L'art. 498,1 e 2 comma, c.p.p., pur disponendo che sia l'esame del testimone che il suo controesame sono effettuati con domande poste direttamente dal P.M. ovvero dal difensore, non sottrae al presidente del collegio o al giudice monocratico, come nel caso di specie, il potere di valutare la legittimità e la pertinenza delle domande poste ai testimoni.
In particolare, vertendo nella specie in un caso di controesame, va condiviso l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale in tema di esame testimoniale, la parte che non ha indicato il teste a suo favore non può porre, in sede di controesame di quello introdotto da altra parte, domande su circostanze diverse da quelle specificate da chi ne ha richiesto l'esame al momento della presentazione della relativa lista; se così non fosse verrebbero frustrati i termini temporali ed i limiti di ammissibilità prescritti dal codice di rito per l'ingresso in processo delle prove indicate dalle parti, nonchè le regola concernenti le modalità di assunzione delle stesse.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
(ud. 23/03/2005) 01-06-2005, n. 20585
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. MARZANO Francesco - Presidente
Dott. BRUSCO Carlo Giuseppe - Consigliere
Dott. LICARI Carlo - Consigliere
Dott. VISCONTI Sergio - Consigliere
Dott. GALBIATI Ruggero - Consigliere
ha pronunciato la seguente:
sentenza
sul ricorso proposto da:
MM N. IL 08/0*/19**;
avverso SENTENZA del 29/06/2004 GIUDICE DI PACE di IMOLA;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dr. VISCONTI SERGIO;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dr. Francesco Salzano che ha concluso per il rigetto del ricorso;
Svolgimento del processo
Con sentenza del 29.6.2004 il Giudice di pace di Imola ha dichiarato non doversi procedere nei confronti di MM in ordine al reato di guida in stato di ebbrezza (art. 186, 2 comma, C.d.S.) perchè estinto per intervenuta oblazione, ed ha dichiarato lo stesso M colpevole del reato di rifiuto di sottoporsi all'accertamento alcolimetrico (art. 186, 6 comma, C.d.S.), e, previa concessione delle attenuanti generiche, lo ha condannato alla pena di e. 516,00 di ammenda.
Il giudice di merito ha ritenuto non veritiera la circostanza addotta dall'imputato, secondo la quale egli non avrebbe effettuato il controllo, perchè uno dei verbalizzanti gli aveva detto che era facoltativo. Secondo il giudice, tale circostanza è stata smentita in dibattimento dai due verbalizzanti, e non va posta in discussione in considerazione delle dichiarazioni conformi alla tesi dell'imputato, rese da un suo trasportato nell'autovettura, al momento dei forti in stato di ebbrezza, e trattandosi di dichiarazioni comunque ritenute "compiacenti".
In diritto, il giudice ha ritenuto che l'errore sulla liceità del fatto è causa di esclusione della responsabilità in materia di contravvenzioni penali solo quando esso risulti inevitabile per il concorso di un elemento positivo che ne sia causa, e non ovviabile con l'ordinaria diligenza, mentre le semplici dichiarazioni del verbalizzante, in presenza di un precetto chiaramente conoscibile, non avrebbero influito sulla determinazione del soggetto.
MMha proposto ricorso per Cassazione, chiedendo l'annullamento della succitata sentenza.
Con il primo motivo il ricorrente ha dedotto l'inosservanza di norme stabilite a pena di nullità o inutilizzabilità, con riferimento all'art. 178 lett. c) c.p.p., per non avere il Giudice di pace consentito un completo controesame del teste B per valutarne la credibilità, tenuto anche conto delle dichiarazioni del teste della difesa G, non ammettendo più domande rilevanti a tal fine.
Con il secondo motivo di impugnazione il ricorrente ha eccepito la violazione dell'art. 63, comma 2, c.p.p., essendo il B teste "sospetto", in quanto indiziato della contravvenzione di cui agli artt. 110 c.p. e 186, 6 comma, C.d.S. per avere indotto o, comunque, rafforzato il proposito criminoso dell'imputato.
Con il terzo motivo di gravame il ricorrente ha dedotto la mancanza o manifesta illogicità della motivazione per non avere ritenuto credibili le dichiarazioni del G per il suo stato di ebbrezza, mentre aveva bevuto solo due bicchieri di vino, circostanza che non comporta l'impossibilità di interagire correttamente con i terzi e con l'ambiente circostante.
Con il quarto ed ultimo motivo di ricorso il M ha eccepito l'inosservanza o erronea applicazione dell'art. 5 c.p..
Il ricorrente ha rilevato di non essere mai incorso in contestazioni del genere e di avere chiesto più volte se era obbligatorio sottoporsi all'esame in questione, e non lo ha effettuato solo perchè convinto dalla risposta negativa di un verbalizzante.
Motivi della decisione
Il ricorso è palesemente infondato, contiene censure di merito, e va, pertanto, dichiarato inammissibile.
Con il primo motivo di impugnazione, il ricorrente deduce la nullità della sentenza gravata perchè il giudice di merito non avrebbe consentito al difensore dell'imputato un adeguato controesame del teste verbalizzante B per verificarne la credibilità.
L'art. 498,1 e 2 comma, c.p.p., pur disponendo che sia l'esame del testimone che il suo controesame sono effettuati con domande poste direttamente dal P.M. ovvero dal difensore, non sottrae al presidente del collegio o al giudice monocratico, come nel caso di specie, il potere di valutare la legittimità e la pertinenza delle domande poste ai testimoni.
In particolare, vertendo nella specie in un caso di controesame, va condiviso l'orientamento giurisprudenziale secondo il quale "in tema di esame testimoniale, la parte che non ha indicato il teste a suo favore non può porre, in sede di controesame di quello introdotto da altra parte, domande su circostanze diverse da quelle specificate da chi ne ha richiesto l'esame al momento della presentazione della relativa lista; se così non fosse verrebbero frustrati i termini temporali ed i limiti di ammissibilità prescritti dal codice di rito per l'ingresso in processo delle prove indicate dalle parti, nonchè le regola concernenti le modalità di assunzione delle stesse" (Cass. 5.11.1996 n. 10284 riv. 206120).
Nella specie, come risulta chiaramente dalla motivazione impugnata, del tutto esauriente, i verbalizzanti F e B sono stati "concordi nel riferire del rifiuto opposto dal M a sottoporsi all'esame con l'etilometro" in modo che l'assunto difensivo, secondo il quale uno dei verbalizzanti aveva riferito all'imputato che era facoltativo sottoporsi all'alcoltest, "è stato smentito risolutamente e concordemente dagli stessi verbalizzanti".
Da tale motivazione si desume che indubbiamente l'unico argomento difensivo di contrasto alla configurabilità del reato di cui all'art 186, 6^ comma, C.d.S. è stato oggetto dell'istruttoria testimoniale, e che la valutazione sulla superfluità di domande o non pertinenti o inutili o meramente insidiose è rimessa al giudice di merito, il quale, nella specie, ha consentito l'accertamento nell'interesse della difesa.
Tali argomentazioni consentono di ritenere palesemente infondato anche il secondo motivo di ricorso, con il quale è stata dedotta l'inutilizzabilità delle dichiarazioni del testimone a norma dell'art. 63, 2 comma, c.p.p..
Tale inutilizzabilità è infetti configurabile solo "se la persona doveva essere sentita sin dall'inizio in qualità di imputato o di persona sottoposta alle indagini", e, nella specie, la deduzione difensiva, secondo la quale se il B avesse confermato l'argomentazione difensiva sarebbe diventato imputato per concorso nel reato, è, in primo luogo, irrilevante, dovendo tale qualità sussistere "sin dall'inizio", e poi comunque infondata, perchè - anche se fosse stata vera la tesi dell'imputato - non sarebbe configurabile alcun concorso doloso ex art. 110 c.p., in mancanza di un accordo preventivo tra i due, non configurandosi l'istigazione a commettere il reato contravvenzionale in questione. Non si tratta quindi di norma fondata su un ipotetico e del tutto eventuale coinvolgimento del testimone nel reato, ma della preesistenza di già significative ragioni per ritenere il testimone quanto meno persona sottoposta alle indagini.
Con il terzo motivo di impugnazione il ricorrente censura la sentenza impugnata per mancanza o manifesta illogicità della motivazione.
Come è noto la giurisprudenza della Corte di Cassazione ha ritenuto, pressocchè costantemente, che "l'illogicità della motivazione, censurabile a norma dell'art. 606, comma 1, lett. e) c.p.p., è quella evidente, cioè di spessore tale da risultare percepibile ictu oculi, in quanto l'indagine di legittimità sul discorso giustificativo della decisione ha un orizzonte circoscritto, dovendo il sindacato demandato alla Corte di Cassazione limitarsi, per espressa volontà del legislatore, a riscontrare l'esistenza di un logico apparato argomentativo, senza possibilità di verifica della rispondenza della motivazione alle acquisizioni processuali" (recentemente Cass. 24.9.2003 n. 18; conformi, sempre a sezioni unite Cass. n. 12/2000; n. 24/1999; n. 6402/1997).
Più specificamente "esula dai poteri della Corte di Cassazione quello di una rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione, la cui valutazione è, in via esclusiva, riservata al giudice di merito, senza che possa integrare il vizio di legittimità, la mera prospettazione di una diversa, e per il ricorrente più adeguata, valutazione delle risultanze processuali" (Cass. sezioni unite 30.4.1997 n. 6402).
Il riferimento dell'art. 606 lett. e) c.p.p. alla "mancanza o manifesta illogicità della motivazione, quando il vizio risulta dal testo del provvedimento impugnato" significa in modo assolutamente inequivocabile che in Cassazione non si svolge un terzo grado di merito, e che il sindacato di legittimità è limitato alla valutazione del testo impugnato.
Nella specie, il ricorrente censura la sentenza del Giudice di pace per non avere correttamente spiegato i motivi per cui ha ritenuto credibile la versione dei fatti esposta dai verbalizzanti, anzichè quella del teste indicato dalla difesa G Luca. Tale censura, già di stretto merito, è del tutto infondata, in quanto il giudice di primo grado ha congruamente e logicamente motivato sul punto, ritenendo non attendibili le dichiarazioni del G, non solo perchè chiaramente compiacenti, essendo un trasportato sull'autovettura del M, ma anche perchè lo stesso era in chiaro stato di ebbrezza, tanto che non fu in condizioni di condurre l'autovettura, che fu consegnata dai Carabinieri ad uno dei soci della società che ne era proprietaria, chiamato appositamente a mezzo telefono e portatosi sul posto.
Ne consegue la ben maggiore credibilità delle dichiarazioni del F e del B, in base ad una motivazione adeguata e logica.
Con il quarto ed ultimo motivo di gravame, il ricorrente - basandosi sempre sulla disattesa versione dei fatti, secondo la quale uno dei verbalizzanti gli ha detto che l'esame era facoltativo - deduce la violazione dell'art. 5 c.p., trattandosi di errore scusabile.
La Corte Costituzionale, con la sentenza 24.3.1988 n. 364, ha attenuato il rigore del citato art. 5, sull'inescusabilità della ignoranza della legge penale, sottraendovi il caso di "errore inevitabile". Le sezioni unite di questa Corte con la sentenza n. 8154 del 18.7.1994 (conforme Cass. 17.12.1999 n. 4951) hanno individuato l'errore scusabile in un atto della pubblica amministrazione o un orientamento giurisprudenziale univoco e costante da cui l'agente tragga la convinzione della correttezza dell'interpretazione normativa e, di conseguenza, della liceità della propria condotta.
Come già esposto, la logica interpretazione delle risultanze processuali da parte del giudice di merito consente di escludere con certezza che si sia verificato un comportamento dei verbalizzanti tale da far ritenere al ricorrente che la sottoposizione all'esame dell'alcoltest era facoltativa. Inoltre, come esattamente rilevato dal giudice di merito trattasi di norma molto nota, non solo agli operatori del diritto, ed il recente conseguimento da parte del M della patente di guida, superando un esame teorico, comprendente anche la citata normativa, rende in ogni caso l'errore evitabile e quindi non scusabile.
Alla declaratoria di inammissibilità del ricorso consegue, a norma dell'art. 616 c.p.p., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma, che si ritiene equo liquidare in e.
1.000,00, in favore della cassa delle ammende, non ravvisandosi assenza di colpa in ordine alla determinazione della causa di inammissibilità.
P.Q.M.
La Corte dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di e. 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.
Così deciso in Roma, il 23 marzo 2005.
Depositato in Cancelleria il 1 giugno 2005