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Certificato medico in lingua straniera: va tradotto? (Cass. 2156/98)

20 febbraio 1998, Cassazione penale

In materia di traduzione degli atti l'esistenza, negli atti del procedimento penale, di scritti compilati in lingua straniera, costituisce un caso di nullità del procedimento stesso solo quando il difensore dell'imputato chiede la nomina di un interprete per la traduzione, ex art. 143 comma 2 c.p.p., e il giudice si rifiuti di provvedere in conformità. Detta nullità peraltro ha carattere relativo ed è sanata dall'acquiescenza del difensore. 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE V PENALE

 (ud. 11/12/1997) 20-02-1998, n. 2156

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.:

Dott. Bruno FOSCARINI Presidente

" Renato L. CALABRESE Rel. Consigliere

" Alfonso AMATO "

" Angelo DI POPOLO "

" Vittorio RAGONESI "

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

sul ricorso proposto da

TG, nato a B**, e da AF, nato a **

avverso la sentenza della Corte d'appello di Roma in data 25 giugno 1996

Visti gli atti, la sentenza denunziata ed i ricorsi,

Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dr. Renato Calabrese;

Udito il Pubblico Ministero in persona del dr. Bruno Frangini che ha concluso per il rigetto dei ricorsi;

Sentito, per il T, l'avv. MM;

Svolgimento del processo - Motivi della decisione
  

TG e AF vennero tratti a giudizio per rispondere, quale amministratore di diritto, il primo, sino al 13 marzo 1991, e di fatto, come il secondo, da quest'ultima data,, della srl ***, dichiarata fallita dal Tribunale di Roma il 14 ottobre 1992, (ed in concorso con PA, amministratore unico dal 13 marzo 1991, giudicato separatamente), dei reati di cui agli artt. 110 c.p., 216, 219 e dell'art. 223 della legge fallimentare (R.D. 16 marzo 1942, n. 267) e dell'art. 2621 c.c., per avere distratto, occultato e dissipato i beni sociali, nonché tenuto i libri e le altre scritture contabili in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio e il movimento degli affari, ovvero per avere fraudolentemente esposto nel bilancio al 31 dicembre 1990 l'esistenza di immobilizzi tecnici per L.485.000.000.

Con sentenza in data I marzo 1994 il Tribunale di Roma dichiarava gli imputati colpevoli dei reati come sopra ascritti, ritenendo per tutti l'aggravante della pluralità dei fatti di bancarotta, e, concesse al T le att. gen., equivalenti, condannava quest'ultimo alla pena di tre anni di reclusione e A a quella di tre anni e mesi due di reclusione.

La Corte di appello di Roma, con sentenza 25 giugno 1996, esclusa per T l'ipotesi di bancarotta fraudolenta per distrazione e quindi la contestata aggravante, riduceva la pena ad anni due di reclusione, e confermava nel resto.

Gli imputati hanno proposto ricorso per cassazione.

T denuncia

1) violazione dell'art. 30, comma 2, c.p.p.

2) l'omesso esame di precisi motivi d'appello. Contesta inoltre, sotto il profilo di erronea applicazione degli artt. 216 e 223della legge fallimentare, di vizio della motivazione e di travisamento dei fatti

3) l'addebitabilità della bancarotta documentale a chi non rivesta la carica di amministratore, direttore generale o sindaco

4) la sussistenza stessa di detto delitto.

Nell'interesse di A si deduce la violazione dell'art. 486 c.p.p., in grado di appello, la nullità dell'ordinanza dichiarativa di contumacia nel giudizio di primo grado e l'insussistenza delle condizioni per essere considerato amministratore di fatto.

Osserva la Corte che il ricorso di T va accolto limitatamente alla omessa pronuncia sulla sospensione della pena. Quello di A deve invece essere integralmente rigettato.

Ricorso T.

In presenza di un atto di parte, da questa qualificata denuncia di conflitto, il giudice è tenuto a disporne l'immediata trasmissione alla Corte di cassazione, ai sensi dell'art. 30, comma 2, c.p.p., solo in quanto il contenuto dell'atto anzidetto corrisponda esattamente alle previsioni di cui all'art. 28 c.p.p..

Tale condizione non si verifica, e l'adempimento suddetto non deve, quindi, avere luogo, quando nella denuncia una situazione di conflitto non sia configurabile neppure astrattamente.

Ipotesi, questa, ricorrente nella fattispecie concreta, nella quale la corte territoriale ha bene evidenziato che il rinvio a giudizio dell'attuale ricorrente, in concorso con A ed altri, dinanzi al Tribunale di Bologna, cui si riferiva la denuncia di conflitto, concerneva reati di bancarotta relativi al fallimento di altre società, tra cui la "**", dichiarata fallita in Bologna il 24 giugno 1993.

Va dunque esclusa la violazione di legge denunciata con il primo motivo.

Devono pure disattendersi le doglianze che attengono alla omessa pronuncia sui motivi di appello con cui era stata, da un lato, eccepita la nullità del decreto di rinvio a giudizio in quanto contenente la enunciazione di fatti "diametralmente opposti e contraddittori", e, dall'altro, dedotta la configurabilità, in subordine, del solo reato di falso in bilancio o di false comunicazioni sociali.

Va qui ricordato che il giudice dell'impugnazione non ha l'obbligo di motivare il mancato accoglimento di istanze, quando queste siano improponibili per genericità o per manifesta infondatezza.

La Corte di merito non aveva bisogno di pronunciarsi su una ipotesi di nullità chiaramente insussistente, qual'è quella sopra riportata, stante il costante indirizzo giurisprudenziale, sorto già nella vigenza del codice abrogato, secondo cui è consentito, anche con il decreto che dispone il giudizio, formulare contestazioni alternative, di qualunque tipo, perché tale metodo non solo è legittimo ma risponde anche ad una esigenza di difesa (cfr. Sez. VI, 12 ottobre 1993 m. 196.760; Sez. V, 23 gennaio 1997).

E neppure sull'altra questione, essendo principio del pari pacifico che il reato di false comunicazioni sociali di cui all'art. 2621 c.c., in caso di fallimento, realizza l'autonomo reato di bancarotta fraudolenta di cui all'art. 223, comma 2, n. 1 della legge fallimentare, del quale il fallimento è elemento costitutivo, senza che sia necessario - diversamente da quanto prospetta il ricorrente - un nesso causale tra il comportamento delittuoso e il fallimento della società (nesso richiesto espressamente solo nell'ipotesi ex art. 223, comma 2, n. 2, della legge fallimentare: cfr. Sez. V, 10 febbraio 1981, Selli; Sez. V., 27 febbraio 1997, Angeleri e altri).

Egualmente infondata appare la censura in diritto, contenuta nel terzo motivo, che ripropone una questione già ampiamente valutata e risolta dalla ormai costante giurisprudenza, la quale è ferma nel ritenere che l'amministratore di fatto di una società risponde dei reati fallimentari (e quindi anche della bancarotta documentale) quale diretto destinatario delle norme di cui agli artt. 223 e 216 della legge fallimentare, che indicano gli amministratori con riferimento non ad una formale attribuzione di qualifiche ma l'esercizio concreto delle funzioni che dette qualifiche sostanziano (Sez. V., 23 febbraio 1995, Barducco e altri).

Senza considerare che, nel caso in esame, a prescindere dalla questione dell'amministratore di fatto, la responsabilità del ricorrente è stata motivatamente ritenuta dai giudici di merito anche a titolo di consapevole concorso con A e P.

Incensurabile è, poi, in questa sede di legittimità l'ampia motivazione esibita da detti giudici a sostegno del proprio convincimento sulla ascrivibilità all'imputato della contestata bancarotta documentale, non basato - come si assume in ricorso - sul solo elemento (che non sarebbe rimasto adeguatamente provato) della mancata consegna dei libri contabili al nuovo amministratore formale.

Lamenta infine il ricorrente che non è stata data risposta alle richieste di prevalenza delle già concesse att. gen., di applicazione dell'attenuante di cui all'art. 114 c.p. e di concessione del beneficio della sospensione condizionale della pena.

A riguardo si osserva quanto segue:

- esclusa dal giudice d'appello l'unica aggravante contestata (quella ex art. 219, comma 2, n. 1, della legge fallimentare a ragione dell'assoluzione dal delitto di bancarotta fraudolenta patrimoniale), non dovevasi procedere ad alcun giudizio di comparazione;

- l'assunto della "minima importanza nella preparazione e nella esecuzione del reato" era rappresentato da una mera asserzione, non essendo state spiegate, in dettaglio, le ragioni di fatto di un motivo palesemente carente del requisito della specificità, il giudice d'appello - come dinanzi detto - non aveva obblighi di confutazione;

- merita invece accoglimento, come preannunciato, l'ultima doglianza, che attiene alla sospensione condizionale della pena: la corte territoriale non ha affatto preso in considerazione la relativa richiesta, che pure era stata ritualmente formulata con i motivi di gravame e che non v'era ragione di non prendere in esame, non fosse altro che per lo stato di incensuratezza dell'imputato, favorevolmente valutato in prime cure, e del positivo apprezzamento che la stessa corte ha ritenuto di formulare in ordine alle ragioni che avevano determinato la condotta sia pur fraudolenta del giudicabile.

Sul punto s'impone perciò l'annullamento della impugnata sentenza con rinvio ad altra sezione della corte romana.

Ricorso A.

In ordine al primo motivo, è da osservare che l'esistenza, negli atti del procedimento penale, descritti compilati in lingua straniera, costituisce un caso di nullità del procedimento stesso solo quando il difensore dell'imputato chiede la nomina di un interprete per la traduzione, ex art. 143, comma 2, c.p.p., e il giudice si rifiuti di provvedere in conformità. Detta nullità peraltro ha carattere relativo ed è sanata dall'acquiescenza del difensore.

Non può pertanto costituire causa di annullamento, in riferimento al caso in esame, il fatto che la corte abbia disatteso la certificazione medica attestante l'impedimento a comparire dell'imputato, siccome redatta in lingua rumena in modo altresì illeggibile, senza averne disposta la traduzione, neppure richiesta dal difensore.

Deve essere respinto anche il secondo motivo.

Il decreto di citazione per il giudizio di primo grado venne notificato a mezzo posta, con raccomandata ricevuta da persona qualificatasi come moglie convivente del destinatario e dalla stessa sottoscritta con firma illeggibile.

Con i motivi di appello l'imputato si limitò a censurare la dichiarazione di contumacia sotto il profilo della mancata traduzione in udienza (doglianza motivatamente respinta dalla corte), ma senza contestare in alcun nodo di essere venuto in possesso dell'atto consegnato nella sua residenza.

Ne consegue la assoluta irrilevanza della questione, ora proposta in questa sede, con riferimento a presunte irregolarità inerenti la notificazione dell'atto (apposizione di un mero crocesegno, da parte della consorte, non equiparabile ad "una firma ancorché illeggibile").

Per quanto attiene alle doglianze mosse con l'ultimo motivo di ricorso, le stesse sono sicuramente infondate avendo l'impugnata sentenza con congrua motivazione ancorata a precisi riferimenti dimostrato che A fu senz'altro amministratore di fatto ed inoltre partecipò alla spoliazione della società, come descritta dal curatore.

Sono state invero valorizzate le chiamate in correità dell'amministratore unico P e dello stesso T, comprovate da precisi riscontri e testimoniali (rivenienti dalle dichiarazioni rese dai dipendenti della società fallita) e documentali (vendita di un consistente immobile sociale, in prossimità della dichiarazione di fallimento, ad una società facente capo alla moglie di esso A.

Di contro i motivi di ricorso sui punti sopra menzionati nella sostanza si limitano a prospettare, tra l'altro genericamente, una diversa valutazione delle accennate risultanze processuali, preclusa in sede di legittimità.

Il rigetto del suo ricorso comporta, per A, il carico degli ulteriori oneri patrimoniali previsto dall'art. 616 c.p.p..

P.Q.M.

La Corte annulla l'impugnata sentenza nei confronti di TG, limitatamente alla omessa pronuncia sulla sospensione condizionale della pena, con rinvio ad altra sezione della Corte d'appello di Roma.

Rigetta nel resto il ricorso di T. Rigetta il ricorso di AF, che condanna al pagamento delle spese del procedimento.

Così deciso in Roma l'11 dicembre 1997.

DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 20 FEBBRAIO 1998.