Se il rifiuto di servire un cliente in un bar è illecito amminsitrativo, farlo per motivi discriminatori è reato.
Il reato di discriminazione per motivi razziali si sostanzia in una condotta che esprima un atteggiamento di odio razziale, espressione di adesione alle aberranti dottrine o tendenze che professano l'inferiorità di alcune etnie e, quindi, la superiorità delle altre.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE TERZA PENALE
(ud. 11/10/2006) 16-11-2006, n. 37733
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. PAPA Enrico – Presidente
Dott. DE MAIO Guido – Consigliere
Dott. ONORATO Pierluigi – Consigliere
Dott. FRANCO Amedeo – Consigliere
Dott. SENSINI Maria Silvia – Consigliere
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
Z.E., N. IL (OMISSIS);
avverso ORDINANZA del 30/04/2004 della CORTE d’APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. DE MAIO Guido;
sentite le conclusioni del P.G. Dott. IZZO G. che ha concluso per l’inammissibilità del ricorso.
Svolgimento del processo - Motivi della decisione
Con sentenza in data 30 aprile 2004 la Corte d'Appello di Venezia confermò la sentenza dell’8 luglio 2003 del GIP del Tribunale di Verona, con la quale Z.E. era stata condannata, in esito a giudizio celebrato con rito abbreviato, alla pena ritenuta di giustizia, perché riconosciuta colpevole del reato di cui L. n. 205 del 1993, art. 3, comma 1, lett. a), ("per aver commesso un atto di discriminazione per motivi razziali ed etnici rifiutandosi di servire all'interno del Bar (OMISSIS), gestito dal fratello L., i cittadini extracomunitari E.S.O. e K.A. in quanto extracomunitari, in violazione anche dell'art. 187 regolamento al T.U.L.P.S., in Verona il (OMISSIS)").
Avverso la sentenza di appello ha proposto ricorso personalmente la Z., la quale ne chiede l'annullamento denunciando con motivo formalmente unico manifesta illogicità della motivazione ed erronea applicazione della legge penale.
1. La configurazione del reato.
La ricorrente censura, sotto i profili indicati, la sentenza impugnata in relazione alle argomentazioni con cui la Corte di merito ha superato l'assunto della difesa, "secondo il quale il comportamento tenuto dall'imputata e imposto dal di lei fratello non avesse come destinatari tutti e indiscriminatamente i cittadini nordafricani per ragioni di discriminazione razziale o etnica, bensì soltanto coloro che all'apparenza non offrivano garanzie di sicurezza sufficienti, indipendentemente dalla nazionalità, dall'etnia ecc. e che solo casualmente tale rilievo si appuntasse prevalentemente sui cittadini nordafricani (in quanto di tale nazionalità erano risultati coloro che avevano creato un maggior numero di problemi)".
In altri termini, la ricorrente sostiene che la formulazione della norma "induce a ritenere che l'atto discriminatorio debba necessariamente essere sorretto da un nucleo ideologico connotato da odio razziale (non potendosi pensare che ogni atto discriminatorio nei confronti di uno straniero possa essere sanzionato penalmente)"; che, per contro, "i motivi per cui i gestori del bar si erano spinti a tenere il comportamento denunciato erano stati determinati non da intenzione di discriminare per ragioni di razza, etnia, nazione o religione, bensì da ragioni di sicurezza e di paura".
La censura è infondata perché l'assunto difensivo è stato superato in linea di fatto, prima ancora che giuridica, dalla sentenza impugnata, che ha ricordato che, "come risulta con chiarezza dalle acquisite deposizioni rese da Z.L., il rifiuto di servire da bere era stato dallo stesso deciso - e in esecuzione delle sue direttive era stato anche il comportamento della sorella - nei confronti di tutti ì clienti del locale che fossero cittadini nordafricani".
Tale rilievo, innanzi tutto, esclude che i giudici di merito abbiano omesso la motivazione sull'essenza del reato, che si sostanzia in una condotta che esprima un atteggiamento di odio razziale, espressione di adesione alle aberranti dottrine o tendenze che professano l'inferiorità di alcune etnie e, quindi, la superiorità delle altre (come precisato da questa Corte nelle sent. tra le più recenti, sez. I, 28.2.2001 n. 341 e sez. III, 24.11.1998 n. 434).
Inoltre, la citata valutazione di fatto compiuta dai giudici di merito dimostra che l'atto discriminatorio di cui si discute, lungi dall'essere determinato da ragioni di sicurezza o di paura, era sorretto, per l'appunto, da quel nucleo ideologico connotato da odio razziale, in che, come si diceva, si sostanzia il reato contestato e di cui parla la ricorrente medesima.
Questa ha sostenuto anche che l'assunto accusatorio non si concilierebbe "con la testimonianza a discarico fornita dal teste R.I., cittadino extracomunitario nordafricano, che senza problemi di alcun genere si recava abitualmente, nel periodo in contestazione, al bar dell'imputata".
Anche su tale punto deve ritenersi ineccepibile la sentenza impugnata, la quale ha osservato come "la circostanza, riguardando una singola persona, non si ponga in contrasto con la condotta tenuta dall'imputata nell'occasione oggetto della contestazione", dal momento che alla attuale ricorrente è "stata addebitata solo la condotta tenuta in quel giorno e, quindi, un singolo atto discriminatorio, e non una condotta abituale".
Ciò ineccepibilmente significa che il fatto di non discriminare, anche normalmente, un cittadino nordafricano non può elidere la discriminazione precedentemente compiuta nei confronti di appartenenti a quella stessa etnia.
2. Distinzione tra reato contestato e illecito amministrativo ex art. 187 TULPS.
La ricorrente richiama la norma dell'art. 87 TULPS, che qualifica speciale rispetto alla previsione generale della L. n. 654 del 1975, art. 3, comma 1, lett. a), e "che sancisce il divieto per l'esercente di rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo"; ne deriverebbe che "tale atto in sé... non è un atto di discriminazione, ma illegittimo mancato esercizio dell'attività commerciale ad personam la cui conseguenza è la mera previsione di una sanzione amministrativa"; viene precisato che "di fronte a una norma che sancisce il divieto per l'esercente di rifiutare le prestazioni del proprio esercizio a chiunque le domandi e ne corrisponda il prezzo (art. 187 TULPS)", l'atto del rifiuto, in quanto specificamente previsto dalla norma e sanzionato amministrativamente..., non è atto di discriminazione, ma illegittimo mancato esercizio dell'attività commerciale ad personam, la cui conseguenza è la mera previsione di una sanzione amministrativa". La questione è stata già sottoposta ai giudici di merito, i quali la hanno ineccepibilmente risolta facendo richiamo alla diversa oggettività delle due norme. La stessa lettera della legge, in effetti, è univoca e tale da consentire all'interprete di porre la distinzione in termini di certezza. In questa sede, quindi, non può che essere ribadito che le due norme prevedono condotte diverse, in quanto l'illecito amministrativo sanziona "il mero rifiuto di prestazioni richieste nel proprio esercizio", mentre la norma penale in questione sanziona, per quanto qui interessa, un rifiuto qualificato dall'aspetto discriminatorio che lo caratterizza.
Seguendo la propria linea argomentativa, la ricorrente rileva ulteriormente che il mero rifiuto di prestazioni non può costituire altro che "un atto di discriminazione nel senso proprio del termine"; che, tuttavia, "il punto qualificante è se qualsiasi atto di discriminazione sia da considerare penalmente sanzionata" e che "a tale conclusione in negativo era tesa la comparazione con la norma sul T.U. sull'immigrazione"; ne deriverebbe che "cosa diversa è il pregiudizio derivante da odio rispetto a quello derivante dal timore per la propria sicurezza". L'argomento della difesa coglie nel segno, ma in una direzione contraria, nel senso che, nella materia in esame, ogni atto di rifiuto può costituire discriminazione, ma ciò che qualifica penalmente il rifiuto è, per l'appunto, la significazione razziale sottesa alla particolare discriminazione.
3. Le questioni dell'elemento soggettivo del reato.
La ricorrente, sempre in riferimento alla questione in esame, sostiene che la motivazione sarebbe carente "sul punto qualificante della discriminazione relativamente all'elemento soggettivo", avendo l'imputata "agito nella consapevolezza che il comportamento fosse consentito laddove venissero ravvisate situazioni di pericolo che nel caso in esame erano rappresentate da una larga presenza di cittadini provenienti dall'area nordafricana, per la maggior parte ritenuti (verosimilmente in via putativa) clandestini, nullafacenti, senza fissa dimora, ecc...". La censura è infondata proprio sotto il profilo evidenziato dalla ricorrente, perché l'aver riferito la situazione di pericolo, in modo aprioristico e generalizzato, a una determinata categoria di persone, significa qualificare in termini di discriminazione razziale il comportamento che era espressione di quel timore.
La questione circa la sussistenza dell'elemento soggettivo del reato è stata sollevata (sempre con il motivo in esame) anche sotto il profilo che, poiché "lo Z.L. aveva già in passato rifiutato la prestazione ad altro cliente e per tale ragione era stato sanzionato in via amministrativa", egli (e, di conseguenza, successivamente anche l'attuale ricorrente), "versava nel convincimento che la mera condotta del rifiuto fosse un semplice illecito amministrativo". Anche sotto tale profilo la censura è infondata, in quanto, sulla base dei rilievi innanzi esposti, deve escludersi che si sia in presenza di una condotta espressiva di un mero rifiuto, ma di un rifiuto indirizzato verso gli esponenti di una determinata etnia (nella specie, gli extracomunitari nordafricani).
4. Il secondo motivo di ricorso.
Con il secondo motivo viene denunciata inosservanza di norme penali stabilite a pena di nullità e inutilizzabilità, in quanto, essendo stato posto con motivo d'appello "il problema di prove che si assumono acquisite in violazione di norme di procedura", "nulla è dato riscontrare nella motivazione della sentenza di appello", che non avrebbe affatto affrontato i punti censurati. Il motivo è inammissibile per genericità, non essendo stato precisato né quali siano le prove che sarebbero state acquisite "in violazione di norme di procedura", né le ragioni per le quali non sarebbe irrilevante l'utilizzazione di tali prove, "pur se all'interno del giudizio abbreviato, ritenute inutilizzabili per i motivi esposti". Null'altro, ai fini di una migliore comprensione della censura, è detto nel motivo in esame, peraltro brevissimo (meno di una pagina). Un contributo di precisazione può desumersi solo dalla stessa sentenza impugnata che, alla seconda pagina, contiene un fugace riferimento alle "doglianze relative alle prove assunte nel giudizio alla acquisizione delle prove assunte nel giudizio contro Z.L. ed acquisite al presente procedimento". Così intesa anche la censura in esame, i giudici di merito hanno esattamente affermato l'irrilevanza della relativa questione, atteso che i fatti nella loro materialità non sono contestai. Tale convincimento è ineccepibile, essendo indiscutibilmente irrilevante una questione in ordine all'acquisizione di prove di fatti già materialmente accertati. Del resto, di contro a tale giudizio di irrilevanza dato dalla Corte di merito, nessuna censura specifica è stata addotta, così da doversi ribadire, anche sotto tale aspetto, la valutazione di genericità del motivo in esame.
Deve, pertanto, concludersi che, non essendo fondate le censure mosse, il ricorso va rigettato, con conseguente condanna della ricorrente alle spese.
P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso in Roma, il 11 ottobre 2006.
Depositato in Cancelleria il 16 novembre 2006