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Custodia cautelare estradizionale, quali termini? (Cass. 41560/06)

18 dicembre 2006, Cassazione penale

Qualora il Ministro della giustizia sospenda, a norma dell'art. 709 cod. proc. pen., l'esecuzione della estradizione "a soddisfatta giustizia italiana", non sono applicabili alle misure coercitive in corso di esecuzione all'atto della sospensione i termini di durata massima previsti dall'art. 303 c.p.p., comma 4, e art. 308 cod. proc. pen.. Tali misure devono pertanto essere revocate per l'assenza di una previsione normativa che ne legittimi il permanere anche durante il periodo in cui l'esecuzione della estradizione resta sospesa; ferma restando, peraltro, la possibilità di adottare nuovamente misure coercitive, una volta cessata la sospensione, nei limiti delle esigenze cautelari connesse all'accompagnamento dell'estradando ed alla sua consegna allo Stato richiedente, e con l'osservanza dei termini previsti dall'art. 708 cod. proc. pen..

La disciplina sui termini di durata massima delle misure cautelari dettata dagli artt. 303 e 308 cod. proc. pen. non è applicabile alle misure coercitive disposte a fini estradizionali, perchè incompatibile con il procedimento estradizionale, cadenzato da forme, modi e termini del tutto autonomi. Si osserva, in particolare, come il sistema delineato dal codice di rito sia ispirato dal chiaro intento di contenere entro limiti assai ristretti il sacrificio della libertà personale dell'estradando, al punto da aver previsto una articolata e rigorosa disciplina - autonoma rispetto a quella generale - che regolamenta in modo puntiglioso la materia, con riferimento a ciascuna delle fasi in cui può articolarsi il procedimento di estradizione: quella prodromica alla domanda formale di estradizione e proiettata, in vista di questa, alla adozione di provvedimenti coercitivi in via provvisoria (artt. 715 e 716 cod. proc. pen.); la fase di garanzia giurisdizionale vera e propria (art. 714 cod. proc. pen.); nonchè, infine, la fase esecutiva (artt. 708 e 709 cod. proc. pen.). Posto, dunque, che l'art. 714 cod. proc. pen. prevede autonomi limiti di durata delle misure coercitive applicate a fini estradizionali, si è da ciò desunto che il richiamo alle disposizioni del titolo 1^ del libro 4^ del codice, effettuato dallo stesso art. 714 c.p., comma 2, non può rendere applicabili, in parte qua, anche le previsioni dettate dagli artt. 303 e 308 cod. proc. pen., proprio perchè, attenendo esse alla disciplina dei termini di durata massima delle misure coercitive disposte nell'ambito del procedimento ordinario, articolato secondo cadenze, fasi e gradi che nulla hanno a che vedere con il procedimento di estradizione, si rivelano come ontologicamente incompatibili rispetto a quest'ultimo. D'altra parte - si è osservato ancora - sarebbe paradossale un sistema che, accanto ad una gamma di previsioni chiaramente volte a contenere entro limiti temporali assai ristretti la limitazione della libertà dell'estradando all'interno della fase giurisdizionale, dilatasse, poi, quei termini fino ai limiti previsti dall'art. 303 c.p.p., comma 4, per una fase che - come quella esecutiva - si presenta ancor più incompatibile (rispetto a quella giurisdizionale) rispetto alle regole sui termini di durata delle misure concepite per il processo ordinario e strettamente rapportate alle relative caratteristiche. 

Secondo l'opposto e minoritario indirizzo giurisprudenziale, invece, una volta esauritasi la procedura giurisdizionale, qualora il Ministro della giustizia sospenda, a norma dell'art. 709 cod. proc. pen., l'esecuzione dell'estradizione "a soddisfatta giustizia italiana", alle misure cautelari in corso o che siano adottate durante la sospensione, devono, in virtù del richiamo operato dall'art. 714 c.p.p., comma 2, ritenersi applicabili i termini di durata massima previsti dall'art. 303 c.p.p., comma 4, e art. 308 cod. proc. pen.. Si osserva, infatti, che dalla interpretazione letterale dell'art. 709 cod proc. pen. - secondo il quale "l'estradizione è sospesa ..." - si evince che il Ministro della giustizia, nell'ipotesi in cui l'estradando debba essere giudicato nel territorio dello Stato o vi debba scontare una pena, non può, in base a valutazioni di opportunità politica, discrezionalmente scegliere tra la consegna immediata della persona richiesta o il differimento della consegna a giustizia italiana esaurita, ma deve sospendere senz'altro l'esecuzione, giacchè la scelta di priorità tra le esigenze della giustizia nazionale e quelle dello Stato richiedente è già stata effettuata dal legislatore in favore delle prime. Fermo restando il conferimento al Ministro del potere - questo sì discrezionale - di procedere, sentita l'autorità giudiziaria italiana, "alla consegna temporanea allo Stato richiedente della persona da estradare ivi imputata", oppure di "convenire che la pena da scontare abbia esecuzione nello Stato richiedente". Escluso, quindi, che la restrizione della libertà personale dell'estradando sia fatta dipendere - come criticamente assumono gli assertori della opposta tesi - da una valutazione di opportunità politica del Ministro, e considerato che la sospensione della esecuzione non determina nè la cessazione, nè l'affievolimento delle esigenze cautelari, ma, anzi, un loro possibile incremento, l'apparente lacuna normativa circa il termine di durata massima delle misure coercitive andrebbe colmata, nel caso di specie, facendo applicazione delle disposizioni di cui all'art. 303 c.p.p., comma 4, e art. 308 cod. proc. pen., cui genericamente rinvia l'art. 714 c.p.p., comma 2. Ciò comporta che devono ritenersi senz'altro incompatibili, agli effetti che qui rilevano, le previsioni che regolano i cosiddetti termini intermedi o di fase, nessun ostacolo si opporrebbe a far ricorso, anche in materia di estradizione, ai termini massimi complessivi di cui all'art. 303 c.p.p., comma 4 sussistendo la eadem ratio: ossia, l'esigenza - presente tanto nel procedimento ordinario che in quello estradizionale - di assicurare la effettiva esecuzione del decisum mediante la imposizione di una misura cautelare, e, correlativamente, la necessità di contenere il sacrificio della libertà personale entro un limite di durata che rappresenti un giusto punto di equilibrio tra il diritto di libertà e gli interessi tutelati dalle norme sostanziali sottostanti ai rispettivi deliberata.

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

sentenza n. 41540

(ud. 28/11/2006) 18/12/2006
 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. CARBONE Vincenzo - Presidente

Dott. GEMELLI Torquato - Consigliere

Dott. LATTANZI Giorgio - Consigliere

Dott. GRASSI Aldo - Consigliere

Dott. FERRUA Giuliana - Consigliere

Dott. MILO Nicola - Consigliere

Dott. GIRONI Emilio G. - Consigliere

Dott. VISCONTI Sergio - Consigliere

Dott. MACCHIA Alberto - rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

Procuratore della Repubblica presso la Corte di appello di Venezia;

Avverso l'ordinanza pronunciata dalla medesima Corte di appello il 16 febbraio 2006 nel procedimento relativo a:

Stosic D. nato a (OMISSIS);

Visti gli atti, l'ordinanza denunziata e il ricorso;

Udita in camera di consiglio la relazione svolta dal Consigliere Dott. Alberto Macchia;

udito il Pubblico Ministero in persona dell'Avvocato Generale Dott. Palombarini Giovanni, che ha concluso per il rigetto del ricorso.

Svolgimento del processo

Con ordinanza del 16 febbraio 2006, la Corte di appello di Venezia ha revocato la misura della custodia cautelare in carcere disposta a fini estradizionali nei confronti di S.D.. La Corte ha in particolare sottolineato che la domanda di revoca formulata dall'interessato era fondata sulla circostanza che il Ministro della giustizia aveva bensì decretato il 18 novembre 2005 la concessione della estradizione in favore della richiedente Autorità della Serbia Montenegro, avendo l'interessato prestato il consenso alla richiesta estradizionale, ma ad essa non era poi conseguita la effettiva consegna nei termini previsti dall'art. 18 della Convenzione europea di estradizione. Lo S., infatti - puntualizzava la Corte territoriale - risultava in atto sottoposto anche a misura cautelare in ordine a procedimento pendente davanti alla autorità giudiziaria italiana; evenienza, questa, a fronte della quale, peraltro, ad avviso del procuratore generale requirente non doveva provvedersi alla revoca della misura disposta a fini estradizionali, in quanto - come ha opinato una parte della giurisprudenza di questa Corte - "il disposto dell'art. 708 cod. proc. pen., non è applicabile se l'estradando debba essere giudicato nel territorio dello Stato, essendo in tale evenienza sospeso di diritto il termine di cui all'art. 18 della Convenzione europea senza necessità di provvedimento ad hoc". Tale tesi non veniva però condivisa dai giudici a quibus, in quanto, pur reputando corretto l'assunto secondo il quale la mancata consegna nel caso in esame doveva ritenersi circostanza equiparabile alla ipotesi in cui fosse stato adottato espressamente un provvedimento di sospensione della estradizione, doveva aderirsi all'orientamento, più volte espresso dalla giurisprudenza di questa Corte, secondo il quale "la misura cautelare applicata all'estradando va revocata allorchè ne sia stata sospesa la consegna allo Stato richiedente fino al soddisfacimento della giustizia italiana ... in quanto la durata massima delle misure coercitive adottate a fini estradizionali va stabilita solo sulla base della disciplina dettata dagli artt. 708 e ss. cod. proc. pen. e delle eventuali norme pattizie".

Avverso l'ordinanza indicata in premessa, ha proposto ricorso per Cassazione il procuratore generale, in quale ha dedotto la violazione degli artt. 303 e 714 cod. proc. pen.. A parere del ricorrente, infatti, il richiamo operato dall'art. 714 c.p.p. alla normativa che disciplina le misure cautelari, pur nei limiti della relativa compatibilità, rendeva possibile la applicazione, nella specie, dell'art. 303 cod. prc. pen., u.c., il quale, prescindendo dai limiti di fase, stabilisce la durata della custodia indicando "dei termini massimi del tutto compatibili con la struttura del giudizio di estradizione"; termini che - nella ipotesi di specie - non sarebbero ancora spirati. Nè varrebbe obiettare - soggiunge il ricorrente - che, attesa la natura servente della misura cautelare rispetto alla consegna, sospesa la seconda degraderebbero le esigenze della prima, giacchè il pericolo di fuga, base della cautela, subisce addirittura un incremento, proprio in considerazione della raggiunta ineluttabilità della consegna: evento, quest'ultimo, divenuto ormai sicuro, a seguito della relativa decisione ministeriale. Non senza sottolineare -conclude il ricorrente - le prospettive di fuga che possono scaturire - in caso di persone estradate "a soddisfatta giustizia italiana" - dalle imprevedibili vicende cautelari e di esecuzione della pena, derivanti dal procedimento nazionale, ove fosse condivisa la tesi che il ricorrente invece avversa.

Il ricorso è stato assegnato alla 6^ Sezione penale di questa Corte, la quale, con ordinanza del 17 maggio 2006, ha rimesso la decisione alle Sezioni unite. La Sezione rimettente ha osservato come la questione sottoposta al proprio esame risultasse già rimessa alle Sezioni unite penali con ordinanza del 15 gennaio 2004, per la soluzione del contrasto giurisprudenziale circa la durata della custodia cautelare in carcere a fini estradizionali, nell'ipotesi di esecuzione differita "a soddisfatta giustizia italiana"; ma la tematica controversa era rimasta priva di soluzione nel merito, in quanto il ricorso era stato, nella circostanza, giudicato inammissibile per ragioni formali. Permaneva, dunque, il già denunciato contrasto, anche interno alla stessa Sezione rimettente.

Secondo un primo orientamento, infatti, la tesi per la quale sarebbe sufficiente il richiamo che l'art. 714 c.p.p., comma 2, opera al titolo 1^ del libro 4^ del codice, per determinare i termini di durata delle misure coercitive disposte a fini estradizionali, non sarebbe condivisibile, in quanto in contrasto con "la ratio del sistema, ispirato a contenere in limiti molto ristretti il sacrificio della libertà personale dell'estradando, tanto da essere prevista una disciplina (autonoma rispetto a quella generale), che regolamenta in modo puntiglioso la materia, con riferimento alle varie fasi della procedura estradizionale". Pertanto, ove sia sospesa l'esecuzione della estradizione, la misura - allorchè siano superati i termini entro i quali la procedura va conclusa - deve essere revocata, per sopravvenuta mancanza temporanea dei presupposti che la giustificano.

L'opposto orientamento - ricorda ancora la Sezione rimettente - reputa, invece, che, qualora il Ministro della giustizia sospenda, a norma dell'art. 709 cod. proc. pen., l'esecuzione della estradizione a soddisfatta giustizia italiana, devono, in virtù del richiamo operato dall'art. 714 c.p.p., comma 2, ritenersi applicabili alle misure cautelari in corso o che siano adottate durante la sospensione, i termini di durata massima previsti dall'art. 303 c.p.p., comma 4, e art. 308 cod. proc. pen..

Motivi della decisione

Le Sezioni unite di questa Corte sono chiamate a risolvere il contrasto interpretativo, registratosi nella giurisprudenza di legittimità, in ordine al segue quesito: "se, per determinare i termini di durata della misura coercitiva applicata ai fini dell'estradizione per l'estero, nel caso in cui il Ministro della giustizia sospenda l'esecuzione dell'estradizione a soddisfatta giustizia italiana, possa farsi riferimento alle norme di cui agli artt. 303 e 308 cod. proc. pen., in virtù del richiamo operato dall'art. 714 c.p.p., comma 2, alle disposizioni del libro 4^, titolo 1^, del codice di procedura, ovvero la misura coercitiva debba essere revocata per sopravvenuta mancanza dei presupposti".

Il quadro della giurisprudenza di legittimità, formatasi sul punto, è piuttosto articolato. Secondo un primo orientamento, di gran lunga prevalente, la disciplina sui termini di durata massima delle misure cautelari dettata dagli artt. 303 e 308 cod. proc. pen. non è applicabile alle misure coercitive disposte a fini estradizionali, perchè incompatibile con il procedimento estradizionale, cadenzato da forme, modi e termini del tutto autonomi. Si osserva, in particolare, come il sistema delineato dal codice di rito sia ispirato dal chiaro intento di contenere entro limiti assai ristretti il sacrificio della libertà personale dell'estradando, al punto da aver previsto una articolata e rigorosa disciplina - autonoma rispetto a quella generale - che regolamenta in modo puntiglioso la materia, con riferimento a ciascuna delle fasi in cui può articolarsi il procedimento di estradizione: quella prodromica alla domanda formale di estradizione e proiettata, in vista di questa, alla adozione di provvedimenti coercitivi in via provvisoria (artt. 715 e 716 cod. proc. pen.); la fase di garanzia giurisdizionale vera e propria (art. 714 cod. proc. pen.); nonchè, infine, la fase esecutiva (artt. 708 e 709 cod. proc. pen.). Posto, dunque, che l'art. 714 cod. proc. pen. prevede autonomi limiti di durata delle misure coercitive applicate a fini estradizionali, si è da ciò desunto che il richiamo alle disposizioni del titolo 1^ del libro 4^ del codice, effettuato dallo stesso art. 714 c.p., comma 2, non può rendere applicabili, in parte qua, anche le previsioni dettate dagli artt. 303 e 308 cod. proc. pen., proprio perchè, attenendo esse alla disciplina dei termini di durata massima delle misure coercitive disposte nell'ambito del procedimento ordinario, articolato secondo cadenze, fasi e gradi che nulla hanno a che vedere con il procedimento di estradizione, si rivelano come ontologicamente incompatibili rispetto a quest'ultimo. D'altra parte - si è osservato ancora - sarebbe paradossale un sistema che, accanto ad una gamma di previsioni chiaramente volte a contenere entro limiti temporali assai ristretti la limitazione della libertà dell'estradando all'interno della fase giurisdizionale, dilatasse, poi, quei termini fino ai limiti previsti dall'art. 303 c.p.p., comma 4, per una fase che - come quella esecutiva - si presenta ancor più incompatibile (rispetto a quella giurisdizionale) rispetto alle regole sui termini di durata delle misure concepite per il processo ordinario e strettamente rapportate alle relative caratteristiche. Da tutto ciò deriva che, ove il Ministro della giustizia disponga la sospensione della esecuzione della estradizione per ragioni di giustizia interna, a norma dell'art. 709 cod. proc. pen. - senza avvalersi della prevista facoltà di consegnare temporaneamente l'estradando allo Stato richiedente, concordando i termini e le modalità della consegna, o di richiedere l'esecuzione all'estero della condanna nazionale - mancando una specifica previsione sullo status libertatis dell'estradando, la misura eventualmente in corso di applicazione deve essere revocata, in quanto privata della sua funzione strumentale alla decisione e conseguente sollecita consegna (Cass., Sez. 6^, 26 ottobre 2004, Grieco; Cass., Sez. 6^, 17 febbraio 2004, Terkuci; Cass., Sez. 6^, 1 ottobre 2003, Gavrilita; Cass., Sez. 6^, 9 giugno 2003, Gromovs; Cass., Sez. 6^, 12 giugno 2003, Morina Ilir; Cass., Sez. 6^, 30 settembre 1998, Dardar Abdelaziz; Cass., Sez. 6^, 18 novembre 1997, Madero).

Secondo l'opposto e minoritario indirizzo giurisprudenziale, invece, una volta esauritasi la procedura giurisdizionale, qualora il Ministro della giustizia sospenda, a norma dell'art. 709 cod. proc. pen., l'esecuzione dell'estradizione "a soddisfatta giustizia italiana", alle misure cautelari in corso o che siano adottate durante la sospensione, devono, in virtù del richiamo operato dall'art. 714 c.p.p., comma 2, ritenersi applicabili i termini di durata massima previsti dall'art. 303 c.p.p., comma 4, e art. 308 cod. proc. pen.. Si osserva, infatti, che dalla interpretazione letterale dell'art. 709 cod proc. pen. - secondo il quale "l'estradizione è sospesa ..." - si evince che il Ministro della giustizia, nell'ipotesi in cui l'estradando debba essere giudicato nel territorio dello Stato o vi debba scontare una pena, non può, in base a valutazioni di opportunità politica, discrezionalmente scegliere tra la consegna immediata della persona richiesta o il differimento della consegna a giustizia italiana esaurita, ma deve sospendere senz'altro l'esecuzione, giacchè la scelta di priorità tra le esigenze della giustizia nazionale e quelle dello Stato richiedente è già stata effettuata dal legislatore in favore delle prime. Fermo restando il conferimento al Ministro del potere - questo sì discrezionale - di procedere, sentita l'autorità giudiziaria italiana, "alla consegna temporanea allo Stato richiedente della persona da estradare ivi imputata", oppure di "convenire che la pena da scontare abbia esecuzione nello Stato richiedente". Escluso, quindi, che la restrizione della libertà personale dell'estradando sia fatta dipendere - come criticamente assumono gli assertori della opposta tesi - da una valutazione di opportunità politica del Ministro, e considerato che la sospensione della esecuzione non determina nè la cessazione, nè l'affievolimento delle esigenze cautelari, ma, anzi, un loro possibile incremento, l'apparente lacuna normativa circa il termine di durata massima delle misure coercitive andrebbe colmata, nel caso di specie, facendo applicazione delle disposizioni di cui all'art. 303 c.p.p., comma 4, e art. 308 cod. proc. pen., cui genericamente rinvia l'art. 714 c.p.p., comma 2.

Mentre, infatti, devono ritenersi senz'altro incompatibili, agli effetti che qui rilevano, le previsioni che regolano i cosiddetti termini intermedi o di fase, nessun ostacolo si opporrebbe a far ricorso, anche in materia di estradizione, ai termini massimi complessivi di cui all'art. 303 c.p.p., comma 4 sussistendo la eadem ratio: ossia, l'esigenza - presente tanto nel procedimento ordinario che in quello estradizionale - di assicurare la effettiva esecuzione del decisum mediante la imposizione di una misura cautelare, e, correlativamente, la necessità di contenere il sacrificio della libertà personale entro un limite di durata che rappresenti un giusto punto di equilibrio tra il diritto di libertà e gli interessi tutelati dalle norme sostanziali sottostanti ai rispettivi deliberata (Cass., Sez. 6^, 20 settembre 2000, p.m. in proc. Pitino; Cass., Sez. 6^, 3 febbraio 2000, Stepic; Cass., Sez. 6^, 4 novembre 1994, Parretti. V., anche, Cass., Sez. 6^, 11 luglio 1995, Parretti, nella quale ultima si ritengono applicabili i termini di cui all'art. 714 c.p.p., comma 4, alla fase giurisdizionale, mentre per la fase esecutiva, in assenza di espressa previsione, si reputa debbano inevitabilmente trovare applicazione i termini ordinari previsti dagli artt. 303 e 308 cod. proc. pen., in virtù dell'espresso rinvio contenuto nell'art. 714 c.p.p., comma 2).

In una linea per certi aspetti intermedia, si collocano, infine, talune decisioni, nelle quali si è affrontato il tema della sospensione della esecuzione non dipendente da esigenze di giustizia nazionale, ma dalla sospensione della estradizione deliberata in via cautelare in sede di giurisdizione amministrativa. In tali pronunce, infatti, pur reputandosi in linea di principio incompatibile la disciplina dei termini di durata massima delle misure coercitive stabilita dall'art. 303 c.p.p., comma 4, per il caso in cui sia sospesa dal Ministro della giustizia l'esecuzione della estradizione "a soddisfatta giustizia italiana", a norma dell'art. 709 cod. proc. pen., si è tuttavia ritenuto che ad un diverso approdo ermeneutico occorrerebbe pervenire nella diversa ipotesi in cui la sospensione derivi, iussu iudicis, da un provvedimento del giudice amministrativo, stante, appunto, il carattere giurisdizionale della autorità da cui tale statuizione promana (Cass., Sez. 6^, 8 maggio 2006, Cipriani; Cass., Sez. 6^, 9 aprile 2002, Aboud Maisi).

Queste Sezioni unite ritengono di dover aderire all'orientamento prevalente.

Occorre preliminarmente rilevare come - malgrado talune perplessità registratesi in passato - non possa, ormai, seriamente dubitarsi in merito alla diretta applicabilità dei principi sanciti dall'art. 13 Cost. anche al tema della estradizione. La Corte Costituzionale, infatti, ha da tempo contrassegnato in termini rigorosi la dimensione "funzionale" della custodia cautelare, raccordandola - appunto - al soddisfacimento delle esigenze "strettamente inerenti al processo": locuzione, quest'ultima, omnicomprensiva e, come tale, riferibile ad ogni procedimento giurisdizionale che, a norma del novellato art. 111 Cost., deve conformarsi ai caratteri del fair trial, enunciati dalla Convenzione europea dei diritti dell'uomo, più volte rimarcati dalla giurisprudenza della C.E.D.U. e, per quel che qui interessa, puntualmente individuati nella Raccomandazione n. 12 del 1975, con la quale il Comitato dei Ministri del Consiglio d'Europa ha dettato i "diritti minimi" da assicurare all'estradando nel corso della relativa procedura. La funzione "cautelare" della custodia e, più in generale, delle misure limitative della libertà personale è, dunque, connotazione "costituzionalmente obbligata", a prescindere dalla natura del procedimento all'interno del quale, e "per" il quale, la legge ne prevede la applicazione. Dunque, anche le misure coercitive interne al procedimento estradizionale si giustificano, nel quadro dei principi tracciati dalla Carta fondamentale, soltanto se - e nei limiti in cui - si presentino come strumenti indispensabili per il raggiungimento dei fini che quello specifico procedimento è istituzionalmente destinato a conseguire. La "strumentalità" della custodia ne evoca, d'altra parte, il paradigma della provvisorietà: la libertà personale dell'uomo, infatti, "quale bene fondamentale, mal s'adatta al concetto di "provvisorietà" così come configurato nel processo del tramontato ordinamento. Che, anzi, semmai, la Costituzione, prevedendo che la libertà possa essere eccezionalmente ristretta soltanto dalla autorità giudiziaria nei casi e nei modi previsti dalla legge, assegna proprio al provvedimento restrittivo del giudice carattere di manifesta provvisorietà rispetto a quell'inviolabile diritto" (Corte Cost., sentenza n. 766 del 1988. V., anche, le sentenze n. 64 del 1970 e n. 1 del 1980). A misurare la legittimità della compressione dello status libertatis - ovviamente disposta nei casi e nei modi previsti dalla legge - starà, dunque, un limite "interno" e strutturale", rappresentato dal raggiungimento della funzione cautelare o dal suo esaurimento, ed un limite "esterno" e necessariamente "normativo", rappresentato, appunto, dalle disposizioni che regolano i "limiti massimi della carcerazione preventiva", al lume dell'ineludibile precetto sancito - indipendentemente dal tipo di procedimento cui la carcerazione si riferisce - dall'art. 13 Cost., u.c.. D'altra parte, qualsiasi dubbio in ordine alla immediata e diretta applicabilità delle previsioni costituzionali che regolano il tema della libertà personale anche alle misure adottate nell'ambito del procedimento di estradizione, può dirsi, ormai, definitivamente sopito, alla luce della stessa giurisprudenza costituzionale, che ha di recente ritenuto ammissibile la riparazione per ingiusta detenzione di cui all'art. 314 cod. proc. pen. anche alla ipotesi di detenzione ingiusta sofferta in sede estradizionale (V. Corte Cost., sentenza n. 231 del 2004).

Da tutto ciò, alcuni corollari.

Deve, anzitutto, essere la legge a disciplinare espressamente e tassativamente i termini massimi entro i quali le misure coercitive possono essere applicate (v., al riguardo la sentenza n. 83 del 1996 della Corte costituzionale, ove è stata incisivamente riaffermata l'"esigenza di configurare limiti obiettivi e ineludibili alla durata dei provvedimenti che incidono sulla libertà personale"). Tali disposizioni, inoltre, proprio perchè incidenti su un diritto fondamentale della persona, non possono che essere di stretta interpretazione e non ammettono, dunque, estensioni analogiche in sfavor. La durata delle misure limitative della libertà personale, infine, si raccorda - come si è già rammentato - alla specifica funzione che le caratterizza nel quadro della disciplina di sistema che il legislatore ha introdotto: ne deriva, pertanto, che i termini di durata massima delle misure, non possono che essere raccordati al paradigma del "sacrificio minimo" che la condizione di libertà deve sopportare per il raggiungimento dello specifico scopo cautelare che le misure sono chiamate a soddisfare nell'ambito del peculiare procedimento in cui possono trovare applicazione. In linea di principio, quindi, già da ciò emerge con chiarezza come i termini "custodiali" stabiliti per il processo e quelli che regolano la durata delle misure nel procedimento estradizionale, risultino, fra loro, concettualmente eterogenei, proprio perchè - ai di là delle garanzie che li possono accomunare - il fine e la durata del processo ordinario non hanno nulla a che vedere con la estradizione.

La incompatibilità dei termini di cui all'art. 303 c.p.p., comma 4, con i limiti di durata delle misure coercitive applicate in sede estradizionale, emerge, d'altra parte - ed in termini del tutto univoci - anche dal raffronto che è possibile operare, alla luce delle scelte operate dal legislatore del codice, fra il "sistema cautelare" delineato per il processo ordinario e quello specifico dedicato al procedimento di estradizione. In quest'ultimo, infatti - in stretta aderenza, d'altra parte, con le rigorose disposizioni dettate al riguardo dalla Convenzione europea di estradizione - il nuovo codice di rito ha contrassegnato in termini assai ristretti la durata della privazione della libertà personale dell'estradando, imprimendo cadenze accelerate a tutte le diverse fasi in cui può articolarsi l'iter del procedimento di estradizione. Il particolare regime codicistico, infatti, che delimita la durata delle misure coercitive entro spazi temporali, non soltanto predeterminati in modo rigoroso in stretta "proporzione" alle esigenze connesse ai singoli "stadi" in cui si snoda il procedimento, ma anche circoscritti entro limiti assai più contenuti di quelli che caratterizzano i termini di durata massima delle misure applicate nel procedimento ordinario (v., in particolare, art. 708 c.p.p., commi 2 e 6; art. 714 c.p.p., comma 4; art. 715 c.p.p., commi 5 e 6; art. 718 cod. proc. pen.), sta evidentemente a denotare - come ratio unificante - una precisa opzione di "deroga", quanto allo specifico tema, spiegabile proprio in ragione delle peculiarità che caratterizzano l'estradizione e la condizione di chi vi è assoggettato. Lo scrutinio della clausola di compatibilità, sancita, in tema di misure coercitive, dall'art. 714 c.p.p., comma 2, deve pertanto essere condotto in termini di assoluto rigore, proprio sul versante della durata delle misure, ad evitare, da un lato, una inammissibile "eterogenesi dei fini" - giacchè, come già rilevato, la funzione cautelare nel processo è affatto diversa da quella che è dato registrare in sede di estradizione - e, dall'altro, la creazione, in via interpretativa, di un novum normativo, per fronteggiare (nella specifica ipotesi che viene qui in discorso) le esigenze connesse alla mancanza di una disciplina espressa. Ebbene, in tale cornice è agevole avvedersi di come, avendo il legislatore ritenuto di dover dettare una specifica ed autonoma disciplina circa i termini di durata delle misure coercitive nella fase giurisdizionale, a norma dell'art. 714 c.p.p., comma 4, sarebbe davvero paradossale che - in virtù del richiamo enunciato nel comma 2 dello stesso articolo - avesse poi ritenuto di far ricorso ai ben più ampi termini di durata della custodia cautelare previsti dall'art. 303 c.p.p., comma 4, per regolamentare la particolare ipotesi prevista dall'art. 709 cod. proc. pen. in sede esecutiva. Ciò ancor più ove si consideri che - a differenza di quanto stabilito negli artt. 303 e 308 cod. proc. pen. - l'art. 714 c.p.p., comma 4 prevede termini unici di durata delle misure, senza assegnare alcun rilievo al carattere custodiale o meno delle stesse e, altro aspetto significativo, senza che la stessa previsione (ancora una volta, a differenza della disciplina "ordinaria") operi una qualche distinzione di regime in funzione dalla gravità del reato o della pena per i quali l'estradizione è stata richiesta. Non essendovi, quindi, alcun indice di una voluntas legis che deponga nel senso della interpretazione che qui si avversa, ne deriva che il segnalato vuoto normativo non può trovare riempimento facendo leva sui termini ordinali delle misure cautelari personali.

Per altro verso, e come pure si è rammentato, è la stessa giurisprudenza minoritaria ad escludere l'applicabilità, in sede di procedimento estradizionale, dei cosiddetti termini di fase o intermedi, reputando, invece, compatibile con quel procedimento, il ricorso alla disciplina stabilita, per i termini complessivi, dal più volte richiamato art. 303 c.p.p., comma 4. Ma, così facendo, si finisce ineluttabilmente per operare una arbitraria estrapolazione di un solo segmento di una disciplina che, al contrario, il legislatore ha chiaramente inteso configurare come un corpus unitario. Come ebbe, infatti, a sottolineare la stessa Corte costituzionale nella sentenza n. 292 del 1996 - allorchè operò un excursus "storico" della disciplina dei termini di custodia cautelare - il nuovo codice, aderendo alle linee portanti tracciate dalla riforma che, sotto la vigenza del codice abrogato, era stata attuata dalla L. n. 394 del 1984, ha mantenuto il principio della separazione dei termini di durata della custodia cautelare in relazione alle diverse fasi del procedimento, secondo una scansione atta a dimensionare in modo differenziato le previsioni di durata, in funzione della gravità e delle tipologie di reato e delle esigenze "processuali" inerenti alle peculiarità insite nelle fasi o gradi presi in considerazione. Una scansione interfasica, dunque, destinata a far si che la maggior celerità di definizione di una fase o grado di giudizio non producesse effetti sui termini di durata della custodia per la fase o grado successivi, così da scongiurare il pericolo che le frazioni temporali "risparmiate" consentissero, di fatto, la relativa utilizzazione da parte dei giudici dei gradi successivi. La diversa ed autonoma decorrenza dei termini intermedi, poi, è stata a sua volta collegata alla successiva previsione, dettata dall'ormai noto stesso art. 303 c.p.p., comma 4, di un termine di durata complessiva della custodia cautelare, variamente dimensionato a seconda della gravità delle imputazioni e tale da comprendere anche le proroghe previste dall'art. 305 cod. proc. pen., oltre alle eventuali nuove decorrenze dei termini di fase derivanti da fenomeni di regressione del procedimento o di rinvio ad altro giudice. L'intera gamma dei meccanismi normativi destinati a produrre un prolungamento di termini di fase, quali, come si è accennato, l'istituto della proroga di cui all'art. 305 cod. proc. pen., ovvero la "sterilizzazione" degli stessi termini per i giorni di udienza e per quelli impiegati per la deliberazione della sentenza a norma dell'art. 297 c.p.p., comma (Ndr: testo originale non comprensibile), trova, dunque, uno sbarramento proprio attraverso la previsione dei termini "complessivi" di durata della custodia, così da permettere un bilanciamento tra alcune peculiari esigenze "endoprocessuali", che sarebbero compromesse da un rigoroso rispetto dei limiti di fase, con l'altra esigenza antagonista - ma di diretta derivazione costituzionale - che impone di prevedere, in ogni caso, un termine massimo di durata "ragionevole" della privazione della libertà personale. A completare il quadro del complesso sistema che disciplina il regime dei termini di durata della custodia cautelare, sta, infine, il cosiddetto limite finale - anch'esso articolato in funzione dei termini di fase e complessivi, o del limite di proporzionalità rispetto alla pena massima prevista per il reato contestato o ritenuto in sentenza - stabilito, come confine invalicabile, per le ipotesi in cui i termini custodiali abbiano subito una delle ipotesi di sospensione previste dalla legge.

Da tale composito quadro di riferimento emerge, quindi, con estrema chiarezza la precisa scelta del legislatore - come si è visto, di risalente origine - di configurare la disciplina dei termini di durata delle misure coercitive secondo una prospettiva necessariamente unitaria, nel senso che la "dimensione" di ciascun termine di fase è modellata in stretta aderenza a quella dei termini delle fasi o gradi successivi, così come tanto il termine complessivo che lo stesso "limite finale" risultano calibrati sulla falsariga dei termini di fase. Isolare, quindi, il termine complessivo di cui all'art. 303 c.p.p., comma 4, dal contesto normativo in cui si trova iscritto, ed applicare la relativa disciplina alla ipotesi di "sospensione" della estradizione di cui all'art. 709 cod. proc. pen., risulta conseguentemente impossibile, tanto da un punto di vista concettuale - il termine è "complessivo" perchè presuppone altri termini intermedi - che sul versante della disciplina positiva - la relativa configurazione, infatti, risente, come si è detto, dei singoli segmenti (limiti endofasici) ed accadimenti processuali (proroghe e "sterilizzazioni") che ne compongono il regime - evidenziando, pertanto, la sussistenza di una specifica condizione negativa di incompatibilità che rende inoperante, ai fini che qui interessano, il rinvio alla disciplina generale delle misure coercitive, enunciato dall'art. 714 c.p.p., comma 2.

Per altro verso - ed a maggior ragione - risulterebbe del tutto impraticabile l'ipotesi di far ricorso, nel caso di estradizione sospesa a norma dell'art. 709 c.p.p., ai termini "finali" di cui all'art. 304 c.p.p., comma 6: e ciò malgrado la presenza di talune labili "assonanze" di sistema. Quei limiti "finali", infatti, stanno - come si è accennato - a rappresentare dei confini "comunque" invalicabili, in punto di durata delle misure coercitive, proprio nei casi in cui i termini "ordinali" soffrano alcune (tipizzate) cause di sospensione. Fenomeno, quest'ultimo, che - quanto meno sul piano lessicale - sembrerebbe a tutta prima contraddistinguere anche l'ipotesi disciplinata dall'art. 709 c.p.p., giacchè anche in essa il legislatore evoca l'intervento di un provvedimento ministeriale che produce l'effetto di "sospendere" la consegna e l'esecuzione della estradizione. Ma al di là del lessico, sembra evidente che, una volta cessate le esigenze di giustizia interna, l'intera sequenza esecutiva debba essere riavviata ex novo secondo le cadenze tracciate dall'art 708 del codice di rito, con la conseguenza che, non di fattispecie sospensiva può correttamente parlarsi, ma di vera e propria interruzione della fase esecutiva. Anche sul piano "sistematico", quindi, i termini di cui all'art. 304 c.p.p., comma 6, si presentano come del tutto eccentrici rispetto del procedimento estradizionale, anche in riferimento alla ipotesi in cui la relativa esecuzione soffra, per le ragioni già dette, una "stasi" che - nel caso di procedimento nazionale - si presenta, addirittura, di imprevedibile durata.

Accanto a tutto ciò, sembra infine possibile svolgere una ulteriore (e conclusiva) notazione, mutuata, ancora una volta, dalle peculiarità che contraddistinguono la configurazione dei termini di durata della custodia cautelare, stabiliti per il procedimento ordinario.

L'orientamento giurisprudenziale prevalente, ha, infatti, posto in evidenza l'impossibilità di ricorrere, agli effetti della ipotesi di specie, ai termini complessivi di cui all'art. 303 c.p.p., comma 4, anche perchè gli stessi sono articolati in funzione della pena prevista per il reato per il quale si procede: un parametro, dunque, tutto "interno" al processo nazionale e, quindi, non "esportabile" al campo della estradizione passiva, la cui esecuzione sia stata differita fino a "soddisfatta giustizia italiana". Il rilievo è senz'altro pertinente; ma v'è di più. Nell'ipotesi, infatti, in cui l'estradizione sia stata concessa per la esecuzione di una sentenza di condanna a pena detentiva, il riferimento all'editto previsto per il reato "nazionale" o anche per lo stesso reato estero, è privo di qualsiasi significato, rendendo quindi evidente che le articolazioni in cui si suddividono i termini complessivi di cui al più volte richiamato art. 303 c.p.p., comma 4, non possono che valere esclusivamente per il processo nazionale.

D'altra parte, ad avallare indirettamente una simile conclusione, sta anche l'affermazione del principio di proporzionalità tra la durata della custodia sofferta a fini estradizionali e la pena irrogata o che può essere inflitta dal Paese richiedente, contenuta nella Raccomandazione n. 13 del 16 settembre 1986 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, giacchè, attraverso la enunciazione di quel principio, si escludono implicitamente parametri di apprezzamento che facciano leva sulla disciplina "interna" del Paese richiesto.

Da tutto ciò deriva che, non essendo previsto uno specifico termine di durata delle misure coercitive nel caso di estradizione sospesa per esigenze di giustizia interna, e non potendosi applicare la disciplina "ordinaria" prevista dagli artt. 303 e 308 c.p.p., le misure coercitive eventualmente in corso all'atto della sospensione devono essere revocate (secondo quanto chiarito da queste Sezioni unite nella sentenza del 28 maggio 2003, n. 26156, ric. Di Filippo) per il venir meno della relativa funzione cautelare, strumentale alla decisione sulla estradizione ed alla conseguente sollecita consegna, da eseguire entro i termini di legge. Ferma restando la possibilità di adottare una nuova misura, una volta esaurite le esigenze di giustizia interna, e riavviato il procedimento di consegna, nei limiti delle esigenze correlate alla esecuzione della estradizione e con l'osservanza dei termini previsti dall'art. 708 cod. proc. pen..

E' evidente che l'ipotesi che viene qui in discorso rappresenti - come dottrina e giurisprudenza hanno unanimemente posto in risalto - una vistosa lacuna dell'ordinamento: una lacuna, per la verità, tanto più grave se si considera l'automatismo che sembra caratterizzare il provvedimento di sospensione (in tal senso depone, infatti, la costruzione in termini di "doverosità" secondo la quale è formulato l'art. 709 c.p.p., comma 1 a norma del quale l'esecuzione dell'estradizione "è sospesa" se l'estradando deve essere giudicato nello Stato o vi deve scontare una pena), nonchè la circostanza - tutt'altro che trascurabile sul piano delle esigenze cautelari - che la celebrazione del processo nazionale non presuppone affatto l'adozione di misure atte a scongiurare il pericolo di sottrazione alla futura consegna. Quand'anche, infatti, e come accade nella specie, risultino applicate misure coercitive nell'ambito del procedimento nazionale, le stesse non possono che essere funzionali esclusivamente a quest'ultimo: con la conseguenza che, venuti meno i relativi pericula libertatis, le misure in questione devono essere revocate, lasciando quindi senza presidio cautelare la futura consegna dell'estradando. Il che, evidentemente, in un assetto sempre più marcatamente volto ad assecondare la cooperazione giudiziaria e la integrazione dei relativi sistemi, non può che fungere da elemento fortemente distonico, ed in sè gravido di conseguenze senz'altro deprecabili. Ma tutto ciò, e per quel che si è detto, non legittima l'adozione di linee interpretative che, pur nell'intento di soddisfare esigenze reali, finiscono per applicare analogicamente un sistema che, per sua stessa natura, è insuscettibile di estensione analogica.

Per completezza, può aggiungersi che alle identiche conclusioni occorre pervenire anche nella ipotesi - esaminata, come si è accennato, da una parte della giurisprudenza di questa Corte - in cui la sospensione della esecuzione della estradizione non derivi dal provvedimento ministeriale adottato a norma dell'art. 709 cod. proc. pen., ma sia stata pronunciata iussu iudicis, in sede di sospensiva disposta da parte del giudice amministrativo, a seguito di ricorso proposto avverso il decreto di estradizione. E ciò per l'assorbente rilievo che la riscontrata lacuna di disciplina riguarda ogni ipotesi di sospensione della estradizione, a prescindere, quindi, dalla autorità da cui essa promani, dalla natura e dall'efficacia del relativo provvedimento e dalle "ragioni" per cui essa è disposta o pronunciata; sicchè, le stesse ragioni che valgono ad escludere l'applicabilità della disciplina dei termini di cui agli artt. 303 e 308 cod. proc. pen. al caso di sospensione di cui all'art. 709 c.p.p., valgono - eo magis - per l'ipotesi in cui la sospensiva derivi da una decisione del giudice amministrativo, essendo in quest'ultimo caso addirittura revocata in dubbio - con positivo riscontro circa il relativo fumus - la stessa legittimità del provvedimento di estradizione, e non soltanto differita la sua esecuzione "fino a soddisfatta giustizia italiana".

Può, dunque, in conclusione, enunciarsi il seguente principio di diritto. Qualora il Ministro della giustizia sospenda, a norma dell'art. 709 cod. proc. pen., l'esecuzione della estradizione "a soddisfatta giustizia italiana", non sono applicabili alle misure coercitive in corso di esecuzione all'atto della sospensione i termini di durata massima previsti dall'art. 303 c.p.p., comma 4, e art. 308 cod. proc. pen.. Tali misure devono pertanto essere revocate per l'assenza di una previsione normativa che ne legittimi il permanere anche durante il periodo in cui l'esecuzione della estradizione resta sospesa; ferma restando, peraltro, la possibilità di adottare nuovamente misure coercitive, una volta cessata la sospensione, nei limiti delle esigenze cautelari connesse all'accompagnamento dell'estradando ed alla sua consegna allo Stato richiedente, e con l'osservanza dei termini previsti dall'art. 708 cod. proc. pen..

Il ricorso del pubblico ministero deve pertanto essere rigettato.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso.

Così deciso in Roma, il 28 novembre 2006.

Depositato in Cancelleria il 18 dicembre 2006