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Braci sotto la sabbia, comune condannato (Cass. 7362/19)

15 marzo 2019, Cassazione civile

Il Comune ha l'obbligo della rimozione dei rifiuti sugli arenili che rientrano nei perimetri urbani, competendo alla Regione quello relativo ai perimetri extraurbani, e se non lo fa deve rispondere dei danni. 

Si tratta allora della violazione di una cautela specifica, che non può dirsi, come ritiene il ricorrente inesigibile o rispetto alla quale il danno è dovuto al fortuito, in quanto la rimozione dei rifiuti non è stata adeguata, e non può ovviamente considerarsi imprevedibile la presenza di braci, anche se nascoste sotto sabbia, in un periodo in cui gli utenti dell'arenile sono soliti fare falò notturni. Invero la presenza delle braci è conseguenza del mancato rispetto della regola cautelare di pulire l'arenile, e perciò stesso non può considerarsi fatto imprevedibile ed inevitabile, posto che, pulendo adeguatamente, si sarebbe evitato il danno.

Nel diritto penale, rispetto ad alcuni reati, quelli che si dicono causalmente orientati, ossia nei quali il disvalore più che sulla condotta è basato sull'evento, l'agire equivale all'omettere; nel diritto civile l'omissione è spesso considerata meno grave dell'azione, e non equivale a quest'ultima. Il danno causato mediante omissione è risarcibile soltanto quando v'era un preciso obbligo di agire, e tale obbligo è stato violato.

Corte di Cassazione

sez. III Civile, sentenza 21 gennaio – 15 marzo 2019, n. 7362
Presidente Amendola - Relatore Cricenti

Fatti di causa

Il minore An. Vi., la mattina del 15.8.1999, sedendosi su un tratto di spiaggia del Comune di Castelvetrano, ha riportato ustioni causate da braci ancora ardenti, e nascoste sotto la sabbia, rimaste li dai falò accesi la sera precedente da ignoti.
I genitori, quali rappresentanti legali del minore, hanno agito sia nei confronti del Comune di Castelvetrano che della Capitaneria di Porto, assumendo la responsabilità di entrambi per i danni riportati dal figlio.
Il Comune ha chiesto ed ottenuto la chiamata in garanzia della ditta appaltatrice dei lavori di pulizia.
Il Tribunale, in primo grado, ha ritenuto responsabili sia la Capitaneria che il Comune di Castelvetrano, rigettando la domanda nei confronti della ditta appaltatrice.
Hanno proposto appello principale il Comune di Castelvetrano ed incidentale il Ministero delle Infrastrutture.

La Corte di appello ha accolto l'appello incidentale rilevando peraltro che la citazione era stata notificata alla Capitaneria di Porto che non ha soggettività giuridica, con conseguente nullità dell'atto introduttivo; ha invece rigettato l'appello principale ritenendo la responsabilità del Comune di Castelvetrano ai sensi dell'art. 2043 c.c..
Contro tale decisione propone ricorso per Cassazione il Comune di Castelvetrano con tre motivi di ricorso, cui resistono i coniugi Vi. e Ie. con controricorso. V'è altresì un controricorso del Ministero delle Infrastrutture, sebbene nei suoi confronti il ricorso non contenga domande di sorta.

Ragioni della decisione

1.- Con il primo motivo il ricorrente denuncia violazione degli articoli 2,3,8 D.P.R. n. 915/1982 e legge regionale n. 25 del 1993, nonché dell'art. 2043 c.c. e 1228 c.c.

In sostanza sostiene che la brace che ha provocato il danno era nascosta sotto la sabbia e che dunque non era possibile per gli addetti alla pulizia avvedersene, se non effettuando scavi che però il Comune, essendo la spiaggia bene non suo, ma demaniale, non poteva ovviamente realizzare da sé.

In sostanza, l'unico obbligo che il Comune ha è quello, stabilito per legge (I. n. 915 del 1982), di raccolta e smaltimento dei rifiuti, che non comprende quello di effettuare scavi o di bonificare l'arenile, attività che, al contrario, il Comune non può svolgere senza l'autorizzazione del Ministero proprietario.

E, si lascia intendere, la pulizia dalle braci di un falò presupporrebbe proprio un'attività di bonifica o di scavo per la quale il Comune dovrebbe farsi autorizzare.

Tutto ciò senza considerare che, al di là della violazione di una qualche regola cautelare, il fatto che ignoti avessero, alla fine del falò, nascosto la brace sotto la sabbia, e che la brace stessa, come emerso dalla istruttoria, non fosse visibile, rende fortuito l'incidente, con interruzione del nesso casale, o comunque impedisce di attribuirlo alla condotta del Comune.

Il motivo è infondato.

Intanto va chiarita quale sia la fattispecie di riferimento.

La corte di appello ha smentito la decisione di primo grado relativamente al criterio di imputazione, ritenendo che non si trattasse di responsabilità ex art. 2051 c.c., bensì del diverso titolo previsto dalla norma generale dell'art. 2043 c.c..

Questa qualificazione è corretta.

Infatti, il Comune di Castelvetrano non può considerarsi custode dell'arenile nel senso in cui la custodia è assunta dall'art. 2051 c.c..

Tale norma presuppone una situazione di controllo della cosa, indipendente da direttive o da autorizzazioni altrui.

Se è vero che la custodia non coincide con la proprietà o la titolarità di diritti reali, e ben può consistere in una situazione di fatto, è altresì vero però che deve trattarsi di un potere autonomo di controllo e gestione della cosa, perché solo tale autonomo potere giustifica l'obbligo di prevenzione dei danni riconducibili al bene custodito. Il Comune di Castelvetrano non ha, fatto pacifico, un potere siffatto sull'arenile, essendo incaricato soltanto della raccolta dei rifiuti, e dunque è privo di una relazione con la cosa, che possa giustificare l'applicazione di una regola di responsabilità che presuppone una certa utilità che il custode ricava dalla cosa e che giustifica l'inversione della prova a suo sfavore.

Ciò posto, e ritenuto che il titolo di imputazione è il divieto generale di non ledere di cui all'art. 2043 c.c., va operato un ulteriore chiarimento. Sia la sentenza che il ricorrente discorrono di omissione, ossia di condotta omissiva rispetto alla quale verificare quale fosse la condotta alternativa lecita, ossia quella condotta che, se posta in essere, avrebbe consentito di evitare l'evento. Il ricorrente esplicitamente eccepisce che, trattandosi di condotta omissiva, essa è rilevante solo quando costituisce la violazione di uno specifico obbligo di agire, che, nella fattispecie, non è dato in alcun modo ravvisare.

In sostanza, il Comune riconduce la fattispecie alla omissione in senso stretto, che presuppone uno specifico obbligo di agire a beneficio altrui.

Questa impostazione è frutto di una (in parte diffusa) confusione tra omissioni in senso stretto e cosiddette omissioni nell'azione. Ogni condotta colposa è caratterizzata da una omissione, ossia dal mancato rispetto di regole cautelari. Ciò non significa però che si tratti di una condotta omissiva, ossia che il danno è causato da una omissione. Si tratta piuttosto di una condotta attiva caratterizzata dall'omesso rispetto delle regole cautelari proprie.
La colpa, è da un punto di vista strutturale, una omissione. Essa consiste nel mancato rispetto di regole di prudenza, perizia, diligenza. Chi agisce con colpa omette di osservare regole di prudenza. Chi non si ferma allo stop, è in colpa perché ha omesso di osservare un segnale stradale. Tuttavia, altro è l'omesso rispetto di una regola cautelare, che, secondo una terminologia francese, è una omissione "nell'azione", altro è l'omissione in senso stretto. Altrimenti, se non si chiarisce questa distinzione, ogni condotta attiva colposa rischia, come è avvenuto nel caso presente, di essere trattata come condotta omissiva, a cagione dell'omesso rispetto di una regola cautelare.
In sostanza la condotta colposa è una condotta attiva caratterizzai dall'omesso rispetto di regole cautelari. Invece l'omissione propria è caratterizzata dall'omesso rispetto di un obbligo di agire a beneficio altrui (ad esempio, l'omissione di soccorso). E pertanto chi investe un passante non essendosi fermato allo stop non causa il danno per omissione, ma lo causa mediante una condotta attiva colposa, caratterizzata dall'omesso rispetto di regole cautelari.
Tra le due figure (condotta attiva colposa, e condotta omissiva propria) v'è una certa differenza di disciplina, che equivale alla differenza tra l'agire e l'omettere.
Nel diritto penale, rispetto ad alcuni reati, quelli che si dicono causalmente orientati, ossia nei quali il disvalore più che sulla condotta è basato sull'evento, l'agire equivale all'omettere, nel senso che è la stessa cosa se l'evento (ad esempio la morte della vittima) è volontariamente causato agendo (sparare a taluno) anziché omettendo (volontariamente lasciar morire di fame il neonato) (art. 40 c.p.). Invece nel diritto civile l'omissione è spesso considerata meno grave dell'azione, e non equivale a quest'ultima. Il danno causato mediante omissione è risarcibile soltanto quando v'era un preciso obbligo di agire, e tale obbligo è stato violato (Cass. 12.3.2012, n. 3876).
Si ritiene infatti comunemente che nessuno può essere genericamente tenuto a salvaguardare i diritti altrui, e dunque ad agire per impedire che subiscano danno. Un simile dovere generale di attivarsi a beneficio dei terzi sarebbe eccessivo e limiterebbe oltremodo la libertà dei singoli.

Così, quale esempio di omissione in senso proprio può citarsi il caso di colui che, potendo impedire che un incendio attinga la proprietà del vicino, semplicemente chiamando i vigili del fuoco, non lo fa.

In questo caso il danno che il vicino avrebbe potuto evitare non è l'esito di un'azione colposa (ossia caratterizzata da violazione di regole cautelari) ma di una omissione in senso proprio, per giudicare la illiceità della quale occorre stabilire se vi fosse un obbligo di agire a tutela del diritto altrui.

Nella fattispecie presente dunque il danno di cui si discute non è causato da una omissione in senso proprio, bensì da una condotta attiva (la difettosa pulizia dell'arenile) caratterizzata dall'omesso rispetto di una regola cautelare: quella di pulire adeguatamente l'arenile dai rifiuti. Con la conseguenza che non si può discutere della esistenza di un obbligo di agire a beneficio altrui, ma si deve discutere di violazione, nell'ambito di una condotta attiva, e non omissiva, delle regole cautelari proprie di quell'azione.

Il Comune, in base agli articoli 2,3,8 del D.P.R. n. 915/ 1982 ed alla legge regionale n. 25 D/ 1993, nonché al D.Lgs. 22/ 1997 ha l'obbligo della rimozione dei rifiuti sugli arenili che rientrano nei perimetri urbani, competendo alla Regione quello relativo ai perimetri extraurbani (vedi il precedente in termini Cass. 20731/ 2016).

Si tratta allora della violazione di una cautela specifica, che non può dirsi, come ritiene il ricorrente inesigibile o rispetto alla quale il danno è dovuto al fortuito, in quanto la rimozione dei rifiuti non è stata adeguata, e non può ovviamente considerarsi imprevedibile la presenza di braci, anche se nascoste sotto sabbia, in un periodo in cui gli utenti dell'arenile sono soliti fare falò notturni. Invero la presenza delle braci è conseguenza del mancato rispetto della regola cautelare di pulire l'arenile, e perciò stesso non può considerarsi fatto imprevedibile ed inevitabile, posto che, pulendo adeguatamente, si sarebbe evitato il danno.

Né il Comune può assumere di non essere tenuto a rimuovere le braci residue di un falò, avendo, in tal caso, bisogno di una apposita autorizzazione regionale, come se quella rimozione fosse uno scavo. La brace lasciata da chi ha acceso il falò è in realtà un rifiuto solido il cui smaltimento rientra negli obblighi del Comune, e la sua rimozione non presuppone attività di scavo o di bonifica, per le quali il Comune necessita di autorizzazione.

2.- Con il secondo motivo il ricorrente denuncia violazione dell'art. 4 della legge 2248/ 865 allegato E.
Secondo il ricorrente la corte di appello avrebbe violato i limiti interni alla giurisdizione sindacando e dichiarando illegittimo un atto amministrativo, quale il fatto di non aver chiesto alla Regione l'autorizzazione allo scavo, così compiendo un sindacato della discrezionalità dell'attività amministrativa. Il motivo è però infondato in quanto non coglie la ratio della decisione impugnata, la quale non va affatto a sindacare l'attività amministrativa comunale. La corte di appello in realtà ritiene che non era necessario giungere alla richiesta di autorizzazione alla Regione per usare mezzi meccanici utili ad effettuare il servizio di pulizia. E ciò fa per prevenire una obiezione del Comune, dicendo che se anche, per effettuare la pulizia fossero stati necessari mezzi meccanici, ciò non avrebbe significato l'onere di chiedere l'autorizzazione, poiché l'uso di mezzi meccanici è strumentale alla raccolta dei rifiuti.

La Corte di merito ha cura, in sostanza, di fare questa precisazione per evitare che la difesa cada sulla impossibilità giuridica (occorrendo autorizzazione allo scavo) di rimuovere la brace. Non v'è dunque sindacato su un'attività amministrativa discrezionale, ma giudizio su un'attività materiale, non diligentemente eseguita.

3.- Con il terzo motivo il ricorrente denuncia violazione dell'art. 2051 c.c., ritenendo non pertinente il titolo di imputazione previsto da questa norma in quanto il Comune non ha la custodia dell'arenile, che appartiene al demanio, e dunque al Ministero.
Anche questo motivo non coglie la ratio della decisione impugnata, che, come si è visto, ritiene applicabile alla fattispecie non già l'art. 2051 c.c., ma l'art. 2043 c.c. e che solo in base a tale ultima norma ha ritenuto la responsabilità dell'ente pubblico, senza fare questione di custodia.
V'è infine da rilevare che il ricorso è stato notificato anche al Ministero delle Infrastrutture, ma senza proporre domanda alcuna nei suoi confronti.
Il ricorso va pertanto respinto e le spese seguono la soccombenza.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese di lite nella misura di Euro 7800,00, oltre accessori se dovuti. Compensa le spese nei confronti del Ministero delle Infrastrutture, dando atto della sussistenza dei presupposti per il doppio del contributo unificato.