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Espulsione impossibile anche se misura di sicurezza? (Cass. 49242/17)

26 ottobre 2017, Cassazione penale e Nicola Canestrini

Ineseguibile l'espulsione come misura di sicurezza anche quando vi sia un "serio rischio" di essere sottoposto nel paese di destinazione a pena di morte o tortura o trattamenti inumani o degradanti, e ciò per la applicazione dell'art. 19, comma 2 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea e della interpretazione convesionalmente orientata ex art. 3 Conv. Edu.

Compito del Tribunale di Sorveglianza, in virtù delle attribuzioni di potere giurisdizionale sul tema (in forza delle disposizioni contenute negli artt. 678 e 679 c.p.p. e art. 69, commi 3 e 4 ord.pen.) è, senza dubbio alcuno, quello di procedere alla verifica immediata della eseguibilità o meno della misura di sicurezza disposta in cognizione, anche lì dove ciò comporti una verifica incidentale di una condizione giuridica attribuita alla competenza di altra autorità (amministrativa e giurisdizionale in sede di eventuale opposizione, come è per la delibazione delle domande di asilo o di ottenimento dello status di rifugiato).

Il testo del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 20 determina una apparenza di legittimità del respingimento, per motivi di sicurezza interna, anche nei casi in cui il soggetto corra un "serio rischio" di essere sottoposto nel paese di destinazione a pena di morte o tortura o trattamenti inumani o degradanti, in palese violazione dell'art. 19, comma 2 della Carta di Nizza e art. 3 Conv. Edu, il che Io rende, in tale parte disapplicabile, salva l'interpretazione correttiva basata sul significato della locuzione, introdotta con la novellazione del 2014, della clausola di riserva che testualmente recita in conformità degli obblighi internazionali ratificati dall'Italia.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE I PENALE

Sentenza 18 maggio – 26 ottobre 2017, n. 49242

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE PRIMA PENALE

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. DI TOMASSI Maria Stefania - Presidente -

Dott. BONITO Francesco M. S. - Consigliere -

Dott. MAGI Raffaello - rel. Consigliere -

Dott. MINCHELLA Antonio - Consigliere -

Dott. CENTONZE Alessandro - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

L.H., nato il (OMISSIS);

avverso l' ordinanza del 15/11/2016 del TRIB. SORVEGLIANZA di VENEZIA;

sentita la relazione svolta dal Consigliere Dr. RAFFAELLO MAGI;

lette le conclusioni del PG Dr. ROMANO Giulio, che ha chiesto dichiararsi inammissibile il ricorso.

Svolgimento del processo

1. Il Tribunale di Sorveglianza di Venezia con ordinanza resa in data 15 novembre 2016 ha respinto l'appello proposto da L.H., avverso il diniego della revoca anticipata della misura di sicurezza dell'espulsione dal territorio dello Stato.

1.1 In prima istanza, il Magistrato di Sorveglianza precisava che L.H. - di nazionalità nigeriana - sta espiando (con termine previsto al 21.1.2018) una pena complessiva di anni sei e mesi otto di reclusione per violazione disciplina stupefacenti ed altro. I fatti di reato risultano commessi tra il (OMISSIS).

La domanda di revoca della misura di sicurezza dell'espulsione (applicata ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86 con sentenza del 12 marzo 2013) - motivata in riferimento alla esistenza di condizioni idonee a configurare, in tesi, la particolare condizione di avente diritto alla protezione sussidiaria -, non viene in concreto esaminata dal primo giudice in virtù del "non prossimo" fine pena.

1.2 Il Tribunale, posto di fronte alla doglianza del detenuto - incentrata sulla esistenza dell'interesse ad ottenere una delibazione del merito, posto che una volta maturata la decorrenza della pena sarebbe stato condotto in un CIE con il rischio di non ottenere tempestivo riconoscimento della condizione ostativa e correlata esecuzione dell'espulsione - osserva che in astratto (in rapporto al paventato rischio di condanna alla pena di morte, ove rimpatriato) la domanda di protezione sussidiaria potrebbe trovare accoglimento ai sensi del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g, ma tale domanda può essere presentata anche dal soggetto detenuto, nelle forme ordinarie.

Non viene, pertanto, ravvisato l'interesse ad ottenere un immediato accertamento incidentale della condizione ostativa alla espulsione, posto che - in ogni caso - il mancato completamento della pratica amministrativa (in tempo antecedente al fine pena) darebbe luogo esclusivamente al trattenimento ulteriore presso il CIE e non alla esecuzione dell'espulsione.

2. Avverso detta ordinanza ha proposto ricorso per cassazione - con personale sottoscrizione - L.H., deducendo erronea applicazione delle norme regolatrici e vizio di motivazione.

Si rappresenta che l'interesse ad ottenere una statuizione di merito su quanto rappresentato - sia pure in via incidentale - non poteva dirsi insussistente, dovendosi evitare la protrazione della restrizione - in via amministrativa - presso il CIE successiva alla decorrenza della pena in virtù dei tempi di esame della domanda di protezione.

Quanto alla "precocità" della domanda (aspetto rilevato dal MdS), si evidenzia che tale qualificazione non può ritenersi accettabile, essendo in corso la detenzione da quattro anni e potendosi pertanto procedere alla revoca della misura di sicurezza.

Si ribadisce, quanto ai profili di ammissibilità dell'originaria istanza, che anche l'espulsione a titolo di misura di sicurezza non può - in tesi - essere eseguita lì dove esponga il soggetto a pericoli per la incolumità o a trattamenti disumani o degradanti, citandosi sul punto la disposizione del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 20, da interpretarsi anche alla luce dei contenuti della Convenzione Europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali.

Motivi della decisione

1. Il ricorso è fondato e va accolto, per le ragioni e con le precisazioni che seguono.

1.1 Va precisato, in apertura, che le motivazioni del diniego alla revoca - o comunque alla eventuale dichiarazione di ineseguibilità - della misura di sicurezza dell'espulsione sono, in realtà, alquanto diverse nelle due decisioni di merito.

Comune ai due provvedimenti è la scelta di negare l'esame dei profili di diritto e di fatto sollevati dal ricorrente (ossia la fondatezza o meno della denunzia di inseguibilità della misura di sicurezza dell'espulsione per l'esposizione a grave pericolo del soggetto ove rimpatriato) ma le ragioni di tale approdo sono rappresentate: a) per il magistrato di sorveglianza dalla non prossimità temporale del fine pena, in un contesto che non nega la possibilità di pervenire, persistendo la pericolosità sociale, all'applicazione di misura di sicurezza tipologicamente diversa ove l'espulsione si riveli ineseguibile per contrasto con la disposizione di legge di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19; b) per il Tribunale di Sorveglianza appare invece carente l'interesse ad ottenere un accertamento immediato e incidentale - della condizione ostativa, potendo il soggetto detenuto presentare la domanda di riconoscimento della protezione sussidiaria in via ordinaria, posto che l'unica conseguenza, ove i tempi di esame di tale domanda non siano coincidenti con il fine pena, sarebbe quella di un trattenimento presso il CIE. 1.2 Il ricorrente contesta, in effetti, entrambe le argomentazioni, pur se il provvedimento del Tribunale si pone come sostitutivo della prima decisione, trattandosi di statuizione di secondo grado.

2. In ogni caso, va affermato che sia la prima che la seconda ratio decidendi non appaiono conformi ai contenuti legali del sistema giurisdizionale di tutela della condizione soggettiva della persona destinataria di misura di sicurezza personale, che invochi - in corso di espiazione - una rivalutazione della misura di sicurezza disposta dal giudice della cognizione (e divenuta definitiva in uno con la sentenza cui inerisce).

2.1 Va infatti evidenziato, quanto al generale profilo della "rivedibilità anticipata" della misura di sicurezza personale rispetto al momento di legale eseguibilità (il termine della pena, con obbligo di valutazione ex officio della condizione di attuale pericolosità, secondo quanto previsto dall'art. 679 c.p.p. ) che è pacifica, secondo gli arresti di questa Corte di legittimità successivi alla parziale declaratoria di illegittimità costituzionale dell'art. 207 c.p. , comma 2 (Corte Cost., sent. n. n. 110 del 1974) la rivedibilità, su istanza di parte, della misura di sicurezza disposta in cognizione, durante la fase di espiazione della pena (in tal senso, Sez. 1 del 22.3.1997, ric. Narciso, nonchè Sez. 1 n. 46986 del 29.11.2007, rv 238317 e Sez. 1 n. 46938 del 17.11.2004, rv 230192). Quanto alla possibilità di adottare il provvedimento di revoca anticipata, durante la fase di espiazione, anche in riferimento a misura di sicurezza "istantanea", come l'espulsione dal territorio dello Stato, la stessa è stata affermata da Sez. 1 del 29.9.1986, ric. Sattar e successive in senso conforme.

E' evidente che la statuizione in punto di misura di sicurezza, divenuta definitiva (trattasi di capo della decisione emessa in cognizione, anche autonomamente impugnabile ai sensi e con le modalità cui all'art. 579 c.p.p. ) risulta rivedibile, nella maggior parte dei casi, in riferimento al profilo della persistenza della pericolosità sociale e ciò richiede, per logica, un minimo di distanza temporale tra il momento della definitività del titolo e quello della richiesta di rivalutazione (nel caso in esame di certo sussistente), ma in nessun caso è estraibile, dalle disposizioni normative applicabili, una "regola" di necessaria prossimità della domanda al "fine pena", specie in un caso come quello oggetto della presente decisione.

Qui, infatti, il tema introdotto dalla parte - a ben vedere - non è quello della persistenza o meno della pericolosità sociale quanto quello della "ineseguibilità" della specifica misura irrogata (l'espulsione) in rapporto ad una condizione che opera come "limite esterno" alla eseguibilità del provvedimento, correlato al rispetto di previsioni regolatrici diverse, sia interne che di natura pattizia (il divieto di respingimento, nelle forme che si esamineranno in seguito).

Dunque un primo principio è necessario affermare, nel senso della inesistenza di una ragione giustificatrice del diniego alla rivedibilità della misura di sicurezza personale correlata alla "non prossimità del fine pena" del soggetto istante (si tratta della ratio decidendi esposta dal Magistrato di Sorveglianza).

2.2 Quanto alla seconda ratio decidendi, esposta dal Tribunale di Sorveglianza, la stessa è parimenti da ritenersi fallace.

La domanda dell'istante, al di là dei profili in fatto, è tesa al riconoscimento - in via incidentale ma condizionante Il mantenimento della misura di sicurezza - di una particolare condizione soggettiva (accesso alla cd. protezione sussidiaria) tale da risultare, in tesi, ostativa alla espulsione.

In simile contesto, compito del Tribunale di Sorveglianza, in virtù delle attribuzioni di potere giurisdizionale sul tema (in forza delle disposizioni contenute negli artt. 678 e 679 c.p.p. e art. 69, commi 3 e 4 ord.pen.) è, senza dubbio alcuno, quello di procedere alla verifica immediata della eseguibilità o meno della misura di sicurezza disposta in cognizione, anche lì dove ciò comporti una verifica incidentale di una condizione giuridica attribuita alla competenza di altra autorità (amministrativa e giurisdizionale in sede di eventuale opposizione, come è per la delibazione delle domande di asilo o di ottenimento dello status di rifugiato).

Come è stato precisato da questa Corte in più arresti (si vedano, in tema di accertamento incidentale delle condizioni per l'ottenimento dello status di rifugiato, Sez. 1 n. 41368 del 14.10.2009, rv 245064; Sez. 1 n. 2239 del 17.12.2004, dep.2005, rv 230546; Sez. 1 n. 39764 del 13.10.2005, rv 232685) ciò deriva dalla segnalata attribuzione funzionale della giurisdizione sulle misure di sicurezza (alla Magistratura di Sorveglianza) e dalla regola generale di cui all'art. 2 del codice di rito, per cui il giudice penale risolve "ogni questione da cui dipende la decisione, salvo che sia diversamente stabilito".

Non vi è, pertanto, alcun limite all'apprezzamento incidentale, a fini di mantenimento o meno della misura, della prospettazione della parte in punto di causa ostativa - con eventuale esercizio di poteri istruttori ex officio -, dato che i temi sollevati non riguardano certo una "controversia sullo stato di famiglia o di cittadinanza" il cui esame sarebbe precluso ai sensi dell'art. 3 c.p.p. , nè può ritenersi carente l'interesse ad ottenere una immediata verifica di quanto prospettato.

Non può, pertanto, ritenersi valido motivo di diniego all'esame del merito il fatto che il soggetto detenuto sia titolare del potere di chiedere, in via ordinaria, l'accertamento della condizione di avente diritto alla cd. protezione sussidiaria (oggi tema regolamentato dal D.L. 17 febbraio 2017, n. 13 , conv. in L. 13 aprile 2017, n. 46 ), dato che tale potere è da ritenersi di certo concorrente ma non influisce - in alcun modo - sulla ammissibilità (e sul dovere di esame) della domanda proposta al "giudice della misura di sicurezza".

2.3 Dalle considerazioni che precedono deriva l'apprezzamento della illegittimità del diniego opposto in sede di merito alla delibazione della domanda dell'attuale ricorrente, con statuizione di annullamento della decisione impugnata.

3. Va peraltro, per completezza di trattazione ed al fine di orientare i poteri del giudice del rinvio, realizzata la verifica della ammissibilità, in diritto, della domanda introduttiva, sotto il profilo del rapporto che intercorre tra la misura di sicurezza dell'espulsione (misura di sicurezza, qui ai sensi del D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86) e la condizione di soggetto avente diritto - in ipotesi - alla protezione sussidiaria, o che in ogni caso esponga l'esistenza di uno dei rischi che caratterizzano tale condizione (qui il rischio di essere destinatario di condanna alla pena di morte) ferma restando la necessaria verifica in fatto, affidata al giudice del merito, della verità di quanto dichiarato da L.H..

3.1 Il tema è di una certa complessità, data la stratificazione delle fonti incidenti, anche di diverso livello.

Va, sul punto, richiamato in premessa il significativo arresto giurisprudenziale rappresentato da Sez. 6 n. 20514 del 28.4.2010, ric. Arman Ahmed ed altri, rv 247347.

In tale decisione si è affermato che: allorchè la Corte Europea ha stabilito che l'esecuzione di provvedimenti di espulsione o comunque di trasferimento forzoso verso un determinato Paese (nella specie, la Tunisia) integri la violazione dell'art. 3 della Convenzione Europea per i diritti dell'uomo, in considerazione del rischio di attuazione di pene o trattamenti inumani o degradanti, è compito di ogni organo giurisdizionale nazionale, competente a deliberare decisioni che comportano trasferimenti di persone verso quel Paese, individuare ed adottare, in caso di ritenuta pericolosità della persona, un'appropriata misura di sicurezza, diversa dall'espulsione, e ciò fino a quando non sopravvengano fatti innovativi idonei a mutare la suddetta situazione di allarme.

In tale decisione si è adottato un criterio interpretativo che fa discendere il divieto di dar luogo alla misura di sicurezza dell'espulsione direttamente dai contenuti delle fonti sovranazionali (qui la Conv. Europea del 1950), pur in presenza di accertamento positivo della pericolosità della persona, con correlato obbligo per il giudice interno di dichiarare ineseguibile l'espulsione e applicare misura di sicurezza diversa.

Tale indirizzo emeneutico - cui si presta adesione - pone come ineludibile il tema della verifica di conformità della disciplina interna ai contenuti delle fonti sovranazionali, da cui derivano precisi obblighi per lo Stato italiano (in ogni sua articolazione), dovendosi privilegiare una interpretazione delle disposizioni interne conforme a detti contenuti di tutela dei diritti fondamentali della persona.

3.2 Sul tema del divieto di respingimento, infatti, ricadono più disposizioni sovranazionali, di fonte diversa, ed in particolare:

a) l'art. 3 della Convenzione Europea del 1950, ove si afferma che nessuno può essere sottoposto a tortura, nè a pene o trattamenti inumani o degradanti (diritto non derogabile in alcun caso, ai sensi del successivo art. 15);

b) il diritto UE ed in particolare l'art. 19, comma 2 della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione Europea (cd. Carta di Nizza) ove si afferma che nessuno può essere allontanato, espulso o estradato verso uno Stato in cui esiste un rischio serio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti. Tale disposizione fa parte integrante del diritto dell'Unione, anche ai sensi del successivo art. 51 della medesima Carta (ove si prevede l'applicabilità delle disposizioni contenute nel trattato esclusivamente nell'attuazione del diritto dell'Unione), essendo intervenute sul tema in via di progressiva regolamentazione le direttive: 2004/83/CE (norme minime sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di rifugiato o di persona altrimenti bisognosa di protezione internazionale, nonchè norme minime sul contenuto della protezione riconosciuta), 2011/95/UE (norme sull'attribuzione, a cittadini di paesi terzi o apolidi, della qualifica di beneficiario della protezione internazionale, su uno status uniforme per i rifugiati o per le persone aventi titolo a beneficiare della protezione sussidiaria, nonchè sul contenuto della protezione riconosciuta) e 2013/32/UE (procedure comuni a fini di riconoscimento e revoca dello status di protezione internazionale).

Va dunque ricordato che in presenza di norme comunitarie provviste di efficacia diretta (e tale è da ritenersi, in virtù della emanazione e dei contenuti delle suddette direttive, la stessa previsione di cui all'art. 19, comma 2 della Carta di Nizza) è preclusa al giudice comune l'applicazione di contrastanti disposizioni del diritto interno, con necessaria disapplicazione di queste ultime (Corte Cost. già sent. n. 170 del 1984, nonchè di recente, sent. n. 284 del 2007 e successive sul tema).

Ciò, in particolare, consente all'interprete di realizzare la piena applicazione, ove necessario, del diritto UE provvisto di efficacia diretta, superando l'obbligo di devoluzione alla Corte Costituzionale del riscontrato contrasto - non risolvibile - tra i contenuti della disposizione interna e quelli della Convenzione Europea (qui in rapporto all'art. 3 Conv.), necessità più volte ribadita dal giudice delle leggi, da ultimo con la decisione n. 109 del 5 aprile 2017, ove si è ricordato che nell'attività interpretativa che gli spetta ai sensi dell'art. 101 Cost. , comma 2, il giudice comune ha il dovere di evitare violazioni della Convenzione Europea e di applicarne le disposizioni, sulla base dei principi di diritto espressi dalla Corte EDU, specie quando il caso sia riconducibile a precedenti di quest'ultima (sentenze n. 68 del 2017, n. 276 e n. 36 del 2016). In tale attività, egli incontra, tuttavia, il limite costituito dalla presenza di una legislazione interna di contenuto contrario alla CEDU: in un caso del genere - verificata l'impraticabilità di una interpretazione in senso convenzionalmente conforme, e non potendo disapplicare la norma interna, nè farne applicazione, avendola ritenuta in contrasto con la Convenzione e, pertanto, con la Costituzione, alla luce di quanto disposto dall'art. 117 Cost. , comma 1, - deve sollevare questione di legittimità costituzionale della norma interna, per violazione di tale parametro costituzionale (ex plurimis, sentenze n. 150 del 2015, n. 264 del 2012, n. 113 del 2011, n. 93 del 2010, n. 311 e n. 239 del 2009).

4. La premessa è necessaria, ove si affronti il tema, posto nella presente procedura, delle condizioni di accesso alla protezione sussidiaria, trattandosi di condizione giuridica affine ma diversa rispetto a quella dello status di rifugiato.

Non è inutile, pertanto, realizzare un breve excursus storico del tema e un sintetico confronto tra i contenuti delle previsioni sovranazionali e di quelle interne, specie per quanto riguarda la disciplina legislativa della immigrazione, essendo del tutto evidente la inadeguatezza, solo di recente emendata dal legislatore (attraverso la novellazione apportata con L. 14 luglio 2017, n. 110 , all'art. 3, disposizione peraltro sopravvenuta alla camera di consiglio della presente procedura, tenutasi in data 18.5.2017) dei contenuti del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 in tema di descrizione delle condizioni ostative alla espulsione.

4.1 In breve, va evidenziato che, sul piano delle fonti sovranazionali:

a) la Convenzione di Ginevra del 28 luglio 1951, con successivo Protocollo adottato a New York il 31 gennaio 1967 (trattati resi esecutivi in Italia, rispettivamente con L. 24 luglio 1954, n. 722 e con L. 28 marzo 1970, n. 95) individua e descrive la condizione di rifugiato nel senso di riconoscerla a chiunque sia portatore del giustificato timore di essere perseguitato per la sua razza, religione, cittadinanza, appartenenza a un determinato gruppo sociale, o per opinioni politiche e si trovi fuori dello stato di cui possiede la cittadinanza e non può o, per tale timore, non vuole domandare la protezione di detto stato (estendendo la condizione all'apolide, in riferimento allo stato di domicilio). Risultano ostative, in tale Convenzione, alla tutela del rifugiato talune circostanze di fatto (serio motivo di sospettare che la persona abbia commesso un crimine contro la pace, un crimine di guerra o un crimine contro l'umanità, o ancora un crimine grave di diritto comune fuori del paese ospitante prima di essere ammesso come rifugiato o atti contrari agli scopi e ai principi delle Nazioni Unite);

b) la stessa Convenzione di Ginevra esprime il principio del divieto di espulsione e di rinvio al confine (art. 33) nel senso che "nessuno stato contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sia libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche". Tale divieto subisce deroga, al successivo comma, nel caso in cui il rifugiato per "motivi seri" debba essere considerato un pericolo per la sicurezza del paese in cui risiede oppure costituisca, a causa di una condanna definitiva per un crimine o un delitto particolarmente grave, una minaccia per la collettività di detto paese;

c) le esigenze di solidarietà umana, contrasto alla discriminazione, affermazione della democrazia e tutela dei diritti fondamentali (vita, libertà, integrità fisica, opinione) della persona, sottese a tale assetto, hanno di seguito trovato ampia regolamentazione, come si è detto, in sede Europea, attraverso le disposizioni della Convenzione del 1950 (in particolare l'art. 3, per come interpretato dalla Corte Edu anche in chiave di divieto di respingimento verso paesi in cui il soggetto si troverebbe esposto a rischio di morte, tortura o trattamenti inumani o degradanti) e i successivi interventi dell'Unione;

d) in particolare, giova evidenziare che - oltre al ricordato art. 19, comma 2 della Carta di Nizza del 2000, norma che recepisce i contenuti elaborati dalla Corte Edu sul fronte del divieto, anche mediato, di tortura, pene o trattamenti inumani o degradanti - le previsioni regolatrici contenute nelle direttive del 2004 e del 2011 esprimono in modo compiuto la condizione di soggetto titolare dello status di rifugiato o ammesso a forme sussidiarie di protezione internazionale;

e) già la direttiva del 2004 (2004/83/CE del Consiglio) prevede, oltre alla condizione di rifugiato (ricalcata sul testo della Convenzione di Ginevra) la categoria aggiuntiva della ‘persona ammissibile alla protezione sussidiarià: cittadino di paese terzo o apolide che non possiede i requisiti per essere riconosciuto come rifugiato ma nei cui confronti:

1) sussistono fondati motivi per ritenere che, se tornasse nel paese di origine (o per l'apolide in quello di dimora abituale) correrebbe un rischio effettivo di subire un grave danno come definito dal successivo art. 15 (- condanna alla pena di morte, tortura o altra forma di pena o trattamento inumano o degradante; minaccia grave e individuale alla vita o alla persona di un civile derivante da violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale..),

2) e al quale non si applica l'art. 17 par. 1 e 2 (non può essere attribuita la protezione per chi ha commesso un crimine contro l'umanità, crimine di guerra, reato grave prima dell'ammissione o anche non grave punibile con reclusione nello stato di rifugio - lì dove l'allontanamento sia strumentale ad evitare la sanzione, atti contrari alle finalità o ai principi delle nazioni unite, nonchè rappresenti un pericolo per la comunità o la sicurezza dello Stato in cui si trova..) e il quale non può o, a causa di tale rischio, non vuole avvalersi della protezione di detto paese. Dunque viene introdotto e regolamentato, sin dal 2004, un sistema più complesso di "protezione internazionale" che va a ricomprendere non soltanto l'obbligo di fornire rifugio al soggetto perseguitato (con attribuzione dello status di rifugiato) ma anche quello, in date condizioni, di accogliere la persona ammissibile alla protezione sussidiaria in quanto esposta, nel paese di origine, a rischi di incolumità o diminuzioni gravi di dignità, correlati a condizioni oggettive (stato di guerra) o a condizioni inaccettabili del sistema repressivo di quel paese (rischio di condanna a morte, tortura, trattamento degradante). Si tende, pertanto, a completare un sistema di tutela della persona umana, sia pure con talune riserve correlate alla necessità di protezione dell'ordine pubblico interno (si prevede il rilascio di permesso di soggiorno triennale al rifugiato e annuale al bisognoso di protezione sussidiaria purchè non vi ostino imperiosi motivi di sicurezza nazionale o di ordine pubblico). Viene altresì ribadito il divieto di respingimento (non refoulement) con deroghe, espresse nel caso del rifugiato, per l'ipotesi - tra l'altro - di intervenuta condanna per un reato di particolare gravità, tale da comportare una considerazione di elevata pericolosità per la comunità dello stato ospitante;

f) la direttiva del 2011 (2011/95/UE del Parlamento Europeo e del Consiglio, con termine di recepimento fissato al 21.12.2013) stabilizza ulteriormente il suddetto quadro di tutela, con il dichiarato obiettivo di realizzare una politica comune in tema di diritto di asilo all'interno dell'Unione, con adozione di livelli di protezione più elevati a favore di quanti "spinti dalle circostanze" cerchino legittimamente protezione nell'Unione. Viene precisato che il riconoscimento dello status di rifugiato è atto meramente ricognitivo, e che la protezione sussidiaria ha carattere complementare e supplementare rispetto alla protezione derivante dalla convenzione di Ginevra sui rifugiati; inoltre si precisa che resta estranea all'ambito della direttiva la condizione di chi non rientra nelle due categorie della protezione internazionale ma è ammesso a forme di assistenza caritatevole o umanitaria su base discrezionale, il che rafforza la natura di "diritto" attribuibile ai titolari di condizioni che rientrano nelle categorie della protezione internazionale in senso proprio, con vincolo per gli Stati membri di attenersi agli strumenti di cui sono parti. Quanto ai contenuti, non si registrano innovazioni sotto il profilo della descrizione dei presupposti delle due categorie soggettive della protezione internazionale, rispetto alla precedente direttiva.

Anche la ammissione alla protezione sussidiaria viene considerata come uno status. Nella disciplina dello status di rifugiato: viene ampliata la descrizione degli atti di persecuzione (art.9) e dei motivi di persecuzione (art. 10), nonchè ulteriormente precisate le ipotesi di esclusione dallo status (art. 12) tra cui l'esistenza di fondati motivi per ritenere che il soggetto abbia commesso al di fuori del paese di accoglienza e prima dell'ammissione un "reato grave di diritto comune"; la condanna definitiva per reato di particolare gravità, tale da determinare una valutazione di "pericolo per la comunità" può comportare la revoca dello status (art. 14).

Nella disciplina dello status di soggetto titolare della protezione sussidiaria si ribadiscono i motivi di esclusione (art. 17), tra cui il fondato motivo di ritenere che abbia commesso un reato grave o rappresenti un pericolo per la comunità o la sicurezza dello Stato in cui si trova. Per quanto qui rileva, inoltre, va richiamata la norma sul divieto di respingimento (art. 21). La norma, nel prendere in esame le deroghe, compie riferimento al solo "rifugiato" (e non anche al titolare della protezione sussidiaria) consentendone il respingimento nell'ipotesi di "ragionevoli motivi per considerare che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato membro nel quale si trova" o quando "essendo stato condannato con sentenza definitiva per reato di particolare gravità costituisce un pericolo per la comunità di tale Stato membro".

4.2 Ora, al termine di tale breve ricognizione e prima ancora di analizzare le modalità di recepimento nella normativa interna di dette disposizioni sovranazionali, appare necessario evidenziare come la previsione relativa al divieto di respingimento contenuta nell'art. 19, comma 2 della Carta di Nizza sia espressa con assoluta nettezza e senza riferimento alcuno a deroghe (nessuno può essere allontanato, espulso, estradato..), ed identifichi la condizione ostativa al refoulement proprio in alcune delle ragioni che legittimano l'ammissione alla "protezione sussidiaria" (.. rischio serio di sottoposizione alla pena di morte, tortura o altre pene o trattamenti inumani o degradanti).

Dunque va ritenuto esistente un margine irrinunziabile di protezione, anche in via mediata (attraverso il divieto di respingimento), dei valori qui considerati (rifiuto della pena di morte, tortura e trattamento inumano o degradante sul soggetto ristretto) che appare porsi come condizione ostativa - anche in tema di espulsione - con carattere assoluto e preminente anche rispetto ad una condizione di constatata pericolosità sociale" del destinatario (previo apprezzamento in concreto della "serietà" del paventato rischio), e ciò nell'ambito di una disposizione sovraordinata rispetto alle stesse Direttive dell'Unione (si veda quanto affermato, nel caso del rilevato contrasto, dalla Grande Sezione CGUE in data 8.4.2014 nel caso relativo al contenzioso promosso dalla società Digital Rights Ireland, con avvenuta invalidazione della direttiva 2006/24/CE del Parlamento Europeo e del Consiglio, del 15 marzo 2006, riguardante la conservazione di dati generati o trattati nell'ambito della fornitura di servizi di comunicazione elettronica accessibili al pubblico o di reti pubbliche di comunicazione) certamente applicabile in ogni Stato dell'Unione. Tale aspetto, consente di affermare - nel caso in esame - la assoluta doverosità della verifica in fatto di quanto dedotto dall'attuale ricorrente.

4.3 Va ancora, indicato che la giurisprudenza interna, specie in sede civile, ha più volte affermato principi che ricadono sul tema qui trattato:

- secondo l'arresto rappresentato da Sez. Un. civ. n. 5059 del 28.2.2017 la condizione giuridica soggettiva dello straniero, in tema di accesso alla protezione internazionale, ha natura di diritto soggettivo, da annoverarsi tra i diritti umani fondamentali garantiti dall'art. 2 Cost. e 3 Conv. Eur., il che determina da parte della autorità destinataria delle domande l'esercizio di una mera discrezionalità tecnica;

- secondo quanto affermato da Sez. 6 - 1 civ., sent. n. 2830 del 12.2.2015 in tema di protezione internazionale, il cittadino straniero che è imputato di un delitto comune (nella specie, omicidio durante una rissa), punito nel Paese di origine con la pena di morte, non ha diritto al riconoscimento dello status di rifugiato politico poichè gli atti previsti dal D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 7, non sono collegati a motivi di persecuzione inerenti alla razza, alla religione, alla nazionalità, al particolare gruppo sociale o all'opinione politica, ma unicamente alla protezione sussidiaria riconosciuta dal D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 2, lett. g), del qualora il giudice di merito - anche previo utilizzo dei poteri di accertamento ufficiosi di cui al D.Lgs. 28 gennaio 2008, n. 25, art. 8, comma 3, - abbia fondati motivi di ritenere che, se ritornasse nel Paese d'origine, correrebbe un effettivo rischio di subire un grave danno;

- in punto di ricognizione della diversa natura del rischio, Sez. 6 - 1 civ., sent. 6503 del 20.3.2014 ha affermato che l'esame comparativo dei requisiti necessari per il riconoscimento dello status di rifugiato politico ovvero per il riconoscimento della protezione sussidiaria evidenzia un diverso grado di personalizzazione del rischio oggetto di accertamento, atteso che nella protezione sussidiaria si coglie, rispetto al rifugio politico, una attenuazione del nesso causale tra la vicenda individuale ed il rischio rappresentato, sicchè, in relazione alle ipotesi descritte al D.Lgs. 19 novembre 2007, n. 251, art. 14, lett. a) e b), l'esposizione dello straniero al rischio di morte o a trattamenti inumani e degradanti, pur dovendo rivestire un certo grado di individualizzazione, non deve avere i caratteri più rigorosi del fumus persecutionis, mentre, con riferimento all'ipotesi indicata nella lettera c) del medesimo articolo, la situazione di violenza indiscriminata e di conflitto armato nel paese di ritorno può giustificare la mancanza di un diretto coinvolgimento individuale nella situazione di pericolo a fini di ammissione alla protezione sussidiaria;

- in punto di irrilevanza della gravità del reato commesso nel paese ospitante, lì dove sussista come condizione ostativa alla espulsione, il serio rischio di inflizione della pena di morte, tortura o trattamenti inumani o degradanti, si è espressa Sez. 6-1 civ., ord. n. 21667 del 20.9.2013 nel senso che: in tema di protezione internazionale, l'espulsione coatta dello straniero costituisce violazione dell'art. 3 CEDU, relativo al divieto di tortura, ogni qualvolta egli, a causa del pericolo di morte, tortura o trattamenti inumani e degradanti che lo minaccino, non possa restare nello stesso e debba, pertanto, indirizzarsi verso altro Paese che lo possa ospitare. Ne consegue che sono irrilevanti sia la gravità del reato al quale lo straniero sia stato condannato (nella specie, associazione con finalità terroristica ex art. 270 bis c.p.), sia la circostanza che egli non voglia rivelare il luogo della sua dimora in pendenza del procedimento, non potendo il riconoscimento della protezione internazionale fondarsi sul rispetto di un presunto vincolo fiduciario con lo Stato, nè esistendo alcun obbligo di collaborazione o reciprocità a carico del richiedente asilo. In tale decisione, peraltro, si evidenzia come secondo le numerose decisioni emesse, anche nei confronti dell'Italia, dalla Corte Edu (a partire dal noto caso Saadi contro Italia, sent. del 28.2.2008) l'espulsione coatta dello straniero da parte di uno stato membo verso lo stato di appartenenza costituisce violazione dell'art. 3 Cedu, ove sia verosimile che il soggetto espulso sia sottoposto in quel paese a trattamenti contrari all'art. 3 Cedu; ai fini di tale valutazione la Corte Edu ha ribadito che è ininfluente il tipo di reato di cui è ritenuto responsabile il soggetto da espellere, poichè dal carattere assoluto del principio affermato dall'art. 3 deriva l'impossibilità di operare un bilanciamento tra il rischio di maltrattamenti e il motivo invocato per l'espulsione. Tali principi sono stati, peraltro di recente ribaditi dalla Corte Edu in ulteriori casi riguardanti l'Italia (v. Corte Edu, sez. 2, sent. 5.4.2011, Toumi c. Italia);

- quanto al riconoscimento del diritto alla protezione sussidiaria, Sez. 6 civ., sent. n. 16100 del 29.7.2015 ha affermato che può essere condizione ostativa il reato grave commesso al di fuori del territorio nazionale, ma non assumono rilievo alcuno i reati, anche gravi, commessi dal richiedente in Italia (proprio in ragione del rapporto tra le ipotesi di protezione sussidiaria e i contenuti dell'art. 3 Conv. Eur.).

5. La ragione per cui in numerosi arresti di questa Corte relativi alla interpretazione del divieto di respingimento (si veda, in campo penale - oltre la decisione citata in apertura-quanto affermato da Sez. 6 sent. n. 54467 del 15.11.2016 con cui si è affermata l'insussistenza delle condizioni per concedere una estradizione richiesta dalla Turchia, in rapporto al rischio concreto di sottoposizione a trattamenti inumani o degradanti) si è data diretta attuazione ai principi espressi dalle fonti sovranazionali (per lo più ai contenuti dell'art. 3 Conv. Eur.) è da ricercarsi - a parere del Collegio - nel deficit di chiarezza e completezza della normativa interna, frazionata in più testi di legge non sufficientemente coordinati.

In particolare:

- per quanto riguarda la disposizione qui in rilevo - D.P.R. n. 309 del 1990, art. 86 - la stessa in origine prevedeva l'espulsione dello straniero a pena espiata, quale misura di sicurezza, in ipotesi di condanna per i reati previsti dal T.U. in tema di stupefacenti, senza alcuna indicazione della verifica in concreto della pericolosità sociale (aspetto emendato da Corte Cost. n. 58 del 1995) e, comunque - a tutt'oggi - senza riferimento espresso a cause ostative correlate alla necessità di fornire tutela a diritti fondamentali riconosciuti in sede sovranazionale. L'opera interpretativa realizzata da questa Corte ha portato a ritenere applicabile a tutte le espulsioni giudiziali - ivi compresa quella in trattazione - la previsione ostativa di cui al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19 (sez. 6 sent. n. 3516 del 12.1.2012, rv 251580; v. anche Sez. 4 n. 50379 del 25.11.2014, rv 261378);

- tuttavia, va rilevato che il contenuto del D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, al momento della presente decisione non conteneva riferimento alcuno alle condizioni legittimanti l'accesso alla protezione sussidiaria, ma soltanto a quelle relative all'ottenimento dello status di rifugiato (al comma 1, ove si compie riferimento alle ipotesi di persecuzione). Come si è anticipato, soltanto con l'emissione della L. 14 luglio 2017, n. 110 (legge introduttiva del reato di tortura nel sistema interno), di cui si da atto qui in motivazione trattandosi di momento posteriore alla decisione, il legislatore ha colmato tale lacuna, attraverso la previsione aggiuntiva, nell'ambito delle condizioni ostative alla espulsione, contenuta nell'attuale comma 1.1 "non sono ammessi il respingimento o l'espulsione o l'estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura. Nella valutazione di tali motivi si tiene conto anche dell'esistenza, in tale Stato, di violazioni sistematiche e gravi di diritti umani";

- tornando al momento della decisione qui esplicativa, va ritenuto - in ogni caso astrattamente applicabile alla ipotesi in esame il contenuto della previsione di legge di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 20, di attuazione (sul punto del divieto di respingimento) della direttiva 2004/83/CE prima sinteticamente illustrata, con le modifiche apportate dal D.Lgs. 21 febbraio 2014, n. 18 (a sua volta di attuazione della direttiva 2011/95/UE ).

In detta disposizione si prevede - nel testo vigente - quanto segue:

1. Fermo restando quanto previsto dall'art. 19, comma 1, del testo unico delle disposizioni concernenti la disciplina dell'immigrazione e norme sulla condizione dello straniero, di cui al D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286 , ed in conformità degli obblighi internazionali ratificati dall'Italia, il rifugiato o lo straniero ammesso alla protezione sussidiaria è espulso quando:

a) sussistono motivi per ritenere che rappresenti un pericolo per la sicurezza dello Stato;

b) rappresenta un pericolo per l'ordine e la sicurezza pubblica, essendo stato condannato con sentenza definitiva per un reato per il quale è prevista la pena della reclusione non inferiore nel minimo a quattro anni o nel massimo a dieci anni.

La disposizione testè richiamata pone, peraltro, rilevanti questioni interpretative, che fermo restando il rilievo dello ius superveniens di cui si dirà in seguito ( L. n. 110 del 2017 ) - possono affrontarsi nel modo che segue, sempre al fine di orientare i poteri del giudice del rinvio nel caso che ci occupa.

5.1 Il legislatore utlizza, in apertura, una espressione di "raccordo" al D.Lgs. n. 286 del 1998, art. 19, comma 1, norma che, come si è detto, pone il divieto di espulsione dello straniero (essendo l'espulsione una delle possibili forme del respingimento) nelle ipotesi di sussistenza in fatto delle condizioni per l'ottenimento dello status di rifugiato (in virtù del rischio di persecuzione). L'art. 19 del TU sulla immigrazione non prevede deroghe. Il D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 20 è invece norma costruita al fine di esplicitare le deroghe al divieto di espulsione.

Dunque il senso dell'espressione con cui si apre l'art. 20, comma 1 (fermo restando..) non è, ovviamente, quello di ribadire la natura assoluta del divieto di respingimento, quanto quello di enunciare il principio che, con la successiva parte della disposizione si va contestualmente a derogare.

Ora, fermo restando che i contenuti delle direttive cui si intendeva dare attuazione consentono, in limitati casi, l'espulsione del soggetto cui era stata attribuita la condizione di "rifugiato" (art. 21 della direttiva del 2011, prima richiamata) il legislatore italiano, in difformità dal dato letterale della normativa posta a monte, inserisce nella norma derogatoria interna lo straniero "ammesso alla protezione sussidiaria".

In ciò è dato riscontrare una, almeno parziale, grave incoerenza, posto che la condizione di soggetto ammesso (o ammissibile) alla protezione sussidiaria è, in larga misura (rischio serio di pena di morte, di tortura o trattamento inumano o degradante) ricadente nell'area di protezione assoluta dal refoulement, di cui all'art. 19 comma 2 della Carta dei diritti fondamentali dell'UE (come si è ampiamente rilevato in precedenza) e 3 Conv. Edu, residuando al più il caso (tra quelli che determinano l'accessibilità alla protezione sussidiaria) di minaccia grave derivante dalla violenza indiscriminata in situazioni di conflitto armato interno o internazionale, ove lo si ritenga.

In altre parole, il testo del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 20 determina una apparenza di legittimità del respingimento, per motivi di sicurezza interna, anche nei casi in cui il soggetto corra un "serio rischio" di essere sottoposto nel paese di destinazione a pena di morte o tortura o trattamenti inumani o degradanti, in palese violazione dell'art. 19, comma 2 della Carta di Nizza e art. 3 Conv. Edu, il che Io rende, in tale parte disapplicabile, salva l'interpretazione correttiva basata sul significato della locuzione, introdotta con la novellazione del 2014, della clausola di riserva che testualmente recita in conformità degli obblighi internazionali ratificati dall'Italia.

Non vi è dubio, infatti, che tra tali "obblighi internazionali" vi sia quello di non procedere in senso assoluto e non bilanciabile - alla espulsione del soggetto che si trovi nella condizione più volte rievocata e ben descritta nell'art. 19, comma 2 della Carta di Nizza ed in tal senso va orientata l'interpretazione del testo del D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 20 e succ. mod..

L'intervento legislativo del 2017, sopravvenuto in corso di stesura della presente motivazione, non può essere - ovviamente - oggetto di esame, ma nel segnalarne la rilevanza sistematica (si provvede ad inserire parte del tema della protezione sussidaria nella sede che appare più consona, quale condizione ostativa alle diverse ipotesi di espulsione) appare opportuno evidenziare che la disposizione non contiene riferimento espresso nè al rischio di sottoposizione alla pena di morte, nè a quello di trattamenti contrari al senso di umanità, essendo evocata la sola tortura, in una con le "sistematiche e gravi violazioni dei diritti umani". Per quanto sinora detto, si tratta di aspetti che vanno ritenuti ricompresi nel divieto assoluto di respingimento.

Dunque, concludendo la trattazione dei temi, vanno affermati i seguenti principi di diritto, cui il giudice del rinvio dovrà attenersi:

- in sede di apprezzamento della domanda di revoca o di ineseguibilità in via anticipata della misura di sicurezza dell'espulsione, il Magistrato e il Tribunale di Sorveglianza sono tenuti ad esaminare i profili in fatto e in diritto introdotti dalla parte, risolvendo, ove necessario, ed in via incidentale ogni questione in tema di sussistenza dei presupposti per l'ammissione allo status di rifugiato o di persona avvente titolo alla protezione sussidiaria;

- la disposizione di cui al D.Lgs. n. 251 del 2007, art. 20 in tema di protezione dell'espulsione, nella parte in cui consente di procedere al respingimento per motivi di ordine e sicurezza interna non è applicabile alle ipotesi in cui il soggetto istante corra, ove ricondotto nel paese di origine, serio rischio di essere sottoposto alla pena di morte, alla tortura o ad altre pene o trattamenti inumani o degradanti.

P.Q.M.

Annulla l'ordinanza impugnata e rinvia per nuovo esame al Tribunale di Sorveglianza di Venezia.

Così deciso in Roma, il 18 maggio 2017.
Depositato in Cancelleria il 26 ottobre 2017