La detenzione di una persona malata può porre dei problemi sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione e una tale detenzione in condizioni materiali e mediche inappropriate può costituire un trattamento contrario all’articolo 3.
Per determinare se la detenzione di una persona malata sia conforme all’articolo 3 della Convenzione, la Corte prende in considerazione la salute dell’interessato e l’effetto delle modalità di esecuzione della sua detenzione sulla sua evoluzione. Essa ha affermato che le condizioni di detenzione non devono in nessun caso sottoporre la persona privata della libertà a sentimenti di paura, angoscia e inferiorità che possano umiliare, svilire e minare eventualmente la sua resistenza fisica e morale. Essa ha riconosciuto a tale proposito che i detenuti affetti da disturbi mentali sono più vulnerabili dei comuni detenuti, e che alcune esigenze della vita carceraria li espongono maggiormente a un pericolo per la loro salute, aumentano il rischio che si sentano in situazione di inferiorità, e sono indubbiamente fonte di stress e di angoscia. Una tale situazione comporta la necessità di una maggiore attenzione nel controllo del rispetto della Convenzione. La valutazione della situazione degli individui in questione deve tenere conto della loro vulnerabilità e, in alcuni casi, della loro incapacità di contestare in maniera coerente, o addirittura di contestare in qualsiasi modo, il trattamento loro riservato e gli effetti che tale trattamento produce su di essi.
La Corte rammenta che il semplice fatto che un detenuto sia stato visitato da un medico e che gli sia stato prescritto un determinato trattamento non può portare a concludere automaticamente che le cure dispensate sono appropriate. Inoltre, le autorità devono assicurarsi che le informazioni relative allo stato di salute del detenuto e alle cure ricevute in carcere siano riportate in maniera esaustiva, che il detenuto benefici tempestivamente di una diagnosi precisa e di cure adatte, e che sia oggetto, quando la malattia da cui è affetto lo richiede, di un’assistenza regolare sistematica e di una strategia terapeutica globale, volta a porre rimedio ai suoi problemi di salute o a prevenirne l'aggravamento piuttosto che a curarne i sintomi. Inoltre, spetta alle autorità dimostrare che hanno creato le condizioni necessarie affinché il trattamento prescritto sia effettivamente seguìto. La Corte ha concluso che l'assenza di una strategia terapeutica globale per la cura di un detenuto affetto da disturbi mentali può costituire un «abbandono terapeutico» contrario all'articolo 3.
CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL'UOMO
PRIMA SEZIONE
CAUSA SY c. ITALIA
(Ricorso n. 11791/20)
24 gennaio 2022
SENTENZA
Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite dall'articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.
Nella causa Sy c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell'uomo (prima sezione), riunita in una Camera composta da:
Marko Bošnjak, presidente,
Péter Paczolay,
Krzysztof Wojtyczek,
Alena Poláčková,
Erik Wennerström,
Raffaele Sabato,
Lorraine Schembri Orland, giudici,
e da Renata Degener, cancelliere di sezione,
Visti:
il ricorso (n. 11791/20) proposto contro la Repubblica italiana da un cittadino di questo Stato, il sig. Giacomo Seydou Sy («il ricorrente»), che il 4 marzo 2020 ha adito la Corte ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»),
la decisione di portare il ricorso a conoscenza del governo italiano («il Governo»),
la misura provvisoria indicata al governo convenuto ai sensi dell’articolo 39 del regolamento della Corte («il regolamento»),
le osservazioni delle parti,
la decisione della Corte del 9 marzo 2021 di non accettare la dichiarazione unilaterale del Governo,
Dopo avere deliberato in camera di consiglio l’11 gennaio 2022,
Emette la seguente sentenza, adottata in tale data:
INTRODUZIONE
1. Il ricorso riguarda il mantenimento del ricorrente in regime carcerario ordinario, nonostante le decisioni dei giudici che ordinano, in particolare, il suo ricovero in una residenza per l'esecuzione delle misure di sicurezza («REMS»). Il ricorrente contesta il suo mantenimento in regime carcerario ordinario, che ritiene illegale; le sue condizioni di detenzione, che ritiene inadeguate in mancanza di un trattamento specifico per i suoi disturbi psichiatrici; l'assenza di ricorsi interni; la mancata esecuzione della sentenza del 20 maggio 2019 con la quale la corte d'appello aveva ordinato la sua rimessione in libertà e un ritardo nell'esecuzione della misura indicata dalla Corte ai sensi dell'articolo 39 del suo regolamento. Il ricorrente fa riferimento agli articoli 3, 5 § 1, 5 § 5, 6, 13 e 34 della Convenzione.
IN FATTO
2. Il ricorrente è nato nel 1994 e risiede a Mazzano Romano. È stato rappresentato dagli avvocati A. Saccucci, G. Borgna, V. Cafaro e G. Di Rosa, del foro di Roma.
3. Il Governo è stato rappresentato dal suo agente, L. D’Ascia.
4. Il ricorrente è affetto da un disturbo di personalità e da un disturbo bipolare. Il suo stato mentale è aggravato dall’abuso di sostanze psicoattive. Alla data di presentazione del ricorso, era detenuto a Roma, nel carcere di Rebibbia Nuovo Complesso («Rebibbia NC»).
I. IL PRIMO PROCEDIMENTO PENALE
5. Il 15 luglio 2017 il giudice per le indagini preliminari («GIP») del tribunale di Roma applicò al ricorrente, accusato di molestie nei confronti della sua ex-compagna, di resistenza a pubblico ufficiale e di lesioni personali, la misura cautelare degli arresti domiciliari.
6. Il 4 settembre 2017, poiché il ricorrente si era allontanato più volte dalla sua abitazione, il GIP sostituì gli arresti domiciliare con la misura della custodia cautelare in carcere e chiese alla direzione sanitaria del carcere di redigere una relazione sul suo stato di salute e sulla compatibilità di quest’ultimo con la detenzione, al fine di valutare la capacità del sistema penitenziario di assicurare al ricorrente la somministrazione delle cure necessarie.
7. Il 18 settembre 2017 il GIP richiese una perizia psichiatrica volta ad accertare lo stato psicologico dell’interessato al momento dei fatti e la sua pericolosità sociale.
8. Il 3 ottobre 2017, nel corso dell’incidente probatorio dinanzi al GIP, il perito G.M. depositò la sua relazione, che concludeva come segue:
«Il sig. Sy, affetto da un disturbo di personalità (…) (caratteristiche di personalità miste di tipo antisociale e borderline), disturbo bipolare e disturbi correlati senza specificazione, disturbo da uso di cannabis, disturbo da uso di stimolanti (cocaina), al momento dei fatti in oggetto (…), a causa di una fase di grave scompenso, versava in condizioni di infermità tali da escludere le sue capacità di intendere e di volere.
II sig. Sy è da ritenersi, in senso psichiatrico, attualmente pericoloso socialmente con prevalenza di esigenze di cura e riabilitazione a quelle custodiali.
Il sig. Sy è attualmente capace di partecipare coscientemente al processo.»
9. Il 6 ottobre 2017 il GIP sostituì la misura cautelare della custodia in carcere con quella della misura di sicurezza personale provvisoria dell’assegnazione ad una residenza per l’esecuzione delle misure di sicurezza («REMS») per la durata di un anno (si veda paragrafo 49 infra), misura da eseguire non appena possibile. Nel frattempo, il ricorrente doveva essere collocato in un idoneo reparto del sistema penitenziario.
10. Lo stesso giorno, su richiesta della procura, il GIP decise che l’imputato sarebbe stato giudicato con giudizio immediato.
11. Il 22 novembre 2017, sulla base della perizia psichiatrica depositata il 3 ottobre 2017, il GIP assolse il ricorrente perché, in ragione della sua infermità, era incapace di controllare le sue azioni, e gli applicò la misura del ricovero in REMS per un periodo di sei mesi. Il GIP rilevò che la misura di sicurezza applicata al ricorrente il 6 ottobre 2017 non era stata eseguita a causa dell’indisponibilità di posti nelle strutture interessate (paragrafo 9 supra).
12. Il ricorrente afferma di essere stato rimesso in libertà, per mancanza di posti nelle REMS, il 23 dicembre 2017, e poi di aver deciso spontaneamente di fare ingresso, il 23 gennaio 2018, in una comunità specializzata per seguire un percorso terapeutico personalizzato.
13. Il magistrato di sorveglianza di Roma, su richiesta del pubblico ministero, riesaminò la situazione del ricorrente e, con ordinanza del 14 maggio 2018, depositata il 13 giugno 2018, dichiarò che quest’ultimo era attualmente socialmente pericoloso, ma sostituì la detenzione in REMS con la misura di sicurezza della libertà vigilata, per la durata di un anno, da eseguire presso la comunità specializzata. Il magistrato di sorveglianza basò la sua decisione sulla relazione dello psichiatra del servizio pubblico per le dipendenze patologiche («Ser.D.») di Roma, il quale riteneva che la REMS non rappresentasse più la soluzione appropriata per il ricorrente.
14. Il ricorrente afferma che il mese successivo, mentre era ancora sottoposto alla misura della libertà vigilata, ha ottenuto l’autorizzazione a uscire temporaneamente dalla comunità. Il 29 giugno 2018 ebbe una nuova crisi psicotica indotta dall’uso di sostanze stupefacenti e fu condotto al pronto soccorso. Il ricorrente sostiene di essere stato dimesso il giorno stesso, ma che, poiché mancava l’autorizzazione del giudice, la comunità si è rifiutata di accoglierlo, per cui è rimasto libero.
II. IL SECONDO PROCEDIMENTO PENALE
15. Il 2 luglio 2018 il ricorrente fu arrestato in flagranza dei reati di furto aggravato e resistenza a pubblico ufficiale. Lo stesso giorno il tribunale di Tivoli convalidò l’arresto e gli applicò la misura della custodia cautelare nel carcere di Rebibbia NC.
16. Al suo ingresso in carcere, il ricorrente fu visitato dallo psichiatra di Rebibbia NC che raccomandò di collocarlo in isolamento e sottoporlo a un elevato livello di sorveglianza e a un trattamento medico appropriato. Dal fascicolo sanitario del carcere risulta che il ricorrente continuava a soffrire di un disturbo di personalità e di un disturbo bipolare, e che il suo stato di salute mentale era instabile e caratterizzato da idee di grandezza e di persecuzione al limite del delirio. Lo psichiatra sottolineò che il ricorrente non era affatto consapevole che era malato e doveva farsi curare, e che, per quanto riguarda la terapia farmacologica prescritta, era soggetto a periodi di alternanza tra l’accettazione e il rifiuto. Verso la fine del mese di luglio 2018, lo psichiatra autorizzò il trasferimento del ricorrente in cella «ordinaria» con altri detenuti, soprattutto perché lo stato di salute di quest’ultimo era leggermente migliorato. Verso la fine di agosto 2018 lo psichiatra osservò che il ricorrente presentava un elevato livello di ansia e rifiutava la terapia farmacologica.
17. Durante l’udienza del 26 settembre 2018 il tribunale ordinò di espletare una perizia volta a valutare la capacità processuale del ricorrente, il suo stato mentale al momento dei fatti e la sua eventuale pericolosità sociale.
18. Nella sua relazione depositata il 9 novembre 2018, il perito, G.M., confermò la sua diagnosi del 3 ottobre 2017 per quanto riguarda la patologia del ricorrente (paragrafo 8 supra). Inoltre, precisò che quando quest’ultimo aveva commesso i reati, si trovava in uno stato di infermità tale da escludere parzialmente la sua responsabilità. Confermò anche la sua valutazione sulla pericolosità sociale del ricorrente. Concluse che l’esigenza di cure mediche prevaleva sulla necessità di detenzione, e che il ricorrente era capace di partecipare coscientemente al processo. Poiché il ricorrente non era consapevole della sua malattia ed era esposto a un rischio di nuovi episodi di scompenso, il perito ritenne necessari:
«(...) l’inserimento [del ricorrente] in un articolato programma terapeutico riabilitativo, che preveda una congrua terapia farmacologica (…) ed un percorso riabilitativo costituito da attività di tipo rieducativo e risocializzante, in assenza del quale il rischio di ricaduta in fasi di scompenso acuto è da ritenersi molto elevato.»
19. Il 22 novembre 2018 il tribunale, basandosi sulla perizia, constatò che al momento dei fatti il ricorrente era in uno stato di infermità che escludeva parzialmente la sua responsabilità, lo dichiarò responsabile dei reati di cui era accusato e lo condannò a un anno e due mesi di reclusione. Il tribunale non ritenne necessario applicare una nuova misura di sicurezza definitiva della stessa natura di quella applicata dal magistrato di sorveglianza di Roma il 15 maggio 2018, considerando sufficiente la pena complessiva inflitta.
20. Con un’altra decisione pronunciata lo stesso giorno, il tribunale sostituì la custodia cautelare in carcere con gli arresti domiciliari tenuto conto delle esigenze terapeutiche del ricorrente constatate dal perito (paragrafo 18 supra).
21. Il 27 novembre 2018, poiché il ricorrente non aveva rispettato le condizioni degli arresti domiciliari, il tribunale ripristinò la custodia cautelare in carcere e, il 2 dicembre 2018, il ricorrente fu nuovamente rinchiuso a Rebibbia NC.
22. Il 29 e 31 gennaio 2019, dopo aver tentato di suicidarsi, il ricorrente fu visitato dallo psichiatra del carcere che, nella relazione del 31 gennaio 2019, attestò che il suo stato di salute non era compatibile con il regime carcerario ordinario e che era necessario trasferirlo in un reparto carcerario psichiatrico oppure in una struttura psichiatrica extramuraria.
23. Il 4 febbraio 2019, con ordinanza adottata in base al comma 5 dell’articolo 111 del DPR n. 230 del 30 giugno 2000 (si veda paragrafo 53 infra) il tribunale constatò l’aggravamento dello stato di salute psichica del ricorrente e, poiché la procura non aveva richiesto l’applicazione di misure di sicurezza provvisorie, dispose che il ricorrente fosse assegnato senza ritardo a un reparto del carcere per infermi e minorati psichici.
24. Con provvedimento del 7 febbraio 2019, il dipartimento dell’amministrazione penitenziaria («il DAP») ordinò il trasferimento del ricorrente presso il reparto per infermi e minorati psichici del carcere di Rebibbia NC. Il 21 febbraio 2019 questo provvedimento fu notificato al tribunale. Il ricorrente sostiene che questo trasferimento non è mai stato eseguito.
25. Con la sentenza n. 6998 del 20 maggio 2019, depositata il 10 giugno 2019, la corte d’appello di Roma, adita dal ricorrente, ridusse la pena a undici mesi di reclusione, revocò la misura della custodia cautelare in carcere e ordinò la rimessione in libertà del ricorrente.
26. Il ricorrente rimase detenuto a Rebibbia NC.
III. PROCEDIMENTO DINANZI AL MAGISTRATO DI SORVEGLIANZA DI ROMA E APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 39 DEL REGOLAMENTO DELLA CORTE
27. Nel frattempo, con ordinanza del 21 gennaio 2019, depositata il giorno successivo, il magistrato di sorveglianza di Roma aveva constatato che il ricorrente, pur essendo sottoposto a una misura di libertà vigilata presso una comunità terapeutica concessa nell'ambito del primo procedimento penale (si veda paragrafo 13 supra), era stato sottoposto a custodia cautelare in carcere il 2 luglio 2018 (si veda paragrafo 15 supra), e non aveva rispettato le condizioni degli arresti domiciliari ordinati dal tribunale di Tivoli (si vedano paragrafi 19 e 21 supra). Di conseguenza, sostituì la misura della libertà vigilata con l'applicazione immediata della detenzione in REMS per un anno, ritenendo che tale misura fosse l'unica adeguata tenuto conto della pericolosità sociale del ricorrente.
28. A partire dal 5 febbraio 2019, il DAP chiese più volte a diverse REMS del Lazio di accogliere il ricorrente. Tuttavia, le suddette strutture risposero negativamente per indisponibilità di posti.
29. Il 2 settembre 2019 il magistrato di sorveglianza di Roma chiese quindi al DAP di verificare le disponibilità di posti presso le REMS site al di fuori della regione Lazio, sottolineando l’urgenza di eseguire la misura di sicurezza e di cura del ricorrente ancora detenuto a Rebibbia NC. Nessuna delle REMS sollecitate dal DAP fu in grado di accogliere il ricorrente, a causa dell’indisponibilità di posti, sia all’interno che all’esterno della regione.
30. Il 18 novembre 2019 il ricorrente chiese al magistrato di sorveglianza di Roma di rivalutare la sua pericolosità sociale e la possibilità di seguire un percorso terapeutico in una struttura più adeguata alle sue condizioni di salute.
31. Al fine di prendere una decisione sulla domanda del ricorrente, il magistrato di sorveglianza chiese al servizio sanitario del carcere di Rebibbia NC e al centro di salute mentale del servizio sanitario locale di consegnargli delle relazioni aggiornate sullo stato di salute dell’interessato e sulle soluzioni terapeutiche praticabili. La relazione del servizio psichiatrico di Rebibbia NC, in data 29 dicembre 2019, attestava che il ricorrente era in buone condizioni fisiche ed era costantemente seguito dai medici specialisti dell’istituto. La relazione del centro di salute mentale, in data 26 febbraio 2020, sottolineava la necessità di un percorso terapeutico riabilitativo di tipo residenziale e l’inserimento in comunità anziché in una REMS.
32. Il 2 marzo 2020, ritenendo insufficienti e contraddittori gli elementi che risultavano dalle due relazioni sopra menzionate, il magistrato di sorveglianza designò un perito psichiatra per un nuovo esame del ricorrente.
33. Il 3 marzo 2020 quest’ultimo chiese alla Corte, ai sensi dell’articolo 39 del regolamento, di indicare al Governo delle misure idonee a porre fine alla sua detenzione in carcere. Il 26 marzo 2020 il Governo produsse una relazione del servizio di psichiatria di Rebibbia NC, recante la stessa data, in cui si attestava che il ricorrente era regolarmente seguito da specialisti e aveva raggiunto un certo equilibrio mentale.
34. Il 7 aprile 2020 la Corte indicò al Governo, ai sensi dell’articolo 39 del regolamento, di assicurare il trasferimento del ricorrente in una REMS o in altra struttura che potesse garantire la presa in carico adeguata, sul piano terapeutico, della patologia psichica del ricorrente.
35. Il 10 aprile 2020, su richiesta del DAP, il servizio psichiatrico di Rebibbia NC consegnò una relazione in cui si faceva menzione delle cure prestate in carcere al ricorrente. Tale relazione attestava che quest'ultimo, a partire dal mese di ottobre 2019, poiché si sottoponeva volentieri alle cure somministrate, aveva raggiunto un certo equilibrio mentale. Inoltre, la relazione indicava che il progetto terapeutico e riabilitativo elaborato per il ricorrente comprendeva visite regolari dello psichiatra curante ai fini del monitoraggio della terapia farmacologica, incontri con lo psicologo del servizio per le dipendenze patologiche e la partecipazione ad attività sportive. Nella relazione si precisava che il 28 ottobre 2019 e il 26 febbraio 2020 i referenti dei servizi sanitari locali si erano riuniti per stabilire un programma terapeutico e individuare una struttura di accoglienza extramuraria.
36. Il 15 aprile 2020 il rappresentante del ricorrente informava la Corte che il suo cliente era detenuto in carcere e che la lettera inviata alle autorità italiane per chiedere il trasferimento nella comunità terapeutica disponibile ad accoglierlo (Santa Maria del Centro Italiano di Solidarietà - CeIS) era rimasta senza risposta.
37. Il 27 aprile 2020 il Governo comunicò alla Corte di aver informato il magistrato di sorveglianza di Roma della misura provvisoria indicata dalla Corte, precisando che il potere di modificare la misura del ricovero in REMS mediante l'applicazione di un'altra misura di sicurezza meno severa rientrava nella competenza esclusiva dell'autorità giudiziaria. Per quanto riguarda il trasferimento, il Governo affermò che, nonostante le ripetute richieste, non si era ancora liberato nessun posto nelle REMS.
38. Il 30 aprile 2020, in risposta alle osservazioni del Governo, il ricorrente affermò che il trasferimento poteva aver luogo, in quanto aveva già trovato un istituto adeguato pronto ad accoglierlo. A suo avviso, a causa del ritardo nell'esecuzione della misura, lo Stato si era sottratto al proprio obbligo derivante dall'articolo 34 della Convenzione.
39. Il 4 maggio 2020 il magistrato di sorveglianza di Roma ricevette la perizia psichiatrica richiesta (si veda paragrafo 32 supra). In questa perizia si attestava che il ricorrente era ancora socialmente pericoloso, anche se in misura minore perché era più consapevole della sua malattia. Il perito confermò la necessità per il ricorrente di intraprendere un programma di riabilitazione terapeutica di tipo residenziale e indicò che il ricovero in una comunità specializzata, come la comunità Santa Maria del Centro Italiano di Solidarietà - CeIS, che aveva comunicato la propria disponibilità a partire dal 30 aprile 2020, sembrava la soluzione più appropriata.
Le conclusioni della perizia sono così formulate:
«1. Al momento della visita peritale il quadro psicopatologico del sig. Sy, affetto da disturbo bipolare I e disturbo di personalità borderline e antisociale, abuso di sostanze, appariva compensato con assenza di deliri e allucinazioni, (…), con comportamento adeguato e buon adattamento al contesto. La consapevolezza di patologia era sufficientemente presente con buona consapevolezza di necessità di cura. Per tale quadro si ritiene che la pericolosità sociale dal punto di vista psichiatrico del sig. Sy è attenuata e ridotta rispetto ai precedenti accertamenti peritali con prevalenza di esigenze di cura e riabilitazione a quelle custodiali.
2. Si rende necessario il proseguimento delle cure in ambiente residenziale psichiatrico che garantisca il continuo monitoraggio del quadro psicopatologico, la regolare assunzione dei trattamenti farmacologici, l’astensione dall’uso di sostanze e programmi riabilitativi e risocializzanti individualizzabili, in assenza dei quali il rischio di ricaduta in fasi di scompenso psicopatologico è da ritenersi molto elevato.
3. La struttura residenziale più idonea al trattamento specialistico del sig. Sy e al contenimento dell’attuale livello di pericolosità sociale, individuata in intesa con i servizi territoriali (…) a doppia diagnosi. Si ritiene che tale struttura sia la più appropriata alle attuali esigenze di cura e anche di protezione della società (…). La comunità a doppia diagnosi Santa Maria del CeIS ha dato disponibilità all’inserimento del sig. Sy presso cui lo stesso ha espresso più volte negli ultimi mesi l’intenzione di intraprendere un percorso (…)»
40. L’8 maggio 2020 il Governo informò la Corte della disponibilità di un posto nella comunità terapeutica Santa Maria del Centro Italiano di Solidarietà – CeIS e del fatto che erano state avviate le pratiche per il trasferimento del ricorrente. Inoltre, il 4 maggio 2020 il magistrato di sorveglianza aveva autorizzato il trasferimento del ricorrente.
41. L’11 maggio 2020 il magistrato di sorveglianza di Roma dichiarò attenuata la pericolosità del ricorrente, revocò la misura della detenzione in REMS e la sostituì con la misura della libertà vigilata presso la suddetta comunità, dove il ricorrente avrebbe dovuto seguire un trattamento terapeutico individualizzato.
42. Il 12 maggio 2020 il ricorrente fu trasferito in comunità, dalla quale fuggì il giorno dopo.
43. Il 5 giugno 2020 i Carabinieri segnalarono alle autorità giudiziarie che il ricorrente era irreperibile.
44. L’8 giugno 2020 il magistrato di sorveglianza di Roma dichiarò che la pericolosità del ricorrente si era aggravata e applicò nuovamente la misura di sicurezza della detenzione in REMS per una durata non inferiore a un anno.
45. L’11 giugno 2020 la procura ordinò alla polizia di arrestare il ricorrente e di condurlo presso la REMS indicata dal DAP.
46. Il 1° luglio 2020 la REMS «Castore» di Subiaco (Roma) indicò alle autorità che per il ricorrente vi era un posto disponibile a partire dal 6 luglio 2020. Il ricorrente fu quindi trasferito presso la suddetta REMS il 27 luglio 2020.
IL QUADRO GIURIDICO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI
I. IL DIRITTO INTERNO PERTINENTE
A. Le misure di sicurezza
47. Le misure di sicurezza sono disciplinate dagli articoli 199-240 del codice penale. Ai sensi dell’articolo 202, comma 1, queste misure «possono essere applicate soltanto alle persone socialmente pericolose che abbiano commesso un fatto preveduto dalla legge come reato». È considerato socialmente pericoloso l’autore di tale fatto «quando è probabile che commetta nuovi fatti preveduti dalla legge come reati» (articolo 203, comma 1).
48. Le misure di sicurezza (ordinate dal giudice penale nel suo giudizio di merito, o in un provvedimento successivo, nel caso di condanna, durante l’esecuzione della pena o durante il tempo in cui il condannato si sottrae volontariamente all’esecuzione della pena – articolo 205) possono essere revocate solo se le persone ad esse sottoposte hanno cessato di essere socialmente pericolose (articolo 207, comma 1). Decorso il periodo minimo di durata, stabilito dalla legge per ciascuna misura di sicurezza, il giudice riprende in esame le condizioni della persona che vi è sottoposta, per stabilire se essa sia ancora socialmente pericolosa. Qualora la persona risulti ancora pericolosa, il giudice fissa un nuovo termine per un esame ulteriore. Nondimeno, quando vi sia ragione di ritenere che il pericolo sia cessato, il giudice può, in ogni tempo, procedere a nuovi accertamenti (articolo 208).
49. Le misure di sicurezza sono di tipo personale o patrimoniale. Tra le prime vi sono il ricovero in casa di cura e di custodia, per le persone condannate a una pena diminuita per cagione di infermità psichica o di cronica intossicazione da alcool o da sostanze stupefacenti (articolo 219), il ricovero in un ospedale psichiatrico giudiziario, per le persone prosciolte per le stesse ragioni (articolo 222), e la libertà vigilata (articolo 228).
50. Per quanto riguarda il ricovero, a partire dal 1° aprile 2015, le misure di ricovero nelle case di cura e custodia e in ospedale psichiatrico giudiziario sono eseguite nelle REMS, conformemente ai decreti-legge n. 211 del 22 dicembre 2011 e n. 52 del 31 marzo 2014. Il giudice ordina l'applicazione del provvedimento di ricovero quando vi siano prove che nessun altro provvedimento sarebbe idoneo ad assicurare all'interessato cure adeguate e a far fronte alla sua pericolosità. L'11 maggio 2020 il giudice per le indagini preliminari di Tivoli ha sollevato una questione di legittimità costituzionale dinanzi alla Corte costituzionale riguardante, in particolare, le norme che istituiscono le REMS e la mancanza di competenza del Ministero della Giustizia in materia. Con ordinanza n. 131 del 24 giugno 2021, la Corte costituzionale ha avviato un'istruttoria per acquisire informazioni sul funzionamento delle REMS.
51. Per quanto riguarda la libertà vigilata, la persona sottoposta a questa misura è «affidata all’autorità di pubblica sicurezza» per una durata non inferiore a un anno; il giudice impone alla persona in stato di libertà vigilata le prescrizioni idonee ad evitare le occasioni di nuovi reati. La sorveglianza deve essere esercitata in modo da agevolare, mediante il lavoro, il riadattamento della persona alla vita sociale (articolo 228). Se, durante la libertà vigilata, la persona in stato d'infermità psichica si rivela di nuovo pericolosa, alla libertà vigilata è sostituito il ricovero in una casa di cura e di custodia (articolo 231).
52. Le misure di sicurezza aggiunte a una pena detentiva sono eseguite dopo che la pena è stata scontata o è altrimenti estinta (articolo 211). L’ordine di ricovero nella casa di cura e di custodia è eseguito dopo che la pena restrittiva della libertà personale sia stata scontata o sia altrimenti estinta. Il giudice, nondimeno, tenuto conto delle particolari condizioni d'infermità psichica del condannato, può disporre che il ricovero venga eseguito prima che sia iniziata o abbia termine l’esecuzione della pena restrittiva della libertà personale (articolo 220).
53. Il comma 5 dell’articolo 111 del DPR n. 230 del 30 giugno 2000 prevede che gli imputati e i condannati, ai quali nel corso della misura detentiva sopravviene una infermità psichica che non comporti, rispettivamente, l'applicazione provvisoria della misura di sicurezza o l'ordine di ricovero in ospedale psichiatrico giudiziario o in casa di cura e custodia, sono assegnati a un istituto o sezione speciale per infermi e minorati psichici.
B. Altre disposizioni legali pertinenti
54. La validità di una sentenza di condanna può essere contestata sollevando un incidente di esecuzione, come previsto dall’articolo 670, comma 1, del codice di procedura penale, il quale dispone, nelle sue parti pertinenti:
«Quando il giudice dell’esecuzione accerta che il provvedimento manca o non è divenuto esecutivo, valutata anche nel merito l’osservanza delle garanzie previste nel caso di irreperibilità del condannato, lo dichiara con ordinanza e sospende l’esecuzione disponendo, se occorre, la liberazione dell’interessato e la rinnovazione della notificazione non validamente eseguita. In tal caso decorre nuovamente il termine per l’impugnazione.»
55. L’articolo 2043 del codice civile è così formulato:
«Qualunque fatto doloso o colposo, che cagiona ad altri un danno ingiusto, obbliga colui che ha commesso il fatto a risarcire il danno.»
II. I RAPPORTI NAZIONALI SULLA SITUAZIONE CARCERARIA
56. Il rapporto dell'associazione Antigone «per i diritti e le garanzie nel sistema penale» relativo alla visita del carcere di Rebibbia NC del 16 aprile 2019, descrive una situazione di sovraffollamento (con 400 detenuti in più rispetto alla capacità regolamentare). Altri elementi problematici che emergono dal rapporto sono le condizioni precarie dei locali e l'assenza di un servizio specializzato per i detenuti affetti da patologie psichiche.
57. Il rapporto del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della Regione Lazio sull'attività e i risultati degli organi regionali, relativo all'anno 2018, constata, tra l'altro, le cattive condizioni strutturali in quasi tutte le carceri, delle difficoltà nella gestione delle patologie psichiatriche, nonché il mantenimento in regime carcerario ordinario di persone oggetto di una misura di ricovero in REMS.
58. Il problema del sovraffollamento e delle cattive condizioni delle strutture emerge anche dal rapporto al Parlamento per l’anno 2019 del Garante Nazionale dei diritti delle persone detenute o private della libertà personale.
IN DIRITTO
I. SULLA RICEVIBILITÀ
A. Mancato esaurimento delle vie di ricorso interne
59. Il Governo eccepisce il mancato esaurimento delle vie di ricorso interne in quanto il ricorrente ha omesso di contestare, dinanzi al giudice dell'esecuzione, conformemente agli articoli 670 e 666 del codice di procedura penale, la legalità del suo mantenimento in detenzione sebbene la corte d’appello, con sentenza del 20 maggio 2019, avesse disposto la sua rimessione in libertà.
60. Il ricorrente afferma che l'incidente di esecuzione permette di sollevare soltanto questioni che si riferiscono all'esistenza, alla portata o alla legittimità, formale e sostanziale, del titolo esecutivo sulla base del quale è detenuto il condannato. Nella fattispecie, il Governo non avrebbe precisato né il titolo esecutivo da impugnare, né la causa di nullità o di inesistenza di quest'ultimo, secondo il ricorrente in quanto nessun titolo esecutivo giustificava la sua detenzione in carcere. Inoltre, il Governo non avrebbe dimostrato che l'utilizzo di tale ricorso avrebbe permesso di porre rimedio alle violazioni dedotte.
61. La Corte ha già considerato, sulla base di diversi articoli della Convenzione, che, quando un ricorrente ha ottenuto una decisione giudiziaria contro lo Stato, non è tenuto ad avviare successivamente un procedimento per ottenerne l'esecuzione.
62. In particolare, sotto il profilo dell'articolo 5 della Convenzione, la Corte ha fatto osservare che è inconcepibile che in uno Stato di diritto un individuo continui ad essere privato della libertà nonostante l'esistenza di una decisione giudiziaria che ordina la sua rimessione in libertà (Assanidzé c. Georgia [GC], n. 71503/01, § 173, CEDU 2004 II). In effetti, spetta agli Stati contraenti organizzare il loro sistema giudiziario in modo tale che gli organi incaricati dell’applicazione delle leggi possano rispettare l'obbligo di evitare qualsiasi privazione della libertà ingiustificata (Ruslan Yakovenko c. Ucraina, n. 5425/11, § 68, CEDU 2015).
63. Per quanto riguarda il diritto di accesso a un tribunale sancito dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, la Corte ha affermato che tale diritto sarebbe illusorio se l’ordinamento giuridico interno di uno Stato contraente permettesse che una decisione giudiziaria definitiva e vincolante rimanga inoperante a scapito di una delle parti. L’esecuzione di una sentenza, da qualsiasi autorità giudiziaria sia emessa, deve essere considerata parte integrante del «processo» ai sensi dell’articolo 6 (Metaxas c. Grecia, n. 8415/02, § 25, 27 maggio 2004, e Assanidzé, sopra citata, §§ 181 e 182). La Corte ha sottolineato, inoltre, che una persona che ha ottenuto una sentenza contro lo Stato non deve di norma avviare un procedimento distinto per ottenerne l’esecuzione forzata (Metaxas, sopra citata, § 19). Spetta in primo luogo alle autorità dello Stato garantire l’esecuzione di una decisione giudiziaria emessa contro quest’ultimo, e questo a partire dalla data in cui la decisione diviene vincolante ed esecutiva (Bourdov c. Russia (n. 2), n. 33509/04, § 69, in fine, CEDU 2009).
64. Nella fattispecie, la Corte osserva che, il 20 maggio 2019, la corte d'appello di Roma ha revocato la custodia cautelare e ordinato la liberazione del ricorrente, che è rimasto comunque ristretto in carcere. Le autorità non hanno nemmeno provveduto al suo trasferimento in una REMS, contrariamente a quanto prevedeva l'ordinanza del 21 gennaio 2019 emessa dal magistrato di sorveglianza di Roma (paragrafi 25 e 27 supra). La Corte ritiene che il principio stabilito nella sentenza Metaxas, sopra citata, si applichi anche alle sentenze relative al regime di privazione della libertà. Lo Stato ha la responsabilità di eseguire le decisioni giudiziarie senza che la persona interessata debba avviare successivamente un procedimento per ottenerne l'esecuzione. Di conseguenza, nel caso di specie, tenuto conto dell'esistenza di due decisioni giudiziarie che ordinavano, rispettivamente, il ricovero in una REMS e la cessazione della custodia cautelare, il ricorrente non era tenuto a sollevare un «incidente di esecuzione» per far valere che il proseguimento della sua detenzione in carcere era illegale (si veda, mutatis mutandis, Metaxas, sopra citata, § 19).
65. Di conseguenza, l'eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne deve essere respinta.
B. Mancato rispetto del termine di sei mesi
66. Il Governo eccepisce che il ricorso è tardivo in quanto è stato presentato il 3 marzo 2020, ossia ben più di sei mesi dopo la decisione della corte d’appello di Roma del 20 maggio 2019 con la quale era stata disposta la rimessione in libertà del ricorrente (paragrafo 25 supra).
67. Il ricorrente vede nelle violazioni da lui dedotte una situazione continua, poiché alla data in cui ha presentato il ricorso era detenuto a Rebibbia NC.
68. La Corte rammenta che, quando la violazione dedotta costituisce una situazione continua contro la quale non esiste alcun ricorso nel diritto interno, il termine di sei mesi inizia realmente a decorrere quando la situazione cessa (Svinarenko e Slyadnev c. Russia [GC], nn. 32541/08 e 43441/08, § 86, CEDU 2014 (estratti), e Seleznev c. Russia, n. 15591/03, § 34, 26 giugno 2008). In particolare, quando un ricorrente è detenuto, la detenzione deve essere considerata una «situazione continua» fintantoché egli si trova ristretto nello stesso tipo di centro di detenzione, in condizioni sostanzialmente simili. Dei brevi periodi di assenza, ad esempio se l’interessato è stato condotto all’esterno dell’istituto per essere interrogato o per altri atti processuali, non incidono sul carattere continuo della detenzione. Invece, la rimessione in libertà dell’interessato o il cambiamento del suo regime di detenzione, all’interno o all’esterno dell’istituto in questione, è tale da porre fine alla «situazione continua». Una denuncia relativa alle condizioni di detenzione deve dunque essere depositata entro sei mesi a decorrere dalla cessazione della situazione contestata o, se esisteva un ricorso interno effettivo da esercitare, a decorrere dalla decisione definitiva pronunciata nell’ambito del processo di esaurimento delle vie di ricorso interne (Ananyev e altri c. Russia, nn. 42525/07 e 60800/08, §§ 75-78, 10 gennaio 2012, Shishanov c. Repubblica di Moldavia, n. 11353/06, § 65, 15 settembre 2015, e Petrescu c. Portogallo, no 23190/17, § 92, 3 dicembre 2019).
69. Esaminando la situazione del ricorrente alla luce dei principi sopra esposti, la Corte osserva che egli è stato detenuto a Rebibbia NC due volte, dal 2 luglio 2018 al 22 novembre 2018, e poi dal 2 dicembre 2018 al 12 maggio 2020 (paragrafi 15, 20, 21 e 42 supra). Dato che, nell’intervallo, il ricorrente è stato sottoposto agli arresti domiciliari, la sua detenzione non può essere considerata una «situazione continua» nella sua globalità (Grichine c. Russia, n. 30983/02, § 83, 15 novembre 2007, e Dvoynykh c. Ucraina, n. 72277/01, § 46, 12 ottobre 2006). Tuttavia, la detenzione è stata continua nei due periodi indicati.
70. Di conseguenza, l’eccezione del Governo può essere accolta soltanto per quanto riguarda il primo periodo di detenzione.
71. La Corte ritiene che, nella misura in cui riguardano il secondo periodo di detenzione a Rebibbia NC, le doglianze non siano tardive, poiché alla data di presentazione del ricorso il ricorrente era ancora detenuto in tale centro (Strazimiri c. Albania, n. 34602/16, § 94, 21 gennaio 2020). Pertanto, la Corte limiterà la portata del suo esame al secondo periodo di detenzione.
72. Considerato quanto sopra esposto, la Corte ritiene che, in riferimento a quest’ultimo periodo, il ricorso non sia manifestamente infondato ai sensi dell’articolo 35 § 3 della Convenzione. Constatando inoltre che il ricorso non incorre in altri motivi di irricevibilità, essa lo dichiara ricevibile per quanto riguarda il periodo di detenzione che va dal 2 dicembre 2018 al 12 maggio 2020.
II. SUL MERITO
A. Sulla violazione dell’articolo 3
73. Il ricorrente afferma che il suo mantenimento in stato detentivo in ambiente penitenziario ordinario, nonostante il parere contrario degli psichiatri che lo seguivano, gli ha impedito di beneficiare di una cura terapeutica adeguata al suo stato di salute mentale, il che avrebbe aggravato le sue condizioni e avrebbe perciò costituito un trattamento inumano e degradante vietato dall’articolo 3 della Convenzione, così formulato:
«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»
1. Tesi delle parti
74. Il ricorrente afferma che le cure mediche che gli sono state dispensate a Rebibbia NC non erano adeguate, non essendovi una strategia terapeutica volta a curare la sua patologia o a prevenirne l’aggravamento. Egli sostiene che tutti gli psichiatri che lo hanno visitato hanno attestato che il suo stato di salute era incompatibile con la detenzione in carcere e che erano necessarie delle cure in una struttura sanitaria, ma che non è mai stato trasferito in una REMS o in un’altra struttura sanitaria adatta a causa di una cronica mancanza di posti. Il ricorrente afferma, inoltre, che è stato posto in ambiente carcerario ordinario e, facendo riferimento ai rapporti dell’associazione Antigone, del Garante nazionale e del Garante delle persone sottoposte a misure restrittive della libertà personale della regione Lazio, sostiene che le sue condizioni di detenzione erano pessime (paragrafi 56 e 57 supra).
75. Facendo riferimento alle relazioni mediche del servizio psichiatrico di Rebibbia NC, del 26 marzo e del 10 aprile 2020 (si vedano i paragrafi 33 e 35 supra), il Governo afferma che il ricorrente è stato costantemente seguito dai medici e ha beneficiato di un progetto terapeutico individualizzato, che comprendeva delle visite regolari da parte di psicologi e psichiatri, la prescrizione di medicinali e delle attività di gruppo. A suo parere, pertanto, non vi è stata violazione dell’articolo 3.
2. Valutazione della Corte
a) Principi applicabili
76. La Corte rammenta che l’articolo 3 della Convenzione sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. Esso vieta in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti, a prescindere dalle circostanze e dal comportamento della vittima. Per rientrare nell'ambito di applicazione di questa disposizione, un maltrattamento deve raggiungere un livello minimo di gravità. La valutazione di questo minimo è relativa; essa dipende dal complesso degli elementi della causa, in particolare dalla durata del trattamento, dai suoi effetti fisici e psicologici nonché, talvolta, dal sesso, dall'età e dallo stato di salute della vittima (Rooman c. Belgio [GC], n. 18052/11, § 141, 31 gennaio 2019, e le cause ivi citate).
77. Questa disposizione impone allo Stato di assicurarsi che tutte le persone ristrette siano detenute in condizioni compatibili con il rispetto della dignità umana, che le modalità di esecuzione della misura non sottopongano l’interessato a uno stress o a una prova la cui intensità superi il livello inevitabile di sofferenza inerente alla detenzione e che, considerate le esigenze pratiche della carcerazione, la salute e il benessere del detenuto siano assicurati in maniera adeguata, in particolare mediante la somministrazione delle cure mediche richieste (Stanev c. Bulgaria [GC], n. 36760/06, § 204, CEDU 2012, e Rooman, sopra citata, § 143).
78. La Corte ha già dichiarato molte volte che la detenzione di una persona malata può porre dei problemi sotto il profilo dell’articolo 3 della Convenzione (Matencio c. Francia, n. 58749/00, § 76, 15 gennaio 2004, e Mouisel c. Francia, n. 67263/01, § 38, CEDU 2002 IX) e che una tale detenzione in condizioni materiali e mediche inappropriate può costituire un trattamento contrario all’articolo 3 (Sławomir Musiał c. Polonia, n. 28300/06, § 87, 20 gennaio 2009, e Rooman, sopra citata, § 144).
79. Per determinare se la detenzione di una persona malata sia conforme all’articolo 3 della Convenzione, la Corte prende in considerazione la salute dell’interessato e l’effetto delle modalità di esecuzione della sua detenzione sulla sua evoluzione. Essa ha affermato che le condizioni di detenzione non devono in nessun caso sottoporre la persona privata della libertà a sentimenti di paura, angoscia e inferiorità che possano umiliare, svilire e minare eventualmente la sua resistenza fisica e morale. Essa ha riconosciuto a tale proposito che i detenuti affetti da disturbi mentali sono più vulnerabili dei comuni detenuti, e che alcune esigenze della vita carceraria li espongono maggiormente a un pericolo per la loro salute, aumentano il rischio che si sentano in situazione di inferiorità, e sono indubbiamente fonte di stress e di angoscia. Una tale situazione comporta la necessità di una maggiore attenzione nel controllo del rispetto della Convenzione (W.D. c. Belgio, n. 73548/13, §§ 114 e 115, 6 settembre 2016, e Rooman, sopra citata, § 145). La valutazione della situazione degli individui in questione deve tenere conto della loro vulnerabilità e, in alcuni casi, della loro incapacità di contestare in maniera coerente, o addirittura di contestare in qualsiasi modo, il trattamento loro riservato e gli effetti che tale trattamento produce su di essi (Murray c. Paesi Bassi [GC], 2016, § 106, Herczegfalvy c. Austria, 24 settembre 1992, § 82, serie A n. 244, e Aerts c. Belgio, 30 luglio 1998, § 66, Recueil des arrêts et décisions 1998 V).
80. La Corte tiene conto anche del carattere adeguato o meno delle cure e dei trattamenti medici dispensati in carcere. Tale questione è la più difficile da risolvere. La Corte rammenta che il semplice fatto che un detenuto sia stato visitato da un medico e che gli sia stato prescritto un determinato trattamento non può portare a concludere automaticamente che le cure dispensate sono appropriate. Inoltre, le autorità devono assicurarsi che le informazioni relative allo stato di salute del detenuto e alle cure ricevute in carcere siano riportate in maniera esaustiva, che il detenuto benefici tempestivamente di una diagnosi precisa e di cure adatte, e che sia oggetto, quando la malattia da cui è affetto lo richiede, di un’assistenza regolare sistematica e di una strategia terapeutica globale, volta a porre rimedio ai suoi problemi di salute o a prevenirne l'aggravamento piuttosto che a curarne i sintomi. Inoltre, spetta alle autorità dimostrare che hanno creato le condizioni necessarie affinché il trattamento prescritto sia effettivamente seguìto (Blokhin c. Russia [GC], n. 47152/06, § 137, 23 marzo 2016, e Rooman, sopra citata, § 147). La Corte ha concluso che l'assenza di una strategia terapeutica globale per la cura di un detenuto affetto da disturbi mentali può costituire un «abbandono terapeutico» contrario all'articolo 3 (Strazimiri, sopra citata, §§ 108-112).
81. Qualora non sia possibile curare il detenuto nel luogo di detenzione, è necessario che quest’ultimo possa essere ricoverato o trasferito in un reparto specializzato (Rooman, sopra citata, § 148).
b) Applicazione dei principi sopra menzionati nel caso di specie
82. La Corte prende atto che nessuno contesta l'esistenza dei problemi di salute del ricorrente, in particolare il suo disturbo della personalità e il suo disturbo bipolare, aggravati dall'uso di sostanze psicoattive. L'interessato soffre di crisi psicotiche ricorrenti e ha tentato di suicidarsi quando era detenuto, nel gennaio 2019 (paragrafi 8 e 22 supra).
83. La Corte osserva che il ricorrente lamenta l'assenza di cure mediche adeguate e le cattive condizioni di detenzione durante la sua permanenza a Rebibbia NC. Tenuto conto delle sue constatazioni sulla ricevibilità (paragrafo 69 supra), essa prenderà in considerazione il periodo di detenzione compreso tra il 2 dicembre 2018 e il 12 maggio 2020.
84. La Corte osserva che il Governo non contesta il fatto che il ricorrente non sia stato trasferito in un reparto penitenziario psichiatrico nonostante l'ordinanza emessa dal tribunale di Tivoli il 4 febbraio 2019 e il provvedimento del 7 febbraio 2019 con cui il DAP disponeva il trasferimento (si vedano i paragrafi 23 e 24 supra).
85. La Corte deve dunque esaminare se lo stato di salute del ricorrente fosse compatibile con la sua detenzione in carcere, in particolare in un reparto comune, e verificare se le cure mediche che gli sono state dispensate fossero sufficienti e appropriate.
86. Essa rileva, anzitutto, che già durante la detenzione a Regina Coeli il GIP del tribunale di Roma, sulla base delle conclusioni della perizia psichiatrica che attestava la necessità di una presa in carico terapeutica globale della grave patologia del ricorrente, aveva sostituito la custodia cautelare con il ricovero in REMS (paragrafo 9 supra).
87. Per quanto riguarda la detenzione a Rebibbia NC, la Corte osserva che, nel novembre 2018, il perito nominato dal tribunale di Tivoli ha affermato che l’inserimento del ricorrente in un articolato programma terapeutico era necessario e doveva prevalere sulle esigenze di detenzione (paragrafo 18 supra). Successivamente, il 21 gennaio 2019, il magistrato di sorveglianza di Roma ha disposto il trasferimento immediato del ricorrente in REMS (paragrafo 27 supra). Alcuni giorni dopo, lo psichiatra del carcere ha attestato la non compatibilità del ricorrente con il regime carcerario comune (paragrafo 22 supra). Il 4 febbraio 2019 il tribunale di Tivoli ha ordinato che quest’ultimo fosse assegnato «senza ritardo» ad un istituto o a una sezione speciale carceraria per infermi e minorati psichici (paragrafo 23 supra). Di conseguenza, la Corte rileva – e il Governo non lo contesta – che lo stato di salute mentale del ricorrente era incompatibile con la detenzione in un reparto carcerario comune e che, nonostante le indicazioni chiare e univoche, l'interessato è rimasto detenuto in un reparto comune del carcere per quasi due anni. Essa non può rimettere in discussione le conclusioni alle quali sono giunti gli specialisti e le autorità giudiziarie interne in questa causa, e ritiene che il mantenimento del ricorrente in un reparto comune del carcere fosse incompatibile con l'articolo 3 della Convenzione (si veda, mutatis mutandis, Contrada c. Italia (n. 2), n. 7509/08, § 85, 11 febbraio 2014).
88. Del resto, dai documenti inseriti nel fascicolo dalle parti risulta che il ricorrente non ha beneficiato di alcun programma terapeutico articolato adeguato alla sua patologia, finalizzato a porre rimedio ai suoi problemi di salute o a prevenirne l'aggravamento (Blokhin, sopra citata, § 137, Rooman sopra citata, § 147, e Strazimiri, sopra citata, § 108), e tutto ciò in un contesto caratterizzato da cattive condizioni di detenzione (Sławomir Musiał, sopra citata, § 95).
89. Pertanto, vi è stata violazione dell'articolo 3 della Convenzione.
B. Sulla dedotta violazione dell’articolo 5 § 1
90. Il ricorrente afferma che la sua detenzione era illegale e invoca l’articolo 5 § 1 della Convenzione, così formulato:
«1. Ogni persona ha diritto alla libertà e alla sicurezza. Nessuno può essere privato della libertà, se non nei casi seguenti e nei modi previsti dalla legge:
a) se è detenuto regolarmente in seguito a condanna da parte di un tribunale competente;
(...)
c) se è stato arrestato o detenuto per essere tradotto dinanzi all’autorità giudiziaria competente, quando vi sono motivi plausibili di sospettare che egli abbia commesso un reato o vi sono motivi fondati di ritenere che sia necessario impedirgli di commettere un reato o di darsi alla fuga dopo averlo commesso;
(...)
e) se si tratta della detenzione regolare di una persona suscettibile di propagare una malattia contagiosa, di un alienato, di un alcolizzato, di un tossicomane o di un vagabondo;
(...)»
1. Tesi delle parti
a) Il ricorrente
91. Il ricorrente sostiene anzitutto che a partire dal 20 maggio 2019, data in cui la corte d’appello di Roma ha ordinato la sua rimessione in libertà (paragrafo 25 supra), e fino al 12 maggio 2020, data del suo trasferimento in una comunità terapeutica (paragrafo 42 supra), la sua detenzione era priva di base legale. A suo parere, l’ordinanza del 21 gennaio 2019, con la quale il magistrato di sorveglianza di Roma ha disposto il ricovero del ricorrente in una REMS, non poteva giustificare la sua detenzione in carcere fino a quando si fosse liberato un posto (paragrafo 27 supra). Anche a voler supporre che il ricovero in REMS avesse potuto fondare la sua detenzione a partire dal 20 maggio 2020, in ogni caso esso si sarebbe concluso il 22 gennaio 2020, dopo un anno. Il ricorrente afferma inoltre che, fin dall'inizio, la sua detenzione a Rebibbia NC era irregolare, in quanto si è svolta in un reparto penitenziario comune in condizioni inadeguate per una persona affetta da disturbi mentali e in assenza di un trattamento medico appropriato e individualizzato. Il tribunale di Tivoli, del resto, avrebbe riconosciuto, il 4 febbraio 2019, l'incompatibilità delle sue condizioni di salute con il regime comune di detenzione, e avrebbe ordinato che egli fosse assegnato senza ritardo a un reparto del carcere per infermi e minorati psichici (paragrafo 23 supra).
b) Il Governo
92. Il Governo afferma che le autorità hanno fatto quanto in loro potere per trasferire il ricorrente in una REMS, ma che il trasferimento non è stato possibile in mancanza di posti, e sottolinea che le giurisdizioni adite avevano constatato la pericolosità del ricorrente e che, per questo motivo, egli non poteva essere semplicemente rimesso in libertà. Il Governo osserva, a tale proposito, che la misura di sicurezza costituita dal ricovero in REMS è in ogni caso una misura privativa della libertà, che viene eseguita in un istituto di cura.
2. Valutazione della Corte
a) Principi applicabili
93. La Corte rammenta che l'articolo 5 della Convenzione garantisce un diritto estremamente importante in «una società democratica» ai sensi della Convenzione, ossia il diritto fondamentale alla libertà e alla sicurezza. Insieme agli articoli 2, 3 e 4, l'articolo 5 della Convenzione rientra tra le principali disposizioni a garanzia dei diritti fondamentali che proteggono la sicurezza fisica delle persone, e in quanto tale riveste un'importanza fondamentale. Esso mira essenzialmente a proteggere l'individuo contro qualsiasi privazione della libertà arbitraria o ingiustificata (Selahattin Demirtaş c. Turchia (n. 2) [GC], n. 14305/17, § 311, 22 dicembre 2020, e Denis e Irvine c. Belgio [GC], nn. 62819/17 e 63921/17, § 123, 1° giugno 2021).
94. Ogni individuo ha diritto alla protezione di tale diritto, ossia a non essere o a non rimanere privato della libertà, se non nel rispetto delle esigenze del paragrafo 1 dell'articolo 5 della Convenzione. Dalla giurisprudenza della Corte emergono in particolare tre grandi principi: la norma secondo la quale le eccezioni, delle quali esiste un elenco esaustivo, richiedono un'interpretazione stretta e non si prestano alle numerose giustificazioni previste da altre disposizioni (in particolare gli articoli 8 – 11 della Convenzione); la regolarità della privazione della libertà, sulla quale viene ripetutamente posto l'accento dal punto di vista sia procedurale che sostanziale, e che implica un'adesione scrupolosa alla preminenza del diritto; e l'importanza della tempestività o della celerità dei controlli giurisdizionali richiesti (ibidem, § 312).
95. I commi a) – f) dell'articolo 5 § 1 contengono un elenco esaustivo dei motivi per i quali una persona può essere privata della liberta; tale misura non è regolare se non rientra in uno di questi motivi (Denis e Irvine, sopra citata, § 124), o se non è prevista con deroga formulata conformemente all'articolo 15 della Convenzione, che permette a uno Stato contraente, «[i]n caso di guerra o in caso di altro pericolo pubblico che minacci la vita della nazione», di adottare delle misure in deroga ai propri obblighi previsti dall’articolo 5 «nella stretta misura in cui la situazione lo richieda» (Nada c. Svizzera [GC], n. 10593/08, § 224, CEDU 2012).
96. Il fatto che sia applicabile un motivo non impedisce necessariamente che possa essere applicato anche un altro motivo; una detenzione può, a seconda delle circostanze, essere giustificata sotto il profilo di più di un comma (Ilnseher c. Germania [GC], nn. 10211/12 e 27505/14, § 126, 4 dicembre 2018).
97. Inoltre, soltanto un’interpretazione rigorosa è coerente con lo scopo di tale disposizione: assicurare che nessuno sia arbitrariamente privato della sua libertà (ibidem, § 126, e Khlaifia e altri c. Italia [GC], n. 16483/12, § 88, 15 dicembre 2016).
98. Qualsiasi privazione della libertà deve non soltanto rientrare in una delle eccezioni previste dai commi a) – f) dell’articolo 5 § 1, ma anche essere «regolare». In materia di «regolarità» di una detenzione, compreso il rispetto dei «modi previsti dalla legge», la Convenzione rinvia essenzialmente alla legislazione nazionale e sancisce l'obbligo di osservarne le norme sostanziali e procedurali (Denis e Irvine, sopra citata, § 125).
99. Esigendo che qualsiasi privazione della libertà avvenga «nei modi previsti dalla legge», l'articolo 5 § 1 impone in primo luogo che qualsiasi arresto o detenzione abbia una base legale nel diritto interno. Tuttavia, questi termini non costituiscono semplicemente un rinvio al diritto interno, ma riguardano anche la qualità della legge: quest'ultima deve essere compatibile con la preminenza del diritto, che è una nozione sottesa a tutti gli articoli della Convenzione. Su quest'ultimo punto, la Corte sottolinea che, in materia di privazione della libertà, è particolarmente importante soddisfare il principio generale della certezza del diritto. Di conseguenza, è fondamentale che il diritto interno indichi chiaramente le condizioni nelle quali una persona può essere privata della libertà, e che la legge stessa sia prevedibile nella sua applicazione, in modo da soddisfare il criterio di «legalità» stabilito dalla Convenzione, ai sensi del quale una legge deve essere sufficientemente precisa per permettere alla persona sottoposta alla giustizia – se necessario avvalendosi del parere di esperti – di prevedere, a un livello ragionevole tenuto conto delle circostanze della causa, le conseguenze che possono derivare da un determinato atto (Khlaifia e altri, sopra citata, §§ 91 92, Del Río Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 125, CEDU 2013, e Denis e Irvine, sopra citata, § 128).
100. Dalla giurisprudenza della Corte risulta che per «condanna» («conviction» in inglese) ai sensi dell'articolo 5 § 1 a), si deve intendere, in riferimento al testo francese, sia una dichiarazione di colpevolezza conseguente all'accertamento legale di un reato che l’irrogazione di una pena o di altre misure privative della libertà (Del Río Prada, sopra citata, § 123, e RuslanYakovenko, sopra citata, § 49).
101. Inoltre, la parola «in seguito» contenuta nel comma a) non implica un semplice ordine cronologico di successione tra «condanna» e «detenzione»: la seconda deve anche risultare dalla prima, avvenire «a seguito e in seguito» – o «in virtù» di quest'ultima. In pratica, deve esistere tra le stesse un nesso di causalità sufficiente. Tuttavia, il nesso tra la condanna iniziale e la proroga della privazione della libertà si attenua a poco a poco con il passare del tempo. Il nesso di causalità richiesto dal comma a) potrebbe interrompersi se una decisione di non rimessione in libertà o una nuova decisione di incarcerazione di una persona arrivasse a fondarsi su motivi incompatibili con gli obiettivi indicati nella decisione iniziale del giudice, o su una valutazione non ragionevole tenuto conto di questi obiettivi. In tal caso, una carcerazione inizialmente regolare si trasformerebbe in una privazione della libertà arbitraria e, pertanto, incompatibile con l'articolo 5 (Del Río Prada, sopra citata, § 124, e le cause ivi citate).
102. Un accusato è considerato «detenuto in seguito a condanna da parte di un tribunale competente» ai sensi dell'articolo 5 § 1 a) una volta che la sentenza di condanna è stata emessa in primo grado, anche se quest'ultima non è ancora esecutiva e rimane impugnabile. La Corte, a tale riguardo, ha affermato che l'espressione «in seguito a condanna» non può essere interpretata come limitata al caso di una condanna definitiva, in quanto ciò escluderebbe l'arresto all'udienza di persone condannate che sono comparse libere, indipendentemente dai ricorsi che queste possano ancora esperire (Wemhoff c. Germania, 27 giugno 1968, p. 23, § 9, serie A n. 7). Inoltre, una persona condannata in primo grado e incarcerata in attesa dell’esito del procedimento di appello non si può considerare detenuta per essere condotta dinanzi all'autorità giudiziaria competente in quanto vi sono motivi fondati per sospettarla di aver commesso un reato, ai sensi dell'articolo 5 § 1 c) (Solmaz c. Turchia, n. 27561/02, § 25, 16 gennaio 2007, e Ruslan Yakovenko, sopra citata, § 46).
103. Per quanto riguarda la giustificazione delle detenzioni che rientrano nel comma e) dell'articolo 5 § 1, la Corte rammenta che il termine «alienato» deve essere concepito in un senso autonomo. Esso non si presta a una definizione precisa, in quanto il suo significato è in continua evoluzione in funzione dei progressi della ricerca psichiatrica (Denis e Irvine, sopra citata, § 134).
104. Per quanto riguarda la privazione della libertà delle persone affette da disturbi mentali, un individuo può essere considerato «alienato» e subire una privazione della libertà soltanto se sussistono almeno le tre condizioni seguenti: in primo luogo la sua alienazione deve essere stata accertata in maniera probante; in secondo luogo, il disturbo deve essere di natura o di ampiezza tale da legittimare l'internamento; in terzo luogo, l'internamento non può protrarsi validamente se non persiste tale disturbo (si vedano, tra molte altre, Ilnseher, sopra citata, § 127, Rooman, sopra citata, § 192, e Denis e Irvine, sopra citata, § 135).
105. Si deve riconoscere alle autorità nazionali un certo potere discrezionale quando le stesse si pronunciano sulla necessità di internare un individuo in quanto quest’ultimo è «alienato», poiché tali autorità hanno principalmente il compito di valutare le prove prodotte dinanzi ad esse in un determinato caso; il compito della Corte consiste nel controllare le loro decisioni sotto il profilo della Convenzione (Denis e Irvine, sopra citata, § 136).
106. Per quanto riguarda la prima condizione da soddisfare per poter privare una persona della libertà in quanto è «alienata», ossia dimostrare dinanzi all'autorità competente, per mezzo di una perizia medica obiettiva, l'esistenza di un disturbo mentale reale, la Corte rammenta che, sebbene le autorità nazionali dispongano di un certo potere discrezionale, in particolare quando si pronunciano sulla fondatezza di diagnosi cliniche, i motivi ammissibili di privazione della libertà elencati nell'articolo 5 § 1 richiedono un’interpretazione rigorosa. Uno stato mentale deve presentare una certa gravità per essere considerato come un disturbo mentale «reale» ai fini del comma e) dell'articolo 5 § 1, in quanto deve essere serio a tal punto da richiedere un trattamento in un istituto destinato ad accogliere dei malati mentali (Ilnseher, sopra citata, § 129, e Denis e Irvine, sopra citata, § 136).
107. Nessuna privazione della libertà di una persona considerata «alienata» può essere dichiarata conforme all’articolo 5 § 1 e) della Convenzione se è stata decisa senza che fosse stato richiesto il parere di un medico esperto. Ogni altro approccio è sinonimo di inosservanza dell’esigenza di protezione contro l'arbitrarietà (Kadusic c. Svizzera, n. 43977/13, § 43, 9 gennaio 2018, e le cause ivi citate). A tale riguardo, la forma e la procedura adottate possono dipendere dalle circostanze. È accettabile, in alcuni casi urgenti o quando una persona viene arrestata a causa di un comportamento violento, che un tale parere sia ottenuto immediatamente dopo l'arresto. In tutti gli altri casi, è indispensabile una consultazione preliminare. Se non vi sono altre possibilità, per esempio a causa del rifiuto dell'interessato di sottoporsi a una visita, si deve almeno chiedere che un perito medico proceda ad una valutazione sulla base del fascicolo, altrimenti non si può sostenere che l'alienazione dell'interessato sia stata accertata in maniera probante (Varbanov c. Bulgaria, n. 31365/96, § 47, CEDU 2000 X, e Constancia c. Paesi Bassi (dec.), n. 73560/12, § 26, 3 marzo 2015).
108. Per quanto riguarda la seconda condizione che qualsiasi privazione della libertà dovuta ad «alienazione» deve soddisfare, ossia che il disturbo mentale abbia un carattere o una portata tali da legittimare l'internamento, la Corte rammenta che un disturbo mentale può essere considerato presentare una portata di questo tipo se viene stabilito che l'internamento è necessario in quanto la persona interessata ha bisogno di una terapia, di farmaci o di qualsiasi altro trattamento clinico per guarire, o affinché il suo stato di salute migliori, ma anche se risulta che è necessario sorvegliarla per impedirle, ad esempio, di farsi del male o di fare del male ad altri (ibidem, § 133, e Stanev, sopra citata, § 146).
109. La data pertinente in cui l'alienazione di una persona deve essere stata stabilita in maniera probante in riferimento alle esigenze della lettera e) dell'articolo 5 § 1 è quella in cui è stata adottata la misura che l’ha privata della libertà a causa del suo stato di salute. Tuttavia, come dimostra la terza condizione minima da rispettare affinché la detenzione di un alienato sia giustificata, ossia che l'internamento non può prolungarsi validamente se non persiste il disturbo mentale, si deve tenere conto di ogni eventuale evoluzione della salute mentale del detenuto successiva all'adozione dell'ordinanza che dispone la detenzione (Denis e Irvine, sopra citata, § 137).
110. La Corte rammenta che, in alcune circostanze, il benessere di una persona affetta da disturbi mentali può costituire un fattore aggiuntivo di cui tenere conto, oltre agli elementi medici, nella valutazione della necessità di collocare tale persona in un istituto. Tuttavia, la necessità oggettiva di un alloggio e di un'assistenza sociale non deve portare automaticamente ad imporre delle misure privative della libertà. Secondo la Corte, qualsiasi misura di protezione adottata nei confronti di una persona in grado di esprimere la propria volontà deve, per quanto possibile, rispecchiare la volontà di questa persona. Non richiedere il parere di quest'ultima può dar luogo a situazioni di abuso e ostacolare l'esercizio, da parte delle persone vulnerabili, dei loro diritti; pertanto, qualsiasi misura adottata senza aver previamente consultato la persona interessata esige, in linea di principio, un esame rigoroso (N. c. Romania, n. 59152/08, § 146, 28 novembre 2017, e Stanev, sopra citata, § 153).
111. Affinché la detenzione sia «regolare», deve esistere un certo nesso tra, da una parte, il motivo di detenzione autorizzato che è stato invocato e, dall'altra, il luogo e il regime della detenzione. In linea di principio, la «detenzione» di una persona, motivata dai suoi disturbi mentali, è «regolare» in riferimento alla lettera e) del paragrafo 1, soltanto se avviene in un ospedale, in una clinica o in un altro istituto adeguato (Ilnseher, sopra citata, § 134, Rooman, sopra citata, § 190, e Stanev, sopra citata, § 147). Inoltre, la Corte ha avuto occasione di precisare che questa regola si applica anche quando la malattia o il disturbo non può essere guarito o quando si prevede che la persona interessata non risponderà al trattamento in questione (Rooman, sopra citata, § 190).
112. La somministrazione di una terapia adeguata è divenuta un'esigenza nell'ambito della nozione più ampia di «regolarità» della privazione della libertà. Qualsiasi detenzione di persone affette da malattie psichiche deve perseguire uno scopo terapeutico, e più precisamente essere volta alla guarigione o al miglioramento, per quanto possibile, del loro disturbo mentale, compresa, se del caso, la riduzione o il controllo della loro pericolosità. La Corte ha sottolineato che, a prescindere dal luogo in cui queste persone sono poste, esse hanno diritto a un contesto sanitario adeguato al loro stato di salute, accompagnato da misure terapeutiche effettive che mirino a prepararle ad una eventuale rimessione in libertà (ibidem, § 208).
113. L'analisi volta a determinare se un particolare istituto sia «appropriato» deve comportare un esame delle condizioni specifiche di detenzione al suo interno, e soprattutto del trattamento somministrato alle persone affette da patologie psichiche (ibidem, § 210).
114. La privazione della libertà di cui all'articolo 5 § 1 e) ha una duplice funzione: da una parte una funzione sociale di protezione, e dall'altra una funzione terapeutica legata all'interesse individuale, per la persona alienata, a beneficiare di una terapia o di un percorso di cura appropriati e individualizzati. La necessità di assicurare la prima funzione non dovrebbe, a priori, giustificare l'assenza di misure volte alla realizzazione della seconda. Di conseguenza, in riferimento all'articolo 5 § 1 e), una decisione che nega la rimessione in libertà di una persona internata può divenire incompatibile con l'obiettivo iniziale di detenzione preventiva contenuto nella decisione di condanna se la persona interessata è privata della libertà in quanto rischia di essere recidiva ma, nel contempo, non beneficia di misure – come una terapia appropriata – necessarie per dimostrare che non è più pericolosa (ibidem, § 210).
115. Per quanto riguarda la portata delle cure dispensate, la Corte ritiene che il livello di trattamento medico richiesto per questa categoria di detenuti debba andare oltre le cure di base. Il semplice accesso a dei professionisti sanitari, a delle visite o a dei medicinali non può essere sufficiente affinché un determinato trattamento possa essere dichiarato appropriato e, per questo motivo, soddisfacente in riferimento all'articolo 5. Il ruolo della Corte, tuttavia, non è analizzare il contenuto delle cure proposte e somministrate. È importante che essa possa verificare l'esistenza di un percorso individualizzato tenendo conto delle specificità dello stato di salute mentale della persona internata allo scopo di preparare quest'ultima a un eventuale reinserimento. In questo ambito, la Corte accorda alle autorità un certo margine di manovra sia per quanto riguarda la forma che per quanto riguarda il contenuto del programma terapeutico o del percorso medico in questione (ibidem, § 209).
a) Applicazione nel caso di specie dei principi sopra menzionati
116. La Corte è chiamata a stabilire, alla luce dei principi sopra menzionati, se la detenzione del ricorrente a Rebibbia NC (paragrafi 15 e seguenti supra) rientrasse in uno dei motivi che autorizzano la privazione della libertà elencati nelle lettere a) - f) dell'articolo 5 § 1, e se fosse «regolare» ai fini di questa disposizione, e quindi conforme all'articolo 5 § 1.
117. La Corte esaminerà in primo luogo il periodo di detenzione del ricorrente tra il 2 dicembre 2018, data in cui quest'ultimo è stato incarcerato a Rebibbia NC dopo aver violato le condizioni degli arresti domiciliari, e il 20 maggio 2019, data della sentenza con la quale la corte d'appello di Roma ha ordinato la sua rimessione in libertà, e, in secondo luogo, il periodo di detenzione che va dal 21 maggio 2019 al 12 maggio 2020, data in cui il ricorrente è uscito dal carcere ed è stato trasferito in una comunità terapeutica.
i. La detenzione tra il 2 dicembre 2018 e il 20 maggio 2019
α) Motivi di privazione della libertà
118. La Corte osserva che il motivo di privazione della libertà del ricorrente in relazione a tale periodo di detenzione non è oggetto di controversia tra le parti. La Corte, tenuto conto delle circostanze del caso di specie, ritiene che tale periodo rientri nelle previsioni della lettera a) dell'articolo 5 § 1.
β) Detenzione «nei modi previsti dalla legge»
119. La Corte deve ora stabilire se la detenzione del ricorrente durante il periodo in questione sia stata decisa «nei modi previsti dalla legge». La Convenzione su questo punto rinvia essenzialmente al diritto nazionale e pone l'obbligo per le autorità interne di conformarsi alle norme materiali e procedurali che quest'ultimo prevede (Ilnseher, sopra citata, § 135, S., V. e A. c. Danimarca [GC], nn. 35553/12 e altri 2, § 74, 22 ottobre 2018).
120. A tale proposito, la Corte ritiene che questa detenzione fosse conforme al diritto interno in quanto si basava sulla sentenza di condanna a un anno e due mesi di reclusione pronunciata dal tribunale di Tivoli il 22 novembre 2018 e sulla decisione del 27 novembre 2018 con cui lo stesso tribunale ha ripristinato la custodia cautelare in carcere (paragrafi 19 e 27 supra).
γ) Detenzione «regolare»
121. Ai fini dell'articolo 5 della Convenzione, la conformità della detenzione al diritto interno non è di per sé decisiva. Occorre anche stabilire che la detenzione dell'interessato durante il periodo in questione era «regolare» ai sensi dell'articolo 5 § 1 della Convenzione. La Corte osserva che il ricorrente è stato detenuto regolarmente dopo essere stato condannato da un tribunale competente, e in particolare sulla base della sentenza di condanna a un anno e due mesi di reclusione.
122. Per quanto riguarda le cure mediche fornite in carcere, la Corte osserva che la questione se un ambiente sia adeguato in termini di cure mediche per una persona affetta da disturbi mentali si analizza normalmente in base agli articoli 3 e 5 § 1 e) della Convenzione, e non dal punto di vista dell'articolo 5 § 1 a). Tuttavia, per quanto riguarda la pena detentiva, la Corte ha già rilevato che, anche se la punizione rimane uno degli scopi della detenzione, le politiche penali in Europa attribuiscono un’importanza sempre maggiore all'obiettivo di reinserimento perseguito dalla detenzione (Vinter e altri c. Regno Unito [GC], nn. 66069/09 e altri 2, § 115, CEDU 2013 (estratti)). Allo stesso modo, la Corte, pur sottolineando che una delle funzioni essenziali di una pena detentiva è quella di proteggere la società, ha riconosciuto lo scopo legittimo di una politica di progressivo reinserimento sociale delle persone condannate a detta pena (Maiorano e altri c. Italia, no 28634/06, § 108, 15 dicembre 2009, e Mastromatteo c. Italia [GC], n. 37703/97, § 72, CEDU 2002 VIII). Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che l'assenza di cure adeguate potrebbe quindi porre un problema dal punto di vista della lettera a) dell'articolo 5 § 1 quando un ricorrente detenuto regolarmente a seguito di condanna soffre di una patologia psichica talmente grave da impedirgli di comprendere l'obiettivo di reinserimento sociale perseguito dalla detenzione e di beneficiarne.
123. Nella fattispecie, la Corte osserva che il ricorrente lamenta unicamente l'assenza di un percorso terapeutico adeguato, senza contestare, dal punto di vista della lettera a) dell'articolo 5 § 1, l'incompatibilità della detenzione con il suo stato mentale, a causa della sua incapacità di cogliere la finalità di reinserimento sociale che la pena detentiva persegue (paragrafo 91 supra). Inoltre, la Corte rileva che dal fascicolo, e in particolare dalla perizia psichiatrica del 9 novembre 2018, risulta che il ricorrente, all'epoca del processo, era idoneo a parteciparvi consapevolmente (paragrafo 18 supra). In mancanza di altri elementi, essa conclude che il ricorrente era in grado, al momento dell'esecuzione della pena, di comprendere la finalità di reinserimento sociale perseguita da quest’ultima, e di beneficiarne.
124. Da quanto esposto, la Corte conclude che la detenzione in questione era conforme ai requisiti di cui alla lettera a) dell'articolo 5 § 1 della Convenzione. Pertanto, non vi è stata violazione di tale disposizione per il periodo di detenzione dal 2 dicembre 2018 al 20 maggio 2019.
ii. La detenzione tra il 21 maggio 2019 e il 12 maggio 2020
α) Motivi di privazione della libertà
125. La Corte rammenta che il ricorrente sostiene che, a partire dal 20 maggio 2019, data in cui la corte d'appello di Roma ha ordinato la sua liberazione, la sua privazione della libertà non aveva una base legale.
126. Il Governo sostiene che il ricorrente è rimasto in carcere a causa della sua pericolosità e della indisponibilità di posti nelle REMS, e che l'ordinanza di ricovero in REMS è comunque una misura privativa della libertà.
127. La Corte rammenta che, il 21 gennaio 2019, il magistrato di sorveglianza di Roma ha ordinato l’immediata applicazione della detenzione in REMS del ricorrente per un anno, in quanto questa misura era l'unica adeguata a far fronte alla sua pericolosità sociale (paragrafo 27 supra). Pertanto, essa esaminerà se la detenzione potesse essere giustificata come detenzione di un alienato ai sensi dell'articolo 5 § 1 e).
β) Detenzione «nei modi previsti dalla legge»
128. La Corte constata che l’ordinanza che disponeva il ricovero in REMS sopra citata non è mai stata eseguita. Per quanto riguarda la tesi del Governo secondo cui questa ordinanza avrebbe potuto giustificare il mantenimento in carcere del ricorrente in quanto prevedeva una misura privativa della libertà, la Corte rileva che la detenzione in ambiente penitenziario e il ricovero in REMS sono misure diverse per quanto riguarda le loro condizioni di applicazione, le loro modalità di esecuzione e lo scopo che esse perseguono. In ogni caso, la Corte ritiene che non sia necessario stabilire se la detenzione del ricorrente durante il periodo in questione sia stata decisa nei modi previsti dalla legge, poiché, per le ragioni di seguito esposte, tale periodo di detenzione non soddisfaceva i requisiti di regolarità previsti dall'articolo 5 § 1 e).
γ) Detenzione «regolare»
129. La Corte osserva che, nel presente caso, le tre condizioni della giurisprudenza Winterwerp (paragrafo 104 supra) sono soddisfatte.
130. In primo luogo, essa rileva che, alla data in cui è stato ordinato il ricovero in REMS, l'alienazione del ricorrente era stata dimostrata dinanzi all'autorità competente mediante una perizia medica obiettiva (Ilnseher, sopra citata, § 127, e Rooman, sopra citata, § 192). Nel caso di specie, come descritto in dettaglio sopra (paragrafo 8), la perizia psichiatrica trasmessa il 3 ottobre 2017 al GIP del tribunale di Roma, ha concluso che il ricorrente era affetto da un disturbo di personalità e da un disturbo bipolare, aggravati dall'uso di sostanze stupefacenti. Il perito ha aggiunto che il ricorrente era socialmente pericoloso e ha sottolineato che le esigenze terapeutiche di quest'ultimo prevalevano su quelle custodiali. La Corte osserva che le stesse conclusioni sono state successivamente confermate dalla seconda perizia, depositata il 9 novembre 2018 dinanzi al tribunale di Tivoli (paragrafo 18 supra).
131. La Corte osserva, in secondo luogo, che il magistrato di sorveglianza di Roma ha giustamente ritenuto che il disturbo mentale del ricorrente fosse tale da legittimare l'internamento, dato che quest'ultimo, pur essendo in libertà vigilata, aveva gravemente violato le condizioni di questa misura, e il ricovero in REMS era quindi l'unica soluzione in grado di soddisfare l'imperativo di protezione sociale (Ilnseher, sopra citata, § 127, e Rooman, sopra citata, § 192).
132. In terzo luogo, la validità del mantenimento in detenzione del ricorrente era condizionata dal persistere del suo disturbo mentale. L'ultima valutazione del suo stato di salute, datata 30 aprile 2020, indicava che il ricorrente rappresentava ancora un pericolo per la società, anche se in misura minore (paragrafo 39 supra). Nel fascicolo non ci sono elementi che indicano che tale rischio non sussistesse più durante il periodo in questione.
133. Ciò premesso, alla luce dei principi giurisprudenziali sopra richiamati (paragrafo 111 supra), la Corte ritiene che l'esame della regolarità imponga, inoltre, di accertare se sussistesse, per tutta la durata della misura di internamento, il nesso tra il motivo che dava giustificazione alla privazione della libertà e il luogo e le condizioni della detenzione. La Corte rammenta che, in linea di principio, la «detenzione» di un alienato può essere considerata «regolare» ai fini della lettera e) del paragrafo 1 soltanto se attuata in un ospedale, in una clinica o in un altro istituto appropriato (Ilnseher, sopra citata, § 134, Rooman, sopra citata, § 190, e Stanev, sopra citata, § 147).
134. La Corte osserva che la misura della detenzione in una REMS ha lo scopo non solo di proteggere la società, ma anche di offrire all'interessato le cure necessarie per migliorare, per quanto possibile, il suo stato di salute e permettere in tal modo di attenuare o gestire la sua pericolosità (si vedano, mutatis mutandis, Klinkenbuß c. Germania, n. 53157/11, § 53, 25 febbraio 2016, Rooman, sopra citata, § 208). Era pertanto essenziale proporre al ricorrente un trattamento appropriato al fine di ridurre il pericolo che egli rappresentava per la società. Ora, risulta dal fascicolo, che anche dopo la sentenza con la quale la corte d'appello di Roma aveva ordinato la sua liberazione, il ricorrente non è stato trasferito in una REMS, ed è stato mantenuto in detenzione in regime carcerario ordinario, in cattive condizioni, e non ha beneficiato di un percorso terapeutico individualizzato (si vedano le conclusioni basate sull’articolo 3, paragrafo 88 supra).
135. La Corte rammenta che lo Stato è tenuto, nonostante i problemi logistici e finanziari, ad organizzare il proprio sistema penitenziario in modo da assicurare ai detenuti il rispetto della loro dignità umana (Muršić c. Croazia [GC], n. 7334/13, § 99, 20 ottobre 2016, e Neshkov e altri c. Bulgaria, nn. 36925/10 e altri 5, § 229, 27 gennaio 2015). Anche se, in un primo tempo, un divario tra i posti disponibili e i posti necessari può essere considerato accettabile (mutatis mutandis, Morsink c. Paesi Bassi, n. 48865/99, § 67, 11 maggio 2004), il ritardo nell'ottenimento di un posto non può durare all'infinito ed è accettabile soltanto se debitamente giustificato. Le autorità devono dimostrare di non essere rimaste passive, ma di aver, al contrario, cercato attivamente una soluzione e di essersi sforzate di superare gli ostacoli che si frapponevano all'applicazione della misura. Nel caso di specie, risulta dal fascicolo che, a partire dal febbraio 2019, il DAP ha inviato numerose richieste alle REMS della regione Lazio e a quelle presenti sul territorio nazionale per trovare un posto per il ricorrente, ma senza successo, per mancanza di posti disponibili (paragrafi 28 e seguenti supra). La Corte rileva che, di fronte a questi rifiuti, le autorità nazionali non hanno creato nuovi posti all’interno delle REMS e non hanno trovato un'altra soluzione. Spettava loro garantire al ricorrente la disponibilità di un posto in REMS o trovare una soluzione adeguata. La Corte non può quindi considerare che l'indisponibilità di posti fosse una valida giustificazione per mantenere il ricorrente in ambiente penitenziario.
136. Di conseguenza, la privazione della libertà del ricorrente a partire dal 21 maggio 2019 non si è svolta in modo conforme alle esigenze della lettera e) dell’articolo 5 § 1 (Rooman, sopra citata, §§ 190 e 208 - 210).
137. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione.
C. Sulla dedotta violazione dell’articolo 5 § 5
138. Invocando l’articolo 5 § 5, il ricorrente sostiene di non aver avuto a disposizione nessun ricorso effettivo che gli avrebbe permesso di ottenere riparazione per il pregiudizio che afferma di aver subìto a causa della sua detenzione contraria all’articolo 5 § 1. Secondo l’articolo 5 § 5 della Convenzione:
«Ogni persona vittima di arresto o di detenzione in violazione di una delle disposizioni del presente articolo ha diritto a una riparazione.»
139. Il Governo sostiene che il ricorrente avrebbe dovuto adire il tribunale con un'azione di risarcimento danni sulla base dell'articolo 2043 del codice civile italiano, che gli avrebbe permesso di chiedere riparazione per i danni subìti a seguito della dedotta violazione della sua libertà personale.
140. Il ricorrente sostiene che l'articolo 2043 del codice civile non è un ricorso effettivo perché, a suo parere, l'onere della prova che grava sulla vittima del danno è eccessivo, dovendo provare il dolo o la colpa grave della pubblica amministrazione.
141. La Corte rammenta che l'articolo 5 § 5 è rispettato quando è possibile chiedere riparazione per una privazione della libertà operata in condizioni che violano i paragrafi 1, 2, 3 o 4. Il diritto alla riparazione di cui al paragrafo 5 presuppone, quindi, che una violazione di uno di questi altri paragrafi sia stata accertata da un'autorità nazionale o dagli organi della Convenzione. A tale riguardo, il godimento effettivo del diritto alla riparazione garantito da quest'ultima disposizione deve essere assicurato con un grado sufficiente di certezza (Stanev, sopra citata, § 182, e N.C. c. Italia [GC], n. 24952/94, § 49, CEDU 2002-X).
142. La Corte ritiene che quando si può sostenere in modo difendibile che vi è stata violazione di uno o più diritti sanciti dalla Convenzione, la vittima deve disporre di un meccanismo che consenta di accertare la responsabilità dei funzionari o degli organi dello Stato per tale inadempienza. Inoltre, nei casi opportuni, un risarcimento dei danni – materiali e morali – derivanti dalla violazione deve essere possibile per principio e far parte del regime di riparazione messo in atto (Roth c. Germania, nn. 6780/18 e 30776/18, § 92, 22 ottobre 2020).
143. Tenuto conto di questi elementi, la Corte ha concluso, sotto vari aspetti, che, quando si constata una violazione di un articolo della Convenzione, vi è una forte presunzione che tale violazione abbia causato un danno morale alla persona lesa. Pertanto, i ricorsi previsti a livello nazionale devono rispettare tale presunzione e non subordinare l’indennizzo pecuniario all'accertamento di una colpa dell'autorità convenuta.
144. Per quanto riguarda più in particolare i rimedi risarcitori per le condizioni di detenzione, la Corte ha dichiarato che l'onere della prova imposto al ricorrente non deve essere eccessivo (Neshkov e altri, sopra citata, § 184, e Polgar c. Romania, n. 39412/19, § 82, 20 luglio 2021). Un indennizzo pecuniario dovrebbe essere riconosciuto a ogni persona detenuta o che è stata detenuta in condizioni inumane o degradanti e che ha presentato una richiesta in tal sento. La Corte ha affermato più volte che la constatazione che le condizioni di detenzione non hanno soddisfatto le esigenze dell’articolo 3 della Convenzione fa sorgere una forte presunzione che tali condizioni di detenzione abbiano causato un danno morale alla persona lesa (Neshkov e altri, sopra citata, § 190, e Roth, sopra citata, § 93, Ananyev e altri, sopra citata, § 229). Le regole e le prassi interne che disciplinano il funzionamento del rimedio risarcitorio devono riflettere l’esistenza di questa presunzione piuttosto che subordinare l’indennizzo alla capacità del ricorrente di dimostrare, con prove estrinseche, l’esistenza di un danno morale sotto forma di disagio emotivo (Neshkov e altri, sopra citata, § 190, e Polgar, sopra citata, § 85). Pertanto, subordinare la concessione di un'indennità alla capacità del ricorrente di provare la colpa delle autorità e l'illegalità dei loro atti può privare di effettività i ricorsi esistenti (Roth, sopra citata, § 93, e i riferimenti citati). A tale proposito, la Corte ha rammentato che le cattive condizioni di detenzione non necessariamente sono il risultato di inadempienze imputabili all'amministrazione penitenziaria, ma spesso derivano da fattori più complessi, ad esempio dei problemi di politica penale (Rezmiveș e altri c. Romania, nn. 61467/12 e altri 3, § 124, 25 aprile 2017).
145. Allo stesso modo, la Corte ha affermato che un formalismo eccessivo, per quanto riguarda la prova da fornire per un danno morale causato da una detenzione irregolare, aveva avuto come risultato quello di privare l'azione di responsabilità dello Stato della sua effettività ai sensi dell'articolo 5 § 5 (Danev c. Bulgaria, n. 9411/05, § 34, 2 settembre 2010 e, mutatis mutandis, Iovtchev c. Bulgaria, n. 41211/98, § 146, 2 febbraio 2006). A tale riguardo, nelle cause Picaro c. Italia e Zeciri c. Italia, la Corte ha ritenuto che l’azione civile di risarcimento per violazione della libertà personale, prevista dal sistema giuridico italiano, non costituiva un mezzo di ricorso effettivo per ottenere riparazione delle violazioni dei paragrafi 1 e 4 dell’articolo 5 della Convenzione, in quanto il Governo non ha fornito alcun esempio per dimostrare che un’azione di questo tipo era stata intentata con successo in circostanze simili (Picaro c. Italia, n. 42644/02, § 84, 9 giugno 2005, e Zeciri c. Italia, n. 55764/00, § 50, 4 agosto 2005).
146. Infine, in base all'articolo 6, la Corte ha rammentato la presunzione molto solida, sebbene confutabile, secondo cui un termine eccessivo nell'esecuzione di una sentenza obbligatoria ed esecutiva genera un danno morale. Il fatto che la riparazione del danno morale nelle cause di mancata esecuzione sia subordinata all'accertamento di una colpa dell'autorità convenuta è difficilmente conciliabile con questa presunzione. Infatti, i ritardi di esecuzione constatati dalla Corte non sono necessariamente imputabili a irregolarità commesse dall'amministrazione, ma possono essere imputabili a carenze del sistema a livello nazionale e/o locale (Bourdov, sopra citata, § 111).
147. La Corte osserva, nella fattispecie, che l'azione civile di risarcimento dei danni prevista dall'articolo 2043 del codice civile – nel quale il Governo vede un ricorso effettivo – esige che il ricorrente provi l'esistenza del fatto illecito, il dolo o la colpa dell'amministrazione e i danni subiti. La Corte osserva che il governo non ha prodotto alcun esempio che dimostri che tale azione sia stata intentata con successo in circostanze simili a quelle della presente causa (Picaro, sopra citata, § 84, e Zeciri, sopra citata, § 50).
148. Alla luce di quanto precede, la Corte ritiene che il ricorrente non disponesse di alcun mezzo per ottenere, con un grado sufficiente di certezza, riparazione delle violazioni dell'articolo 5 § 1 della Convenzione.
149. Pertanto, vi è stata violazione dell’articolo 5 § 5 della Convenzione.
D. Sulla dedotta violazione dell’articolo 6 § 1
150. Il ricorrente lamenta una violazione del diritto a un processo equo in ragione della mancata esecuzione della sentenza della corte d’appello di Roma del 20 maggio 2019, ed invoca l’articolo 6 § 1 della Convenzione, così formulato:
«Ogni persona ha diritto a che la sua causa sia esaminata equamente (…) da un tribunale (…) il quale sia chiamato a pronunciarsi (…) sulla fondatezza di ogni accusa penale formulata nei suoi confronti.»
151. Il ricorrente rammenta i principi stabiliti dalla Corte nella citata sentenza Assanidzé, e sostiene che le autorità nazionali hanno l'obbligo di eseguire d'ufficio le decisioni giudiziarie.
152. Il Governo sostiene che le autorità hanno cercato di trovare il più rapidamente possibile un posto disponibile in una REMS per il ricorrente, ricordando che quest'ultimo era considerato socialmente pericoloso e, pertanto, non poteva essere liberato.
153. Facendo riferimento ai principi enunciati nel paragrafo 63 supra, la Corte rammenta che l'esecuzione di un provvedimento o di una sentenza, di qualsiasi giudice, deve essere considerata parte integrante del processo ai sensi dell'articolo 6 § 1 della Convenzione, e che la mancata esecuzione di una decisione giudiziaria definitiva ed esecutiva priverebbe le garanzie previste da tale articolo della loro effettività.
154. La Corte osserva che la sentenza del 20 maggio 2019 con la quale la corte d'appello di Roma ha ordinato la rimessione in libertà del ricorrente non è stata eseguita (paragrafo 25 supra). In particolare, in seguito all'ordinanza emessa dal magistrato di sorveglianza il 21 gennaio 2019 (paragrafo 27 supra), il ricorrente avrebbe dovuto essere ricoverato in REMS, e invece è rimasto in carcere. Pertanto, la Corte conclude che vi è stata violazione dell'articolo 6 § 1 della Convenzione.
E. Sulla dedotta violazione dell’articolo 13 in combinato disposto con gli articoli 3 e 5 § 1
155. Invocando l’articolo 13 in combinato disposto con gli articoli 3 e 5 § 1, il ricorrente sostiene di non essersi potuto avvalere di un ricorso effettivo per lamentare l’assenza di un’adeguata presa in carico terapeutica durante la sua detenzione, e di non aver potuto ottenere riparazione della violazione dei diritti garantiti dall’articolo 5 § 1 della Convenzione. La prima di queste disposizioni è così formulata:
«Ogni persona i cui diritti e le cui libertà riconosciuti nella (…) Convenzione siano stati violati, ha diritto a un ricorso effettivo davanti a un’istanza nazionale, anche quando la violazione sia stata commessa da persone che agiscono nell’esercizio delle loro funzioni ufficiali.»
156. Le parti rinviano alle argomentazioni che hanno presentato nell’ambito dell’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.
157. La Corte ritiene, alla luce della sua conclusione nel precedente paragrafo 64 e delle sue constatazioni in base agli articoli 3 e 5 § 1 (paragrafi 88, 124 e 154), che non è necessario esaminare separatamente le doglianze relative all'articolo 13 in combinato disposto con gli articoli 3 e 5 § 1 della Convenzione.
F. Sulla dedotta violazione dell’articolo 34 della Convenzione
158. Il ricorrente afferma che l'Italia si è sottratta agli obblighi derivanti dall'articolo 34 della Convenzione a causa del ritardo nell'esecuzione della misura indicata dalla Corte conformemente all'articolo 39 del suo regolamento.
L'articolo 34 della Convenzione è così formulato:
«La Corte può essere investita di un ricorso da parte di una persona fisica, un’organizzazione non governativa o un gruppo di privati che sostenga di essere vittima di una violazione da parte di una delle Alte Parti contraenti dei diritti riconosciuti nella Convenzione o nei suoi Protocolli. Le Alte Parti contraenti si impegnano a non ostacolare con alcuna misura l’esercizio effettivo di tale diritto.»
1. Tesi delle parti
a) Il ricorrente
159. Il ricorrente rammenta il ruolo fondamentale delle misure provvisorie nel sistema della Convenzione, e ritiene che l'inosservanza inspiegabile e prolungata della misura indicata dalla Corte costituisca una violazione del suo diritto di ricorso individuale sancito dall'articolo 34 della Convenzione.
160. Il ricorrente contesta la giustificazione invocata dal Governo per il ritardo nell'esecuzione della misura, in particolare l'indisponibilità di posti nelle REMS, affermando che è proprio il motivo per il quale egli ha presentato una domanda dinanzi alla Corte. Il ricorrente aggiunge che lo Stato era, ed è, l’unico responsabile del problema della mancanza di posti nelle suddette strutture.
b) Il Governo
161. Il Governo afferma che le autorità hanno fatto tutto quanto era in loro potere per rispettare la misura provvisoria e trasferire il ricorrente in una REMS. L'ostacolo era costituito dall'indisponibilità di posti in queste strutture. Anche il confinamento tra marzo e maggio 2020 dovuto alla pandemia di covid-19 avrebbe avuto delle ripercussioni sulle attività dell'amministrazione penitenziaria.
162. Il Governo sottolinea, inoltre, che le autorità non potevano nemmeno rimettere in libertà il ricorrente, in quanto ciò avrebbe comportato un rischio grave e concreto per la sicurezza collettiva, tenuto conto delle numerose decisioni dei giudici nazionali che indicavano che il ricorrente era socialmente pericoloso.
163. Infine, il Governo sostiene che è pienamente consapevole dell'importanza della questione dell'insufficienza di posti nelle REMS, e che si sta adoperando per adottare le misure necessarie per risolvere il problema. In particolare, il Governo precisa che sono in corso dei dibattiti sulla riforma dell'accordo tra lo Stato e le regioni per quanto riguarda le REMS, e che è stato presentato un progetto specifico a tale riguardo nel quadro delle riforme del sistema sanitario finanziate nell’ambito del «Recovery Fund» dell'Unione europea.
2. Valutazione della Corte
a) Principi applicabili
164. La Corte rammenta che l'obbligo di cui all'articolo 34 in fine esige che gli Stati contraenti si astengano non solo dall'esercitare pressioni sui ricorrenti, ma anche da qualsiasi atto od omissione che, distruggendo o facendo sparire l'oggetto di un ricorso, lo renda inutile o impedisca alla Corte in qualsiasi altro modo di esaminarlo secondo il suo metodo abituale (Mamatkoulov e Askarov c. Turchia [GC], nn. 46827/99 e 46951/99, § 102, CEDU 2005 I). Dalla finalità di tale norma, ossia garantire l'effettività del diritto di ricorso individuale, risulta chiaramente che le intenzioni o i motivi sottesi ad un'azione o ad un'omissione vietata dall'articolo 34 hanno poca rilevanza quando si tratta di valutare se tale disposizione sia stata o meno rispettata. L'importante è determinare se la situazione generata dall'azione o dall’omissione delle autorità sia conforme all'articolo 34. La stessa osservazione vale per quanto riguarda il rispetto delle misure provvisorie di cui all'articolo 39, in quanto tali misure sono indicate dalla Corte allo scopo di garantire l'efficacia del diritto di ricorso individuale. Di conseguenza, vi sarà violazione dell'articolo 34 se le autorità di uno Stato contraente non adottano tutte le misure che si potevano ragionevolmente prevedere per conformarsi alla misura indicata dalla Corte (Paladi c. Moldavia [GC], n. 39806/05, §§ 87-88, 10 marzo 2009).
165. A questo proposito, la Corte osserva che essa applica l'articolo 39 in maniera rigorosa e, in linea di principio, soltanto quando vi è un rischio imminente di danno irreparabile. Sebbene non esista alcuna disposizione particolare nella Convenzione riguardante gli ambiti di applicazione, le domande riguardano, nella maggior parte dei casi, il diritto alla vita (articolo 2), il diritto di non essere sottoposto a tortura e a trattamenti inumani (articolo 3), ed eccezionalmente il diritto al rispetto della vita privata e familiare (articolo 8), o altri diritti sanciti dalla Convenzione (Mamatkoulov e Askarov, sopra citata, §§ 103-104).
166. Per verificare se lo Stato convenuto si sia conformato alla misura provvisoria indicata, si deve partire dal contenuto stesso di quest'ultima. La Corte deve verificare se lo Stato convenuto abbia rispettato la lettera e lo spirito della misura provvisoria che gli era stata indicata. Nell'ambito dell'esame di una doglianza presentata sotto il profilo dell'articolo 34, riguardante la dedotta inosservanza, da parte di uno Stato contraente, di una misura provvisoria, la Corte non riconsidererà l’opportunità della sua decisione di applicare la misura in questione. Spetta al governo convenuto dimostrarle che la misura provvisoria è stata rispettata o, in casi eccezionali, che vi è stato un ostacolo oggettivo che gli ha impedito di conformarsi a tale misura, e che ha fatto tutto quanto era ragionevolmente possibile per sopprimere l'ostacolo e per tenere la Corte informata della situazione (Paladi, sopra citata, §§ 91-92). Un ritardo importante, da parte delle autorità, nell'esecuzione della misura provvisoria, che ha prodotto l'effetto di esporre il ricorrente al rischio di subire il trattamento contro il quale la misura doveva proteggerlo, costituisce un’inosservanza da parte dello Stato dei suoi obblighi ai sensi dell'articolo 34 della Convenzione (M.K. e altri c. Polonia, nn. 40503/17 e altri 2, §§ 237-238, 23 luglio 2020).
b) Applicazione dei principi sopra menzionati nel caso di specie
167. Nella fattispecie, la Corte deve esaminare se le autorità si siano conformate alla misura provvisoria indicata dalla Corte, che consisteva nell'assicurare il trasferimento del ricorrente in una struttura (REMS o di altro tipo) che permettesse di garantire che la sua patologia psichica fosse adeguatamente presa in carico sul piano terapeutico.
168. A tale riguardo, la Corte osserva che le autorità interne hanno trasferito il ricorrente all'interno di una comunità terapeutica il 12 maggio 2020, e constata, pertanto, che il Governo si è conformato alla misura provvisoria indicata (paragrafi 33 e 42 supra).
169. La Corte deve poi esaminare se il Governo si sia conformato alla misura provvisoria entro un termine ragionevole. A tale proposito, essa osserva che le autorità italiane hanno trasferito il ricorrente trentacinque giorni dopo l'adozione della misura da parte della Corte, e constata anzitutto che tale termine le sembra di per sé molto lungo, e fa dubitare della sua compatibilità con l'articolo 34 della Convenzione.
170. La Corte deve dunque verificare se un tale ritardo nell'applicazione della misura provvisoria fosse giustificato da circostanze eccezionali.
171. La Corte non è convinta dell'argomentazione relativa all'indisponibilità di posti nelle REMS. Infatti, essa rammenta che, già il 21 gennaio 2019, il magistrato di sorveglianza di Roma aveva sostituito la misura della libertà vigilata con quella dell'applicazione immediata della detenzione in REMS (paragrafo 25 supra). Pertanto, il Governo era consapevole della necessità impellente di trovare un posto in un istituto adatto al ricorrente ben prima che fosse adottata la misura provvisoria della Corte. Come quest'ultima ha sottolineato varie volte, spetta ai governi organizzare il proprio sistema penitenziario in modo da garantire il rispetto della dignità dei detenuti, indipendentemente da qualsiasi difficoltà economica o logistica (Muršić, sopra citata, § 99, e Neshkov e altri, sopra citata, § 229). Nella fattispecie, spettava dunque al governo italiano trovare per il ricorrente, in sostituzione di un posto in REMS, un'altra soluzione adeguata, come del resto la Corte aveva espressamente indicato (paragrafo 34 supra). Pertanto, la Corte non può considerare l'indisponibilità di posti nelle REMS come una giustificazione valida per il ritardo nell'esecuzione della misura provvisoria da essa indicata.
172. In secondo luogo, per quanto riguarda il confinamento di marzo 2020 in Italia, la Corte comprende che questa situazione abbia potuto avere delle ripercussioni sul buon funzionamento dell'amministrazione, ma non è convinta da tale argomentazione in quanto il Governo non ha spiegato in che modo il confinamento avrebbe reso più complicato ottenere un posto in REMS o in altra struttura, o ritardato il trasferimento del ricorrente, anche in considerazione del fatto che le autorità interne sapevano fin dal 21 gennaio 2019, e dunque ben prima dell'inizio del confinamento, che era necessario trasferire il ricorrente (paragrafo 27 supra). Pertanto, poiché le misure provvisorie sono comunicate soltanto in circostanze eccezionali, in particolare in caso di rischio imminente di danno irreparabile per il ricorrente, (Mamatkoulov e Askarov, sopra citata, §§ 103-104 e 120), la Corte considera che, sebbene nel caso di specie un certo ritardo nell'esecuzione della misura provvisoria fosse accettabile, in una situazione eccezionale come quella del confinamento, trentacinque giorni sembrano comunque eccessivi.
173. In assenza di altre giustificazioni, la Corte conclude che il ritardo nell'esecuzione della misura provvisoria è eccessivamente lungo (M.K. e altri, sopra citata, §§ 237-238) e che, dunque, le autorità italiane non hanno rispettato gli obblighi di cui all'articolo 34.
174. Pertanto, vi è stata violazione dell'articolo 34 della Convenzione.
III. SULL’APPLICAZIONE DEGLI ARTICOLI 41 E 46
175. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione:
«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»
176. Ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione:
«1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.
2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne controlla l’esecuzione.»
A. Articolo 41
1. Danno
177. Il ricorrente chiede la somma di 129.187,74 euro (EUR) per il danno morale che ritiene di aver subìto. Egli considera che l'equa soddisfazione che gli è dovuta deve essere calcolata sulla base dell'indennità prevista per ciascun giorno di detenzione illegale secondo la legge italiana.
178. Il Governo sostiene che il ricorrente non può avvalersi dei criteri utilizzati dalla Corte per quantificare l'importo del danno derivante da una detenzione illegale nel caso di una persona che doveva essere rimessa in libertà, in quanto il ricorrente sarebbe stato comunque privato della libertà, in questo caso in una REMS.
179. La Corte ritiene che il ricorrente abbia subito un pregiudizio morale certo a causa del suo mantenimento in detenzione senza un programma di cure adeguato al suo stato di salute, in violazione degli articoli 3 e 5 § 1 della Convenzione. Essa gli accorda la somma di 36.400 EUR per danno morale, più l'importo eventualmente dovuto su tale somma a titolo di imposta.
2. Spese
180. Il ricorrente chiede la somma di 53.985,98 EUR per le spese che ha sostenuto nell'ambito del procedimento dinanzi alla Corte.
181. Il Governo non si esprime a tale riguardo.
182. Secondo la giurisprudenza della Corte, un ricorrente può ottenere il rimborso delle spese sostenute solo nella misura in cui ne siano accertate la realtà e la necessità, e il loro importo sia ragionevole. Nella fattispecie, tenuto conto dei documenti in suo possesso e dei criteri sopra menzionati, la Corte ritiene ragionevole accordare al ricorrente la somma di 10.000 EUR per il procedimento dinanzi ad essa, più l'importo eventualmente dovuto su tale somma a titolo di imposta.
3. Interessi moratori
183. La Corte ritiene opportuno basare il tasso degli interessi moratori sul tasso di interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.
B. Articolo 46
184. Facendo riferimento ai principi riportati nella sentenza Strazimiri, sopra citata, il ricorrente chiede alla Corte di ordinare al Governo di adottare ogni misura generale necessaria per garantire che i detenuti affetti da disturbi mentali, e destinatari della misura di sicurezza del ricovero in REMS, siano rapidamente trasferiti in tali strutture, in particolare aumentando notevolmente il numero di posti disponibili nel sistema delle REMS.
185. La Corte rammenta che le sue sentenze hanno essenzialmente un carattere dichiarativo e che, in generale, spetta in primo luogo allo Stato in questione scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, i mezzi da utilizzare nel suo ordinamento giuridico interno per adempiere al proprio obbligo previsto dall'articolo 46 della Convenzione, purché tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte (si vedano, tra altre, Scozzari e Giunta c. Italia [GC], nn. 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDU 2000-VIII, Brumărescu c. Romania (equa soddisfazione) [GC], n. 28342/95, § 20, CEDU 2001-I, e Grande Stevens e altri c. Italia, nn. 18640/10 e altri 4, § 233, 4 marzo 2014).
186. Nello stato attuale, e alla luce delle informazioni fornite dalle parti, la Corte non ritiene necessario indicare delle misure generali che lo Stato dovrebbe adottare per l'esecuzione della presente sentenza.
PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,
Dichiara il ricorso irricevibile per quanto riguarda il periodo di detenzione compreso tra il 2 luglio e il 22 novembre 2018, e ricevibile per il resto;
Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione;
Dichiara che non vi è stata violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione per il periodo di detenzione compreso tra il 2 dicembre 2018 e il 20 maggio 2019;
Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 5 § 1 della Convenzione per il periodo di detenzione compreso tra il 21 maggio 2019 e il 12 maggio 2020;
Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 5 § 5 della Convenzione;
Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 6 § 1 della Convenzione;
Dichiara non doversi esaminare la doglianza formulata sotto il profilo dell’articolo 13 della Convenzione;
Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 34 della Convenzione;
Dichiarache lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi a decorrere dalla data in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all'articolo 44 § 2 della Convenzione, le seguenti somme:36.400 EUR (trentaseimilaquattrocento euro), più l'importo eventualmente dovuto su tale somma a titolo di imposta, per danno morale;
10.000 EUR (diecimila euro), più l'importo eventualmente dovuto su tale somma dal ricorrente a titolo di imposta, per le spese;
che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tali importi dovranno essere maggiorati di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
Respinge la domanda di equa soddisfazione per il resto.
Fatta in francese, e poi comunicata per iscritto il 24 gennaio 2022, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.
Marko Bošnjak
Presidente
Renata Degener
Cancelliere