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Captatore informatico può intercettare ovunque senza autorizzazione specifica (Cass. 31604/20)

11 novembre 2020, Cassazione penale

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Della disciplina previgente relativa all'utilizzo del cd. trojan horse al D.Lgs. n. 216 del 2017,  disciplina applicabile ai procedimenti penali iscritti dal 1 settembre 2020, devono ritenersi legittime le intercettazioni "tra presenti" eseguite a mezzo di "captatore informatico" installato in un dispositivo portatile, nell’ambito di attività investigativa svolta in relazione a procedimenti per delitti di criminalità organizzata: e ciò a prescindere dalla preventiva individuazione ed indicazione dei luoghi in cui la captazione deve essere espletata.

Nel caso di delitti di criminalità organizzata, poiché il legislatore ha dato una precisa e significativa indicazione laddove ha espressamente escluso, per le intercettazioni tra presenti in luoghi di privata dimora, disposte in procedimenti relativi a tali reati, il requisito autorizzativo che l’art. 266 c.p.p., comma 2, secondo periodo, richiede per tutte le altre intercettazioni.

Per quel che riguarda l’eventualità che lo strumento captativo in argomento possa consentire l’intercettazione di conversazioni di cui è vietata la captazione (come quelle tra imputato e suo difensore) o produrre, in casi estremi, esiti lesivi della dignità umana, va osservato che tali situazioni non possono incidere "a monte" sulla legittimità del decreto - poiché altrimenti si imporrebbe un requisito non previsto dalla legge - ma si riverberano, "a valle", sulla inutilizzabilità delle risultanze di "specifiche" intercettazioni che abbiano violato precisi divieti di legge o che, nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti, abbiano acquisito "in concreto" connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità.

 

Corte di Cassazione

sez. V Penale, sentenza 30 settembre – 11 novembre 2020, n. 31604
Presidente Vessichelli – Relatore Morosini

Ritenuto in fatto

1. Con l’ordinanza impugnata il Tribunale del riesame di Lecce, adito ai sensi dell’art. 309 c.p.p., ha confermato la misura della custodia cautelare in carcere applicata nei confronti di P.G. , quale partecipe alla associazione mafiosa denominata "(OMISSIS) " (capo A della incolpazione provvisoria), nonché per vari episodi di commercio di sostanza stupefacente (capi C29, C30 e C32).
2. Avverso l’ordinanza ricorre l’indagato, tramite il difensore, articolando quattro motivi, con i quali eccepisce la inutilizzabilità dei risultati delle intercettazioni effettuate mediante l’installazione del captatore informatico denominato trojan horse.
2.1. Con il primo si deduce la illegittimità della prova in questione, quale conseguenza della modalità "subdola" di acquisizione della stessa attraverso l’induzione del soggetto intercettato alla "autoinstallazione" del virus, con costi a carico del destinatario e in violazione del principio di autodeterminazione.
2.2. Con il secondo si sostiene che il decreto autorizzativo deve indicare, a pena di illegittimità, i luoghi in cui l’intercettazione deve avvenire; condizione non assolta nella specie.
Si critica la decisione contraria assunta sul tema dalle Sezioni Unite (n. 26889 del 2016, Scurato) secondo cui l’intercettazione di comunicazioni tra presenti mediante l’installazione di un captatore informatico in un dispositivo elettronico è consentita nei procedimenti per delitti di criminalità organizzata per i quali trova applicazione la disciplina di cui al D.L. n. 151 del 1991, art. 13, convertito dalla L. n. 203 del 1991, che ammette la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità di preventiva individuazione ed indicazione di tali luoghi e prescindendo dalla dimostrazione che siano sedi di attività criminosa in atto.
Secondo il ricorrente non persuade il ragionamento, posto dalle Sezioni Unite a fondamento della decisione citata, che dalla possibilità, D.L. n. 151 del 1991, ex art. 13, di intercettare anche nei luoghi indicati dall’art. 614 c.p. senza i limiti di cui all’art. 266 c.p.p., comma 2 fa derivare la conseguenza che non è necessario che il decreto autorizzativo specifichi il luogo interessato dalla intercettazione; tale deduzione viene avversata dal ricorrente perché, da un lato, nel presupporre che l’intercettazione tra presenti possa avvenire ovunque, non terrebbe conto dell’esistenza di altri ambienti nei quali l’intercettazione tra presenti è comunque vietata (studi dei difensori, degli investigatori privati, dei consulenti di parte dell’indagato) e perché, dall’altro lato, è proprio la lettera dell’art. 266 c.p.p., comma 2, a pretendere l’indicazione del luogo in cui si deve effettuare l’intercettazione tra presenti e le Sezioni Unite errano nel pervenire a conclusione opposta citando arresti giurisprudenziali afferenti a casi diversi. Aggiunge il ricorrente che se il legislatore avesse voluto eliminare un simile vincolo si sarebbe limitato a formulare il D.L. n. 152 del 1991, art. 13 nel senso che: "l’intercettazione di comunicazioni tra presenti disposta in un procedimento relativo a un delitto di criminalità organizzata può avvenire ovunque".
2.3. Con il terzo motivo si afferma che le intercettazioni mediante captatore informatico non sarebbero consentite perché non previste dal codice di rito. Tale strumento è stato disciplinato per la prima volta con il D.Lgs. n. 216 del 2017 attraverso norme non ancora entrate in vigore al momento dei fatti. Nel silenzio della legge va ravvisato un limite invalicabile posto a tutela di diritti fondamentali costituzionalmente garantiti. Viene riprodotto testualmente un articolo di dottrina (pagg. 10 - 15 del ricorso) che si occupa del rapporto tra prova incostituzionale, prova atipica e principio di "non sostituibilità della prova" sancito dalla Corte Costituzionale per la prima volta con la sentenza n. 229 del 1998 (in tema di sequestro degli appunti predisposti dall’indagato per affrontare l’interrogatorio), ribadito di recente nella sentenza n. 20 del 2017 (sulla acquisizione occulta di corrispondenza epistolare del detenuto) e fatto proprio dalla riforma Orlando laddove ha ritenuto di dettare regole specifiche per le intercettazioni mediante captatore informatico.
2.4. Con il quarto motivo si deducono analoghi vizi in punto di motivazione dei decreti autorizzativi delle intercettazioni e dei relativi decreti di proroga.
L’utilizzo del "captatore informatico" sarebbe consentita esclusivamente in via residuale solo sul presupposto della inidoneità di altre modalità tecniche meno invasive. A tale requisito, cui si sarebbero richiamate più volte anche le Sezioni Unite nella sentenza n. 26889 del 2016, non farebbero cenno i decreti di intercettazione nè quelli di proroga.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato.
2. Le questioni sui principi generali in tema di "captatore informatico", sollevate con i primi tre motivi di ricorso, sono infondate.
2.1. È pacifico che, al momento della esecuzione dell’attività di intercettazione in contestazione, non era vigente la specifica disciplina dettata dal legislatore per il cd. trojan horse con il D.Lgs. n. 216 del 2017, la cui entrata in vigore, per le disposizioni che qui interessano, è stata via via prorogata finché, da ultimo, per effetto del D.L. n. 28 del 2020, è stato stabilito che la nuova disciplina sarà applicabile ai procedimenti penali iscritti dal 1 settembre 2020. Ergo nella specie trovano applicazione le regole previgenti da interpretarsi sulla scia dell’elaborazione giurisprudenziale che ha trovato convergenza nella decisione delle Sezioni Unite n. 26889 del 28/04/2016, Scurato, da cui il collegio non intende discostarsi.
2.2. Secondo le Sezioni Unite Scurato, il fondamento normativo cui fare riferimento, de iure condito, va rinvenuto nella disciplina delle intercettazioni "tra presenti" e, specificamente, negli artt. 266, 267 e 271 c.p.p. con le deroghe previste, per i reati di criminalità organizzata, dal D.L. n. 152 del 1991, art. 13, convertito dalla L. n. 252 del 1991.
2.2.1. La natura itinerante dei dispositivi adoperati come moderne microspie - smartphone, tablet, computer - e il fatto che tali dispositivi accompagnano le persone anche nelle abitazioni e nei luoghi più riservati della vita privata comportano che il captatore informatico possa essere utilizzato per realizzare intercettazioni "tra presenti" nei soli procedimenti per delitti di criminalità organizzata. In questi casi, infatti, trova applicazione la disciplina di cui al D.L. n. 151 del 1991, art. 13, convertito dalla L. n. 203 del 1991, che, derogando ai presupposti fissati dall’art. 266 c.p.p., comma 2, permette la captazione anche nei luoghi di privata dimora, senza necessità che ivi si stia svolgendo attività criminosa. Di contro, l’utilizzo del nuovo mezzo tecnologico va escluso per i reati comuni perché, non essendo possibile prevedere i luoghi di privata dimora nei quali il dispositivo elettronico potrebbe essere introdotto, nel momento dell’autorizzazione, non sarebbe possibile verificare il rispetto della menzionata condizione di legittimità di cui all’art. 266 c.p.p., comma 2.
La stessa sentenza ha fissato la nozione di "procedimenti relativi a delitti di criminalità organizzata" (Rv. 266906), precisando che la qualificazione del fatto reato, ricompreso nella nozione di criminalità organizzata, deve risultare ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari, evidenziati nella motivazione del provvedimento di autorizzazione in modo rigoroso (Rv. 266905); si tratta di una condizione qui indiscutibile dato che si procede per reati di cui all’art. 416-bis c.p. (capo A) e D.P.R. n. 309 del 1990, art. 74 (capo C).
2.2.2. Siccome negli indicati procedimenti il trojan horse permette la captazione anche nei luoghi di privata dimora e prescindendo dalla dimostrazione che siano sedi di attività criminosa in atto, consegue che non è necessaria la preventiva individuazione di tali luoghi.
La necessità dell’indicazione di uno specifico luogo - quale condizione di legittimità dell’intercettazione - non risulta imposta nè dall’art. 266, comma 2 (in cui, con riferimento all’intercettazione di comunicazioni tra presenti, vi è solo la previsione di una specifica condizione per la legittimità dell’intercettazione se effettuata in un luogo di privata dimora), nè dalla giurisprudenza della Corte EDU (cfr., Corte EDU, 31/05/2005, Vetter c. Francia; Corte EDU, 18/05/2010, Kennedy c. Regno Unito).
Anche la "giurisprudenza sovranazionale conforta, pertanto, l’interpretazione secondo cui nell’intercettazione tra presenti, compiuta con mezzi definibili "tradizionali", il riferimento al luogo non integra un presupposto dell’autorizzazione, ma rileva solo limitatamente alla motivazione del decreto nella quale il giudice deve indicare le situazioni ambientali oggetto della captazione, e ciò solo ai fini della determinazione delle modalità esecutive del mezzo di ricerca della prova, che avviene mediante la collocazione fisica di microspie. Un’esigenza di questo tipo è invece del tutto estranea all’intercettazione per mezzo del c.d. virus informatico: la caratteristica tecnica di tale modalità di captazione prescinde dal riferimento al luogo, trattandosi di un’intercettazione ambientale per sua natura "itinerante"" (cfr. in motivazione Sezioni Unite n. 26889 del 28/04/2016, Scurato, cit.).
Ne consegue che devono ritenersi legittime le intercettazioni "tra presenti" eseguite a mezzo di "captatore informatico" installato in un dispositivo portatile, nell’ambito di attività investigativa svolta in relazione a procedimenti per delitti di criminalità organizzata: e ciò a prescindere dalla preventiva individuazione ed indicazione dei luoghi in cui la captazione deve essere espletata.
2.3. Le obiezioni mosse dal ricorrente alla citata decisione, con il secondo e il terzo motivo, non hanno pregio.
2.3.1. Le Sezioni Unite Scurato hanno già valutato la compatibilità della conclusione raggiunta con i principi costituzionali: "il legislatore ha operato evidentemente uno specifico bilanciamento di interessi, optando per una più pregnante limitazione della segretezza delle comunicazioni e della tutela del domicilio tenendo conto della eccezionale gravità e pericolosità, per la intera collettività, dei (particolari) reati oggetto di attività investigativa per l’acquisizione delle prove: bilanciamento che è sfociato, appunto, nella possibilità di effettuare, previa motivata valutazione del giudice, intercettazioni "tra presenti" in luoghi di privata dimora "a prescindere" dalla dimostrazione che essi siano sedi di attività criminose in atto e, quindi, senza alcuna necessità di preventiva individuazione ed indicazione dei luoghi stessi".
Proprio il contemperamento di valori ed interessi, operato dal legislatore nell’introdurre il D.L. n. 152 del 1991, art. 13, scongiura il pericolo che le intercettazioni domiciliari, in conseguenza della mobilità del dispositivo sede del captatore, possa entrare in conflitto con i principi costituzionali posti a tutela della segretezza delle comunicazioni, del domicilio e della riservatezza.
Le medesime Sezioni Unite si sono occupate anche della sintonia della vigente normativa, in materia di intercettazioni, con le direttive sovranazionali (in particolare l’art. 8 CEDU), e la conformità della stessa alla relativa giurisprudenza, sì da "escludere la ravvisabilità nell’art. 8 della CEDU, così come interpretato nella giurisprudenza della Corte di Strasburgo, di preclusioni riguardanti le intercettazioni effettuate mediante "captatore informatico" in procedimenti per delitti di criminalità organizzata".

2.3.2. Rispetto alla normativa vigente, le Sezioni Unite Scurato osservano che "nulla vieta che il giudice autorizzi, con provvedimento congruamente motivato in relazione a tutti i requisiti e presupposti richiesti, intercettazioni "tradizionali" nei confronti di un soggetto estendendo tale attività investigativa ad una pluralità di stanze dell’abitazione della persona intercettata o alle relative pertinenze. La peculiarità - e conseguente problematicità - dell’intercettazione di cui si discute, sta nel fatto che il soggetto intercettato può recarsi, portando con sé l’apparecchio elettronico nel quale è stato installato il "captatore", nei luoghi di privata dimora di altre persone, così dando luogo ad una pluralità di intercettazioni domiciliari".

Tale problema, però, non si pone nel caso di delitti di criminalità organizzata, poiché il legislatore ha dato una precisa e significativa indicazione laddove ha espressamente escluso, per le intercettazioni tra presenti in luoghi di privata dimora, disposte in procedimenti relativi a tali reati, il requisito autorizzativo che l’art. 266 c.p.p., comma 2, secondo periodo, richiede per tutte le altre intercettazioni.

2.3.3. Per quel che riguarda l’eventualità che lo strumento captativo in argomento possa consentire l’intercettazione di conversazioni di cui è vietata la captazione (come quelle tra imputato e suo difensore) o produrre, in casi estremi, esiti lesivi della dignità umana, va osservato che tali situazioni non possono incidere "a monte" sulla legittimità del decreto - poiché altrimenti si imporrebbe un requisito non previsto dalla legge - ma si riverberano, "a valle", sulla inutilizzabilità delle risultanze di "specifiche" intercettazioni che abbiano violato precisi divieti di legge o che, nelle loro modalità di attuazione e/o nei loro esiti, abbiano acquisito "in concreto" connotati direttamente lesivi della persona e della sua dignità.

2.3.4. Lo stesso ricorrente fornisce risposta ai dubbi sollevati sul principio di "non sostituibilità", laddove richiama le sentenze della Corte Costituzionale n. 135 del 2002 e quella delle Sezioni Unite Prisco (n. 26795 del 2006): il captatore informatico (come la videoregistrazione interessata da quelle pronunce) non è altro che uno strumento messo a disposizione dalla moderna tecnologia, attraverso il quale è possibile effettuare una intercettazione ambientale. Dunque non viene in rilievo una "prova atipica", nè un aggiramento delle regole della "prova tipica", poiché, già prima della entrata in vigore della specifica disciplina contenuta nel D.Lgs. n. 216 del 2017 (che invece ne estende l’applicabilità, a determinate condizioni, anche ai reati comuni), l’impiego del trojan horse, quale mezzo per eseguire la captazione di conversazioni tra presenti, era regolamentato dagli artt. 266, 267 e 271 c.p.p. - interpretati in senso restrittivo dalle Sezioni Unite Scurato, che hanno bandito tale strumento per tutti i reati comuni, al fine di scongiurare in radice il pericolo di una incontrollabile intrusione nella sfera privata delle persone - con la speciale deroga, nella specie operante, di cui al D.L. n. 152 del 1991, art. 13.
A differenza di quanto sostenuto dal ricorrente, la nuova normativa di cui al citato D.Lgs. n. 216 del 2017 non smentisce tale conclusione, ma anzi la conferma laddove disciplina l’utilizzo del captatore informatico nell’ambito dell’art. 266 c.p.p., comma 2, così prendendo atto che il "captatore informatico", lungi dal costituire un autonomo mezzo di ricerca della prova, è solo una particolare modalità tecnica per effettuare l’intercettazione delle conversazioni tra presenti.
2.3.5. Alla luce delle considerazioni che precedono, va escluso che il captatore informatico possa in inquadrarsi tra "i metodi o le tecniche" idonee ad influire sulla libertà di determinazione del soggetto, come tali vietati dall’art. 188 c.p.p. Il trojan horse non esercita alcuna pressione sulla libertà fisica e morale della persona, non mira a manipolare o forzare un apporto dichiarativo, ma, nei rigorosi limiti in cui sono consentite le intercettazioni, capta le comunicazioni tra terze persone, nella loro genuinità e spontaneità.
Di qui l’infondatezza del primo motivo, che si rivela, peraltro, manifestamente infondato nella parte in cui deduce ulteriori vizi di inutilizzabilità non previsti dalla legge.
Al riguardo va rammentato che il vizio di inutilizzabilità risponde ai paradigmi della tassatività e legalità, dal momento che è soltanto la legge a stabilire quali siano - e come si atteggino - i diversi divieti probatori (cfr. Corte Cost. sentenza n. 219 del 2019).
Le norme che introducono divieti probatori si atteggiano, nel sistema, alla stregua di norme eccezionali e di stretta interpretazione (cfr. Sez. U, n. 13426 del 25/03/2010, Cagnazzo).
3. Il quarto motivo è per un verso generico e per altro verso manifestamente infondato.
La disciplina dell’art. 267 c.p.p., comma 1, secondo cui il decreto che autorizza l’intercettazione tra presenti mediante inserimento di captatore informatico su dispositivo elettronico portatile deve indicare le ragioni che rendono necessaria tale modalità per lo svolgimento delle indagini, non era in vigore al momento della emissione dei decreti autorizzativi di cui si discute; essa, come detto (cfr. sopra paragrafo 2.1.) si applica ai procedimenti penali iscritti a decorrere dal 1 settembre 2020.
All’epoca dei fatti la norma non era in vigore, qualunque sia il significativo che le si voglia attribuire in punto di rafforzamento o meno dell’onere motivazionale.
Mentre le Sezioni Unite Scurato si sono limitate a sottolineare, da un lato, la necessità che "il giudice, nell’autorizzare le particolari intercettazioni di comunicazioni "tra presenti" rese possibili dall’uso dei "captatori informatici", motivi adeguatamente le proprie determinazioni" e, dall’altro lato, "l’esigenza che, nei rispetto dei canoni di proporzione e ragionevolezza a fronte della forza intrusiva del mezzo usato, la qualificazione, pure provvisoria, del fatto come inquadrabile in un contesto di criminalità organizzata, risulti ancorata a sufficienti, sicuri e obiettivi elementi indiziari".
Circa la sussistenza, nel caso in esame, della prima condizione ("motivazione adeguata"), il Tribunale del Riesame dà atto dell’assolvimento di tale onere motivazionale, compiendo una scrupolosa disamina del contenuto dei decreti autorizzativi (pagg. 6-10), con la quale il ricorrente evita di misurarsi.
Non sorgono dubbi sulla ricorrenza del secondo requisito, dato che il presente procedimento concerne i reati di associazione per delinquere di tipo mafioso (capo A) e di associazione per delinquere finalizzata al narcotraffico (capo C).
4. Consegue il rigetto del ricorso e la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
La cancelleria curerà gli adempimenti di cui all’art. 94 comma 1 ter disp. att. c.p.p..

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Manda alla cancelleria per gli adempimenti di cui all’art. 94 disp. att. c.p.p., comma 1 ter.