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Aver praticato pugilato incide su dolo omicidiario (Cass. 11985/25)

26 marzo 2025, Cassazione penale

Va condannato per omicidio volontario e non omicidio preterintenzionale chi abbia colpito con una tecnica appresa da pugile (sequenza di pugni al volto): c'è infatto consapevolzza della micidialità dell'aggressione (con accettazione del rischio dell'evento mortale) nel fatto di chi si scagli con la massima intensità contro il volto della vittima, neutralizzandola e conseguentemente facendola stramazzare al suolo, costituita da una superficie rigida – non trovandosi in un ring – e con spigoli; ciò anche per la zona vitale attinta, ossia il volto (tutta la parte anatomica che va dal setto nasale a salire, quindi, verso la tempia), essendovi comunque la possibilità che vengano causate emorragie interne; la modalità con cui i colpi sono stati infert usando appunto  una tecnica replicabile solo da chi conosce le tecniche fondamentali di combattimento, tanto da assumere una posizione di guardia e mantenere una certa distanza dalla vittima in modo da sferrare pugni alla massima potenza, come emerso dalla dinamica fattuale interamente ripresa dalle telecamere e analizzata da un esperto di tecniche di combattimento. Rileva altresì la condotta post delictum tenuta dall'uomo, il quale, una volta sferrati i colpi micidiali e pur avendo avuto modo di percepire che il rivale era caduto inerme al suolo, si allontanava con freddezza, senza mostrare alcun tipo di preoccupazione.

L'aggravante della minorata difesa va valutata caso per caso valorizzando situazioni che abbiano ridotto o comunque ostacolato la capacità di difesa della parte lesa, agevolando in concreto la commissione del reato, con ad esempio quando il fatto sia stato commesso da un soggetto particolarmente esperto nell'arte del combattimento, il quale improvvisamente colpiva la vittima, la quale non era vigile o pronta nell'attuare anche una minima difesa poiché colta di sorpresa. Oltre alle capacità tecniche possedute, idonee ad integrare quella particolare condizione da cui il medesimo ha tratto vantaggio nell'esecuzione del delitto, anche il contesto in cui avveniva l'aggressione contribuiva a delineare una situazione di difficoltà per la vittima, che, nel momento in cui era colpita, si trovava in una via stretta e buia.

Corte di Cassazione 

sez. I penale

 ud. 10 gennaio 2025 (dep. 26 marzo 2025), n. 11985
Presidente De Marzo - Relatore Di Giuro

Ritenuto in fatto

1. La Corte di assise di appello di Bari con la sentenza in esame ha confermato la sentenza in data 12 giugno 2023 della Corte di assise di Bari, che dichiarava G.F. responsabile del delitto di omicidio volontario di P.C., aggravato dai futili motivi e dall'aver commesso il fatto attraverso l'uso di tecniche di combattimento tali da ostacolare la privata difesa, e concesse le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle contestate aggravanti, lo condannava alla pena complessiva di anni ventuno di reclusione e alle pene accessorie, ordinando l'applicazione nei suoi confronti, a pena espiata, della misura di sicurezza della libertà vigilata per anni tre.

1.1 Nelle prime ore del mattino del (OMISSIS) era avvenuto uno scambio di provocazioni verbali tra T.A., compagno di C., e P.B., amico dell'imputato, all'interno della sala slot di un'area di servizio. Poco dopo, C. e T.A. avevano deciso di portarsi all'esterno del locale, sedendosi sotto il gazebo, alle spalle delle compagne di G.F. e del suo amico B., le quali avevano chiesto loro di spostarsi. I due erano sembrati accondiscendenti alla richiesta delle donne, ma C., dopo aver confabulato con T.A., si era diretto nuovamente verso il gazebo. G.F. avendo attribuito, come dal medesimo riferito, al gesto valenza provocatoria, aveva sferrato più pugni al volto di C., che, caduto a terra, aveva sbattuto la testa contro il marciapiede, morendo per emorragia encefalica.

2. Avverso detta sentenza propone ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, G.F..

2.1. Con il primo motivo di impugnazione viene denunciata inosservanza di legge in relazione all'art. 584 cod. pen., per l'erronea qualificazione del fatto nell'ipotesi prevista dall'art. 575 cod. pen.

La difesa rileva la contraddittorietà e l'illogicità di entrambe le sentenze di merito con riferimento alla qualificazione giuridica del fatto come omicidio volontario guidato dal dolo eventuale, ritenendo, invece, che si tratti di omicidio preterintenzionale, connotato da dolo di percosse e lesioni.

Il difensore lamenta la mancata valutazione delle dichiarazioni dell'imputato, dalle quali emerge che la sua condotta non era diretta ad uccidere, avendo questi colpito con soli quattro pugni la vittima nei confronti della quale non nutriva alcun pregresso sentimento di ostilità, ma consisteva in una mera reazione ad un atteggiamento provocatorio posto in essere dalla medesima insieme al suo compagno T.A..

Si duole, inoltre, del travisamento delle testimonianze dei consulenti del P.m. e della conseguente erronea convinzione della Corte di assise di appello, secondo cui l'imputato avrebbe praticato nei confronti di C. colpi non consentiti di arti marziali e non, invece, quattro pugni in zone del corpo non vietate poiché non letali.

Rileva il difensore che un pugile con una volontà omicidiaria, agendo in danno di una vittima inconsapevole dei suoi intenti, avrebbe colpito nelle zone "proibite", come la "fascia del moicano", e non nelle aree consentite, quali la regione del naso, sottozigomatica e buccale, come quelle effettivamente attinte.

Lamenta che la Corte di assise di appello è inciampata in un error in iudicando nel ritenere che un presunto esperto di boxe, quale l'imputato, che, invece, come da sua ammissione non aveva mai gareggiato e da intercettazione ambientale risultava avere seguito solo tre/quattro lezioni di boxe, non potesse non essersi rappresentato come conseguenza altamente probabile del suo agire l'evento morte.

Osserva, invero, il difensore che tale assunto non si confronta con le emergenze processuali, tra cui l'accertata causa della morte, risultando C. deceduto per le emorragie celebrali determinate da multiple fratture craniche a seguito della caduta al suolo, a dimostrazione del fatto che i pugni sferrati al volto non erano idonei a cagionarne direttamente il decesso.

Rileva la difesa che le stesse modalità del fatto storico lo conducono nell'alveo dell'omicidio preterintenzionale dal momento che: - la condotta posta in essere da G.F. fu del tutto repentina e impulsiva e, quindi, non ragionata; - l'imputato, seppure a conoscenza delle nozioni rudimentali della boxe, non sferrò colpi tipici delle arti marziali, ma una sola sequenza di quattro pugni.

Si duole, inoltre, il difensore che la Corte d'assise di appello non si sia confrontata con le intercettazioni tra l'imputato e i suoi familiari, dalle quali emerge l'animus di G.F., il quale non aveva l'intenzione di uccidere ma unicamente di aggredire fisicamente C..

2.2. Con il secondo motivo di impugnazione viene denunciato vizio di motivazione e travisamento della prova.

In particolare, la difesa fa leva sul dato oggettivo costituito dal fatto che le zone colpite da G.F. non fossero zone letali e che, dunque, non fosse prevedibile l'evento fatale da parte dell'imputato.

Si duole, inoltre, del travisamento della prova - laddove la Corte ha ritenuto di modesta entità il valore di tasso alcolemico riscontrato nel C., pari a 1,74 grammi per litro, in contrapposizione a quanto ritenuto dalla legge stessa, così come sancito dall'art. 186 lett. c) del Codice della strada - e del conseguente ragionamento della Corte che esclude che la caduta al suolo sia attribuibile al suo stato di alterazione psicofisica.

2.3. Con il terzo motivo di impugnazione la difesa lamenta vizio di motivazione in relazione agli artt. 577, n. 4, e 61, n. 5, cod. pen. e travisamento della prova.

Il difensore denuncia un travisamento della prova in relazione alla sussistenza dell'aggravante dei futili motivi, dal momento che la causa dell'azione non poteva essere considerata un mero pretesto o una scusa per l'imputato di dare sfogo al suo impulso criminale.

A tale riguardo osserva che a scatenare la reazione di G.F. non era stato solo il fatto che T.A. e C. si fossero seduti alle spalle delle loro compagne, bensì il comportamento provocatorio dei medesimi, iniziato nella sala slot e culminato nel passaggio di C. lungo il gazebo, dove questi avrebbe lanciato uno sguardo alla comitiva e proferito al loro indirizzo alcune parole non decifrate.

Pertanto, osserva la difesa che la determinazione criminosa, diretta a provocare lesioni, sia stata causata da uno stato d'ira ingenerato nell'imputato.

Si duole, inoltre, del travisamento della prova in base al quale la Corte territoriale, da un lato, ha individuato una condotta vagamente provocatoria e, dall'altro, ha escluso che tale iniziativa potesse essere stata realizzata da C. quando, invece, sempre a detta della difesa, emergerebbe dai filmati che la vittima avesse "prestato il fianco" ad T.A. con cui vi era stato l'alterco iniziale.

La difesa rileva che tale situazione di forte conflittualità, vissuta dall'imputato con esasperazione, sia stata relegata dalla motivazione della sentenza sullo sfondo della vicenda, dando rilievo decisivo al riconoscimento dei futili motivi, di per sé incompatibili con l'attenuante della provocazione.

Ritiene che nel caso di specie siano stati l'ira, la gelosia e l'orgoglio ad influire sulla causalità psicologica che ha determinato l'imputato ad agire di impulso con un'aggressione proporzionata all'offesa ricevuta (avendo colpito la vittima con quattro pugni), in antitesi ai criteri ispiratori dell'aggravante dei futili motivi.

Il difensore si duole, inoltre, della mancata considerazione delle doglianze difensive in relazione all'esclusione dell'aggravante dei futili motivi in ragione del mancato e nebuloso accertamento del movente, non potendo l'ambiguità probatoria sul punto ritorcersi in danno dell'imputato.

Lamenta, altresì, la mancata esclusione da parte della Corte territoriale dell'aggravante della minorata difesa, secondo cui l'imputato avrebbe approfittato dell'effetto sorpresa.

Rileva la difesa che nel caso di specie: - C. non era ignaro quando si dirigeva sotto il gazebo, dove sostavano l'imputato e i suoi amici, venendovi mandato appositamente da T.A.; - l'imputato aveva dapprima attirato l'attenzione della vittima, per poi successivamente aggredirla, non prendendola alle spalle ma affrontandola di petto.

Infine, il difensore si duole del diniego del giudizio di prevalenza delle attenuanti generiche sulle aggravanti contestate, nonostante il perdono chiesto dall'imputato ai familiari della vittima in sede di dichiarazioni spontanee alla fine del giudizio di primo grado e comunque il comportamento del medesimo che, subito dopo il fatto, si è costituito presso la Stazione dei carabinieri di (OMISSIS).

Per tutti i summenzionati motivi la difesa chiede l'annullamento della sentenza impugnata.

Considerato in diritto

1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.

1.1. Infondati sono il primo e il secondo motivo di impugnazione.

Il ricorrente, nel dolersi della qualificazione giuridica del fatto come omicidio volontario guidato dal dolo eventuale, invece che come omicidio preterintenzionale connotato dal dolo di percosse e lesioni, ripercorre argomenti già affrontati dalla pronuncia impugnata.

Quest'ultima, invero, muove dagli indicatori del dolo eventuale, cristallizzati dalla pronuncia delle Sezioni Unite del 18 settembre 2014, n.38343, Thyssenkrupp, che contribuiscono ad orientare la scelta del giudice nel compito di verificare la sussistenza dell'elemento volitivo in capo al soggetto agente.

Sul punto, l'iter argomentativo della pronuncia impugnata è scevro da vizi logici e giuridici.

Fa leva: a) sulla pregressa esperienza dell'agente, avendo, invero, l'imputato praticato la boxe dai 13 ai 17 anni e, quindi, agito, nel caso in esame, nella consapevolezza che, scagliandosi con la massima intensità contro il volto di C., questi sarebbe stato neutralizzato e conseguentemente sarebbe stramazzato al suolo, cadendo - non trovandosi in un ring - su una superficie rigida e con spigoli; b) sulla zona vitale attinta, avendo G.F. colpito la vittima al volto, che rappresenta senza alcun dubbio una zona vitale, come precisato anche dal consulente del Pubblico ministero, che ha chiarito che tutta la parte anatomica che va dal setto nasale a salire, quindi verso la tempia, va ritenuta punto vitale, essendovi comunque la possibilità che vengano causate emorragie interne; c) sulla modalità con cui i colpi sono stati inferti, avendo il prevenuto posto in essere una sequenza di colpi - ben quattro pugni di cui conosceva la micidialità - e, quindi, usato una tecnica replicabile solo da chi conosce le tecniche fondamentali di combattimento, tanto da assumere una posizione di guardia e mantenere una certa distanza dalla vittima in modo da sferrare pugni alla massima potenza, come emergente dalla dinamica fattuale interamente ripresa dalle telecamere e analizzata dal teste M.Z. (esperto di tecniche di combattimento in servizio presso la Polizia di Stato); d) sulla condotta post delictum di G.F., che, una volta sferrati i colpi micidiali e pur avendo avuto modo di percepire che il rivale era caduto inerme al suolo, si allontanava con freddezza, senza mostrare alcun tipo di preoccupazione.

Elementi, tutti, in grado, secondo la Corte a qua, di svelare nitidamente la sussistenza sia dell'elemento rappresentativo che volitivo dell'accettazione del rischio dell'evento mortale.

La pronuncia si confronta anche con la tesi difensiva secondo cui l'intenzione dell'imputato sarebbe stata di intimorire fisicamente il rivale per porre fine alle precedenti tensioni sorte tra i due, osservando che tale ipotesi si scontra con le menzionate circostanze di segno contrario, in quanto, se davvero così fosse stato, G.F. non avrebbe assunto una strategica posizione di guardia o mirato al volto, ma avrebbe certamente moderato l'intensità dei colpi o quantomeno li avrebbe indirizzati a zone non vitali.

Rileva, poi, la sentenza che anche la circostanza evidenziata dalla difesa secondo cui i colpi inferti non sono vietati in assoluto nelle attività di combattimento appare irrilevante in quanto, come ribadito dall'esperto sentito in dibattimento, i colpi eseguiti dall'imputato sono categoricamente vietati al di fuori del ring, poiché, essendo finalizzati al ko tecnico dell'avversario, rappresentano un rischio per l'incolumità. Invero, sottolinea che il decesso, nonostante sia avvenuto per emorragia encefalica legata alle fratture craniche, si pone come conseguenza altamente probabile dell'agire del prevenuto, il quale accettava il rischio che C., che aveva già perso conoscenza e, quindi, non aveva attivato alcun meccanismo di difesa, urtasse contro un piano rigido.

La sentenza, dunque, evidenzia come, alla luce degli elementi suddetti, si possa affermare che l'imputato non si sarebbe trattenuto dal porre in essere la condotta illecita, neppure se avesse avuto contezza della sicura verificazione dell'evento morte.

Infondata è anche la censura secondo cui la Corte di assise di appello sarebbe incorsa in un travisamento della prova. Ci si riferisce, in particolare, al dato secondo cui C. non avrebbe attivato alcun meccanismo di difesa poiché sotto l'effetto di sostanze alcoliche.

La Corte territoriale, a tale riguardo, ricorda che, il tasso alcolemico riscontrato nella persona offesa, pari a 1,74 grammi per litro, non è in grado, generalmente, di compromettere la stabilità motoria di una persona e che, nel caso in esame, appaiono dirimenti le immagini delle video riprese che confermano che la vittima, prima dell'aggressione, non manifestava anomalie di carattere motorio, come perdita di equilibrio o rallentamento dei riflessi.

È, quindi, evidente che nel caso in esame la Corte territoriale, diversamente da quanto infondatamente lamentato dal difensore, non è incorsa in alcun vizio motivazionale anche come travisamento probatorio. E ciò con riguardo altresì alle dichiarazioni dell'imputato di non essere un esperto pugile per non avere mai gareggiato, su cui si continua ad insistere in questa sede, assolutamente generiche, al pari del riferimento ad una intercettazione ambientale non individuata né documentata, a fronte delle evidenze probatorie valorizzate dalla Corte a qua sopra ripercorse.

1.2. In parte infondato e in parte inammissibile è il terzo motivo di impugnazione.

Infondata è la censura sui futili motivi.

Il ricorrente ripropone argomentazioni sulle quali la pronuncia impugnata ha dato un'adeguata e non manifestamente illogica risposta, che tiene conto sia del compendio probatorio, che dell'orientamento prevalente della giurisprudenza di legittimità, dal quale questa Corte non intende discostarsi.

Orientamento, secondo cui sussiste la circostanza aggravante dei futili motivi ove la determinazione criminosa sia stata indotta da uno stimolo esterno di tale levità, banalità e sproporzione, rispetto alla gravità del reato, da apparire, secondo il comune modo di sentire, assolutamente insufficiente a provocare l'azione criminosa e da potersi considerare, più che una causa determinante dell'evento, un mero pretesto per lo sfogo di un impulso criminale (si veda, per tutte, Sez. 5, n. 25940 del 30/06/2020, M., Rv. 280103 - 02).

Orbene, l'iter argomentativo della pronuncia impugnata sul punto è scevro da vizi logici e giuridici.

Si evidenzia, invero, come la condotta perpetrata da G.F. ai danni della vittima non sia stata altro che l'occasione e il pretesto per dare sfogo ad istinti violenti del suddetto, come dimostrato anche dal contenuto delle conversazioni intercettate durante i colloqui in carcere con la moglie V., in cui l'imputato riconduce l'azione commessa alla sua sfera caratteriale e non ad un eventuale fatto ingiusto subito.

La Corte, a tale riguardo, osserva che: - la ragione che ha portato l'imputato ad aggredire la vittima con tale violenza era a dir poco banale e originata da una prima provocazione verbale espressa da T.A. contro B., in un frangente in cui C. non era nemmeno presente; - l'unica colpa di C. era da ricondursi alla scelta di portarsi presso il gazebo e di rivolgere un ipotetico sguardo all'imputato, percepito da costui come provocatorio; - tali gesti non sono in grado di costituire una ragione valida o quantomeno proporzionata al crimine commesso. E richiama una condivisibile pronuncia di legittimità, secondo cui anche un precedente contatto fisico, come una spinta, non è in grado di fondare un motivo serio per giustificare una violenta aggressione (Sez. 5, n. 45138 del 27/06/2019, Vetuschi, Rv. 277641: fattispecie relativa alle lesioni aggravate procurate alla vittima con un pugno, a seguito della spinta che l'agente asseriva di aver ricevuto nel contesto di una partita amatoriale di calcetto).

Infondata è anche la doglianza sulla circostanza aggravante della minorata difesa.

La Corte di assise di appello, dopo avere evidenziato che, conformemente a costante giurisprudenza di legittimità, la circostanza aggravante della minorata difesa va valutata caso per caso valorizzando situazioni che abbiano ridotto o comunque ostacolato la capacità di difesa della parte lesa, agevolando in concreto la commissione del reato, fornisce una motivazione adeguata sul punto, spiegando perché detta aggravante nel caso in esame vada riconosciuta.

Invero, sottolinea che: - il fatto è stato commesso da un soggetto particolarmente esperto nell'arte del combattimento, il quale improvvisamente colpiva la vittima, la quale non era vigile o pronta nell'attuare anche una minima difesa poiché colta di sorpresa; - oltre alle capacità tecniche possedute, idonee ad integrare quella particolare condizione da cui il medesimo ha tratto vantaggio nell'esecuzione del delitto, anche il contesto in cui avveniva l'aggressione contribuiva a delineare una situazione di difficoltà per la vittima, che, nel momento in cui era colpita, si trovava in una via stretta e buia.

Inammissibile, infine, è la censura sul giudizio di bilanciamento tra le attenuanti generiche e le aggravanti contestate, in quanto in fatto e reiterativa, a fronte delle argomentazioni della sentenza impugnata, che escludono la prevalenza delle circostanze attenuanti sulle circostanze aggravanti, facendo leva sulla estrema lucidità e spregiudicatezza con cui l'imputato ha agito, sintomatiche di una grave disinvoltura criminale, confermata anche dalle intercettazioni in cui il predetto disvelava la propria personalità istintivamente violenta, e tali da non consentire di valorizzare il suo stato di incensuratezza; nonché sull'assenza di manifestazioni di resipiscenza per quanto accaduto - anche attraverso un concreto comportamento riparatorio - e sull'atteggiamento processuale volto a sminuire la gravità dei gesti commessi.

Invero, la valutazione attinente ad aspetti che rientrano nel potere discrezionale del giudice di merito, esercitato congruamente, logicamente ed anche in coerenza con il principio di diritto secondo il quale l'onere motivazionale da soddisfare non richiede necessariamente l'esame di tutti i parametri fissati dall'art. 133 cod. pen., si sottrae alle censure che reclamino una rivalutazione in fatto di elementi già oggetto di valutazione ovvero la valorizzazione di elementi che si assume essere stati indebitamente pretermessi nell'apprezzamento del giudice impugnato.

2. Al rigetto del ricorso consegue, ai sensi dell'art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.

L'imputato va, altresì, condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalle parti civili ammesse al patrocinio a spese dello stato, B. L., P. R. I., C. T., nella misura che sarà liquidata dalla Corte di assise di Bari, con separato decreto di pagamento ai sensi degli artt. 82 e 83 d.P.R. 115/2002, disponendo il pagamento in favore dello Stato. Va, infine, condannato alla rifusione delle spese di rappresentanza e difesa sostenute nel presente giudizio dalla parte civile C. A., che si ritiene equo liquidare, in considerazione dell'impegno professionale profuso, come da dispositivo.

P.Q.M.

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.