Il diritto di difesa ed il principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in comparazione, ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie. Ciò che rileva è esclusivamente la durata del «giusto» processo, quale delineato dalla stessa norma costituzionale invocata come giustificatrice della limitazione del diritto di difesa del contumace. Una diversa soluzione introdurrebbe una contraddizione logica e giuridica all’interno dello stesso art. 111 Cost., che da una parte imporrebbe una piena tutela del principio del contraddittorio e dall’altra autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili allo scopo di abbreviare la durata dei procedimenti. Un processo non «giusto», perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata.
SENTENZA N. 317
ANNO 2009
REPUBBLICA ITALIANA
IN NOME DEL POPOLO ITALIANO
LA CORTE COSTITUZIONALE
composta dai signori: Presidente: Francesco AMIRANTE; Giudici : Ugo DE SIERVO, Paolo MADDALENA, Alfio FINOCCHIARO, Alfonso QUARANTA, Franco GALLO, Gaetano SILVESTRI, Sabino CASSESE, Maria Rita SAULLE, Giuseppe TESAURO, Paolo Maria NAPOLITANO, Giuseppe FRIGO, Alessandro CRISCUOLO, Paolo GROSSI,
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
nel giudizio di legittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, del codice di procedura penale, promosso dalla Corte di cassazione, nel procedimento penale a carico di F.V., con ordinanza del 17 settembre 2008, iscritta al n. 428 del registro ordinanze 2008 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 1, prima serie speciale, dell’anno 2009.
Visti l’atto di costituzione di F. V. nonché l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;
udito nell’udienza pubblica del 3 novembre 2009 il Giudice relatore Gaetano Silvestri;
uditi l’avvocato Savino Lupo per F. V. e l’avvocato dello Stato Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri.
Ritenuto in fatto
1. – La Corte di cassazione, prima sezione penale, con ordinanza del 17 settembre 2008, ha sollevato – in riferimento agli artt. 24, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – questione di legittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 del decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 17 (Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 aprile 2005, n. 60, nella parte in cui preclude la restituzione del contumace nel termine per proporre impugnazione quando quest’ultima sia stata già proposta dal difensore di ufficio, e «nella parte in cui non consente all’imputato restituito nel termine l’esercizio del diritto alla prova».
In via preliminare la Corte rimettente chiarisce come si proceda, nel giudizio principale, a valutare il ricorso per cassazione proposto riguardo ad un provvedimento della Corte di assise di appello di Bologna, con il quale è stata disposta la trasmissione per competenza, alla stessa Corte di legittimità, d’una richiesta di restituzione in termini formulata a norma dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen.
La richiesta in questione era stata avanzata nell’interesse di persona condannata in contumacia per gravissimi delitti, con sentenza della Corte di assise di Piacenza poi confermata, a seguito dell’impugnazione proposta dal difensore d’ufficio, con sentenza del competente giudice di appello, divenuta irrevocabile in difetto di ulteriore impugnazione.
Secondo la Corte d’appello bolognese, quando la sentenza diviene irrevocabile senza che siano stati esperiti in concreto tutti i gradi di giudizio, l’imputato può essere rimesso in termini, nel concorso delle condizioni indicate all’art. 175 cod. proc. pen., con esclusivo riguardo al mezzo di impugnazione non ancora sperimentato. Nei casi di intervenuta celebrazione del giudizio di appello, come quello di specie, l’interessato avrebbe dunque la mera possibilità di promuovere, pur tardivamente, la fase di legittimità del procedimento a suo carico. Di qui la disposta trasmissione degli atti alla Corte suprema, individuata quale giudice competente, nel caso concreto, a valutare la domanda di rimessione in termini.
Il difensore di fiducia dell’imputato ha impugnato il provvedimento appena descritto, sul presupposto che lo stesso consista in una dichiarazione di inammissibilità della domanda di restituzione nel termine per proporre un nuovo appello contro la sentenza contumaciale di condanna. Tale lettura è stata condivisa dai giudici di legittimità, i quali hanno dunque considerato ammissibile il ricorso.
Le doglianze difensive si sono incentrate – secondo quanto riferito dalla rimettente – sulla pretesa che l’esercizio della facoltà di appello da parte del difensore «consumi» l’analoga facoltà riconosciuta all’imputato, di talché la restituzione nel termine per proporre il gravame non potrebbe essere disposta in nessun caso. Si è sostenuto, in senso contrario, che il principio di «unicità» del diritto all’impugnazione sarebbe derogato nel caso di persona che non abbia avuto contezza del procedimento a suo carico. Varrebbe qui, in particolare, la norma «speciale» desumibile dal comma 2 dell’art. 175 cod. proc. pen., dopo le modifiche introdotte dal d.l. n. 17 del 2005 e dalla relativa legge di conversione. Dal testo della disposizione è stato infatti eliminato l’inciso che, fino alla novella, aveva precluso la rimessione nel termine con riguardo ad impugnazioni già proposte dal difensore dell’interessato. Dunque, secondo il ricorrente, il contumace inconsapevole avrebbe ormai diritto a proporre appello anche quando si determini, per effetto dell’impugnazione precedente, una duplicazione del giudizio di gravame.
Con i motivi aggiunti a sostegno del ricorso, poi, la difesa del condannato contumace ha eccepito l’illegittimità costituzionale dell’art. 175 cod. proc. pen., nella parte in cui non ammette «la possibilità di concedere la restituzione in termini per l’esercizio di tutte quelle facoltà difensive da cui l’imputato contumace è decaduto a causa della completa o parziale ignoranza del percorso processuale».
Sempre in via preliminare, la Corte rimettente precisa d’avere accertato, in esito ad indagini mirate, che nel corso del giudizio a suo carico il ricorrente non era mai stato reperito, neppure al fine di eseguire i provvedimenti coercitivi, di natura cautelare e poi esecutiva, progressivamente adottati nei suoi confronti.
Tutto ciò premesso, il giudice a quo ricorda che la questione posta dalla difesa del ricorrente è stata affrontata dalle Sezioni unite della Corte di cassazione con una recente sentenza (31 gennaio 2008, n. 6026), secondo la quale è preclusa al condannato in contumacia la rimessione nel termine per l’impugnazione, quando detta impugnazione sia già stata proposta dal difensore ed il relativo procedimento sia già stato definito.
Il rimettente richiama gli argomenti posti a fondamento della decisione. La giurisprudenza ha tradizionalmente ritenuto che, pur quando la legge accorda a più soggetti la possibilità di proporre un gravame, vale la regola di «unicità» del diritto all’impugnazione, e che l’atto di esercizio della facoltà «consuma» il potere corrispondente degli ulteriori soggetti legittimati. In particolare, l’impugnazione proposta dal difensore è pur sempre l’espressione di una prerogativa dell’imputato (come si evince, tra l’altro, dalla rubrica dell’art. 571 cod. proc. pen.). D’altra parte la duplicazione del giudizio impugnatorio, per se stessa incompatibile coi principi generali dell’ordinamento, non potrebbe trovare giustificazione nell’assenza di una preclusione formale nel testo novellato dell’art. 175 cod. proc. pen. L’esame dei lavori parlamentari concernenti la legge n. 60 del 2005 (di conversione del d.l. n. 17 del 2005) non varrebbe infatti ad evidenziare, in modo univoco, la intentio sottesa alla soppressione dell’inciso concernente le impugnazioni già proposte. Del resto, si aggiunge, se davvero il legislatore avesse inteso ammettere la celebrazione di un nuovo giudizio di gravame, non avrebbe mancato di regolare la sorte della sentenza già pronunciata in esito al giudizio precedente, e degli atti ad essa prodromici. Dunque, l’eliminazione della disposizione preclusiva sarebbe dovuta alla sua superfluità, essendo il divieto di bis in idem già desumibile dalla disciplina generale delle impugnazioni.
La Corte rimettente afferma di condividere la soluzione adottata dalle Sezioni unite, con la conseguenza che il ricorso sottoposto alla sua valutazione dovrebbe essere respinto, nonostante la tempestività della richiesta di rimessione in termini e l’effettiva inconsapevolezza del richiedente in merito al procedimento celebrato in suo danno.
Proprio in base a tali conclusioni assume rilevanza, sempre secondo il giudice a quo, la questione di legittimità costituzionale enunciata in apertura.
Nel merito, il rimettente sottolinea come l’art. 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo, nella costante lettura datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, garantisca all’accusato il diritto di partecipare al giudizio penale che lo riguarda, ed il diritto altresì, quando il giudizio si svolga senza che l’interessato ne abbia contezza, a misure ripristinatorie che rendano effettivo l’esercizio personale della difesa. La previsione convenzionale, in relazione al disposto del primo comma dell’art. 117 Cost., assume il rango di fonte interposta, cui il diritto interno deve conformarsi, sempre che la fonte sovranazionale esprima una norma compatibile con il dettato della Costituzione ed assicuri un corretto bilanciamento tra l’esigenza di assicurare l’osservanza degli obblighi assunti sul piano internazionale e la tutela di altri beni di adeguata rilevanza costituzionale (sono richiamate le sentenze della Corte costituzionale nn. 348 e 349 del 2007).
La Corte rimettente, nonostante il contrario avviso espresso in proposito dalle Sezioni unite della stessa Corte di cassazione, ritiene non manifestamente infondato il sospetto di un contrasto tra la norma censurata e l’art. 6 della Convenzione europea, e di una connessa violazione del parametro costituzionale appena indicato. Dovrebbe escludersi, in particolare, che la preclusione opposta al contumace trovi giustificazione nel necessario bilanciamento del suo diritto alla difesa con l’interesse costituzionalmente protetto alla ragionevole durata del processo (del quale il principio di «consumazione» della facoltà di appello costituirebbe un presidio). Da un lato, infatti, le regole processuali tendenti ad assicurare la «unicità» delle impugnazioni non riceverebbero alcuna diretta copertura costituzionale dal principio della ragionevole durata, che varrebbe unicamente a precludere la proliferazione irragionevole di adempimenti processuali. Per altro verso, non potrebbe considerarsi «razionale» un bilanciamento di interessi risolto in danno del diritto alla difesa di persone che siano state condannate senza alcuna cognizione del giudizio celebrato nei loro confronti, anche riguardo alla fase d’appello.
Il disvalore del bis in idem non potrebbe essere opposto, secondo la rimettente, a chi non abbia senza colpa partecipato al processo, dovendo pur sempre garantirsi, anche in una prospettiva di massima semplificazione, che la procedura adottata conduca ad un risultato «giusto», con ciò intendendosi, nella specie, un risultato conseguito senza vulnerare il diritto inviolabile alla difesa.
In definitiva, il «risultato dell’interpretazione» elaborata dalle Sezioni unite della Corte suprema, e condivisa dal giudice rimettente, assegnerebbe alla norma censurata un contenuto precettivo non compatibile con l’art. 117, primo comma, Cost. (integrato dalla disposizione convenzionale più volte richiamata), con l’art. 111, primo comma, Cost., che pone direttamente al legislatore l’obbligo di assicurare il giusto processo, e con l’art. 24 Cost. Non sarebbe possibile, d’altra parte, «una interpretazione adeguatrice o secundum constitutionem mediante l’uso degli ordinari strumenti ermeneutici indicati dall’art. 12 delle Disposizioni sulla legge in generale».
2. – Il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, è intervenuto nel giudizio con atto depositato in data 20 gennaio 2009, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile.
Il giudice rimettente, infatti, non avrebbe adempiuto all’obbligo di sperimentare soluzioni interpretative «costituzionalmente orientate», tali da riconoscere il diritto del contumace alla rimessione in termini anche nel caso di impugnazione già proposta dal difensore. Uno spazio in tal senso residuerebbe nonostante l’opposta presa di posizione delle Sezioni unite della Corte suprema, che ha fatto seguito a decisioni di segno contrario (sono citate le sentenze 21 giugno 2006, n. 34468, e 7 dicembre 2006, n. 41711) e non sarebbe stata confermata, in seguito, da pronunce di segno conforme. Non potrebbe dirsi, quindi, che le Sezioni unite abbiano consolidato un indirizzo sfavorevole agli interessi del condannato in contumacia.
L’attività dell’interprete, d’altra parte, non potrebbe prescindere dai precetti fissati nell’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo, secondo la lettura datane dalla Corte europea. Inoltre, il nuovo testo del comma 2 dell’art. 175 cod. proc. pen. non contiene, a differenza di quello originario, alcuna disposizione preclusiva fondata sulla precedente impugnazione del difensore. Sarebbe dunque arbitrario desumerne una regola di inammissibilità per le richieste di rimessione che intervengano dopo un precedente giudizio di gravame. Regola che in effetti – ove ritenuta sussistente – «potrebbe urtare contro i principi contenuti negli artt. 24 e 111 Cost.».
Gli argomenti fondati sulla pretesa «consumazione» del diritto ad impugnare trascurano, ad avviso della difesa erariale, che l’art. 175 cod. proc. pen. non ha solo la funzione di garantire, pur tardivamente, un secondo giudizio sul fatto, ma rappresenta il mezzo per compensare la mancata partecipazione dell’imputato al procedimento che lo riguarda. Il meccanismo anzi, ed «a rigore», costituirebbe un rimedio non «pienamente satisfattivo», poiché non asseconda l’aspettativa del condannato in contumacia all’integrale celebrazione del giudizio in sua presenza.
L’interpretazione adottata dal giudice rimettente, infine, provocherebbe un vulnus ad interessi garantiti anche dall’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo. L’Avvocatura generale ricorda, a tale proposito, che la Corte EDU non ha ancora perfezionato un giudizio di conformità del novellato art. 175 cod. proc. pen. ai precetti della Convenzione, ed ha invece affermato, ripetutamente, che la restituzione in termini del contumace inconsapevole deve essere assicurata «senza ulteriori requisiti o filtri».
3. – Con atto depositato in data 23 gennaio 2009 si è costituito nel giudizio, quale parte del procedimento principale, il ricorrente F.V., nel cui interesse è stata presentata la richiesta di rimessione in termini dichiarata inammissibile dalla Corte di assise di appello di Bologna.
La parte premette che il giudizio culminato con la sentenza di condanna si era svolto senza che l’interessato ne avesse avuta contezza, e ripercorre, in termini adesivi, gli argomenti esposti dal giudice rimettente. Viene escluso, in particolare, che l’art. 6 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo possa determinare un vulnus al principio di ragionevole durata del processo, essendo evidente come la semplificazione del rito non possa mai spingersi fino a determinare l’assoluta compressione del diritto di difesa dell’imputato, anche nella prospettiva della produzione di nuove prove che contrastino il quadro cognitivo già valutato ai fini della pronuncia di condanna.
Si ricorda ancora, nell’atto di costituzione, come la Corte europea dei diritti dell’uomo abbia stabilito che la persona condannata in absentia, quando non sia possibile attribuirle una rinuncia volontaria alla partecipazione, «deve in ogni circostanza poter ottenere che una giurisdizione statuisca nuovamente sul merito delle accuse» (è richiamata la sentenza Sejdovic c. Italia del 10 novembre 2004).
Da ultimo, la parte osserva che la stessa celebrazione di un giudizio di appello potrebbe risultare inidonea a garantire il diritto di difesa dell’interessato, se non accompagnata «dall’automatico riconoscimento della facoltà di presentare prove in suo favore». In caso contrario «si rimarrebbe nell’ambito di un processo inevitabilmente ingiusto, ed il grado di appello, seppur celebrato ex novo, si limiterebbe ad una analisi di risultati prodotti da un contraddittorio parziale».
Considerato in diritto
1. – La Corte di cassazione dubita – in riferimento agli artt. 24, 111, primo comma, e 117, primo comma, della Costituzione – della legittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, del codice di procedura penale, come sostituito dall’art. 1 del decreto-legge 21 febbraio 2005, n. 17 (Disposizioni urgenti in materia di impugnazione delle sentenze contumaciali e dei decreti di condanna), convertito, con modificazioni, dalla legge 22 aprile 2005, n. 60, nella parte in cui preclude la restituzione del contumace nel termine per proporre impugnazione quando quest’ultima sia stata già proposta dal difensore di ufficio, e «nella parte in cui non consente all’imputato restituito nel termine l’esercizio del diritto alla prova».
2. – La questione è parzialmente fondata.
2.1. – La questione promossa nel presente giudizio inerisce alla più vasta problematica della garanzia del diritto di difesa e del diritto al contraddittorio dell’imputato contumace. In particolare si tratta, nel caso di specie, dell’imputato giudicato in contumacia che non abbia avuto contezza del processo e non abbia potuto, per questo motivo, partecipare al suo svolgimento, vedendosi precluso, in tal modo, l’esercizio del proprio diritto di difendersi, anche mediante la produzione di nuove e diverse prove rispetto a quelle presentate dall’accusa.
3. – Il diritto dell’imputato a partecipare personalmente al processo che lo riguarda è sancito dal Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, firmato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo in Italia in base alla legge 25 ottobre 1977, n. 881 (Ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, nonché del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, con protocollo facoltativo, adottati e aperti alla firma a New York rispettivamente il 16 e il 19 dicembre 1966), che attribuisce all’imputato il «diritto di essere presente al processo» (art. 14, comma 3, lettera d).
Il medesimo diritto, nello spazio europeo, è garantito dall’art. 6 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva in Italia in base alla legge 4 agosto 1955, n. 848 (Ratifica ed esecuzione della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali firmata a Roma il 4 novembre 1950 e del Protocollo addizionale alla Convenzione stessa, firmato a Parigi il 20 marzo 1952), nell’interpretazione datane dalla Corte europea dei diritti dell’uomo, nei termini più avanti specificati.
Il Comitato dei Ministri del Consiglio d’Europa, con la risoluzione del 21 maggio 1975, n. 11, ha precisato i criteri da seguire nel giudizio in assenza dell’imputato, stabilendo, tra le «regole minime», che «ogni persona giudicata in sua assenza deve poter impugnare la decisione con tutti i mezzi di gravame che le sarebbero consentiti qualora fosse stata presente» (raccomandazione n. 7).
L’art. 3 del Secondo Protocollo addizionale alla Convenzione europea di estradizione, adottato a Strasburgo il 17 marzo 1978, ratificato e reso esecutivo in Italia in base alla legge 18 ottobre 1984, n. 755 (Ratifica ed esecuzione del secondo protocollo aggiuntivo alla convenzione europea di estradizione, adottato a Strasburgo il 17 marzo 1978), prevede che l’estradizione di un condannato, ai fini dell’esecuzione di una pena inflitta mediante provvedimento reso in contumacia, possa essere subordinata al fatto che la Parte richiedente fornisca «assicurazioni ritenute sufficienti per garantire alla persona la cui estradizione è chiesta il diritto ad un nuovo procedimento di giudizio che tuteli i diritti della difesa».
L’art. 5, numero 1), della Decisione quadro del Consiglio dell’Unione europea del 13 giugno 2002 (2002/584/GAI), relativa al mandato d’arresto europeo ed alle procedure di consegna tra Stati membri, dispone: «Se il mandato di arresto europeo è stato emesso ai fini dell’esecuzione di una pena o di una misura di sicurezza comminate mediante decisione pronunciata “in absentia”, e se l’interessato non è stato citato personalmente né altrimenti informato della data e del luogo dell’udienza che ha portato alla decisione pronunciata in absentia, la consegna può essere subordinata alla condizione che l’autorità giudiziaria emittente fornisca assicurazioni considerate sufficienti a garantire alle persone oggetto del mandato di arresto europeo la possibilità di richiedere un nuovo processo nello Stato membro emittente e di essere presenti al giudizio».
4. – La Corte europea dei diritti dell’uomo ha interpretato l’art. 6 CEDU con una serie di pronunce (Colozza c. Italia, 12 febbraio 1985; F.C.B. c. Italia, 28 agosto 1991; T. c. Italia, 12 ottobre 1992; Somogyi c. Italia, 18 maggio 2004; Sejdovic c. Italia, 10 novembre 2004 e Idem, Grande Camera, 1° marzo 2006), nelle quali ha dedotto dalla disposizione citata della Convenzione – in particolare dal comma 3 – un gruppo di regole di garanzia processuale rilevanti per la presente questione: a) l’imputato ha il diritto di esser presente al processo svolto a suo carico; b) lo stesso può rinunciare volontariamente all’esercizio di tale diritto; c) l’imputato deve essere consapevole dell’esistenza di un processo nei suoi confronti; d) devono esistere strumenti preventivi o ripristinatori, per evitare processi a carico di contumaci inconsapevoli, o per assicurare in un nuovo giudizio, anche mediante la produzione di nuove prove, il diritto di difesa che non è stato possibile esercitare personalmente nel processo contumaciale già concluso.
5. – Il legislatore italiano ha scelto lo strumento delle misure ripristinatorie, per garantire comunque al contumace inconsapevole la possibilità di esercitare adeguatamente il suo diritto di difesa in giudizio. L’attuale disciplina – parte della quale è oggetto di censura nel presente giudizio – è frutto di una progressiva evoluzione, che giova riassumere, allo scopo di meglio focalizzare la questione oggi sottoposta al vaglio di questa Corte.
Il codice di procedura penale del 1930, nel suo testo originario, consentiva la celebrazione del processo in contumacia, con l’unica garanzia rappresentata dalla previsione che l’estratto della sentenza fosse notificato al contumace, per il quale il termine utile per l’impugnazione decorreva dalla data della notifica (artt. 199 e 500). Con la riforma del 1955, e la conseguente introduzione nel codice di un art. 183-bis, veniva prevista anche per il contumace la possibilità di essere rimesso nel termine per impugnare, qualora non avesse potuto farlo, in precedenza, per «caso fortuito» o «forza maggiore».
Mentre era ancora in vigore la disciplina del 1955, interveniva la prima sentenza della Corte EDU (Colozza c. Italia, 1985), nella quale si riteneva necessario, per garantire il diritto di difesa del contumace inconsapevole, che fosse assicurata una nuova valutazione dell’accusa da parte del giudice, in un procedimento nel cui ambito l’imputato venisse «ascoltato» sul merito dell’imputazione.
Il codice di procedura penale del 1988 stabiliva alcune nuove regole in materia di processo all’imputato contumace (regole «anticipate» di qualche mese, attraverso la modifica di alcune norme del codice del 1930, dalla legge 23 gennaio 1989, n. 24, recante «Nuova disciplina della contumacia»).
La possibilità per il difensore di impugnare la sentenza a carico del contumace veniva accordata alla sola condizione che lo stesso difensore fosse munito di uno specifico mandato in tal senso (comma 3 dell’art. 571). Questa Corte deduceva da tale norma la ratio che fosse stata «privilegiata l’autodifesa rispetto alla difesa tecnica» (sentenza n. 315 del 1990). Si subordinava la restituzione nel termine alla prova, da parte del condannato, di aver ignorato il provvedimento senza sua colpa (comma 2 dell’art. 175). Veniva fissato un termine di dieci giorni dalla cognizione dell’atto e si precludeva la rimessione nel termine per l’impugnazione, a favore dell’imputato, qualora il difensore avesse già impugnato la sentenza. Infine l’art. 603, ancora in vigore, ammetteva, alle medesime condizioni previste per l’impugnazione tardiva nel testo originario del comma 2 dell’art. 175 cod. proc. pen., il diritto alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale.
Intervenendo nuovamente con la legge 16 dicembre 1999, n. 479 (Modifiche alle disposizioni sul procedimento davanti al tribunale in composizione monocratica e altre modifiche al codice di procedura penale. Modifiche al codice di procedura penale e all’ordinamento giudiziario. Disposizioni in materia di contenzioso civile pendente, di indennità spettanti al giudice di pace e di esercizio della professione forense), il legislatore sopprimeva la necessità del mandato speciale al difensore per impugnare la sentenza resa a carico del contumace, ma non eliminava per quest’ultimo la preclusione ad una restituzione nel termine per l’impugnazione, nel caso che questa fosse stata già proposta dal difensore medesimo.
Intervenivano quindi altre due significative pronunce della Corte di Strasburgo (in particolare, la decisione 11 settembre 2003 nel procedimento Sejdovic c. Italia, e la successiva sentenza, nello stesso procedimento, in data 10 novembre 2004). In tali pronunce si censurava la legislazione italiana per l’eccessiva difficoltà di provare il difetto di conoscenza e per l’estrema brevità (dieci giorni) del tempo utile per la presentazione dell’istanza di restituzione nel termine per impugnare la sentenza contumaciale. Con la seconda delle decisioni citate, la Corte europea segnalava un «problema strutturale connesso ad una disfunzione della legislazione italiana».
Tenendo conto di tale giurisprudenza della Corte EDU, il legislatore è intervenuto ancora una volta in materia, con una nuova formulazione dell’art. 175 cod. proc. pen., introdotta dal decreto-legge n. 17 del 2005 e dalla relativa legge di conversione, che detta alcune nuove regole: a) il contumace non deve più provare l’inconsapevolezza dell’esistenza del procedimento o del provvedimento, per la cui impugnazione chiede di essere rimesso in termini, con la conseguenza che l’onere della prova ricade su chi sostiene invece la consapevolezza; b) il termine per la richiesta è aumentato a trenta giorni dalla conoscenza dell’atto; c) non è riprodotta l’esplicita preclusione ad una restituzione dell’imputato, nel termine per impugnare, in caso di impugnazione già proposta dal difensore.
6. – Dopo la riforma del 2005, la Corte di cassazione aveva ritenuto in due pronunce (sez. I, 21 giugno 2006, n. 34468; sez. I, 7 dicembre 2006, n. 41711) che, in base al nuovo testo dell’art. 175 cod. proc. pen., fosse ammissibile la restituzione del contumace nel termine per impugnare anche dopo l’impugnazione del difensore. Nella seconda delle pronunce citate, la Corte di legittimità segnalava che l’art. 669 cod. proc. pen. prevede appositi rimedi per rimuovere l’eventuale contrasto tra giudicati, nell’ipotesi di una pluralità di sentenze emesse, per lo stesso fatto, a carico della medesima persona.
È tuttavia intervenuta, successivamente, una sentenza delle Sezioni unite della stessa Corte di cassazione (31 gennaio 2008, n. 6026), che ha capovolto l’interpretazione precedente ed ha sviluppato una serie di argomenti, che possono essere considerati all’origine della presente questione di legittimità costituzionale. Si afferma che il codice di rito vigente è caratterizzato dal principio dell’unicità del diritto di impugnazione, collegato al principio del ne bis in idem, da ritenere fondamentale nel nostro ordinamento processuale. A ciò si aggiunge che la Corte costituzionale non avrebbe negato, in linea di principio, la validità delle misure ripristinatorie ai fini della difesa del contumace inconsapevole e che l’art. 6 CEDU non accorderebbe allo stesso una tutela maggiore di quella offerta dall’art. 111 Cost. Si deve tener conto – sempre secondo le Sezioni unite – che, con la modifica dell’art. 571 cod. proc. pen., il legislatore ha consentito l’impugnazione senza mandato da parte del difensore, affermando così il primato della difesa tecnica su quella personale. Segue il richiamo alle sentenze nn. 348 e 349 del 2007 di questa Corte, dalle quali si ricaverebbe la necessità di bilanciare la difesa dell’imputato contumace ed il principio di ragionevole durata del processo, di cui l’unicità dell’impugnazione sarebbe diretta proiezione. Il duplice esercizio del diritto all’impugnazione entrerebbe in conflitto con tale principio e non potrebbe pertanto essere introdotto nell’ordinamento processuale italiano.
Quanto alla recente modifica dell’art. 175 cod. proc. pen., ed in particolare all’eliminazione dell’inciso che precludeva la restituzione in termini nel caso di gravame già proposto dal difensore, i lavori parlamentari non offrirebbero una chiave interpretativa univoca circa l’intenzione del legislatore.
Non si dovrebbe trascurare, infine, la possibilità che i contumaci, in caso di ammissibilità della doppia impugnazione, rendano sempre provvisorie le sentenze emesse nei loro confronti.
Dopo la suddetta sentenza delle Sezioni unite, la Corte di cassazione ha aderito, con tre pronunce – l’ultima delle quali è quella che ha sollevato la presente questione – al nuovo orientamento interpretativo (l’ordinanza di rimessione è stata preceduta da sez. I, 11 novembre 2008, n. 33 del 2009, e sez. I, 10 dicembre 2008, n. 8429 del 2009). Non si rilevano decisioni difformi. Si può concludere quindi che sul punto si è formato un vero e proprio «diritto vivente», che impone a questa Corte di incentrare le sue valutazioni sulla norma impugnata nell’interpretazione dominante, fatta propria dal giudice a quo.
L’imputato giudicato in contumacia resta così privo, nel caso che il suo difensore abbia già promosso un giudizio impugnatorio, della possibilità di chiedere la restituzione nel termine per impugnare e, conseguentemente, dell’effettività del diritto ad essere presente nel processo che lo riguarda.
L’esistenza di un diritto vivente nel senso indicato non consente di accogliere la richiesta dell’Avvocatura dello Stato di una pronuncia di inammissibilità, per non avere il rimettente considerato la possibilità di dare della disposizione censurata un’interpretazione conforme alla Costituzione, sulla falsariga delle pronunce della Corte di cassazione anteriori alla sentenza delle Sezioni unite n. 6026 del 2008. Al contrario, lo stesso giudice ha esplicitamente ritenuto di non poter giungere a interpretazione diversa da quella delle Sezioni unite, facendo uso degli ordinari strumenti ermeneutici.
7. – Identificato come sopra l’oggetto del presente giudizio, la valutazione della questione di legittimità costituzionale concernente l’art. 175, comma 2, cod. proc. pen. deve essere condotta in riferimento congiunto ai parametri di cui agli artt. 117, primo comma – in relazione all’art. 6 CEDU, quale interpretato dalla Corte di Strasburgo – 24 e 111, primo comma, Cost. Occorre infatti mettere in rilievo la compenetrazione delle tutele offerte da queste tre norme, ai fini di un adeguato esercizio del diritto di difesa. Questa Corte ha già chiarito che l’integrazione del parametro costituzionale rappresentato dal primo comma dell’art. 117 Cost. non deve intendersi come una sovraordinazione gerarchica delle norme CEDU – in sé e per sé e quindi a prescindere dalla loro funzione di fonti interposte – rispetto alle leggi ordinarie e, tanto meno, rispetto alla Costituzione. Con riferimento ad un diritto fondamentale, il rispetto degli obblighi internazionali non può mai essere causa di una diminuzione di tutela rispetto a quelle già predisposte dall’ordinamento interno, ma può e deve, viceversa, costituire strumento efficace di ampliamento della tutela stessa. Se si assume questo punto di partenza nella considerazione delle interrelazioni normative tra i vari livelli delle garanzie, si arriva facilmente alla conclusione che la valutazione finale circa la consistenza effettiva della tutela in singole fattispecie è frutto di una combinazione virtuosa tra l’obbligo che incombe sul legislatore nazionale di adeguarsi ai principi posti dalla CEDU – nella sua interpretazione giudiziale, istituzionalmente attribuita alla Corte europea ai sensi dell’art. 32 della Convenzione – l’obbligo che parimenti incombe sul giudice comune di dare alle norme interne una interpretazione conforme ai precetti convenzionali e l’obbligo che infine incombe sulla Corte costituzionale – nell’ipotesi di impossibilità di una interpretazione adeguatrice – di non consentire che continui ad avere efficacia nell’ordinamento giuridico italiano una norma di cui sia stato accertato il deficit di tutela riguardo ad un diritto fondamentale. Del resto, l’art. 53 della stessa Convenzione stabilisce che l’interpretazione delle disposizioni CEDU non può implicare livelli di tutela inferiori a quelli assicurati dalle fonti nazionali.
L’accertamento dell’eventuale deficit di garanzia deve quindi essere svolto in comparazione con un livello superiore già esistente e giuridicamente disponibile in base alla continua e dinamica integrazione del parametro, costituito dal vincolo al rispetto degli obblighi internazionali, di cui al primo comma dell’art. 117 Cost.
È evidente che questa Corte non solo non può consentire che si determini, per il tramite dell’art. 117, primo comma, Cost., una tutela inferiore a quella già esistente in base al diritto interno, ma neppure può ammettere che una tutela superiore, che sia possibile introdurre per la stessa via, rimanga sottratta ai titolari di un diritto fondamentale. La conseguenza di questo ragionamento è che il confronto tra tutela convenzionale e tutela costituzionale dei diritti fondamentali deve essere effettuato mirando alla massima espansione delle garanzie, anche attraverso lo sviluppo delle potenzialità insite nelle norme costituzionali che hanno ad oggetto i medesimi diritti.
Nel concetto di massima espansione delle tutele deve essere compreso, come già chiarito nelle sentenze nn. 348 e 349 del 2007, il necessario bilanciamento con altri interessi costituzionalmente protetti, cioè con altre norme costituzionali, che a loro volta garantiscano diritti fondamentali che potrebbero essere incisi dall’espansione di una singola tutela. Questo bilanciamento trova nel legislatore il suo riferimento primario, ma spetta anche a questa Corte nella sua attività interpretativa delle norme costituzionali.
Il richiamo al «margine di apprezzamento» nazionale – elaborato dalla stessa Corte di Strasburgo, come temperamento alla rigidità dei principi formulati in sede europea – trova la sua primaria concretizzazione nella funzione legislativa del Parlamento, ma deve essere sempre presente nelle valutazioni di questa Corte, cui non sfugge che la tutela dei diritti fondamentali deve essere sistemica e non frazionata in una serie di norme non coordinate ed in potenziale conflitto tra loro. Naturalmente, alla Corte europea spetta di decidere sul singolo caso e sul singolo diritto fondamentale, mentre appartiene alle autorità nazionali il dovere di evitare che la tutela di alcuni diritti fondamentali – compresi nella previsione generale ed unitaria dell’art. 2 Cost. – si sviluppi in modo squilibrato, con sacrificio di altri diritti ugualmente tutelati dalla Carta costituzionale e dalla stessa Convenzione europea.
Il risultato complessivo dell’integrazione delle garanzie dell’ordinamento deve essere di segno positivo, nel senso che dall’incidenza della singola norma CEDU sulla legislazione italiana deve derivare un plus di tutela per tutto il sistema dei diritti fondamentali.
Questa Corte non può sostituire la propria interpretazione di una disposizione della CEDU a quella della Corte di Strasburgo, con ciò uscendo dai confini delle proprie competenze, in violazione di un preciso impegno assunto dallo Stato italiano con la sottoscrizione e la ratifica, senza l’apposizione di riserve, della Convenzione (sentenza n. 311 del 2009), ma può valutare come ed in qual misura il prodotto dell’interpretazione della Corte europea si inserisca nell’ordinamento costituzionale italiano. La norma CEDU, nel momento in cui va ad integrare il primo comma dell’art. 117 Cost., da questo ripete il suo rango nel sistema delle fonti, con tutto ciò che segue, in termini di interpretazione e bilanciamento, che sono le ordinarie operazioni cui questa Corte è chiamata in tutti i giudizi di sua competenza.
In sintesi, il «margine di apprezzamento» nazionale può essere determinato avuto riguardo soprattutto al complesso dei diritti fondamentali, la cui visione ravvicinata e integrata può essere opera del legislatore, del giudice delle leggi e del giudice comune, ciascuno nell’ambito delle proprie competenze.
8. – Alla luce delle considerazioni che precedono, si deve esaminare l’eventualità che – come affermato dalle Sezioni unite della Corte di cassazione nella citata sentenza n. 6026 del 2008 – il diritto di difesa del contumace inconsapevole debba bilanciarsi con il principio di ragionevole durata del processo, di cui al secondo comma dell’art. 111 della Costituzione.
Tale eventualità deve essere esclusa, giacché il diritto di difesa ed il principio di ragionevole durata del processo non possono entrare in comparazione, ai fini del bilanciamento, indipendentemente dalla completezza del sistema delle garanzie. Ciò che rileva è esclusivamente la durata del «giusto» processo, quale delineato dalla stessa norma costituzionale invocata come giustificatrice della limitazione del diritto di difesa del contumace. Una diversa soluzione introdurrebbe una contraddizione logica e giuridica all’interno dello stesso art. 111 Cost., che da una parte imporrebbe una piena tutela del principio del contraddittorio e dall’altra autorizzerebbe tutte le deroghe ritenute utili allo scopo di abbreviare la durata dei procedimenti. Un processo non «giusto», perché carente sotto il profilo delle garanzie, non è conforme al modello costituzionale, quale che sia la sua durata.
In realtà, non si tratterebbe di un vero bilanciamento, ma di un sacrificio puro e semplice, sia del diritto al contraddittorio sancito dal suddetto art. 111 Cost., sia del diritto di difesa, riconosciuto dall’art. 24, secondo comma, Cost.: diritti garantiti da norme costituzionali che entrambe risentono dell’effetto espansivo dell’art. 6 CEDU e della corrispondente giurisprudenza della Corte di Strasburgo.
È bene chiarire in proposito che un incremento di tutela indotto dal dispiegarsi degli effetti della normativa CEDU certamente non viola gli articoli della Costituzione posti a garanzia degli stessi diritti, ma ne esplicita ed arricchisce il contenuto, innalzando il livello di sviluppo complessivo dell’ordinamento nazionale nel settore dei diritti fondamentali.
9. – A fortiori non possono essere richiamati, per convalidare la legittimità costituzionale della norma censurata, i principi dell’unicità del diritto all’impugnazione e del divieto di bis in idem, da cui non possono essere tratte conclusioni limitative di un diritto fondamentale. Tali principi devono essere presi in considerazione, invece, sia per ricercare i rimedi ad eventuali giudicati contraddittori che già siano presenti nell’ordinamento positivo, sia per approntare, da parte del legislatore, norme tecniche di dettaglio, volte a rendere maggiormente operativo, sul piano processuale, il principio di garanzia costituito dal diritto del contumace inconsapevole a fruire di una misura ripristinatoria. Quest’ultima, per avere effettività, non può essere «consumata» dall’atto di un soggetto, il difensore (normalmente nominato d’ufficio, in tali casi, stante l’assenza e l’irreperibilità dell’imputato), che non ha ricevuto un mandato ad hoc e che agisce esclusivamente di propria iniziativa. L’esercizio di un diritto fondamentale non può essere sottratto al suo titolare, che può essere sostituito solo nei limiti strettamente necessari a sopperire alla sua impossibilità di esercitarlo e non deve trovarsi di fronte all’effetto irreparabile di una scelta altrui, non voluta e non concordata, potenzialmente dannosa per la sua persona.
È appena il caso di aggiungere che questa Corte può intervenire in materia nei limiti della sua competenza e non può incidere sulla conformazione del processo contumaciale, che spetta al legislatore. Si deve soltanto sottolineare che, nell’accogliere parzialmente la questione sollevata dalla Corte rimettente, si elimina una specifica violazione al diritto di difesa ed al contraddittorio dell’imputato contumace inconsapevole, allo scopo di rendere effettiva proprio la misura ripristinatoria scelta dal legislatore – la rimessione nel termine per proporre impugnazione – senza profilare un nuovo modello di processo al contumace.
Qualunque decisione di accoglimento produce effetti sistemici; questa Corte non può tuttavia negare il suo intervento a tutela dei diritti fondamentali per considerazioni di astratta coerenza formale.
L’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., per i motivi sopra esposti deve essere dichiarato costituzionalmente illegittimo nella parte in cui preclude la restituzione del contumace, che non aveva avuto cognizione del processo, nel termine per proporre impugnazione, quando la stessa impugnazione sia già stata proposta dal difensore. Resta chiaro che la presente decisione attiene alla sola preclusione formale individuata dal diritto vivente (quella cioè derivante dall’esistenza di una pregressa impugnazione), e non incide sui presupposti fissati dalla legge per l’accesso del contumace inconsapevole al meccanismo di garanzia.
10. – Il petitum avanzato dal rimettente comprende anche la dichiarazione di illegittimità costituzionale della disposizione censurata nella parte in cui non consente all’imputato restituito nel termine l’esercizio del diritto alla prova.
La questione è manifestamente inammissibile.
Si tratta di questione che, avuto riguardo al procedimento principale, pendente davanti al giudice della legittimità, si presenta come astratta e prematura, e quindi irrilevante per la definizione del giudizio. Se rimesso nel termine, l’imputato potrà proporre l’acquisizione di nuove prove nel giudizio di merito, ed in quella sede potrà eventualmente sorgere il problema dell’esercizio del suo diritto alla prova, asseritamente violato dalla norma censurata. Nel processo a quo la Corte di cassazione è chiamata a giudicare soltanto sulla legittimità del diniego di restituzione nel termine pronunciato dalla Corte di assise di appello di Bologna, restando impregiudicata la successiva attività processuale, che si svolgerà nell’ipotesi di apertura del giudizio di impugnazione sinora negato al ricorrente.
per questi motivi
LA CORTE COSTITUZIONALE
dichiara la illegittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, del codice di procedura penale, nella parte in cui non consente la restituzione dell’imputato, che non abbia avuto effettiva conoscenza del procedimento o del provvedimento, nel termine per proporre impugnazione contro la sentenza contumaciale, nel concorso delle ulteriori condizioni indicate dalla legge, quando analoga impugnazione sia stata proposta in precedenza dal difensore dello stesso imputato;
dichiara la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale dell’art. 175, comma 2, cod. proc. pen., nella parte in cui non consente all’imputato restituito nel termine l’esercizio del diritto alla prova, sollevata, in riferimento agli artt. 24, 111, primo comma e 117, primo comma, della Costituzione, dalla Corte di cassazione, con l’ordinanza indicata in epigrafe.
Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 30 novembre 2009.
F.to:
Francesco AMIRANTE, Presidente
Gaetano SILVESTRI, Redattore
Giuseppe DI PAOLA, Cancelliere
Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2009.
Il Direttore della Cancelleria
F.to: DI PAOLA