La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso è configurabile in espressioni che rivelino la volontà di discriminare la vittima in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa.
Ciò ricorre sia l’espressione riconduca alla manifestazione in un pregiudizio nel senso dell’inferiorità di una determinata razza, ma anche quando la condotta risulti intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio etnico, e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori.
Corte di Cassazione, sez. V Penale, sentenza 23 marzo – 12 luglio 2018, n. 32028
Presidente Bruno – Relatore Zaza
Ritenuto in fatto
1. S.E. ricorre avverso la sentenza del 17 gennaio 2017 con la quale la Corte di appello di Milano, in parziale riforma della sentenza del Tribunale di Busto Arsizio del 9 marzo 2016, confermava l’affermazione di responsabilità dello S. per il reato di lesioni commesso 11 ottobre 2010, in concorso con D.G.R. ed altra persona non identificata, in danno di K.Z. e A.F. , per finalità di discriminazione razziale, escludendo l’aggravante della riunione dei concorrenti.
2. Il ricorrente propone quattro motivi.
2.1. Con il primo motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale sull’affermazione di responsabilità, lamentando che la stessa era ritenuta solo in base alle dichiarazioni delle persone offese, delle quali peraltro l’H. neppure ricordava al dibattimento di aver subito lesioni e non precisava chi lo avesse ferito, e che i riscontri erano individuati in sommarie informazioni testimoniali acquisite senza il consenso della difesa, in base ad una irreperibilità non verificata in appello con nuova citazione dei testi, e verbalizzate in assenza di interprete, violando altresì il divieto di fondare il giudizio di responsabilità su atti acquisiti per la sopravvenuta impossibilità di ripetizione. Aggiunge che le dichiarazioni del verbalizzante D.M. erano utilizzate anche nella parte in cui riferivano informazioni apprese da testimoni, in violazione dell’art. 195, comma 4, cod. proc. pen., e che quanto riferito da detto verbalizzante sul rinvenimento di un manganello era utilizzato a carico dello S. nonostante l’oggetto fosse stato trovato occultato nel ciclomotore del coimputato D.G. .
2.2. Con il secondo motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale sulla sussistenza dell’aggravante della finalità di discriminazione razziale, lamentando che la stessa ritenuta per la pronuncia di frasi che l’A. non rammentava e l’H. riferiva in termini privi di riferimenti razziali, e che le espressioni contestate erano comunque generiche e non richiamavano una presunta superiorità razziale.
2.3. Con il terzo motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale sul diniego della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto, lamentando l’illegittimità dell’affermazione della sentenza impugnata per la quale la relativa richiesta difensiva era inammissibile in quanto proposta per la prima volta nel corso della discussione nel giudizio di appello, potendo la sussistenza della fattispecie essere valutata anche d’ufficio, e l’omessa valutazione dell’esiguità delle lesioni procurate e della mancata presentazione della querela da parte delle persone offese.
2.4. Con il quarto motivo deduce violazione di legge e vizio motivazionale sulla determinazione della pena, lamentando omessa motivazione sulla quantificazione della sanzione in misura superiore al minimo edittale.
Considerato in diritto
1. Il motivo dedotto sull’affermazione di responsabilità dell’imputato è infondato.
La sentenza impugnata era congruamente motivata sul punto in base alle dichiarazioni delle persone offese, ritenute intrinsecamente attendibili, ed ai riscontri provenienti dalle informazioni testimoniali rese da altre persone presenti ai fatti e dal rinvenimento di un manganello nel ciclomotore del coimputato D.G. .
Sulla credibilità delle dichiarazioni delle vittime, il rilievo difensivo sulle incertezze mostrate dall’H. nel ricordare la vicenda, riproposto nel ricorso, trovava non illogica risposta in quanto osservato dalla Corte territoriale in ordine al periodo di cinque anni trascorso dai fatti ed alla incidenza dello stesso sulla memoria del teste; e, quanto alle dichiarazioni dell’A. , i giudici di merito sottolineavano la parzialità delle argomentazioni difensive, per le quali il teste avrebbe riferito solo di una persona che alzava le mani e di talune espressioni minacciose, laddove dalla verbalizzazione sintetica delle precedenti dichiarazioni del teste risultava invece che lo stesso parlava di tre persone, delle quali una aveva una pistola ed altra un bastone, che minacciavano i presenti e percuotevano un uomo con pugni.
Per ciò che riguarda i riscontri emergenti dai verbali delle informazioni testimoniali, lo stesso ricorrente ammette che gli stessi erano acquisiti in quanto non ripetibili per la sopravvenuta irreperibilità dei testi, conformemente alla previsione dell’art. 512 cod. proc. pen.. A questo punto, sull’effettiva sussistenza di tale irreperibilità e sull’imprevedibilità della stessa il ricorrente non propone alcuna specifica doglianza, limitandosi a dedurre la necessità di un verifica della persistenza dell’irreperibilità nel giudizio di appello; doglianza, questa, manifestamente infondata, non essendo una siffatta verifica prevista dalla legge.
L’ulteriore censura relativa all’assenza di un interprete nella verbalizzazione delle informazioni è generica, non essendo concretamente prospettata l’ignoranza della lingua italiana da parte dei testi. E, quanto al richiamo all’art. 526, comma 1-bis, cod. proc. pen., ove lo stesso non consente che la responsabilità dell’imputato sia provata in base a dichiarazioni di soggetti che si siano sempre volontariamente sottratti all’esame difensivo, il ricorrente non deduce specificamente che tale condizione ricorresse nei confronti dei testi le cui sommarie informazioni venivano acquisite; non senza considerare che, comunque, la responsabilità degli imputati veniva ritenuta provata principalmente in base alle dichiarazioni delle persone offese, assumendo le informazioni testimoniali mera funzione di riscontro alle stesse.
Quanto all’ulteriore elemento di riscontro, individuato nel rinvenimento del manganello, la circostanza per la quale l’oggetto era sequestrato su un ciclomotore appartenente al D.G. e non allo S. , indicata nel ricorso, era ben presente ai giudici di merito; i quali ritenevano coerentemente che tanto integrasse comunque un elemento a carico dello S. , in quanto concorrente con il D.G. nella stessa condotta criminosa.
È infine generico il riferimento del ricorrente all’utilizzazione di dichiarazioni dei verbalizzante D.M. anche nella parte in cui avrebbero riferito circostanze apprese da testimoni, non essendo precisato di quali circostanze si tratti.
2. Il motivo dedotto sulla sussistenza dell’aggravante della finalità di discriminazione razziale è infondato.
La pronuncia, nel corso dei fatti, di espressioni di contenuto razzista era ritenuta nella sentenza impugnata in base alle dichiarazioni della persona offesa H. , aventi ad oggetto in particolare le frasi "che venite a fare qua...dovete andare via".
La censura del ricorrente sul mancato ricordo di tali frasi da parte dell’altra persona offesa A. è infondata, ove non tiene conto di quanto ulteriormente osservato dalla Corte territoriale sul fatto che, per un verso, l’A. neppure escludeva che le frasi in questione fossero state profferite, non elidendo pertanto la valenza probatoria delle dichiarazioni dell’H. , e per altro queste ultime trovavano riscontro sul punto nelle informazioni acquisite dai testi J. e Ha. .
Il ricorso pone altresì in discussione il significato discriminatorio delle frasi di cui sopra, rilevandone la genericità e l’assenza di riferimenti ad una presunta superiorità razziale.
La circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, nazionale, razziale o religioso, prevista dall’art 3 d.l. 26 aprile 1993, n. 122, convertito con legge in legge 25 giugno 1993, n. 205, è configurabile in linea generale, secondo i principi affermati dalla giurisprudenza di legittimità, in espressioni che rivelino la volontà di discriminare la vittima in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa (Sez. 5, n. 43488 del 13/07/2015, Maccioni, Rv. 264825). Tanto, come pure precisato dalla Suprema Corte, non ricorre solo allorché l’espressione riconduca alla manifestazione in un pregiudizio nel senso dell’inferiorità di una determinata razza; ma anche quando la condotta, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio etnico, e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori (Sez. 5, n. 13530 del 08/02/2017, Zamolo, Rv. 269712).
Questo secondo aspetto, per il quale è irrilevante l’esplicita manifestazione di superiorità razziale della quale il ricorrente lamenta la mancanza, è senz’altro ravvisabile nella condotta ricostruita nella sentenza impugnata. Per quanto riguarda le connotazioni intrinseche delle frasi pronunciate, queste ultime erano infatti ritenute chiaramente espressive della volontà che le persone offese, e gli altri cittadini extracomunitari presenti ai fatti, lasciassero il territorio italiano a cagione della loro identità razziale. Quanto al contesto della condotta, era determinante, nell’argomentazione della Corte territoriale, il riferimento alle dichiarazioni del coimputato D.G. , ove lo stesso riferiva di essere stato convocato dallo S. , presso il circolo ove si verificavano i fatti, in quanto in quel luogo vi erano degli extracomunitari; circostanza, questa, che unitamente al contenuto delle espressioni pronunciate nel corso dell’aggressione era coerentemente valutata come idonea ad attribuire alla condotta l’idoneità a manifestare pubblicamente e a diffondere, con un gesto fortemente significativo in tal senso, odio verso la presenza nel Paese di soggetti appartenenti ad altra etnia, e a porre in essere il pericolo di analoghi ed ulteriori comportamenti discriminatori.
3. Il motivo dedotto sul diniego della causa di non punibilità della particolare tenuità del fatto è inammissibile.
Le censure del ricorrente, soffermandosi principalmente sul rilievo della Corte territoriale in ordine all’intempestività della richiesta di riconoscimento della fattispecie in esame, in quanto proposta solo nel giudizio di appello, sono generiche ove trascurano quanto ulteriormente osservato nella sentenza impugnata in ordine alla connotazione razzista della condotta ed ai precedenti penali dell’imputato, questi ultimi tali da escludere il presupposto della causa di non punibilità costituito dall’occasionalità del fatto; limitandosi il ricorso a riferimenti in fatto all’entità delle lesioni ed alla mancata presentazione della querela, superati dalle considerazioni ritenute dirimenti dai giudici di merito.
4. Il motivo dedotto sulla determinazione della pena è inammissibile.
La censura di carenza motivazionale sulla quantificazione della sanzione è manifestamente infondata a fronte di quanto rilevato nella sentenza impugnata con riguardo alla gravità dei fatti, espressivi di sentimenti antisociali, alla commissione degli stessi in un locale pubblico e ai precedenti penali dell’imputato.
5. Il ricorso deve in conclusione essere rigettato, seguendone la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.