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Corteggiamento? No, reato (Cass. 55713/18)

12 dicembre 2018, Cassazione penale

Costituisci reato l'insistente comportamento, prolungato nel tempo, di chi "corteggia" insistentemente, in maniera non gradita, una donna (profferendo al suo indirizzo espressioni a contenuto esplicitamente sessuale) e seguendola in strada (si da costringere costei a cambiare abitudini), essendo tale condotta rivelatrice di "petulanza", oltre che di "biasimevole motivo".

 

Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 19 ottobre – 12 dicembre 2018, n. 55713
Presidente Carcano – Relatore Vannucci

Ritenuto in fatto

Con sentenza emessa il 30 maggio 2016 il Tribunale di Savona dichiarò Gi. Ru. responsabile della commissione della contravvenzione di cui all'art. 660 cod. pen., consistita nell'avere tale persona ripetutamente molestato per biasimevole motivo, in Portoferraio, fino al 28 febbraio 2016, Ro. Or. profferendo all'indirizzo di costei insistenti richieste a sfondo sessuale e lo condannò alla pena di cinquecento Euro di ammenda.
A sostegno di tale decisione è evidenziato che: alla luce del contenuto delle dichiarazioni, affatto precise, rispettivamente rese dai testimoni Or., che all'epoca dei fatti svolgeva mansioni di cameriera presso il bar, all'insegna "L'arcipelago", sito in Portoferraio, e di Sardi (che in una occasione ebbe ad assistere ad episodio di molestia), Ru., per circa quattro o cinque mesi, quando nel bar non vi erano avventori, era solito avvicinarsi alla donna e profferire al suo indirizzo espressioni dall'inequivoco tenore sessuale (specificamente indicate in motivazione), cercando forme di contatto fisico; Ru., poi, ebbe a seguire la donna allorché si recava a prendere la propria figlia a scuola; Ru., dopo avere premesso di essere un soggetto "strano e diverso", aveva genericamente negato di avere commesso i fatti, reso dichiarazioni dai contenuti affatto divagatori; la sua condotta si era concretizzata in un atteggiamento di invadenza e intromissione, continua e inopportuna, nella sfera di libertà della persona offesa, che, per tale motivò, evitava di uscire fuori dal bancone del bar ed aveva cambiato i propri orari di rientro in casa, con conseguente sussistenza della contravvenzione contestata; in considerazione di precedente penale (per lesioni) e del comportamento processuale privo di ripensamento, non sussistevano i presupposti per la concessione di circostanze attenuanti generiche.
Per la cassazione di tale sentenza l'imputato ha proposto ricorso (atto sottoscritto dal difensore, avvocato Ro. Mi.) contenente tre motivi di impugnazione.

Considerato in diritto

1. Con il primo motivo il ricorrente deduce erronea applicazione dell'art. 660 cod. pen. in relazione alla sussistenza dell'elemento soggettivo del reato, dal momento che dal contenuto (specificamente trascritto nelle pagine 4 e 5 del ricorso) delle dichiarazioni da esso ricorrente rese nel corso del proprio interrogatorio emergerebbe con chiarezza come egli non avesse mai voluto consapevolmente molestare Ro. Or..
1.1 II motivo è inammissibile dal momento che: a) la sentenza impugnata, mediante corretta valorizzazione degli elementi di prova orale acquisiti al processo e ragionamento immune da vizi logici, ravvisa la sussistenza della contravvenzione prevista dall'art. 660 cod. pen. nell'insistente comportamento, prolungato nel tempo, di chi, come il ricorrente, "corteggia" insistentemente, in maniera non gradita, una donna (profferendo al suo indirizzo espressioni a contenuto esplicitamente sessuale) e seguendola in strada (si da costringere costei a cambiare abitudini), essendo tale condotta rivelatrice di "petulanza", oltre che di "biasimevole motivo" (cfr., in questo senso, Cass. Sez. 1, n. 6905 del 28 gennaio 1992, Candela, Rv. 190546); b) il ricorrente, mediante la riproduzione del contenuto delle dichiarazioni rese in sede di esame (dal tenore, invero, quanto meno poco chiaro), mira a conseguire in questa sede una non consentita rivalutazione dei fatti.
2. Con il secondo motivo di impugnazione è dai ricorrente denunciata violazione di legge (art. 190 cod. proc. pen.) e mancata assunzione di prova decisiva, dal momento che: all'udienza del 30 maggio 2016 il giudice di primo grado ebbe a revocare l'ordinanza (emessa il 9 novembre 2015) con la quale era stata ammessa la testimonianza di Regano, indicato dalla difesa come teste oculare che avrebbe dovuto riferire dei fatti contestati dal mese di dicembre 2011 a quello di febbraio 2012, sul rilievo che «la testimonianza non può aver contenuto ipotetico»; sarebbe stato dunque violato il precetto contenuto nell'art. 190 cod. proc. pen., non potendo il sollecitato esame del testimone in questione ritenersi manifestamente superfluo, né tampoco irrilevante.
2.1 La censura, per come formulata, è inammissibile, non avendo il ricorrente in questa sede dedotto: la mancanza di motivazione in ordine alla superfluità della prova caratterizzante l'ordinanza di revoca; l'immediata deduzione della predicata nullità ai sensi dell'art. 182, comma 2, cod. proc. pen. (in questo senso cfr., fra le altre: Cass. Sez. 5, n. 18351 del 17 febbraio 2012, Biagini, Rv. 252680; Cass. Sez. 2, n. 9761 del 10 febbraio 2015, Rizzello, Rv. 263210).
3. Con il terzo motivo la sentenza è dal ricorrente criticata per non avere concesso circostanze attenuanti generiche sul solo rilievo dell'esistenza di un precedente penale, risalente nel tempo (1992) e del comportamento processuale di esso ricorrente; in tal guisa non consentendo di adeguare la pena, prossima al massimo edittale, alle peculiarità del caso concreto (assenza di pericolosità sociale di esso ricorrente che non avrebbe mai agito allo scopo di recare molestia alla persona offesa).
3.1 II motivo è inammissibile, risultando il diniego di circostanze attenuanti generiche congruamente motivato (precedente condanna per delitto di lesioni; assenza di ripensamento quanto alla illiceità delle azioni commesse).
4. Da ultimo il ricorrente afferma che «valuteranno...» Giudici di Legittimità se applicare comunque alla fattispecie l'art. 131-bis c.p.»: trattasi, all'evidenza, di deduzione funzionale a sollecitare l'esercizio da parte di questa Corte del potere officioso previsto dall'art. 129 cod. proc. pen.
4.1 Indipendentemente dalla estrema genericità caratterizzante il contenuto di tale deduzione, è comunque da rilevare che l'inammissibilità del ricorso per cassazione preclude la deducibilità e la rilevabilità di ufficio della causa di esclusione della punibilità prevista dall'art. 131-bis cod. pen. (in questo senso cfr. il punto 15 della motivazione di Cass. S.U., n. 13681 del 25 febbraio 2016, Tushaj, Rv. 266593).
5. Dalla declaratoria di inammissibilità del ricorso derivano la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e, in mancanza di elementi atti ad escludere la colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 2000), al versamento di una somma di danaro alta Cassa delle ammende che stimasi equo determinare nella misura di duemila Euro (art. 616 cod. proc. pen.).

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro duemila in favore della Cassa delle ammende.