della motivazione.

Si evidenziava, ulteriormente, che la stessa Corte di Giustizia, con riferimento all'art. 5, par. 3, CEDU, aveva affermato che la custodia cautelare in carcere deve essere considerata la soluzione estrema, giustificabile solo quando tutte le altre opzioni disponibili si rivelano insufficienti, con la conseguenza che, in tale prospettiva, neppure l'omicidio volontario rientra tra quei delitti la cui pericolosità sociale è talmente forte da giustificare una sorta di presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere.

Su tale ultimo passaggio del terzo motivo di ricorso la difesa del B. rappresentava ulteriormente l'esistenza di un contrasto giurisprudenziale, sul quale si chiedeva la rimessione degli atti alle Sezioni unite, nei termini esplicitati nelle pagine 28-30 del ricorso.

2.4. Quale quarto motivo di ricorso si eccepiva la manifesta illogicità ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), della motivazione dell'ordinanza impugnata in relazione all'eccezione di nullità ex art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b), relativa al fascicolo del pubblico ministero.

A tale doglianza difensiva, innanzitutto, si collegava la violazione di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, con riferimento al D.M. n. 334 del 1989, art. 3, comma 2, e all'art. 24 Cost., comma 2.

A tale doglianza, inoltre, si collegava la mancanza assoluta di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all'eccezione di illegittimità del fascicolo e alla pretesa declaratoria di omesso deposito ai sensi del D.M. n. 334 del 1989, art. 3, comma 2.

Si deduceva, in particolare, che il fascicolo processuale risultava composto da quattro faldoni, la cui documentazione non era elencata secondo l'ordine cronologico di acquisizione e non conteneva una numerazione completa degli atti, tanto da avere indotto il giudice coordinatore della sezione del riesame procedente a segnalare, con nota del 30/09/2014, che l'indice allegato che non rende edotti sul contenuto del fascicolo, e pertanto non consente la consultazione al Tribunale come alle parti.

Ne conseguiva che la consistenza del fascicolo processuale e le modalità dell'elencazione degli atti si risolveva in un generico richiamo agli stessi, senza alcun ordine logico, che determinava, come esplicitato nella pagina 31 del ricorso, l'impossibilità per la difesa di pervenire ad un esatto rinvenimento nel carteggio di atti riguardanti la posizione dell'indagato.

Su questo profilo, in sede di appello, la difesa del B. aveva eccepito la nullità della documentazione prodotta ex art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b), o, in subordine, l'inutilizzabilità degli atti e dei documenti acquisiti.

A fronte di tali eccezioni, il giudice del gravame si limitava ad affermare, a pagina 13 del provvedimento impugnato, che il D.M. n. 334 del 1989, art. 3, comma 2, non prevedeva alcuna sanzione per le ipotesi di incompleta o inadeguata composizione del fascicolo processuale, non tenendo conto della nota del 30/09/2014, sopra richiamata, con la quale si segnalavano le difficoltà di consultazione del fascicolo.

Si evidenziava, in proposito, che, in un primo momento, il coordinatore della sezione del riesame aveva rilevato l'incompletezza del fascicolo processuale, imponendo un intervento correttivo del pubblico ministero, disattendendo, però, in sede processuale, le argomentazioni difensive fondate sulle stesse ragioni giuridiche.

Tali considerazioni imponevano l'annullamento dell'ordinanza impugnata.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è infondato.

Quanto al primo motivo di ricorso, con cui si eccepiva la violazione di norme processuali stabilite a pena di nullità assoluta da parte dell'ordinanza impugnata, con specifico riferimento all'art. 179 c.p.p., comma 2, artt. 370 e 360 cod. proc. pen., se ne deve rilevare l'infondatezza.

Si deduceva, in tale ambito che il giudice del gravame aveva disatteso l'eccezione preliminare relativa all'esistenza di vizi procedurali insanabili attinenti alle indagini delegate dal pubblico ministero al R.I.S. dei Carabinieri di Parma, trasfuse nella relazione del 10/12/2012, conseguenti al fatto che tali accertamenti, funzionali all'identificazione del DNA repertato sugli indumenti di G.Y., erano stati compiuti in seguito alla delega di indagine ex art. 370 cod. proc. pen. conferita il 27/02/2011 e non già mediante lo strumento processuale degli accertamenti tecnici irripetibili previsto dall'art. 360 cod. proc. pen..

In ordine a questa doglianza difensiva il Tribunale del riesame di Brescia, nelle pagine 12 e 13 dell'ordinanza impugnata, evidenziava che il conferimento di una delega alla polizia giudiziaria rientra tra le prerogative insindacabili del pubblico ministero, rispetto alle quali nemmeno F.M., l'unico soggetto indagato all'epoca del conferimento medesimo, avrebbe potuto interloquire processualmente. A maggior ragione, come precisato a pagina 12, tale questione processuale poteva rilevare con riferimento alla posizione del B., in considerazione del fatto che al momento del conferimento dell'indagine tecnica ai RIS nemmeno figurava tra gli indagati, sicchè non può lamentarsi di avere subito alcun pregiudizio.

Deve, in proposito, rilevarsi che la questione ermeneutica sottesa al primo motivo di ricorso deve essere affrontata distinguendo preliminarmente tra rilievi tecnici e accertamenti tecnici e, all'interno di questi ultimi, tra accertamenti tecnici ripetibili e accertamenti tecnici irripetibili, conformemente alle previsioni degli artt. 359 e 360 cod. proc. pen. Infatti, solo dopo avere eseguito una ricognizione della disciplina relativa a tali atti processuali e delle connesse garanzie difensive, è possibile valutare la normativa applicabile alle verifiche eseguite dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma sui campioni di materiale genetico prelevati sul cadavere della vittima.

In tale ambito, tenuto conto della fase delle indagini preliminari in cui ci si trova, alla quale occorre limitare il giudizio di utilizzabilità degli atti censurati, occorre evidenziare che il rilievo tecnico consiste nell'attività di raccolta di elementi attinenti al reato per il quale si procede, mentre l'accertamento tecnico, ripetibile o irripetibile, si estende al loro studio e alla loro valutazione critica, secondo canoni tecnici, scientifici ed ermeneutici (cfr. Sez. 2, n. 34149 del 10/07/2009, dep. 04/09/2009, Chiesa e altro, Rv. 244950).

In questo contesto, i prelievi sul DNA, attraverso il sequestro di oggetti contenenti residui organici, qualificabili come rilievi tecnici e delegabili ex art. 370 cod. proc. pen., non sono atti invasivi o costrittivi, essendo semplicemente prodromici all'effettuazione di successivi accertamenti tecnici - ripetibili o irripetibili - e non richiedendo conseguentemente l'osservanza di garanzie difensive (cfr. Sez. 1, n. 8393 del 02/02/2005, dep. 03/03/2005, Candela e altro, Rv. 233448).

Diverso, invece, è il procedimento di identificazione del DNA della persona attraverso i campioni di materiale genetico repertati mediante rilievi tecnici, il cui espletamento comporta lo svolgimento di attività qualificabili come ripetibili o irripetibili a seconda che, sulla base di una valutazione di natura esclusivamente tecnico- fattuale, comporti la distruzione o il grave deterioramento dei campioni utilizzati; ipotesi, quest'ultima che sembrerebbe riscontrabile nel caso in esame sulla scorta della documentazione richiamata dalla difesa del B. a pagina 3 del suo ricorso.

In particolare, il procedimento di identificazione del DNA della persona attraverso l'utilizzo del profilo genetico si articola in fasi distinte, rispettivamente costituite dall'estrapolazione del profilo genetico presente sui reperti; dalla decodificazione dell'impronta genetica dell'indagato; dalla comparazione tra i due profili. Delle tre operazioni necessarie per giungere all'identificazione profili di irripetibilità possono eventualmente rinvenirsi soltanto nella prima e risiedere sia nella scarsa quantità della traccia genetica, sia nella scadente qualità del DNA presente nella stessa (cfr. Sez. 2, n. 2476 del 27/112014, dep. 20/01/2014, Santangelo, Rv. 261866).

Infine, i risultati del procedimento attraverso il quale si giunge all'identificazione del DNA della persona viene trasposto in supporti documentali nei quali è riversata la composizione della catena genomica rilevata dall'analisi dei campioni di materiale genetico.

Questi supporti documentali, generalmente riversati su file, sono stabili e non modificabili, con la conseguenza che la comparazione genetica si risolve nel confronto dei supporti documentali su cui sono stati registrati i profili genotipici estratti attraverso l'attività tecnica.

Si può, dunque, affermare che la natura irripetibile dell'accertamento tecnico che conduce all'estrapolazione del profilo genetico presente su reperti sequestrati deve essere accertata in concreto, dipendendo dalla quantità della traccia e dalla qualità del DNA sulla stessa presente. Tali conclusioni risultano avvalorate dalla giurisprudenza di questa Corte che, da ultimo, ha affermato: In tema di accertamenti tecnici su materiale biologico, l'attività di comparazione tra profili genetici estratti dai reperti e riversati in supporti documentali è una operazione di confronto sempre ripetibile, a condizione che sia assicurata la corretta conservazione degli stessi supporti sui quali sono impresse le impronte genetiche (cfr. Sez. 2, n. 2476 del 27/112014, dep. 20/01/2014, Santangelo, Rv.261866).

Ne discende che nell'ipotesi in cui l'espletamento degli accertamenti tecnici sul DNA comporti la distruzione dei reperti acquisiti attraverso i rilievi tecnici, tali accertamenti devono ritenersi irripetibili e soggiacciono, sotto il profilo delle garanzie difensive, alla disciplina dell'art. 360 cod. proc. pen., la cui applicazione presuppone l'individuazione di un soggetto indagato, con la conseguenza che i risultati di tali attività sono utilizzabili nei confronti di soggetti che al momento del conferimento dell'incarico non erano ancora indagati per assenza di elementi indiziari a carico (cfr. Sez. 4, n. 36280 del 21/06/2012, dep. 20/09/2012, Forlani e altri, Rv. 253564).

In altri termini, laddove al momento dell'accertamento tecnico irripetibile si procede contro ignoti ovvero contro un soggetto diverso da quello successivamente indagato - come nell'ipotesi che si sta considerando - nessuna garanzia difensiva deve essere rispettata, non essendo stato identificato l'indagato eventualmente beneficiario delle garanzie previste dall'art. 360 cod. proc. pen. Tutto questo comporta l'utilizzabilità degli accertamenti tecnici irripetibili eseguiti, sul presupposto processuale che, al momento dell'incarico, non risultava indagato il soggetto poi divenuto tale.

Nel caso di specie, per quanto riguarda l'esame del DNA svolto dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma, è evidente che non essendo il B., al momento dell'espletamento di tale analisi, iscritto nel registro degli indagati di cui all'art. 335 cod. proc. pen., non si poteva avvisarlo, come rilevato dal giudice del gravame. Si deve, in proposito, rammentare che i rilievi tecnici sul cadavere di G.Y. venivano effettuati il (OMISSIS), mentre all'individuazione del B. si arrivava molto tempo dopo e attraverso complesse indagini, effettuate su un campione elevatissimo di popolazione bergamasca, tanto è vero che si prelevava il campione di materiale genetico dell'indagato solo il (OMISSIS), a seguito dell'alcool test al quale veniva sottoposto.

In definitiva, l'esame del DNA repertato sugli indumenti della vittima deve ritenersi legittimamente eseguito, come osservato dal giudice del gravame, il quale escludeva, nella pagina 12 dell'ordinanza impugnata, la violazione delle garanzie difensive previste dall'art. 360 cod. proc. pen., in quanto nessun obbligo era previsto per i difensori.

Queste considerazioni risultano in linea con quanto stabilito da questa Corte, secondo cui le garanzie difensive dettate a pena di inutilizzabilità, dall'art. 360 cod. proc. pen., riguardano solo gli accertamenti tecnici irripetibili, ossia quegli accertamenti che hanno a oggetto persone, cose, luoghi, soggetti a modificazioni tali da fare perdere loro, in tempi brevi, ogni valenza probatoria in relazione ai fatti oggetto di indagini. Ne consegue che qualora il pubblico ministero procede ad accertamenti tecnici irripetibili, sussiste l'obbligo di dare avviso al difensore solo se, al momento dell'incarico, era già stata individuata la persona nei cui confronti si procede; presupposto, questo, ricorrente nei confronti di F.M., ma insussistente nei confronti di B. M.G., conformemente al seguente principio: Qualora il P.M. debba procedere ad accertamenti tecnici non ripetibili previsti dall'art. 360 cod. proc. pen., ricorre l'obbligo dì dare l'avviso al difensore solo nel caso in cui al momento del conferimento dell'incarico al consulente sia già stata individuata la persona nei confronti della quale si procede, mentre tale obbligo non ricorre nel caso che la persona indagata sia stata individuata successivamente nel corso dell'espletamento delle operazioni peritali (cfr. Sez. 4, n. 20591 del 23/02/2010, dep. 01/06/2010, Colesanti e altro, Rv.

247327).

Non può, dunque, non ribadirsi conclusivamente che il prelievo di tracce biologiche sul cadavere di G.Y. e la successiva analisi del DNA, compiuta dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma, che consentiva l'identificazione di B.M.G., limitatamente alla fase cautelare sulla quale ci si deve pronunciare, sono utilizzabili nei suoi confronti, conformemente alla giurisprudenza di questa Corte, secondo cui: Il prelievo di tracce biologiche su un oggetto rinvenuto nel luogo del commesso reato e le successive analisi dei polimorfismi del DNA, per l'individuazione del profilo genetico per eventuali confronti, sono utilizzabili se non sia stato possibile osservare, in quanto l'indagine preliminare si svolgeva contro ignoti, le garanzie di partecipazione difensiva previste per gli accertamenti tecnici irripetibili compiuti dal pubblico ministero (cfr. Sez. 2, n. 37708 del 24/09/2008, dep. 03/10/2008, Vastante, Rv. 242094).

Tali ragioni impongono di ritenere infondato il primo motivo di ricorso.

2. Parimenti infondato deve ritenersi il secondo motivo di ricorso, relativo alla mancanza, alla contraddittorietà e alla manifesta illogicità della motivazione dell'ordinanza impugnata, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all'eccezione di nullità degli accertamenti compiuti dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma sollevata ex art. 179 cod. proc. pen..

Tale doglianza difensiva risultava connessa a quella esaminata nel paragrafo precedente, riguardando la motivazione dell'ordinanza impugnata in ordine alla nullità degli accertamenti svolti dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma, sulla quale il passaggio argomentativo contenuto nelle pagine 12 e 13 del provvedimento, non poteva ritenersi esaustivo.

Secondo la difesa del ricorrente, l'ordinanza risultava contraddittoria nell'inquadramento della disciplina applicabile al caso di specie, tenendo presenti i parametri normativi degli artt. 360 e 370 cod. proc. pen. Si evidenziava, infatti, che il provvedimento impugnato, pur richiamando la disciplina degli artt. 360 e 370 cod. proc. pen. ed evidenziandone le differenze applicative, attribuiva alla pubblica accusa la facoltà di scegliere liberamente quale percorso processuale seguire in presenza di accertamenti tecnici irripetibili.

Deve, in proposito, rilevarsi che sulla disciplina applicabile agli accertamenti tecnici eseguiti dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma sulle tracce biologiche rinvenute sul cadavere della vittima, ci si è già soffermati nel paragrafo precedente, al quale occorre rinviare. Sulla scorta di quanto già affermato occorre ribadire che la scelta processuale originariamente compiuta dal pubblico ministero non pregiudica i diritti di difesa del B., ai sensi dell'art. 360 cod. proc. pen., come affermato a pagina 12 del provvedimento in esame, perchè il ricorrente al momento del conferimento dell'indagine tecnica ai RIS nemmeno figurava tra gli indagati ....

A tali conclusioni il provvedimento impugnato giungeva con un percorso motivazionale logicamente coerente e immune da censure, affermando, a pagina 13, che non solo è perfettamente valida la complessa serie di attività compiute dal reparto specializzato dell'Arma dei Carabinieri, ma anche ne restano utilizzabili integralmente gli esiti, compendiati nella relazione conclusiva 6 dicembre 2012.

In questa cornice motivazionale, deve rilevarsi che l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo dell'ordinanza emessa dal Tribunale del riesame di Brescia, che viene richiesta con questo motivo di ricorso, ha un orizzonte necessariamente circoscritto, dovendo il sindacato demandato a questa Corte essere limitato, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un apparato argomentativo logico sui vari punti della decisione impugnata, senza la possibilità di verificare l'adeguatezza delle argomentazioni di cui il giudice di merito si è avvalso per sostanziare il suo convincimento o la loro rispondenza alle acquisizioni processuali, nel caso di specie riguardanti la legittimità delle verifiche eseguite dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma. Ne consegue che, laddove sia denunciato con ricorso per cassazione un vizio di motivazione di un provvedimento emesso dal giudice del gravame, a questa Corte spetta esclusivamente il compito di verificare, in relazione alla natura del giudizio di legittimità e ai limiti che vi ineriscono, se si sia dato conto delle ragioni poste a fondamento della decisione adottata, controllando la congruenza della motivazione - esplicitata nel nostro caso nelle pagine 12 e 13 dell'ordinanza impugnata - riguardante la valutazione degli elementi sottoposti alla sua cognizione, che devono essere apprezzati rispetto ai canoni della logica e ai principi che governano la valutazione delle risultanze processuali (cfr. Sez. un., n. 11 del 23/03/2000, dep. 02/05/2000, Audino, Rv. 215828).

In altri termini, la carenza e l'illogicità della motivazione, come vizi denunciabili davanti a questa Corte, devono essere evidenti ovvero di spessore tale da risultare immediatamente percepibili, dovendo il sindacato di legittimità al riguardo essere limitato a rilievi di macroscopica evidenza - insussistenti nel caso in esame attesa la correttezza dell'affermazione di utilizzabilità degli accertamenti tecnici eseguiti nei confronti del B. - restando ininfluenti le incongruenze logiche o giuridiche che non inficiano il tessuto argomentativo complessivo del provvedimento considerato (cfr.

Sez. un., n. 24 del 24/11/1999, dep. 16/12/1999, Spina, Rv. 214794).

In questo contesto non possono trovare accoglimento le prospettazioni difensive, laddove, come chiarito, il sindacato del giudice di legittimità sul discorso giustificativo del provvedimento impugnato deve ritenersi rigorosamente circoscritto a verificare che la pronuncia sia sorretta, nei suoi punti essenziali, da argomentazioni non viziate da evidenti errori nell'applicazione delle regole della logica, non fondate su dati palesemente contrastanti con le emergenze processuali ed esenti da vistose e insormontabili incongruenze tra di loro. Nel caso di specie, nessuna di tali incongruenze è riscontrabile nelle argomentazioni con cui il provvedimento impugnato riteneva utilizzabili i risultati degli accertamenti eseguiti dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma sulle tracce ematiche rinvenute sul cadavere della vittima, atteso che tale conclusione, sotto il profilo delle garanzie difensive connesse alle attività svolte, risultava confortata dalla giurisprudenza di legittimità consolidata, che impone di ritenere immune da censure - limitatamente alla posizione del B. - la soluzione adottata.

Occorre, infine, evidenziare l'irrilevanza, ai fini della valutazione dell'utilizzabilità in sede cautelare dei risultati delle verifiche genotipiche eseguite dal R.I.S. dei Carabinieri di Parma, del mancato ricorso da parte del pubblico ministero alla nomina diretta di un consulente tecnico ex art. 359 cod. proc. pen., potendo gli accertamenti tecnici svolti essere senz'altro oggetto di delega alla polizia giudiziaria ai sensi dell'art. 370 cod. proc. pen. (cfr.

Cass., Sez. 1, n. 301 del 09/02/1990, dep. 14/03/1990, Duraccio, Rv.

183648).

Sul punto, la giurisprudenza di legittimità non consente interpretazioni alternative, rilevando che tali accertamenti tecnici non comportano un nuovo accesso ai campioni genotipici e non comportano alcun rischio di dispersione che non sia riconducibile all'inadeguata conservazione dei reperti da parte della polizia giudiziaria. Si tratta, dunque, di un'attività analoga a quella della comparazione delle impronte papillari repertate sul luogo del delitto con quelle già in possesso della polizia giudiziaria, pacificamente delegabile ex art. 370 cod. proc. pen., come più volte ribadito da questa Corte (cfr. Sez. 5, n. 34685 dell'08/05/2008, dep. 09/05/2008, Catalano, Rv. 241547).

Ne discende conclusivamente che esulano da tale situazione processuale le garanzie difensive di cui all'art. 356 cod. proc. pen., oltre che - per le ragioni già esposte - quelle di cui all'art. 360 cod. proc. pen., conformemente a quanto statuito da questa Corte.

Questi ragioni processuali impongono di ritenere infondato il secondo motivo di ricorso.

3. Deve ritenersi inammissibile il terzo motivo di ricorso, con cui si eccepiva la manifesta illogicità del provvedimento impugnato ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione alle esigenze cautelari, emergente dal combinato disposto dell'art. 274 c.p.p., art. 275 c.p.p., comma 3.

Si deduceva, in particolare, che il complesso motivazionale relativo alle esigenze cautelari ricorrenti con riferimento alla posizione del B., contenuto nelle pagine 21 e 22 dell'ordinanza impugnata, rendeva evidente le discrasie della sua struttura argomentativa, anche alla luce dei principi imposti dalla sentenza della Corte costituzionale 12 maggio 2011, n. 164 con riferimento alla previsione dell'art. 275 c.p.p., comma 3.

Nel nostro caso, la difesa del ricorrente contestava l'applicabilità al B. della presunzione assoluta di adeguatezza della custodia cautelare in carcere prevista dall'art. 275 c.p.p., comma 3, cui si collegava l'ulteriore censura collegata al permanere delle esigenze cautelari sottese a tale provvedimento restrittivo, che non erano state valutate adeguatamente nell'ordinanza impugnata.

Deve, innanzitutto, rilevarsi che la posizione del B. veniva correttamente vagliata nel paragrafo 6 dell'ordinanza genetica della misura cautelare, nel quale, conformemente alla previsione dell'art. 275 c.p.p., comma 3, si escludeva la ricorrenza di elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari.

Si riteneva, in particolare, sussistente l'esigenza cautelare di cui all'art. 274 c.p.p., lett. c), come specificato a pagina 10, tenuto conto della gravità intrinseca del fatto, connotato da efferata violenza e dalla personalità del B. dimostratosi capace di azioni di tale ferocia posta in essere nei confronti di una giovane ed inerme adolescente abbandonata in un campo incolto ove per le ferite e per ipotermia ha trovato la morte.

Nella stessa ordinanza, a pagina 10, si rilevava ulteriormente che il compendio indiziario complessivo imponeva di ritenere la misura cautelare in carcere l'unica adeguata alla salvaguardia delle esigenze di prevenzione speciale, dovendo contestualmente escludersi che le altre misure meno afflittive possano assicurare dal pericolo di recidiva.

In questa cornice processuale, l'ordinanza genetica della misura cautelare ha certamente soddisfatto i parametri enucleati dall'art. 275 c.p.p., comma 3, sotto il profilo della presunzione di adeguatezza, applicando la custodia in carcere nei confronti del B..

Quanto al differente profilo del periodo di vigenza di tale presunzione di adeguatezza, occorre richiamare l'intervento chiarificatore delle Sezioni unite, che hanno individuato i parametri ai quali occorre fare riferimento in materia di presunzione di adeguatezza della custodia in carcere, affermando, in ordine, il principio di diritto secondo cui: La presunzione di adeguatezza della custodia in carcere di cui all'art. 275 c.p.p., comma 3, opera non solo nel momento di adozione del provvedimento genetico della misura coercitiva ma anche nelle successive vicende che attengono alla permanenza delle esigenze cautelari (cfr. Sez. un., n. 34473 del 19/07/2012, dep. 10/09/2012, Lipari, Rv. 253186).

Nel valutare questo arresto giurisprudenziale occorre considerare che, in precedenza, le Sezioni unite erano intervenute sullo stesso tema, affrontando il problema dell'individuazione dei presupposti legittimanti la sostituzione della misura cautelare, tenuto conto dei parametri di cui all'art. 275 c.p.p., comma 3, affermando nella parte narrativa: Anche nel momento della sostituzione della misura cautelare giocano le presunzioni alle quali si è già fatto cenno nel considerare il momento genetico della misura cautelare: una diversa soluzione, evidentemente, renderebbe del tutto irrazionale il sistema. Tuttavia, in tale fase non possono operare presunzioni prima inesistenti (cfr. Sez. un., n. 27919 del 31/03/2011, dep. 14/07/2011, imp. P.M. in proc. Ambrogio, Rv. 250196).

In questa cornice ermeneutica, non v'è dubbio che il legislatore ha inteso attribuire alla presunzione dell'art. 275 c.p.p., comma 3, il carattere di eccezionalità com'è reso palese dall'elencazione specifica dei reati ai quali ha voluto ricollegare detta presunzione e dall'espressione residuale salvo che non siano acquisiti elementi dai quali risulti che non sussistono esigenze cautelari. Dunque, in deroga alla regola generale enunciata nel primo comma dello stesso articolo e al principio della custodia cautelare in carcere quale extrema ratio, il legislatore ha ritenuto, per determinati reati, specificamente indicati, di stabilire una presunzione di idoneità della più afflittiva delle misure.

Ne discende che l'interpretazione della disposizione non può che essere quella più rigorosa consentita dall'enunciato letterale, in stretta aderenza alla ratio normativa, ricercando un giusto contemperamento delle opposte esigenze del diritto alla libertà dell'indagato e della tutela della collettività.

Così ricostruita la disciplina applicabile con riferimento al principio di adeguatezza della custodia in carcere di cui all'art. 275 c.p.p., comma 3, non può ritenersi che l'ordinanza impugnata sia incorsa nel vizio eccepito, in ragione del fatto che la motivazione si sofferma adeguatamente su tale indispensabile profilo valutativo, con riferimento a una pluralità di parametri puntualmente enucleati, di cui valutava la ricorrenza tanto nella fase genetica della condizione restrittiva del B., quanto nello sviluppo ulteriore della sua posizione cautelare.

Nell'ordinanza impugnata, innanzitutto, a pagina 22, si rilevava che il B., a prescindere dalla sua condizione anagrafica di soggetto incensurato, poneva in essere una condotta criminale efferata, espressiva di una possibile ricaduta nel crimine, sintomatica di una personalità altamente trasgressiva.

Si rilevava, inoltre, che i riferimenti alla condizione familiare e sociale del ricorrente, nel caso di specie, erano irrilevanti rispetto a una vicenda delittuosa, le cui connotazioni di efferatezza inducevano a escludere che gli argomenti richiamati dalla difesa potessero costituire un ostacolo alla sua ricaduta nel crimine. Basti considerare, in proposito, il passaggio dell'ordinanza, contenuto a pagina 21, in cui si affermava che gli indicatori richiamati svelavano in modo evidente la sua mancanza di freni inibitori, in quanto pur godendo delle migliori condizioni per condurre un'esistenza nel rispetto della legge, non aveva remore nell'infierire su una minorenne indifesa.

Si rilevava, ancora, che le condotte intrinsecamente gravi del B., anche attesa la sua non giovane età, non consentivano di formulare un giudizio prognostico favorevole in ordine a una misura cautelare meno afflittiva di quella vigente, dovendosi in proposito richiamare il passaggio dell'ordinanza in cui, nella stessa pagina 22, si evidenziava l'insufficienza di misure non detentive, per gli amplissimi spazi di movimento sostanzialmente incontrollato che lasciano, grazie ai quali il ricorrente potrebbe cogliere la prima occasione per reiterare il reato.

In questa cornice processuale, nel caso di specie, la disciplina dell'art. 275 c.p.p., comma 3, deve ritenersi correttamente applicata nei confronti del B., proprio alla luce dell'interpretazione costituzionalmente orientata di tale disposizione fatta propria da questa Corte con gli arresti giurisprudenziali che si sono richiamati, in relazione ai quali non sussiste alcun contrasto, al contrario di quanto dedotto dal ricorrente.

Tali ragioni impongono di ritenere inammissibile il terzo motivo di ricorso.

4. Occorre, infine, esaminare il quarto motivo di ricorso, con cui si eccepiva la manifesta illogicità ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), della motivazione dell'ordinanza impugnata in relazione all'eccezione di nullità ex art. 178 c.p.p., comma 1, lett. b), relativa al fascicolo del pubblico ministero, evidenziandosene l'infondatezza.

A tale doglianza, secondo la difesa, si collegava la violazione di norme processuali stabilite a pena di inutilizzabilità, con riferimento al D.M. n. 334 del 1989, art. 3, comma 2, e all'art. 24 Cost., comma 2, cui si collegava la mancanza assoluta di motivazione ex art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), in relazione all'eccezione di illegittimità del fascicolo e alla pretesa declaratoria di omesso deposito ai sensi del D.M. n. 334 del 1989, art. 3, comma 2.

Si deduceva, in particolare, che il fascicolo processuale risultava composto da quattro faldoni, la cui documentazione non era elencata secondo l'ordine cronologico di acquisizione e non conteneva una numerazione completa degli atti. Tali irregolarità avevano indotto il giudice coordinatore della sezione del riesame a segnalare, con apposita nota del 30/09/2014, che l'indice allegato che si limitava a indicare il numero complessivo dell'affoliazione non rende edotti sul contenuto del fascicolo, e pertanto non consente la consultazione al Tribunale come alle parti.

Nel caso di specie, in particolare, si censurava il D.M. n. 334 del 1989, art. 3, comma 2 secondo cui: Il fascicolo deve contenere: a) l'indice degli atti e delle produzioni; b) l'elenco delle cose sequestrate; c) la distinta delle spese anticipate dall'erario, diverse da quelle per le quali è stabilito il recupero in misura fissa; d) la copia della sentenza o del decreto penale di condanna.

Tale questione rituale veniva ritenuta insussistente dal giudice del gravame, che rilevava, a pagina 13 dell'ordinanza, che il D.M. n. 334 del 1989, art. 3, comma 2, richiamato in materia di indicizzazione e numerazione degli atti processuali dalla difesa del ricorrente, possiede una natura meramente regolamentare, con la conseguenza che la sua inosservanza non deve ritenersi sanzionata da alcuna previsione di nullità. Ne conseguiva che, in ossequio al principio di tassatività consacrato dalla previsione dell'art. 177 cod. proc. pen., eventuali violazioni di tale disposizione restano senza conseguenze.

Sul punto, l'ordinanza impugnata, pur non soffermandosi diffusamente sul contrasto dedotto dalla difesa del B., emergente dallo stesso fascicolo processuale, per effetto della nota del 30/09/2014 che si è richiamata, forniva una risposta alle doglianze difensive sottese al quarto motivo di ricorso esaustiva e conforme alla giurisprudenza di questa Corte, la quale, nell'unico precedente riguardante l'applicazione del D.M. n. 334 del 1989, art. 3 affermava il seguente principio di diritto: La violazione delle prescrizioni da osservare nella formazione dei fascicoli processuali (nella specie la numerazione delle singole pagine e la predisposizione di un indice) non è causa di nullità degli atti (cfr. Sez. 3, n. 17195 del 25/03/2010, dep. 06/05/2010, P.M. in proc. Qiu, Rv 246986).

Occorre, infine, rilevare che l'eccezione difensiva proposta non coinvolge comunque un problema di inefficacia del provvedimento impugnato per mancata trasmissione degli atti processuali, anche perchè non si verte in tema di riesame ma di appello proposto nei confronti dell'ordinanza cautelare genetica. In ogni caso, riguardando il presente procedimento la richiesta di revoca del provvedimento restrittivo con conseguente appello ex art. 310 cod. proc. pen., ben avrebbe la difesa del B. potuto - e dovuto - chiedere per tempo di visionare ed estrarre copia integrale degli atti contenuti nel fascicolo del pubblico ministero, neutralizzando qualsiasi pregiudizio al pieno esercizio dei propri diritti.

Tali considerazioni impongono di ritenere infondato il quarto motivo di ricorso.

5. Per queste ragioni, il ricorso proposto nell'interesse di B.M.G. deve essere rigettato, con la sua condanna al pagamento delle spese processuali, cui consegue, a cura della cancelleria, la trasmissione di copia del provvedimento al direttore dell'istituto penitenziario, ai sensi dell'art. 94 disp. att. cod. proc. pen., comma 1 ter.

P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Dispone trasmettersi, a cura della cancelleria, copia del provvedimento al direttore dell'istituto penitenziario, ai sensi dell'art. 94 disp. att. c.p.c., comma 1 ter.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio, il 25 febbraio 2015.

Depositato in Cancelleria il 30 aprile 2015