Il diritto alla prova è immediatamente funzionale a quello di difesa, del quale rappresenta una qualificata forma di manifestazione: si parla abitualmente e più specificamente di un "diritto di difendersi provando", il quale informa di sé l’intero art. 495 c.p.p., in cui s’invera il principio della "parità delle armi" tra le parti del processo, sancito dall’art. 111 Cost., comma 2, e dall’art. 6, comma 3, lett. d), CEDU.
L’eventuale nullità dell’atto di revoca dell’ordinanza ammissiva dell’esame dell’imputato e, per esso, della sentenza, deve essere classificata tra quelle generali a regime intermedio in quanto attinente all’esplicazione dell’attività difensiva nel processo, e dunque - avuto riguardo alle categorie tipizzate dall’art. 178, lett. c), stesso codice - all’intervento dell’imputato. Da ciò consegue, per la parte interessata e presente all’atto, l’onere di eccepire tale vizio, al più tardi ed a pena di decadenza, immediatamente dopo il compimento di esso, ai sensi del successivo art. 182, commi 2 e 3; ma altresì che detta nullità rimane sanata, laddove la stessa parte abbia accettato gli effetti dell’atto viziato, secondo quanto disposto dal seguente art. 183, lett. a).
Corte di Cassazione
sez. VI Penale, sentenza 25 settembre – 15 novembre 2019, n. 46478
Presidente Diotallevi – Relatore Rosati
Ritenuto in fatto
1. Con sentenza emessa il 19 novembre 2018, la Corte di appello di Perugia ha confermato la condanna inflitta il 24 aprile 2015 dal Tribunale di Terni a D.M.S. , per il delitto di cui all’art. 393 c.p., in danno della parte civile M.S. , riformando tale sentenza, invece, per altri capi e, per l’effetto, rideterminando la pena e la misura del risarcimento del danno.
2. Avverso la sentenza d’appello propone ricorso per cassazione il difensore e procuratore speciale di D.M. , articolando quattro motivi.
2.1. Il primo denuncia la violazione dell’art. 503 c.p.p., riproponendo l’eccezione di nullità della sentenza di primo grado già rassegnata con i motivi d’appello, per avere il Tribunale violato il diritto di difesa dell’imputato, avendone immotivatamente revocato l’esame in precedenza ammesso. La Corte d’appello, sostenendo che tale circostanza non integri alcuna violazione del diritto di difesa, poiché l’imputato può comunque rendere in ogni momento dichiarazioni spontanee (ciò che, peraltro, è avvenuto nel caso specifico), avrebbe erroneamente confuso i due piani, trascurando di considerare la differenza tra "diritto di difesa", di cui sono esplicazione quelle dichiarazioni, e "diritto di prova", essendo l’esame un mezzo di prova.
Inoltre, la Corte avrebbe del tutto omesso di motivare sulla nullità dell’ordinanza di revoca di tale esame, resa in assenza di qualsiasi motivazione.
2.2. Con il secondo motivo, si deduce la non configurabilità del delitto di cui all’art. 393 c.p., in quanto tale fattispecie di reato non è intesa a garantire la tutela del monopolio giurisdizionale e, in occasione dei fatti, D.M. si era previamente rivolto alla Polizia, istituzionalmente preposta, ai sensi dell’art. 1, T.u.l.p.s., alla composizione bonaria dei conflitti privati.
2.3. Con il terzo, si lamentano vizi cumulativi di motivazione, in ordine alla ricostruzione dei fatti operata in sentenza, denunciandosi in particolare: a) la sopravvalutazione della testimonianza di M.A. - figlia della parte civile e, in quanto tale, non indifferente all’esito del processo - tanto più alla luce della ritenuta inutilizzabilità delle testimonianze di M.S. ed A. , sulle quali il Tribunale aveva invece fondato il proprio giudizio; b) la mancata riqualificazione del fatto come tentativo di esercizio arbitrario delle proprie ragioni con violenza sulle cose, e non sulle persone, residuando, quale unica testimonianza affidabile, quella del sottufficiale della Polizia di Stato R. , secondo cui l’imputato avrebbe cercato soltanto di aprire un lucchetto, senza intenzione di danneggiare il bene, peraltro di proprietà comune; c) la mancata assunzione di una prova decisiva, quale sarebbe stata l’acquisizione degli atti del diverso giudizio a carico di M.A. e S. , per i reati di percosse, ingiuria e minaccia in danno di D.M. .
2.4. Il quarto motivo lamenta la carenza di motivazione sulla nuova quantificazione del danno, poiché giustificata con mera clausola di stile.
Considerato in diritto
1. Tutti i motivi di ricorso sono inammissibili.
2. Il primo è generico.
2.1. Il ricorrente, infatti, non deduce alcuno specifico punto sul quale la sua difesa non si sarebbe compiutamente dispiegata, in conseguenza della revoca dell’ordinanza ammissiva del proprio esame dibattimentale.
Correttamente la Corte d’appello ha valorizzato tale aspetto, in relazione al quale la distinzione tra "diritto di difesa" e "diritto alla prova", proposta con il ricorso in scrutinio, risulta per lo meno speciosa, se non proprio inesatta, poiché fondata esclusivamente sul dato formale dell’indicazione del solo "esame" dell’imputato tra i "mezzi di prova" (Libro III, Titolo II, Capo II, artt. 208 ss., del codice di rito), e non anche delle sue dichiarazioni spontanee.
La tesi difensiva, infatti, per un verso, trascura che, per il combinato disposto dell’art. 494 c.p.p., comma 2, e art. 511 c.p.p., comma 1, anche tali dichiarazioni rese dall’imputato rientrano tra le prove utilizzabili dal giudice ai fini della decisione.
Ma, più in generale, sembra dimenticare che il diritto alla prova è immediatamente funzionale a quello di difesa, del quale rappresenta una qualificata forma di manifestazione, al punto che, non solo nella giurisprudenza di legittimità, ma anche in quella costituzionale e sovranazionale, ormai si parla abitualmente e più specificamente di un "diritto di difendersi provando": il quale informa di sé l’intero art. 495 c.p.p., in cui s’invera il principio della "parità delle armi" tra le parti del processo, sancito dall’art. 111 Cost., comma 2, e dall’art. 6, comma 3, lett. d), CEDU (Sez. 5, n. 2511 del 24/11/2016, Rv. 269050).
2.2. Va, inoltre, rilevato che l’eventuale nullità dell’atto di revoca dell’ordinanza ammissiva dell’esame dell’imputato e, per esso, della sentenza, deve essere classificata tra quelle generali a regime intermedio, di cui all’art. 180 c.p.p., in quanto attinente all’esplicazione dell’attività difensiva nel processo, e dunque - avuto riguardo alle categorie tipizzate dall’art. 178, lett. c), stesso codice - all’intervento dell’imputato. Da ciò consegue, per la parte interessata e presente all’atto, l’onere di eccepire tale vizio, al più tardi ed a pena di decadenza, immediatamente dopo il compimento di esso, ai sensi del successivo art. 182, commi 2 e 3; ma altresì che detta nullità rimane sanata, laddove la stessa parte abbia accettato gli effetti dell’atto viziato, secondo quanto disposto dal seguente art. 183, lett. a).
Nel caso in discussione, la revoca è avvenuta in udienza, e dunque in presenza dell’imputato o, comunque, del difensore che lo rappresentava, senza che l’uno o l’altro abbiano obiettato alcunché. Ne riviene che l’eventuale nullità dell’ordinanza di revoca di quella ammissiva dell’esame dell’imputato non è più deducibile e, comunque, è rimasta sanata dal successivo contegno acquiscente dell’imputato e del suo difensore, tenuto prima della pronuncia della sentenza: con l’ulteriore effetto per cui detto vizio non può ridondare su quest’ultima, determinandone l’invalidità (in questi termini, con riferimento all’analoga situazione della revoca dell’ordinanza ammissiva di testi della difesa dell’imputato, resa in difetto di motivazione sulla superfluità della prova, Sez. 6, n. 53823 del 05/10/2017, Rv. 271732).
3. Il secondo motivo è manifestamente destituito di fondamento giuridico.
Il disposto dell’art. 393 c.p., impone di ritenere arbitraria la condotta dell’agente tutte le volte in cui non faccia ricorso al giudice, benché questo gli sia consentito senza decisivo pregiudizio per il diritto in contesa, del quale ritiene essere titolare.
Laddove, dunque, il ricorso alla competente autorità giudiziaria sia possibile, l’interpello, da parte del privato, di una diversa autorità pubblica, ancorché di polizia, come pure la preventiva informazione, da costui resa alla stessa, della propria imminente condotta a tutela del proprio diritto controverso, non possono ritenersi adeguati succedanei dell’azione giudiziaria.
Il perspicuo testo normativo, in cui si fa riferimento esclusivamente al "giudice" e non ad altre autorità, non consente differenti interpretazioni.
4. Il terzo motivo è generico.
Il ricorrente non indica specifiche ragioni per le quali la testimonianza di M.A. sarebbe inattendibile, ma si limita a denunciare soltanto il rapporto di parentela di costei con la parte civile: il quale, però, in difetto di specifici motivi di dubbio, non può valere di per sé a renderne inaffidabile il contributo istruttorio.
Da ciò consegue, altresì, che la prospettata riqualificazione del fatto come tentativo di esercizio arbitrario delle proprie ragioni, poiché fondata dalla difesa proprio sulla pregiudiziale elisione di tale testimonianza dal compendio istruttorio, rimane una mera tesi alternativa, peraltro meno plausibile di quella fatta propria dalla Corte di appello.
Analogamente, il ricorso omette di spiegare perché sarebbero state decisive, ai fini di un diverso esito del processo, le acquisizioni istruttorie intervenute nel separato giudizio a parti contrapposte. Senza contare che, trattandosi di verbali di prove di altro procedimento, esse, salvo l’accordo delle parti, sarebbero state acquisibili soltanto nei più ristretti limiti di cui all’art. 238 c.p.p.: sui cui presupposti, però, il ricorso è del tutto silente.
5. Il quarto motivo è anch’esso generico.
La motivazione con la quale la Corte distrettuale ha giustificato la misura del risarcimento del danno è certamente sintetica, ma può reputarsi sufficiente e non manifestamente illogica. Si consideri che si tratta di liquidazione secondo equità e che tale passaggio argomentativo non può essere isolato dal resto ragionamento giustificativo della decisione, ma va raccordato a questo. Inoltre, il ricorso non ha prospettato alcun elemento specifico a confutazione, tale da far dubitare della ragionevolezza di tale statuizione.
6. Il ricorso, pertanto, è inammissibile.
Da tanto consegue l’irrilevanza dell’intervenuta prescrizione del reato, maturata il 3 aprile 2019, e dunque successivamente all’emissione della sentenza impugnata (vds. pagg. 8 s. della stessa).
7. L’inammissibilità del ricorso comporta obbligatoriamente - ai sensi dell’art. 616 c.p.p. - la condanna del proponente alle spese del procedimento ed al pagamento di una somma in favore della Cassa delle Ammende, non ravvisandosi una sua assenza di colpa nella determinazione della causa d’inammissibilità (vds. Corte Cost., sent. n. 186 del 13 giugno 2000). Detta somma, considerando la manifesta assenza di pregio degli argomenti addotti, va fissata in duemila Euro.
P.Q.M.
Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.