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Consulente tecnico commette diffamazione (Cass.6051/16)

12 febbraio 2016, Cassazione penale

Il consulente tecnico non gode all'immunità difensiva garantita solo ai difensori.

Ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non si richiede che sussista l'animus iniurandi vel diffamandi, essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l'agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell'agente

Quando una lettera sia indirizzata ad un solo destinatario per esserci diffamazione vi deve essere la prova della volontà, da parte dell'agente medesimo, della diffusione del contenuto diffamatorio della comunicazione attraverso il destinatario e dunque qualora la propalazione dell'offesa non sia dovuta alla esclusiva iniziativa del destinatario.

Integra il reato di diffamazione la condotta di colui che invii, a mezzo fax, un documento contenente espressioni offensive nei confronti di una persona, sia pure diretto a un singolo destinatario, non va taciuto che, secondo il costante e condivisibile orientamento del Supremo Collegio, affinchè siffatta condotta sia riconducibile al paradigma normativo di cui all'art. 595 c.p., è pur sempre necessario, da un lato che si provi l'avvenuto inoltro del documento via fax, dall'altro che tale modalità di comunicazione abbia determinato la conoscenza o la conoscibilità della missiva non solo da parte del destinatario, ma di tutti coloro che avevano accesso all'apparecchio di arrivo del suddetto fax

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

(ud. 16/09/2015) 12-02-2016, n. 6051

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. VESSICHELLI Maria - Presidente -

Dott. ZAZA Carlo - Consigliere -

Dott. SETTEMBRE Antonio - Consigliere -

Dott. GUARDIANO Alfredo - rel. Consigliere -

Dott. DE MARZO Giuseppe - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

B.L., nato a (OMISSIS);

e da:

C.R., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza pronunciata dal tribunale di Milano il 23.4.2015;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Alfredo Guardiano;

udito il Pubblico Ministero nella persona del sostituto procuratore generale Dott. Fimiani Pasquale, che ha concluso per l'inammissibilità dei ricorsi;

udito per la parte civile ricorrente, C.R., in sostituzione del difensore di fiducia, avv. AS, del Foro di Milano, l'avv. RN, del Foro di Roma, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso, depositando conclusioni scritte e nota spese;

udito per il B., in sostituzione del difensore di fiducia, avv. LD, del Foro di Milano, l'avv. CM del Foro di Ferrara, che ha concluso per l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con sentenza pronunciata il 23.4.2015 il tribunale di Milano, in qualità di giudice di appello, in parziale riforma della sentenza con cui il giudice di pace di Milano, in data 21.5.2014, aveva condannato B.L., in relazione ai reati ex art. 595 c.p., commessi in danno di C.R., attraverso le condotte dettagliatamente descritte nei capi A) e B) dell'imputazione, alla pena ritenuta di giustizia ed al risarcimento dei danni derivanti da reato in favore della parte civile costituita, liquidati in via equitativa in 1500,00 Euro, assolveva il B. dal reato di cui al capo B), perchè il fatto non sussiste, rideterminava il trattamento sanzionatorio e l'entità del risarcimento del danno in misura più favorevole al reo, confermando nel resto la sentenza impugnata.

2. Avverso la sentenza del tribunale, di cui chiedono l'annullamento, hanno proposto tempestivo ricorso per cassazione sia l'imputato che la parte civile, con autonomi atti di impugnazione.

2.1. Il B., in particolare, nel ricorso a firma dell'avv. DL, del Foro di Reggio Calabria, lamenta: 1) violazione di legge e vizio di motivazione con riferimento alla sussistenza degli elementi costitutivi del delitto di diffamazione di cui al capo A), in quanto, da un lato le espressioni utilizzate dal B. nella memoria tecnica redatta in qualità di procuratore speciale nell'ambito del giudizio arbitrale che contrapponeva l'impresa "A.B. LMP V. di V.A.", alla "Compagnia Assicuratrice Generali", in relazione alla copertura dei danni derivanti da un incendio, con cui il B. aveva accusato il C., consulente tecnico della compagnia assicuratrice, di malafede e di falsità, sono prive di reale carattere offensivo, in considerazione del contesto in cui vennero rese, essendo destinate a censurare le condotte certamente discutibili del C., che, non a caso, è stato tratto a giudizio per falsa testimonianza innanzi al giudice penale, sede in cui è stata riconosciuta la sussistenza dell'elemento materiale dell'ipotesi addebitata e, dunque, acclarata la difformità della realtà prospettata dal suddetto consulente da quella effettivamente percepita dallo stesso; dall'altro difettano, ad avviso del ricorrente, sia il requisito oggettivo della comunicazione con più persone, perchè il suddetto scritto era stato indirizzato, su sua richiesta, al pubblico ministero nell'ambito di un procedimento pendente nella fase delle indagini preliminari a carico del V.A., per i reati di incendio doloso, simulazione di reato e fraudolento danneggiamento di beni assicurati, nel quale non era stato ancora notificato alcun avviso ex art. 415 bis c.p.p., sia il requisito soggettivo della volontà di offendere la reputazione del consulente stesso in quanto il B. ha agito solo per tutelare la posizione del V., da lui ritenuto innocente in relazione agli addebiti contestatigli; 2) violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al mancato riconoscimento dell'esimente di cui all'art. 598 c.p., poichè, a differenza di quanto affermato dal tribunale, lo scritto non è stato redatto dal B. nella qualità di consulente tecnico, ma in qualità di procuratore speciale e, quindi, di parte dell'arbitrato irrituale, al cui oggetto si ricollegano le affermazioni ritenute lesive 3) violazione di legge e vizio di motivazione per il mancato riconoscimento dell'esimente prevista dall'art. 51 c.p., in quanto le espressioni utilizzate dal B., ritenute dal ricorrente manifestazione del diritto di proteggere il V. da un'accusa ingiusta, sono state rese dall'imputato in un contesto in cui egli rivestiva la qualità di persona informata sui fatti ed aveva, dunque, ai sensi dell'art. 372 c.p., l'obbligo di riferire i fatti di cui era a conoscenza, senza dimenticare che il requisito della continenza delle espressioni utilizzate, ai fini dell'applicazione dell'art. 51 c.p., non va inteso in senso rigoroso, ma ammette una certa elasticità, che nel caso in esame, risulta rispettata.

2.2. Il C., invece, nel ricorso a firma dell'avv. SA del Foro di Milano, lamenta violazione di legge e vizio di motivazione, evidenziando che la missiva indicata nel capo B) dell'imputazione è stata inviata all'avv. V non in quanto mandatario del B., ma in quanto componente del collegio arbitrale, per cui essa era destinata ad essere resa nota agli altri componenti del Collegio; inoltre, evidenzia il ricorrente, non risulta dimostrato che la trasmissione non sia avvenuta a mezzo fax, come affermato dal tribunale, pur apparendo pacifico che si trattò, come ritenuto dallo stesso tribunale, di una "spedizione avente le connotazioni, per iscritto, de fax"; infine, rileva la parte civile, appare contraddittoria la motivazione del tribunale nella parte in cui afferma che indicare il C. come manipolatore della verità non travalichi il diritto di critica.

2.3. Con motivi aggiunti depositati 9.9.2015, la parte civile ribadiva le proprie doglianze in ordine alla ritenuta insussistenza del delitto di diffamazione di cui al capo B), evidenziando, al contempo, le ragioni che si oppongono all'accoglimento del ricorso del B..

3. I ricorsi vanno dichiarati inammissibili, per le seguenti ragioni.

4. Esaminando i motivi posti a fondamento del ricorso presentato nell'interesse del B., sinteticamente esposti nella pagine precedenti, Sì deve innanzitutto rilevarsi la genericità del motivo sub n. 1), in relazione al quale il ricorrente nè indica, nè allega atti acquisiti nell'ambito del procedimento conclusosi con la sentenza oggetto del presente giudizio di legittimità, da cui poter evincere che in sede penale è stata accertata la sussistenza dell'elemento materiale del delitto di falso testimonianza per il quale il C. è stato tratto a giudizio, a seguito, come ricorda il tribunale, di denunzia-querela presentata dal V..

Manifestamente infondati sono, invece, le ulteriori censure prospettate con i motivi di ricorso.

Da un lato, infatti, la dedotta mancanza di una effettiva volontà di offendere l'onore e la reputazione del C. da parte del B. con le espressioni utilizzate nella memoria tecnica depositata il 18.12.2007 (motivata, secondo la prospettiva del ricorrente, dalla necessità di difendere il V.A. da un'accusa ritenuta ingiusta) non costituisce argomento idoneo a determinare il venir meno dell'elemento soggettivo del delitto di cui si discute.

Come affermato, infatti, dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, condiviso dal Collegio, ai fini della sussistenza dell'elemento soggettivo del delitto di diffamazione, non si richiede che sussista l'animus iniurandi vel diffamandi, essendo sufficiente il dolo generico, che può anche assumere la forma del dolo eventuale, in quanto è sufficiente che l'agente, consapevolmente, faccia uso di parole ed espressioni socialmente interpretabili come offensive, ossia adoperate in base al significato che esse vengono oggettivamente ad assumere, senza un diretto riferimento alle intenzioni dell'agente (cfr. Cass., sez. 5, 04/11/2014, n. 7715).

Dall'altro, sotto il profilo dell'elemento oggettivo del reato, non può che condividersi, innanzitutto, quanto affermato dal tribunale sul contenuto oggettivamente offensivo dell'onore e della reputazione della parte civile, insito nelle espressioni adoperate dal B. nella citata memoria tecnica, trascritte integralmente nel capo d'imputazione, con cui l'imputato ha immotivatamente aggredito nella sua sfera personale e professionale il C., accusandolo reiterata mente di avere agito con malafede e falsità nel suo incarico di consulente tecnico della controparte, allo scopo di fare emergere elementi di colpevolezza a carico del V.A. in relazione all'incendio in precedenza citato, accusa rivelatasi priva di fondamento.

Condivisibile deve ritenersi anche la valutazione operata dal tribunale sulla sussistenza della comunicazione con più persone, requisito indispensabile per la configurabilità del delitto di diffamazione, insita nella circostanza che "lo scritto in questione, lungi dall'avere un destinatario privato, era depositato agli atti di un procedimento penale e come tale accessibile (cosa peraltro avvenuta) a più soggetti ancorchè con le forme e i limiti previsti dalla legge" (cfr. p. 5 della sentenza oggetto di ricorso).

Giova, infatti, ricordare che, come evidenziato nella sentenza del giudice di pace (utilizzabile in questa sede, costituendo con quella di secondo grado un prodotto unico, in quanto entrambe le decisioni dei giudici di merito hanno impiegato criteri omogenei di valutazone e seguito un apparato logico argomentativo uniforme: cfr., ex plurimis, Cass., sez. 3, 1.2.2002-12.3.2002, n. 10163, rv. 221116), la memoria tecnica giudiziale di cui si discute è stata depositata dal B. nell'ambito del processo penale sorto in conseguenza dell'incendio del capannone adibito a sede della società del V.A. (cfr. p. 5 della sentenza di primo grado), per cui era destinata ad essere conosciuta quanto meno dalla pluralità di soggetti direttamente coinvolti nello svolgimento del suddetto processo, ai quali era consentito l'accesso agli atti.

Come affermato, infatti, dal costante insegnamento del Supremo Collegio, orientamento se è vero, che, come questa Corte ha già avuto occasione di affermare, "la diffamazione, che è reato di evento, si consuma nel momento e nel luogo in cui i terzi percepiscono l'espressione ingiuriosa" (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 5, 21.6.2006, n. 25875, rv. 234528), è altrettanto vero che quando il mezzo utilizzato per diffondere l'espressione offensiva sia, per sua natura ovvero per la funzione svolta, destinato ad essere visionato ex lege da una pluralità indeterminata di soggetti, deve necessariamente presumersi come avvenuta la diffusione dell'offesa, fino a prova del contrario, in quanto, in questi casi, la comunicazione dell'espressione offensiva si colloca in una dimensione ben più ampia di quella interpersonale tra offensore ed offeso, essendo, peraltro, prevedibile, nel caso in esame, da parte dell'autore dello scritto, la circostanza che il contenuto della consulenza, in quanto acquisita agli atti di un procedimento penale, per le ragioni innanzi indicate sarebbe stato reso noto a terzi (cfr., in questo senso, Cass., sez. 5, 4.4.2008, n. 16262, rv.239832; Cass., sez. 5, 6.4.2011, n. 29221, rv. 250459; Cass., sez. 5, 16.10.2012, n. 44980, rv. 254044).

Del tutto inconferente, quindi, appare il riferimento da parte del ricorrente al fatto che la memoria tecnica di cui al capo d'imputazione sia stata redatta dall'imputato in qualità di persona informata sui fatti ed espressamente richiesta dal pubblico ministero delegato allo svolgimento delle indagini preliminari in relazione ai reati addebitati al V.A., in quanto proprio la finalità del documento a difesa dell'imputato, ammessa dallo stesso B., rendeva e rende evidente la sua destinazione agli atti del processo penale instaurato a carico del,Ventura e, quindi, la conoscibilità, assolutamente prevedibile dal ricorrente, del relativo contenuto denigratorio da parte dei terzi.

Del pari manifestamente infondata è la censura con cui si invoca l'applicazione in favore del B. della speciale esimente prevista dall'art. 598 c.p., in favore delle parti dei procedimenti instaurati innanzi alle autorità giudiziarie ed amministrative e dei loro patrocinatori, per la decisiva ragione che egli, benchè fosse stato nominato procuratore speciale del V.A. (come affermato dal ricorrente) ovvero della "A.B. LMP V. di V.A." (come rilevato dal giudice di pace, conformemente al contenuto della contestazione), non può certo ritenersi parte del processo penale instaurato a carico del V., nel cui ambito è stato commesso il reato. In tale procedimento, piuttosto, il B., come correttamente ritenuto dai giudici di merito, ha agito in qualità di consulente tecnico del V., nella veste, quindi, di un soggetto processuale per il quale risulta pacificamente esclusa l'applicabilità dell'esimente di cui si discute (cfr. Cass., sez. 5, 22/01/2007, n. 13791).

Manifestamente infondato, infine, appare anche il motivo di ricorso con cui si lamenta la mancata applicazione dell'esimente ex art. 51 c.p., di cui, come correttamente ritenuto dal tribunale, non ricorrono gli estremi.

Ed invero, da un lato, ove anche si volesse riconoscere al ricorrente, nell'ambito del procedimento penale sorto a carico del V., la qualità di persona informata sui fatti (e non di consulente tecnico), va osservato che, in realtà, con la sua memoria, il B. non ha rappresentato dei fatti (unica ipotesi in cui non commette il reato di diffamazione il testimone, e, quindi, anche la persona informata sui fatti, che, adempiendo il dovere di testimoniare, renda dichiarazioni offensive dell'onore altrui: cfr.

Cass., sez. 6, 14/01/2011, n. 12431, rv. 249587), ma ha espresso delle valutazioni dal contenuto fortemente offensivo nei confronti del C., che non costituiscono nè esercizio del diritto di critica, nè adempimento di un dovere, con effetto scriminante della condotta (cfr. Cass., sez. 5, 29/04/2014, n. 37379, rv. 260124).

Dall'altro proprio la gravità delle accuse rivolte al C. e delle espressioni utilizzate dall'imputato nei confronti di quest'ultimo, escludono in radice che sia stato osservato il limite della continenza.

Ed invero, come affermato dall'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità, il limite della continenza nel diritto di critica ex art. 51 c.p. è superato in presenza di espressioni che, in quanto gravemente infamanti e inutilmente umilianti, trasmodino in una mera aggressione verbale del soggetto criticato. Il riconoscimento del diritto di critica, infatti, tollera giudizi anche aspri sull'operato del destinatario delle espressioni, purchè gli stessi colpiscano quest'ultimo con riguardo a modalità di condotta manifestate nelle circostanze a cui la critica si riferisce, ma non consente che, prendendo spunto da dette circostanze, si trascenda in attacchi a qualità o modi di essere della persona che finiscano per prescindere dalla vicenda concreta, assumendo le connotazioni di una valutazione di discredito in termini generali della persona criticata (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 5, 04/12/2013, n. 9091).

In tale ambito si collocano le espressioni utilizzate dall'imputato, che non si limitano ad una confutazione degli argomenti utilizzati dal consulente della controparte, trasmodando, piuttosto, in una generale valutazione di discredito del C., sia sotto il profilo personale, che professionale.

5. Del pari deve dichiararsi inammissibile il ricorso presentato nell'interesse della parte civile, per manifesta infondatezza dei motivi che lo sostengono ed, in particolare, della doglianza relativa alla sussistenza del requisito della comunicazione con più persone, su cui il giudice di appello ha fondato l'assoluzione del B. dal reato di diffamazione di cui al capo B), ritenendola non provata alla luce delle risultanze processuali, sia documentali che testimoniali.

Ed invero nella fattispecie oggetto di tale ultima contestazione il mezzo utilizzato dal B. per diffondere l'espressione offensiva dell'onore e della reputazione della parte civile che gli viene addebitata (l'ing. C. ha manipolato la verità"), non era destinato ad essere visionato da una pluralità indeterminata di soggetti, collocandosi, piuttosto, la comunicazione dell'espressione offensiva, in una dimensione circoscritta al rapporto interpersonale, di natura professionale, tra l'offensore (il B.) ed il destinatario della comunicazione stessa (l'avv. Vigara Antonella), senza che fosse prevedibile, da parte dell'autore, la circostanza che il contenuto dello scritto sarebbe stato reso noto ai terzi.

Si trattava, infatti, di una missiva che, come chiarito dal tribunale, il B. aveva indirizzato ad un unico destinatario, l'avv. Vigara Antonella, nominata dall'imputato nell'ambito della procedura arbitrale contrattuale, con cui il ricorrente sollecitava la Vigara a non presenziare ad una riunione di cui il presidente del collegio arbitrale aveva anticipato la fissazione, ritenendo che tale fissazione fosse sintomo di adesione a "quella tendenza accusatoria di cui l'ing. C. ha manipolato la verità, prospettandole poi al P.M. delegato alle indagini" (cfr. p. 6 della sentenza impugnata).

Nè la circostanza che la missiva contenesse la dicitura "via fax" consente di giungere ad una soluzione diversa, favorevole all'assunto della parte civile.

Se è vero, infatti, che integra il reato di diffamazione la condotta di colui che invii, a mezzo fax, un documento contenente espressioni offensive nei confronti di una persona, sia pure diretto a un singolo destinatario, non va taciuto che, secondo il costante e condivisibile orientamento del Supremo Collegio, affinchè siffatta condotta sia riconducibile al paradigma normativo di cui all'art. 595 c.p., è pur sempre necessario, da un lato che si provi l'avvenuto inoltro del documento via fax, dall'altro che tale modalità di comunicazione abbia determinato la conoscenza o la conoscibilità della missiva non solo da parte del destinatario, ma di tutti coloro che avevano accesso all'apparecchio di arrivo del suddetto fax (cfr. Cass., sez. 5, 26/06/2013, n. 36864; Cass., sez. 5, 20/04/2012, n. 36713; Cass., sez. 5, 19/10/2010, n. 1763, rv. 249507).

Correttamente, pertanto, il tribunale ha escluso che dalla semplice dicitura "via fax" apposta sulla missiva indirizzata all'avv. Vigara se possa desumere l'avvenuto inoltro attraverso il suddetto mezzo di comunicazione (comunque da solo non sufficiente, come si è detto, ad assicurarne la conoscibilità da parte di più persone), "tanto più che manca nella missiva ogni report grafico che tipicamente caratterizza gli atti inviati e/o ricevuti tramite telefax".

Nè conduce ad una diversa conclusione in ordine alla responsabilità del B. la circostanza, processualmente acclarata, che l'avv. V, ricevuta la missiva, l'abbia allegata alla comunicazione, inviata al presidente del collegio arbitrale e, per conoscenza, al C., con cui rappresentava la sua scelta di non partecipare alla seduta che era stata anticipata.

Anche in questo caso, infatti, il tribunale si è mosso nel solco dell'orientamento dominante nella giurisprudenza di legittimità (di cui i rilievi del ricorrente non tengono conto), secondo il quale in tema di diffamazione, si configura la condotta del reato solo qualora - nell'ipotesi in cui l'agente, attraverso una lettera indirizzata ad un solo destinatario, comunichi in via riservata con un'unica persona - vi sia la prova della volontà, da parte dell'agente medesimo, della diffusione del contenuto diffamatorio della comunicazione attraverso il destinatario e dunque qualora la propalazione dell'offesa non sia dovuta alla esclusiva iniziativa del destinatario (cfr. ex plurimis, Cass., sez. 5, 14.2.2014, n. 14067; Cass., sez. 5, 23.1.2009, n. 19396, rv.243606; Cass., sez. 5, 11.2.1999, n. 7551; Cass., sez. 5, 9.4.1997, n. 5454, rv. 207780).

Tale prova nel caso in esame difetta, in quanto, come correttamente rilevato dal giudice di secondo grado, "la natura e il carattere della missiva nella sua oggettività non ne imponeva affatto la comunicazione a soggetti diversi dal destinatario, ben potendo l'avv. V manifestare la sua decisione di non partecipare alla riunione in ragione delle disposizioni ricevute dal suo mandante, senza comunicare il testo della missiva inviata da B.L.; nè sussistono elementi univoci in merito al fatto che l'imputato, autore della missiva, prevedesse o volesse che il contenuto relativo sarebbe stato reso noto a terzi" (cfr. p. 6). In questo senso le censure della parte civile risultano manifestamente fallaci, in quanto la natura di componente del collegio arbitrale dell'avv. V non le imponeva in alcun modo di rendere note le ragioni poste dal B. a fondamento della sua richiesta, accolta dalla professionista, di non partecipare alla riunione del collegio.

Trattandosi, pertanto, di documento per sua natura non destinato ad essere allegato agli atti della procedura arbitrale (a differenza della relazione tecnica a firma del B. depositata nell'ambito del procedimento penale a carico del Va.), di cui una pluralità di destinatari sono venuti a conoscenza per un'autonoma iniziativa del destinatario della missiva, non voluta nè prevedibile da parte dell'autore dello scritto, difetta in maniera palese sia il requisito oggettivo della comunicazione con più persone, che l'elemento soggettivo della fattispecie di cui si discute (sub specie della volontà che la frase venga a conoscenza di più persone, anche soltanto due: cfr., ex plurimis, Cass., sez. 1, 22/01/2014, n. 16712).

La fondatezza di tali rilievi, che non consentono di ritenere configurabile il delitto di diffamazione di cui al capo B), giustificando la pronuncia assolutoria del tribunale, rendono del tutto superfluo affrontare il tema della effettiva natura offensiva dell'espressione contenuta nella missiva inviata all'avv. V.

6. Alla dichiarazione di inammissibilità di entrambi i ricorsi consegue la condanna di ciascun ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento e della somma di Euro 1000,00 a favore della cassa delle ammende, tenuto conto della circostanza che l'evidente inammissibilità dei motivi di impugnazione, non consente di ritenere i ricorrenti medesimi immuni da colpa nella determinazione delle evidenziate ragioni di inammissibilità (cfr. Corte Costituzionale, n. 186 del 13.6.2000).

La parziale fondatezza delle ragioni di entrambe le parti con riferimento, per il B., alla inammissibilità del ricorso della parte civile in relazione al capo B); per il C. alla inammissibilità del ricorso dell'imputato in relazione al capo A), induce il Collegio a dichiarare interamente compensate tra le parti le spese di questo grado di giudizio.

P.Q.M.
Dichiara inammissibili i ricorsi e condanna ciascun ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1000,00 in favore della cassa delle ammende.

Dichiara compensate fra le parti le spese di questo giudizio.

Così deciso in Roma, il 16 settembre 2015.

Depositato in Cancelleria il 12 febbraio 2016