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Diminuente per mancata impugnazione non retroattiva (Cass.16054/23)

18 aprile 2023, Cassazione penale

È inammissibile la richiesta di restituzione nel termine presentata con le conclusioni scritte ed è manifestamente infondata la questione, posta anche in relazione ai parametri costituzionali, di applicazione retroattiva della diminuente di cui all'art. 442, comma 2-bis, c.p.p..

 

Corte di Cassazione

sez. I penale

ud. 10 marzo 2023 (dep. 14 aprile 2023), n. 16054
Presidente Rocchi - Relatore Aprile

Ritenuto in fatto

1. Con il provvedimento impugnato, la Corte d'appello di Milano ha confermato la sentenza pronunciata in data 23 dicembre 2020 all'esito del giudizio abbreviato dal Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale di Pavia con la quale M.G.M. è stato dichiarato responsabile dei reati di tentato omicidio aggravato dai futili motivi ai danni di G.R. , colpito in varie parti del corpo con un coltello (artt. 56,575,577, comma 1, n. 4, 61 n. 1, c.p. - capo 1), e di porto ingiustificato del coltello utilizzato per commetterlo, perciò aggravato dal nesso teleologico (L. n. 110 del 1975 - capo 2, artt. 61 n. 2 c.p., 4), e condannato, con le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti e ritenuta la continuazione tra i reati, alla pena complessiva di anni quattro e mesi dieci di reclusione.

1.1. A fronte della non contestata sussistenza del fatto materiale, con concorde valutazione di entrambi i giudici di merito: è stata riconosciuta la corretta qualificazione giuridica del reato di cui capo 1); è stata riconosciuta la sussistenza dell'aggravante dei futili motivi per la sproporzione tra la spinta psicologica, determinata dalla gelosia, e la condotta posta in essere (la vittima, amico dell'imputato, aveva avuto una relazione con la ex fidanzata dell'imputato); è stato confermato il giudizio di bilanciamento; è stata esclusa la sussistenza dell'attenuante del fatto lieve per il capo 2).

2. Ricorre M.G.M., a mezzo del difensore avv. BI, che chiede l'annullamento della sentenza impugnata, denunciando:

- la violazione di legge, in riferimento agli artt. 56 e 575 c.p. e 192 c.p.p., e il vizio della motivazione, anche per travisamento della prova, con riguardo al dolo di omicidio e alla mancata riqualificazione in lesioni. Si tratta di lesioni superficiali, nessuna in grado di porre a rischio la vita, per le quali sono stati assegnati solo quattro giorni di prognosi, tanto che la vittima è stata assistita in "codice verde"; i colpi sono soltanto quattro, sicché non sono indicativi della reiterazione dell'azione; l'intenzione dell'imputato, come dallo stesso dichiarato, era di "spaventare" e non di uccidere, tanto che ha impiegato un coltello di modeste dimensioni, pur avendo la disponibilità di un coltello più grande. Del resto, le dichiarazioni dei testimoni sono state travisate, poiché l'imputato si era già allontanato dalla vittima, dopo i primi colpi, sicché l'intervento di G. non era affatto necessario a impedire la consumazione dell'omicidio (primo motivo);

- la violazione di legge, in riferimento all'art. 61, comma 1, n. 1, c.p., e il vizio della motivazione poiché il rapporto affettivo era stabile e consolidato, quindi per nulla unilaterale, mentre l'imputato è stato "tradito" dalla donna e dell'amico, che con essa ha intrattenuto un rapporto, mostrando al ricorrente i messaggi della ragazza che hanno reso palesi le bugie, i tradimenti e le umiliazioni inferte dall'imputato, sicché non si tratta affatto di semplice gelosia, ma di un profondo sentimento di umiliazione e delusione affettiva e amicale che ha determinato la spinta violenta, nient'affatto sproporzionata, ma piuttosto umanamente comprensibile (secondo motivo);

- la violazione di legge, in riferimento agli artt. 69 e 62-bis c.p., e il vizio della motivazione con riguardo al giudizio di bilanciamento per non essere stati valorizzati: la condotta processuale; l'offerta di risarcimento del danno; il pentimento (terzo motivo);

- la violazione di legge, in riferimento alla L. n. 110 del 1975, art. 4, e il vizio della motivazione con riguardo al mancato riconoscimento dell'attenuante del fatto di lieve entità in considerazione delle caratteristiche del coltello e della personalità dell'imputato (quarto motivo).

2.1. Nelle proprie conclusioni scritte il difensore, oltre a insistere nel ricorso, ha chiesto la restituzione nel termine "per eventualmente rinunciare alla presente impugnazione e/o, in ogni caso, voglia rinviare gli atti avanti alla Corte di Appello di Milano per eventualmente rinunciare all'atto di appello a suo tempo proposto", in vista della ulteriore riduzione della pena ex art. 442, comma 2-bis, c.p.p., introdotto, dopo la proposizione del ricorso per cassazione, dal D.Lgs. n. 10 ottobre 2022, n. 150; il difensore contesta, in particolare, l'applicabilità del principio stabilito da Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236537, poiché la norma in questione ha natura sostanziale là dove incide sul trattamento sanzionatorio, sicché si invoca l'applicazione dell'art. 2 c.p..

Considerato in diritto

1. Il ricorso, che presenta numerose deduzioni inammissibili, è nel complesso infondato.

2. È inammissibile la richiesta di restituzione nel termine presentata con le conclusioni scritte ed è manifestamente infondata la questione, posta anche in relazione ai parametri costituzionali, di applicazione retroattiva della diminuente di cui all'art. 442, comma 2-bis, c.p.p..

2.1. L'art. 442 c.p.p. è stato modificato mediante l'introduzione del comma 2-bis, per effetto del D.Lgs. n. 150 del 2022, art. 24, lett. c), in base al quale "quando nè l'imputato, nè il suo difensore hanno proposto impugnazione contro la sentenza di condanna, la pena inflitta è ulteriormente ridotta di un sesto dal giudice dell'esecuzione", che vi provvede de plano ex art. 676, comma 1, e 667, comma 4, c.p.p..

È necessaria, ai fini della riduzione della pena in esame, l'instaurazione di un sub procedimento esecutivo che, in base ai principi generali ed in assenza di previsioni in senso contrario, potrà essere introdotto anche dal pubblico ministero poiché la questione riguarda l'applicazione dello schema legale del trattamento sanzionatorio.

2.2. È evidente, quindi, che il presupposto, per l'applicazione dell'ulteriore sconto di pena, è l'irrevocabilità della decisione di primo grado per mancata proposizione dell'impugnazione da parte dell'imputato (quando è ammessa l'impugnazione personale) e del difensore.

La riforma introdotta dal D.Lgs. n. 150 del 2022 ha, infatti, lo scopo di ridurre la durata del procedimento penale, favorendo la definizione della causa dopo la decisione di primo grado, così da non dare luogo alla fase delle impugnazioni (appello, ove previsto, o giudizio di legittimità) quando esse, alla luce della valutazione rimessa all'imputato e al difensore, non siano giustificate da un concreto interesse: a fronte della mancata impugnazione della sentenza di primo grado l'imputato otterrà, in sede esecutiva, una ulteriore riduzione di un sesto della pena irrogata.

2.3. Il legame esistente tra la mancata proposizione dell'impugnazione e l'irrevocabilità della sentenza di primo grado, elementi che rendono applicabile l'ulteriore sconto di pena disposto dal giudice dell'esecuzione, rende evidente che, nel caso in esame, non può porsi nessuna questione di restituzione nel termine, posto che l'atto che impedisce l'accesso alla riduzione di pena è già stato compiuto e ha introdotto la fase processuale dell'impugnazione, fase che la norma premiale vuole evitare.

Manca, del resto, l'ulteriore requisito processuale dell'irrevocabilità della sentenza di primo grado, sicché la richiesta della difesa è del tutto infondata.

2.4. D'altra parte, la questione dell'ulteriore riduzione di un sesto si collega al principio tempus regit actum, secondo la lucida analisi compiuta dalle Sezioni Unite (Sez. U, n. 27614 del 29/03/2007, Lista, Rv. 236537).

Il problema, al quale deve essere data risposta, è quello della successione di leggi per il quale l'ordinamento giuridico detta principi generali finalizzati a guidare l'attività dell'interprete nella individuazione della norma da applicare o adottando regole espresse e specifiche per coordinare il novum con la legge previgente.

Nell'ambito del diritto intertemporale, il conflitto tra norme è ricondotto al principio di irretroattività della legge fissato dall'art. 11, comma 1, preleggi il quale prevede: "La legge non dispone che per l'avvenire; essa non ha effetto retroattivo".

Si tratta di un criterio di carattere generale di interpretazione che vale nei soli casi in cui la legge nulla disponga circa la decorrenza dei propri effetti, ma che non può essere assunto a canone assoluto dell'ordinamento perché, pur previsto a livello di legislazione ordinaria, non è costituzionalmente presidiato, se non per la materia penale, nei limiti indicati dalla Cost., art. 25, comma 2.

Il dato normativo definisce, dunque, con specifico riferimento al campo processuale, il principio tempus regit actum.

La corretta applicazione di tale parametro intertemporale impone però la esatta individuazione dell'atto, che costituisce lo spartiacque alla irretroattività della legge successiva, per cristallizzare la disciplina giuridica applicabile nel caso di successione di leggi.

Si è chiarito che è necessario distinguere tra varie specie di atti: quello con effetti istantanei che si esaurisce senza residui nel suo puntuale compimento e ha una funzione autoconsistente; quello che, pur essendo di esecuzione istantanea, presuppone una fase di preparazione e di deliberazione più o meno lunga ed è strettamente ancorato ad altro atto che lo legittima e che finisce con l'assumere rilievo centrale; quello che ha carattere strumentale e preparatorio rispetto ad una successiva attività del procedimento, dando luogo ad una fattispecie processuale complessa.

Appartiene alla prima specie, considerato isolatamente e nel suo aspetto formale, l'atto di impugnazione che ha una propria autonomia e una funzione autoreferenziale, che è quella di dare avvio al grado successivo di giudizio, ovvero, nel caso della mancata proposizione, di determinare l'irrevocabilità della decisione.

2.4.1. Venendo alla questione oggetto del giudizio, deve affermarsi che, tenendo presenti i principi espressi da Sez. U., Lista, dal punto di vista del diritto intertemporale, deve farsi applicazione del principio tempus regit actum, sotto il profilo che la condizione processuale, che consente di discernere la normativa applicabile, attiene all'irrevocabilità della sentenza di primo grado per mancata proposizione dell'impugnazione, condizione che può ravvisarsi unicamente per le sentenze di primo grado che siano divenute irrevocabili dopo l'entrata in vigore della legge di riforma, anche se pronunciate in data anteriore.

Si noti che la condizione processuale è, in questo caso, caratterizzata da due concorrenti elementi: uno di tipo negativo (mancata presentazione dell'impugnazione); l'altro di tipo positivo (irrevocabilità della sentenza).

Del resto, lo spartiacque per l'applicazione della novella (irrevocabilità della sentenza), si verifica soltanto se, entro il termine finale per proporre l'impugnazione, essa non è proposta perché, altrimenti, l'atto della parte impedirebbe proprio il passaggio in giudicato.

L'irrevocabilità della sentenza, per mancata presentazione della impugnazione, è dunque il discrimen per l'applicazione della novella, poiché è richiesto, per beneficiare dell'ulteriore diminuente di un sesto, che l'impugnazione non sia stata proposta.

2.5. Esorbita dal ristretto ambito del presente giudizio la questione, pure affacciata dalla difesa, della (eventuale) rinuncia all'impugnazione proposta dopo l'entrata in vigore della novella.

In proposito, è sufficiente rilevare che l'atto abdicativo, mai presentato, non potrebbe comunque porre nel nulla, per il principio di esaurimento degli effetti che regolano i rapporti della convivenza civile (Corte Cost. sentenza n. 155 del 1990; Sez. U, n. 16101 del 27/03/2002, D., Rv. 221278), il giudizio d'appello che si è già svolto.

Del resto, non è concepibile una richiesta di restituzione nel termine che sia scollegata dalla necessità di compiere un atto del processo (atto che non è stato posto in essere per caso fortuito o forza maggiore), ma che è, invece, finalizzata a revocare un atto processuale che si è tempestivamente proposto e che, oggi, si vorrebbe porre nel nulla.

Si tratta, in effetti, di una contraddizione logica interna alla prospettazione difensiva che vorrebbe riavvolgere il nastro del processo, eliminando una intera fase processuale solo perché la parte pretende di revocare, ora per allora, l'atto di impugnazione che ha validamente proposto e che a detta fase ha dato corso.

2.6. Priva di fondamento è la questione della retroattività, anche se posta sotto il profilo degli effetti sanzionatori con riguardo alla Cost., art. 25.

2.6.1. Deve essere anzitutto sottolineato che l'applicazione retroattiva, ex Cost., art. 25, comma 2, non è configurabile per la natura mista (processuale e sostanziale) della diminuente.

Il collegamento esistente tra il mancato compimento di un atto processuale (l'impugnazione) e la diminuente del trattamento sanzionatorio impedisce di applicare retroattivamente la seconda in presenza del primo.

È proprio l'esaurimento della fase processuale e, anzi, dello stesso giudizio -presupposto che determina l'applicabilità dell'ulteriore diminuzione di un sesto -che impedisce l'applicazione retroattiva della nuova disposizione ai procedimenti pendenti in fase di impugnazione.

2.6.2. Sotto altro angolo visuale, va ricordato che non è configurabile alcuna lesione del principio di retroattività della lex mitior che, di per sé, imponga l'applicazione dell'istituto a prescindere da una disciplina transitoria che ne regoli l'applicazione (sentenza della Corte costituzionale n. 236 del 2011).

La Corte Europea dei diritti dell'uomo, nell'affermare che il principio di retroattività della lex mitior è un corollario di quello di legalità, consacrato dall'art. 7 della CEDU, ha però fissato dei limiti al suo ambito di applicazione, desumendoli dalla stessa norma convenzionale; in conseguenza, essa ha affermato che il principio in questione, come in generale "le norme in materia di retroattività contenute nell'art. 7 della Convenzione", concerne le sole disposizioni che definiscono i reati e le pene che li reprimono.

La ristretta portata del principio convenzionale - confermata dal riferimento che la giurisprudenza Europea fa alle fonti internazionali e comunitarie (art. 15 del Patto internazionale sui diritti civili e politici ed art. 49 della Carta di Nizza) e alle pronunce della Corte di giustizia dell'Unione Europea - implica dunque che il principio di retroattività della lex mitior riconosciuto dalla Corte di Strasburgo riguardi esclusivamente la fattispecie incriminatrice e la pena, mentre sono estranee all'ambito di operatività di tale principio, così delineato, le ipotesi in cui non si verifica un mutamento, favorevole al reo, nella valutazione sociale del fatto, che porti a ritenerlo penalmente lecito o comunque di minore gravità.

2.6.3. Se, dunque, non sussiste alcun contrasto convenzionale a cagione dell'impossibilità di applicare la diminuente di un sesto ai procedimenti pendenti in fase di impugnazione (e anche a quelli definiti in data anteriore all'entrata in vigore della novella), non risulta neanche ipotizzabile l'illegittimità costituzionale della medesima previsione.

Opera, nell'ordinamento interno, il (più favorevole) principio di cui all'art. 2, comma 4, c.p..

Quest'ultimo, infatti, riguarda ogni disposizione penale successiva alla commissione del fatto, che apporti modifiche in melius di qualunque genere alla disciplina di una fattispecie criminosa, incidendo sul complessivo trattamento riservato al reo, mentre il principio convenzionale ha una portata più circoscritta, concernendo le sole norme che prevedono i reati e le relative sanzioni.

Pertanto, se la disposizione di cui all'art. 442, comma 2-bis, c.p.p., che non è applicabile ai giudizi definiti in data anteriore alla sua entrata in vigore, non si pone in contrasto con l'art. 7 della CEDU, come interpretato dalla Corte di Strasburgo, e quindi non viola la Cost., art. 117, comma 1, deve concludersi per la sua piena legittimità costituzionale anche con riguardo alla Cost., artt. 3,25 e 27.

Opera, in tal caso, la clausola, pure di maggiore favore, contenuta nell'art. 2, comma 4, c.p. che, nell'assicurare l'applicazione della lex mitior anche oltre l'ambito stabilito dalla Convenzione EDU, introduce però il limite del giudicato: "se la legge del tempo in cui fu commesso il reato e le posteriori sono diverse, si applica quella le cui disposizioni sono più favorevoli al reo, salvo che sia stata pronunciata sentenza irrevocabile".

2.6.4. Per i procedimenti pendenti in fase di impugnazione, invece, la compatibilità costituzionale dell'applicazione non retroattiva della disposizione, che per le ragioni dette è rispondente al principio di cui alla Cost., art. 25, è assicurata proprio dai principi di eguaglianza e di responsabilità penale.

Sotto il primo profilo, infatti, non è ravvisabile alcuna frizione costituzionale tra situazione diverse: l'ulteriore riduzione di un sesto è prevista soltanto per colui che non ha presentato impugnazione, sicché quando essa è stata proposta, il parametro costituzionale è rispettato.

Sotto il secondo profilo, del resto, il condannato non può percepire come "ingiusto" il trattamento sanzionatorio irrogato proprio perché, a differenza di colui che non ha proposto impugnazione, ha perseguito il medesimo obiettivo (e fors'anche quello di ottenere una pronuncia più favorevole in senso assoluto) secondo un diverso percorso, sicché non può attendersi l'ulteriore riduzione prevista per colui che l'impugnazione non abbia proposto.

3. Il primo motivo è inammissibile perché generico, assertivo e reiterativo di argomentazioni proposte nel giudizio di merito che sono state esaminate con una motivazione che non viene specificamente criticata dal ricorso.

3.1. È inammissibile, anzitutto, la deduzione del travisamento poiché essa, oltre a non essere specificamente illustrata con la puntuale indicazione degli atti che si assumono travisati, si limita a sollecitare una diversa interpretazione delle dichiarazioni del teste oculare che, richiamato dalle grida del fratello, lo ha visto cercare la fuga per sottrarsi all'aggressione a mano armata posta in essere dall'imputato, ma venire da questi fisicamente sovrastato, dopo che G. era caduto a terra, e ripetutamente colpito con il coltello in varie parti del corpo (il referto indica: collo, torace, addome).

Del resto, il teste ha pure riferito che la furia omicida di M. era tale che, nonostante egli sia intervenuto con un calcio per cercare di allontanare l'aggressore che infieriva su G.R. che si trovava inerme a terra, l'imputato minacciava anche il soccorritore ("se ti avvicini ancora accoltello anche te").

3.2. Il motivo di ricorso, con riguardo all'elemento soggettivo, non si confronta con la specifica indicazione, fornita da entrambi i giudici di merito sulla base delle convergenti dichiarazioni di vari testimoni, delle ammissioni dell'imputato e dei messaggi acquisiti agli atti, della chiara e ampiamente palesata intenzione di M. di uccidere G.R. (nonché il fratello di questi e la ex fidanzata G.), considerato rivale in amore.

3.3. Il ricorso è altresì generico circa la qualificazione giuridica perché omette di confrontarsi con le specifiche indicazioni, concordemente offerte da entrambi i giudici di merito, circa la ripetizione dei colpi di coltello (al collo; al torace; all'addome; ecc.), essendo irrilevante la circostanza che essi, per le difese opposte, non siano stati tali da uccidere la vittima.

4. È nel complesso infondato il motivo sull'aggravante di cui all'art. 61, comma 1, n. 1, c.p..

4.1. La convergente ricostruzione operata da entrambi i giudici di merito, che la difesa non contesta, ha portato a individuare quale pretesto e, comunque, alla stregua di una reazione esorbitante e del tutto sproporzionata, la "gelosia" manifestata dall'imputato nei confronti della ex fidanzata.

Infatti, se è indubbio che la relazione tra i due fosse da tempo finita, per scelta della donna che non sopportava più le continue scenate di gelosia e possessività dell'imputato, è risultata farneticante l'idea, sviluppatasi nella mente dell'imputato a causa del senso di possesso che in lui albergava, secondo la quale G.R. e la ex fidanzata avrebbero avuto una relazione in costanza del rapporto affettivo.

Il giudice di appello, motivatamente richiamando l'ampia valutazione in proposito compiuta dal primo giudice, ha evidenziato che il sentimento di gelosia era, oltre che infondato e ingiustificato, espressivo di una volontà di controllo e supremazia dell'imputato sulla ex fidanzata e che si riverberava, in modo ancor più pretestuoso, anche sull'amico G.R.

4.2. Ebbene, la giurisprudenza di legittimità è costantemente orientata ad affermare che "il riconoscimento della futilità del motivo presuppone, da parte del giudice, la necessaria identificazione in concreto della natura e della portata della ragione giustificatrice della condotta delittuosa, quale univoco indice di un istinto criminale più spiccato e di un elevato grado di pericolosità dell'agente. Nella specie la Corte ha precisato che il motivo di gelosia può portare ad escludere l'aggravante in questione se si tratti di spinta davvero forte dell'animo umano che può indurre a gesti del tutto inaspettati e illogici e sempre che la condotta non sia in realtà espressione di uno spirito punitivo nei confronti della vittima, considerata come propria appartenenza" (Sez. 1, n. 18779 del 27/03/2013, Filocamo, Rv. 256015).

L'intento punitivo, espressione di supremazia e possesso, è stato bene evidenziato dal giudice di primo grado, al quale si rifà quello di appello, là dove è documentalmente emersa la possessività dell'imputato verso la ex fidanzata e la volontà di vessare il supposto amante, tanto da indurre la donna a percepire che l'odio verso il terzo non era altro che un riflesso del senso di possesso che egli tuttora le dimostrava; paradigmatico è lo scambio di messaggi, che si è sviluppato quando l'imputato ha appreso che la ex fidanzata e la vittima avevano avuto una relazione (dopo la fine del loro rapporto), riportato a pag. 4 della sentenza di primo grado ("mi fai paura"; "non sono un tuo oggetto"; "tu inizierai a tartassare questa persona"; "mi spaventi, ma sei pazzo ?"; "ti prego di smetterla di trattarmi così").

4.3. Premesso che l'aggravante dei motivi futili è caratterizzata dalla sproporzione fra movente e delitto, la giurisprudenza di legittimità ha da tempo chiarito che "la gelosia e la vendetta, dettate da un malinteso senso dell'orgoglio maschile colpito dall'infedeltà, costituiscono sempre passioni morali riprovevoli mai suscettibili di valutazione etica positiva" (Sez. 1, n. 9254 del 14/10/1996, Giordano, Rv. 205918), sicché deve concludersi che, contrariamente a quanto opinato in epoca remota (Sez. 1, n. 1574 del 01/12/1969 - dep. 1970, Portelli, Rv. 114590), può essere ritenuta sussistente l'aggravante in esame, vieppiù quando la gelosia assume caratteristiche morbose e di ingiustificata espressione di supremazia e possesso, in quanto si tratta di uno stato passionale che, oltre a non avere rilievo sull'imputabilità (Sez. 6, n. 12621 del 25/03/2010, M., Rv. 246741; Sez. 1, n. 37020 del 26/10/2006, Ecelestino, Rv. 235250), costituisce causa frequente di delitti anche gravissimi determinati da una spinta ritenuta socialmente inaccettabile e, dunque, ingiustificata rispetto alla gravità della condotta.

5. Sono inammissibili anche i motivi di ricorso sul bilanciamento e sulla circostanza attenuante del fatto lieve.

5.1. Sono inammissibili le doglianze concernenti il giudizio di bilanciamento, poiché versate in fatto e finalizzate a investire la Corte di legittimità di una valutazione di merito, già ampiamente e motivatamente compiuta dal giudice d'appello, il quale ha fatto riferimento ai parametri legali e a specifici elementi di fatto che non sono suscettibili di censura in questa sede (Sez. U, n. 10713 del 25/02/2010, Contaldo, Rv. 245931).

5.2. Il motivo di ricorso sulla circostanza attenuante invocata dalla difesa, con riguardo al porto ingiustificato del coltello impiegato per commettere il tentato omicidio, è inammissibile poiché non si confronta con la motivazione della sentenza impugnata, la quale, in perfetta sintonia con la giurisprudenza di legittimità (Sez. 1, n. 26636 del 19/03/2019, Fiandaca, Rv. 276195), ha escluso la sussistenza della invocata circostanza in forza di una valutazione di fatto che riguarda il numero delle armi portate illegittimamente e lo scopo, dichiarato dall'imputato, per il quale lo stesso le ha portate al seguito fuori dalla propria abitazione.

6. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.