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Abuso del diritto e termini a difesa (Cass., 155/12)

10 gennaio 2012, Cassazione penale

Si parla di abuso degli strumenti difensivi del processo penale per ottenere non garanzie processuali effettive o realmente più ampie, ovvero migliori possibilità di difesa, ma una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali.

E' oramai acquisita una nozione minima comune dell'abuso del processo che riposa sull'altrettanto consolidata e risalente nozione generale dell'abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell'utilizzazione per finalità oggettivamente non già solo diverse ma collidenti ("pregiudizievoli") rispetto all'interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto.

Il carattere generale del principio dipende dal fatto che ogni ordinamento che aspiri a un minimo di ordine e completezza tende a darsi misure, per così dire di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pure a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, ovvero eccessiva e distorta.

Sicchè l'esigenza di individuare limiti agli abusi s'estende all'ordine processuale e trascende le connotazioni peculiari dei vari sistemi, essendo ampiamente coltivata non solo negli ordinamenti processuali interni, ma anche in quelli sovrannazionali. E viene univocamente risolta, a livello normativo o interpretativo, nel senso che l'uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, rivolto alla realizzazione di un vantaggio contrario allo scopo per cui il diritto stesso è riconosciuto, non ammette tutela.

Alla luce della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, l'abuso del processo consiste, dunque, in un vizio, per sviamento, della funzione; ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all'esercizio di diritti potestativi, in una frode alla funzione.

E quando si realizza uno sviamento o una frode alla funzione, l'imputato che ha abusato dei diritti o delle facoltà che l'ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti.

La procedura penale prevede la concessione di un congruo termine a difesa, con riferimento alle situazioni di difensore nominato d'ufficio o di fiducia in sostituzione del precedente nei casi di "rinunzia, revoca o incompatibilità": non vi è una specifica sanzione di nullità in caso di sua violazione ma la violazione determina, secondo orientamenti consolidati, una nullità a regime intermedio in forza della norma generale posta dall'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), in quanto incide sull'assistenza dell'imputato.

Sicchè non può dare luogo a nullità alcuna il diniego di termini a difesa o la concessione di termini a difesa ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108 c.p.p., comma 1, quando nessuna lesione o menomazione ne derivi, in assoluto, all'esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica.

L'uso arbitrario trasmoda poi in patologia processuale, dunque in abuso, quando l'arbitrarietà degrada a mero strumento di paralisi o di ritardo e il solo scopo è la difesa dal processo, non nel processo: in contrasto e a pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento e di ciascuna delle parti a un giudizio equo celebrato in tempi ragionevoli.

In questo caso non soltanto la norma non legittima ex post eccezioni di nullità, ma va escluso, in radice, che il diritto in essa previsto possa essere riconosciuto.

Nè il rigetto della richiesta finale di termini a difesa nè i rinvii per un numero di giorni inferiori rispetto a quelli indicati dall'art. 108 c.p.p. producono alcuna nullità se non hanno determinato una reale lesione del diritto di difesa dell'imputato o di altri sui diritti fondamentali.

La regola per cui il termine stabilito a giorni, il quale scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno successivo non festivo, posta nello specifico dall'art. 172 c.p.p., comma 3, si applica anche agli atti e ai provvedimenti del giudice, e si riferisce perciò anche al termine per la redazione della sentenza.

Nei casi in cui, come nell'art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c), è previsto che il termine assegnato per il compimento di una attività processuale decorra dalla scadenza del termine assegnato per altra attività processuale, la proroga di diritto del giorno festivo in cui il precedente termine venga a cadere al primo giorno successivo non festivo, determina lo spostamento altresì della decorrenza del termine successivo con esso coincidente. Tale situazione non si verifica ove ricorrano cause di sospensione quale quella prevista per il periodo feriale che, diversamente operando per i due termini, comportino una discontinuità in base al calendario comune tra il giorno in cui il primo termine scade e il giorno da cui deve invece calcolarsi l'inizio del secondo.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONI UNITE PENALI

(ud. 29/09/2011) 10-01-2012, n. 155

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. LUPO Ernesto Presidente

Dott. COSENTINO Giuseppe M. Consigliere

Dott. SQUASSONI Claudia Consigliere

Dott. PAGANO Filiberto Consigliere

Dott. SIOTTO Maria Cristina Consigliere

Dott. MARASCA Gennaro Consigliere

Dott. CORTESE Arturo Consigliere

Dott. ROMIS Vincenzo Consigliere

Dott. DI TOMASSI Mariastefania rel. Consigliere

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sui ricorsi proposti da:

1. R.A., nato ad (OMISSIS);

2. M.O., nato ad (OMISSIS);

avverso la sentenza del 12/02/2009 della Corte di appello di Roma;

visti gli atti, la sentenza impugnata e i ricorsi;

udita la relazione svolta dal consigliere Dott. DI TOMASSI Mariastefania;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Procuratore Generale Aggiunto Dott. CIANI Gianfranco, che ha concluso chiedendo che, qualificati i fatti di cui al capo A) dell'imputazione come abuso d'ufficio, i ricorsi siano rigettati;

uditi per la parte civile San Paolo IMI s.p.a. e per la parte civile Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. gli avvocati DTG e e MT, che hanno concluso chiedendo il rigetto dei ricorsi e la condanna degli imputati al rimborso delle spese sostenute nel presente giudizio, come da conclusioni e note spese depositate;

uditi per gli imputati ricorrenti gli avvocati SC e BG, per R., e BI per M., che hanno concluso chiedendo l'accoglimento dei rispettivi ricorsi.

Svolgimento del processo


1. Con sentenza del 27 settembre 2007 il Tribunale di Roma dichiarava R.A. e M.O. responsabili del reato continuato di truffa aggravata e tentata truffa aggravata loro ascritto al capo A), commesso sino al (OMISSIS), e il R. anche del reato di tentata estorsione a lui ascritto al capo B), commesso il (OMISSIS), e, riconosciute al solo M. le circostanze attenuanti generiche equivalenti alle aggravanti, ritenuta la continuazione fra i fatti di cui ai capi A) e B), condannava: R. alla pena di quattro anni di reclusione e di 1.500,00 Euro di multa, con interdizione dai pubblici uffici per cinque anni; M. alla pena, condizionalmente sospesa, di due anni di reclusione e di 1.000,00 Euro di multa. Condannava inoltre i due imputati al pagamento in solido delle spese processuali e al risarcimento dei danni, da liquidare in separato giudizio, nei confronti delle parti civili San Paolo IMI s.p.a., Banco di Napoli s.p.a. e Rete Ferroviaria Italiana s.p.a., assegnando provvisionali di 50.000,00 Euro in favore di ciascuna.

Secondo la contestazione al capo A), il R., quale legale di quindici dipendenti delle Ferrovie dello Stato, in favore dei quali il pretore di Napoli aveva emesso sentenza di condanna al pagamento di 18 milioni di lire oltre spese legali, e il M., quale Giudice dell'esecuzione e in violazione dei doveri propri della pubblica funzione esercitata, avevano posto in essere una serie di artifizi e raggiri (consistiti nell'avere dato luogo a una fittizia proliferazione dei crediti dei dipendenti delle Ferrovie e del legale, dapprima mediante la loro cessione al R. e da questo a trentacinque associazioni di fatto fittiziamente create, quindi mediante la promozione di trentacinque distinte procedure esecutive nei confronti di terzi debitori, l'intervento di ciascuna delle trentacinque associazioni nelle procedure intentate dalle altre, la mancata verifica, ad opera del giudice M., della legittimazione delle cessionarie e la mancata riunione delle procedure) cui erano conseguiti l'emanazione di trentacinque ordinanze di assegnazione, in ognuna delle quali erano liquidate in favore di ciascuna delle trentacinque associazioni e, a titolo di spese del procedimento, in favore dell'avv. R., somme calcolate sul valore complessivo di tutti i crediti azionati, in via diretta o per intervento, per un totale di circa 7 miliardi di lire, nonchè la notifica di 3.675 precetti ai tre terzi pignorati (1.225 per ciascuno): con tali artifizi e raggiri avendo indotto "in errore i terzi pignorati (Banco di Napoli, San paolo IMI e Poste Italiane) circa l'effettiva entità e spettanza dei crediti" e conseguito un ingiusto profitto con corrispondente danno del debitore e dei terzi.

Avevano quindi posto in essere ulteriori atti idonei diretti in modo non equivoco a conseguire un ulteriore ingiusto profitto, pari alla residua somma oggetto dei precetti.

Al solo R. era inoltre addebitato, al capo B), un tentativo di estorsione nei confronti del vicedirettore della filiale del Banco di Napoli di Avellino, posto in essere con la minaccia di attivare altre 34.000 procedure esecutive.

1.1. Con sentenza pronunciata in data 12 febbraio 2009 la Corte di appello di Roma, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava non doversi procedere nei confronti di entrambi gli imputati in ordine ai reati loro rispettivamente ascritti perchè estinti per prescrizione; confermava la sentenza di primo grado limitatamente alle statuizioni civili e condannava, per l'effetto, gli appellanti in solido a rifondere alle parti civili presenti nel giudizio d'appello, Rete Ferroviaria Italiana s.p.a. e San Paolo IMI s.p.a., le spese di assistenza relative al grado.

1.2. Il deposito della motivazione veniva riservato nel termine di 60 giorni (cadente il 13 aprile 2009, che coincideva con il lunedì di Pasqua); la motivazione era depositata entro tale termine (il 9 aprile 2009).

1.3. A giustificazione della decisione, la Corte di appello rilevava che a norma della L. n. 251 del 2005 (la sentenza di primo grado era successiva all'entrata in vigore di detta legge), tutti i reati contestati erano prescritti, dovendosi ritenere il termine massimo di sette anni e sei mesi per i fatti di cui al capo A) commessi sino al (OMISSIS), e il termine massimo di otto anni e quattro mesi per la tentata estorsione di cui al capo B) commessa il (OMISSIS), e considerare la sospensione complessiva di tali termini per sette mesi e ventinove giorni.

Affermava che andava per tale ragione valutato se esistevano prove "evidenti e incontrovertibili" dell'innocenza o dell'estraneità degli imputati rispetto ai fatti loro attribuiti, e osservava al riguardo che le numerose prove dichiarative e la copiosa documentazione acquisite militavano nel senso del difetto di prove evidenti dell'innocenza o dell'estraneità degli imputati, per tutti i reati.

Confermava quindi le statuizioni civili, affermando che le condotte tenute dagli imputati, pur prive oramai di rilevanza penale, costituivano fatti illeciti, produttivi in via diretta e immediata di danni per i soggetti costituiti parti civili.

2. R.A. ha proposto ricorso con atto a duplice firma, personale e del difensore, avvocato Co, depositato in data 29 maggio 2009 (ovverosia il 46 giorno a far data dal 13 aprile).

Chiede l'annullamento di entrambe le sentenze di merito e di sedici ordinanze, predibattimentali e dibattimentali, del giudice di primo grado, così individuate: ordinanze in data 04/07/2003 concernenti la ritualità della notifica del decreto di citazione a giudizio e dichiarazione di contumacia (1), il rigetto dell'eccezione di nullità sollevata in proposito, ex art. 171 c.p.p., comma 1, lett. d), con memoria 26-30/06/2003 (2), il rigetto della eccezione sollevata con memoria 05/03/2003 di nullità della richiesta di rinvio a giudizio (3); ordinanze in data 04/12/2003, di rigetto delle eccezioni avanzate in udienza di nullità: della richiesta di rinvio a giudizio (4), della notifica del decreto di citazione a giudizio (5); della richiesta di rinvio a giudizio e dell'avviso dell'udienza preliminare (6); ordinanza in pari data 04/12/2003, di rinvio all'udienza del 12/12/2003 (7); ordinanza in data 12/12/2003, di rigetto dell'eccezione avanzata con memoria 10/12/2003, di nullità ex art. 184 c.p.p., comma 3, in relazione al rinvio a tale udienza (8); ordinanza in data 15/05/2007, di rinvio ex art. 108 c.p.p. all'udienza del 25/05/2007 (9); ordinanza in data 25/5/2007, di rinvio ex art. 108 c.p.p. all'udienza del 01/06/2007 (10); ordinanza in data 01/06/2007, di rinvio ex art. 108 c.p.p. all'udienza del 04/06/2007 (11); ordinanza in data 01/06/2007, di esclusione della documentazione allegata alle memorie 25/05/2007 e 01/06/2007 (12);ordinanza in data 04/06/2007, di rinvio ex art. 108 c.p.p. all'udienza del 05/06/2007 (13); ordinanza in data 04/06/2007, di esclusione delle denunce allegate alla memoria in pari data (14); ordinanza in data 27/09/2007, di rigetto della richiesta di termine a difesa ex art. 108 c.p.p. (15); ordinanza in data 27/09/2007, di esclusione della denunzia allegata alla memoria in pari data (16). E invoca ogni conseguente statuizione, compreso l'annullamento senza rinvio delle disposizioni in favore delle parti civili.

Articola trentanove profili di censura, enunciandoli come altrettanti "motivi", che, sintetizzati ai sensi dell'art. 173 disp. att. c.p.p., denunziano:

2.1. violazione degli artt. 111 e 24 Cost; art. 6 C.E.D.U.; art. 121 c.p.p., comma 2, art. 125 c.p.p., comma 3, art. 546 c.p.p., comma 1, lett. e) e art. 598 c.p.p.; vizi della motivazione, per omesso esame ed omessa ricognizione dei motivi di appello (cinquantatre) e delle memorie presentate in appello (sette);

2.2. vizi di motivazione in relazione alla illustrazione della vicenda, non essendosi considerata la ricostruzione difensiva, suffragata dalla documentazione allegata, che smentiva sia le prospettazioni delle parti civili sia quanto affermato nelle sentenze di merito;

2.3. vizi di motivazione con riguardo all'individuazione dell'ammontare dei crediti, non essendosi considerato che esistevano due classi, distinte e separate, di crediti vantati nei confronti delle Ferrovie dello Stato (trentacinque, il cui ammontare complessivo, nell'anno 1997, era pari a lire 345.000.000) e nei confronti dei terzi (ulteriori trentacinque, il cui ammontare complessivo finale era pari, nel settembre dell'anno 1999, a lire 4.434.000.000);

2.4. vizi di motivazione con riferimento al numero dei crediti azionati nei confronti delle Ferrovie, in numero pari a trentacinque (15 dei lavoratori e 20 dell'avv. R.), nella sentenza del Tribunale (a pagine 15-17) erroneamente facendosi riferimento ad un solo credito ("predetto credito iniziale");

2.5. vizi di motivazione con riferimento alla asserita fittizia costituzione delle trentacinque associazioni, legittimamente avvenuta invece in forza della L. n. 266 del 1991, nell'ambito di una risalente ed ancor più ampia attività solidaristica ed associativa (costituzione di sessanta associazioni), prima della pronuncia delle sentenze nei confronti delle Ferrovie dello Stato e sei anni prima che le stesse associazioni divenissero (nell'anno 1997) cessionarie dei crediti dei dipendenti delle Ferrovie e dell'avvocato R.;

senza perciò che vi fosse alcuna relazione tra la costituzione delle associazioni e i trentacinque crediti nei confronti delle Ferrovie loro ceduti;

2.6. vizi di motivazione in relazione all'affermata assenza di attività delle trentacinque associazioni, essendovi invece prova certa della loro attività precedente rispetto alla cessione dei crediti di cui si discute;

2.7. violazione di legge, in relazione all'art. 36 c.c. e alla L. n. 266 del 1991, e vizi di motivazione, poichè, contrariamente a quanto affermato dal Tribunale, le associazioni erano conformi a legge;

2.8. vizi di motivazione con riferimento alla omessa considerazione del fatto che l'avv. R. si era servito già delle associazioni in occasione del fallimento "De Asmundis" (dichiarato con sentenza del Tribunale di Napoli n. 366 del 1996), in data 12 febbraio 1997, prima dei fatti;

2.9. vizi di motivazione con riferimento alla ipotizzata "fittizia proliferazione di crediti" a mezzo di un istituto, quello della cessione dei crediti, perfettamente legale;

2.10. violazione dell'art. 474 c.p.c. e vizi di motivazione in relazione al medesimo aspetto, essendo ininfluente la cessione dei crediti per il debitore e l'azione esecutiva essendo azione titolata;

2.11. violazione dell'art. 24 Cost. e degli artt. 499 e segg. c.p.p., e vizi di motivazione, atteso che gli interventi spiegati nei trentacinque procedimenti esecutivi costituivano esercizio di un diritto, motivato dalle ragioni operative già indicate al secondo motivo;

2.11-bis (numerato in ricorso quale 11^ motivo) violazione degli artt. 99 e segg. c.p.c., artt. 112, 274, 543 e segg. c.p.c., e vizio di motivazione, in relazione alla mancata riunione delle varie procedure esecutive, la riunione e la separazione dei procedimenti costituendo provvedimenti ordinatori discrezionali e insindacabili, che non incidono sulle domande, diminuendole o aumentandole, e la riunione non incidendo sull'autonomia delle cause riunite;

2.12. vizi di motivazione, con riferimento alla influenza della omessa riunione dei procedimenti, sull'assunto che ove i trentacinque procedimenti esecutivi fossero stati riuniti, identico sarebbe stato l'esito;

2.13. vizi di motivazione con riferimento alla mancata verifica della legittimazione dei creditori instanti, risultando pacifiche in atti le cessioni alle trentacinque associazioni, che quali creditori cessionari avevano certamente legittimazione attiva all'azione esecutiva;

2.14. vizi di motivazione in relazione alle osservazioni sulle spese processuali, la liquidazione delle stesse costituendo materia estranea all'assegnazione, ai precetti ed agli assegni emessi dai terzi, ed oggetto di assegnazione essendo stato solo l'importo pignorato, non l'importo delle spese liquidate;

2.15. vizi di motivazione in relazione alla proliferazione dei costi delle opposizioni dei terzi, poichè gli atti della procedura erano tutti in carta libera (come risultava dagli atti dell'opposizione proposta dall'Istituto San Paolo);

2.16. violazioni di legge (dell'art. 640 c.p., nonchè degli artt. 65 e 546 c.p.c.) e vizi di motivazione con riferimento alla sussistenza degli artifizi o raggiri, non essendovi stata, per le ragioni esposte, alcuna "proliferazione" di crediti;

2.17. violazione dell'art. 640 c.p. e vizio di motivazione con riguardo alla induzione in errore dell'Istituto San Paolo, insussistente attesa la notifica nei suoi confronti, in data 24 novembre 1997, su istanza delle trentacinque associazioni, di trentacinque atti di pignoramento presso terzi, ove le pretese erano analiticamente esplicate, e attesa l'evoluzione della procedura, da cui risultava che detta banca aveva piena cognizione e puntuale comunicazione di ogni aspetto della vicenda;

2.18. violazione dell'art. 640 c.p. e vizio di motivazione, per le medesime ragioni, con riguardo alla induzione in errore del Banco di Napoli;

2.19. violazione di legge e vizio di motivazione, con riguardo, per ragioni analoghe, alla induzione in errore sia del Banco di Napoli sia dell'Istituto San Paolo;

2.20. violazione di legge e vizio di motivazione, altresì, con riguardo alla esistenza di atti di disposizione determinati da induzione in errore con artifici e raggiri del Banco di Napoli e dell'Istituto San Paolo;

2.21. violazione di legge (in riferimento anche agli artt. 65 e segg. e 546 c.p.c.) e vizio di motivazione per la impossibilità di configurare l'atto di disposizione richiesto per la integrazione del delitto di truffa giacchè tale atto, secondo la ricostruzione accusatoria, consisterebbe nella dazione degli assegni di pagamento da parte degli istituti di credito pignorati, aventi quali custodi la veste di ausiliari del giudice, in esecuzione dell'ordine del giudice stesso, in tesi autore del reato;

2.22. violazione di legge e vizio di motivazione in relazione alla sussistenza dell'ingiusto profitto, stante la coincidenza tra gli importi dei pignoramenti avvenuti nelle procedure esecutive (345 milioni di lire) e gli importi delle assegnazioni a carico di ciascuno dei tre terzi; costituendo ius receptum, per quanto concerneva il pagamento delle così dette spese successive, che il creditore può intimarne nel precetto il pagamento;

2.23. violazione di legge e vizio di motivazione per l'omessa considerazione dell'insegnamento offerto dalla pronuncia n. 1471 del 1996 delle Sezioni unite civili (il creditore può, con l'atto di precetto, intimare il pagamento delle spese e dei diritti ad esso inerenti);

2.24. violazione degli artt. 56 e 629 c.p. e vizi di motivazione con riferimento alla tentata estorsione per insussistenza di violenza e minaccia, nessun teste avendo mai dichiarato di avere udito l'avv. R. minacciare l'attivazione di 34.000 procedure esecutive, nè risultava in atti alcuno scritto che recava tale minaccia;

2.25. violazione degli artt. 56 e 629 c.p. e vizi di motivazione, essendo evidente l'impossibilità pratica e giuridica che fossero esperite altre 32.775 procedure esecutive (34.000 meno 1.225), in assenza di altrettante copie esecutive delle ordinanze e dei precetti; risultando inoltre dagli atti che era stato azionato uno solo dei 1.225 titoli e precetti, in termini di pignoramento mobiliare presso il debitore;

2.26. violazione dell'artt. 2043 c.c. e dell'art. 388 c.p., comma 5, artt. 640, 56 e 629 c.p., e vizi di motivazione, giacchè le banche pignorate si erano rese inadempienti nei confronti delle associazioni creditrici ed assegnatane nonostante l'obbligo di effettuare immediatamente il disposto pagamento, così rendendosi responsabili di illecito aquiliano e di mancata esecuzione dolosa di provvedimenti del giudice, lucrando sulla valuta e favorendo le Ferrovie, vanificando le trentacinque pronunce giurisdizionali;

2.27. violazione degli artt. 56 e 629 c.p. e vizi di motivazione, con riferimento alla sussistenza dell'ingiusto profitto, per ragioni analoghe a quelle esposte in merito all'insussistenza dell'ingiusto profitto riguardo al delitto di truffa (motivi 2.22 e 2.23);

2.28. vizi di motivazione e contraddittorietà della sentenza del Tribunale, che aveva peccato di parzialità, travisamenti ed omissioni nella esposizione delle deposizioni rese dai testi Me., B., V., Ma., F., m. e V.P.;

2.29. vizi della motivazione della sentenza impugnata che aveva:

omesso di considerare le cinque condanne al pagamento delle spese in favore dell'avv. R., difensore distrattario; individuato l'importo iniziale delle condanne in 18 milioni di lire, anzichè in 70 milioni di lire; omesso di considerare i crediti originari dell'avv. R.; affermato contrariamente al vero che nelle ordinanze di assegnazione erano state liquidate spese in favore dell'avv. R.; erroneamente dubitato della legittimazione attiva delle associazioni creditrici, pacificamente sussistente e oggetto di verifica nelle ordinanze di assegnazione del giudice M. e affermato che le associazioni non avevano prodotto l'atto costitutivo; fatto erroneo riferimento alle Ferrovie come uno dei terzi esecutati e alla liquidazione delle spese nelle ordinanze di assegnazione, il cui oggetto era semplicemente l'importo pignorato, oltre che le spese di precetto; arbitrariamente affermato la consapevolezza dell'imputato di operare contra ius;

2.30. vizi di motivazione della sentenza laddove aveva affermato che l'imputato era consapevole dell'ingiustizia della sua pretesa, essendo al contrario il ricorrente animato dalla consapevolezza di operare secundum ius;

2.31. violazione dell'art. 237 c.p.p., per l'omessa acquisizione delle denunce e degli altri documenti provenienti dal R., oggetto delle ordinanze in data 1 giugno, 4 giugno e 27 settembre 2007, elencate ai nn. 12, 14 e 16 all'inizio del ricorso;

2.32. violazione degli artt. 640, 56 e 629 c.p. e vizi di motivazione per l'evidente insussistenza dei fatti-reato ascritti ai capi A) e B) dell'imputazione, sulla base di quanto prima complessivamente rappresentato, ed in considerazione della correttezza della condotta tenuta dal ricorrente;

2.33. violazione dell'art. 129 c.p.p. e vizio di motivazione in riferimento alla declaratoria di improcedibilità per prescrizione, perchè l'evidente insussistenza dei fatti-reato ascritti all'imputato avrebbe dovuto portare al proscioglimento nel merito ai sensi del comma 2 della disposizione evocata;

2.34. violazione della legge processuale e nullità dell'intero procedimento, ex art. 179 c.p.p., per nullità della citazione per l'udienza del 4 luglio 2003, non avendo l'imputato avuto conoscenza della stessa, perchè ricoverato in ospedale; erroneità delle ordinanze di rigetto delle relative eccezioni e di dichiarazione di contumacia del 4 luglio 2003 e del 4 dicembre 2003, indicate all'inizio ai punti 1, 2 e 5;

2.35. violazione dell'art. 108 c.p.p. e della normativa di sistema nell'ordinamento interno (artt. 24 e 111 Cost.) e internazionale (art. 6, p. 1 e 3, della Convenzione E.D.U.), e nullità dell'intero procedimento, in ragione dell'incongruità dei termini a difesa concessi dal Tribunale alle udienze del 15 maggio 2007, del 25 giugno 2007, del 1 giugno 2007 e del 4 giugno 2007, nonchè del diniego del termine a difesa nell'udienza del 27 settembre 2007; nullità, quelle evidenziate, tutte ritualmente eccepite sia prima sia dopo il compimento dei relativi atti; nonchè disparità di trattamento, le richieste di differimento del Pubblico ministero per studio degli atti processuali essendo state tutte accolte;

2.36. violazione dell'art. 178 c.p.p., lett. c), art. 180 c.p.p. e art. 416 c.p.p., comma 1, e nullità dell'intero sviluppo processuale, erroneità delle ordinanze impugnate indicate all'inizio ai punti 3 e 4 (del 04/07/2003 e 04/12/2003), giacchè la richiesta di rinvio a giudizio del R. non era stata preceduta dall'invito a presentarsi per rendere l'interrogatorio;

2.37. violazione dell'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), artt. 179, 180 e 419 c.p.p., nullità dell'intero procedimento, erroneità dell'ordinanza impugnata indicata all'inizio, al punto 6 (del 04/12/2003), atteso che all'eccezione di omissione o nullità della notifica della richiesta di rinvio a giudizio e dell'avviso di udienza preliminare che riguardava in particolare anche l'attività dell'agente postale, il Tribunale aveva risposto elusivamente affermando che la notifica risultava ritualmente effettuata dall'ufficiale giudiziario e non aveva quindi affrontato la questione della notifica della richiesta di rinvio a giudizio e dell'avviso di udienza preliminare, successivamente alla rinnovazione dell'avviso ex art. 415-bis c.p.p..

2.38. violazione dell'art. 578 c.p.p. e vizio di motivazione con riferimento alla conferma dei capi e delle disposizioni concernenti gli interessi civili, non essendovi stati esame, nè ricognizione, a tal fine, dei motivi d'appello.

3. M.O. ha proposto ricorso, anch'esso a firma personale e del difensore, avvocato IB, chiedendo l'annullamento della sentenza impugnata.

3.1. Con il primo motivo denunzia vizi della motivazione e violazione dell'art. 129 c.p.p., perchè la Corte di appello, come già il Tribunale: (a) aveva erroneamente rimarcato la mancata verifica della legittimazione dei creditori procedenti e intervenienti; b) aveva erroneamente segnalato la mancata doverosa riunione dei procedimenti;

c) aveva altrettanto erroneamente affermato che il giudice dell'esecuzione doveva dar corso ad una procedura unitaria.

Si erano supposti poteri d'ufficio estranei ai margini di operatività, vincolati, del giudice dell'esecuzione; le verifiche, in difetto di opposizione da parte del debitore esecutato, non erano dovute; il M. aveva svolto gli accertamenti d'ufficio cui era tenuto (concernenti le condizioni di ammissibilità dell'azione esecutiva, i requisiti di certezza, liquidità ed esigibilità del credito).

La riunione era discrezionale e non era mai stata "eccepita" o sollecitata dal debitore esecutato; quand'anche fosse stata disposta, il giudice dell'esecuzione non avrebbe dovuto liquidare un unico onorario, in ragione della vigenza della tariffa forense, approvata con D.M. 5 ottobre 1994, n. 585, art. 5, comma 4, che prevede aumenti a scalare rispetto al numero dei procedimenti, del fatto che la liquidazione unica mai avrebbe potuto concernere comunque l'attività anteriore alla riunione, del principio che nel processo esecutivo l'onere delle spese processuali non segue la soccombenza, ma la soggezione del debitore all'esecuzione.

Si era dimenticato che, emesse le ordinanze di assegnazione, le stesse non sono più revocabili d'ufficio, ma solo, eventualmente, suscettibili d'opposizione; si era dunque trascurato che l'attività del M. era per ogni verso vincolata e che era alle parti che spettava eventualmente proporre opposizione.

In assenza di qualsivoglia indizio idoneo a dimostrare un legame tra le condotte degli imputati, doveva escludersi ogni ipotesi di concorso nel reato di truffa; il ricorrente era estraneo alle operazioni di cessione dei crediti, notifica dei precetti ed esecuzione dei pignoramenti e, dunque, alla contestata attività di proliferazione dei crediti in precedenza avviata dal R., ed era stato designato quale giudice dell'esecuzione dal Pretore dirigente secondo rigorosi criteri tabellari; a lui non potevano addebitarsi le successive iniziative del coimputato, che circa un anno e mezzo dopo il deposito delle ordinanze le aveva azionate come se si trattasse di titoli esecutivi, in palese violazione dell'art. 95 c.p.c..

I Giudici di secondo grado non potevano ignorare che le statuizioni inerenti alla determinazione delle spese non costituivano "titolo esecutivo", per cui non potevano giustificarsi le successive intimazioni dei precetti, con cui s'era azionato un credito inesistente ammontante complessivamente a circa sette miliardi.

3.2. Con il secondo motivo denunzia violazione dell'art. 578 c.p.p. e difetto di motivazione in relazione alla conferma delle statuizioni civili; la Corte di merito aveva omesso di esaminare, agli effetti civili, le numerose censure rivolte alla sentenza di primo grado con i motivi d'appello (già per altro riproposti in sostanza con il primo motivo).

3.3. Con il terzo motivo denunzia violazione dell'art. 129 c.p.p., comma 1 e art. 578 c.p.p., avendo il Giudice d'appello omesso di verificare che il decorso della prescrizione, per quel che ineriva la posizione del M., era già maturato nelle more del processo di primo grado: l'attività giurisdizionale del ricorrente si era definitivamente conclusa alla data del 10 giugno 1998 con il deposito delle ordinanze di cui al capo d'imputazione; lo stesso aveva anche concluso il proprio mandato di vice Pretore alla data del 31 dicembre 1997. La commissione del reato andava al più anticipata al momento della emissione delle ordinanze e la prescrizione era maturata alla fine del mese di luglio dell'anno 2007, in data anteriore alla pronuncia resa in primo grado; il Giudice d'appello non poteva decidere perciò sulle istanze della parte civile.

4. In data 24 luglio 2010, il ricorrente R.A. depositava, ex art. 585 c.p.p., comma 4, atto contenente sei "motivi" nuovi, deducendo:

4.1, l'insussistenza del fatto-reato di truffa e violazioni di legge:

(1^ "motivo") per inosservanza dell'art. 25 Cost., comma 2, art. 14 preleggi e art. 1 c.p., ovverosia dei principi di legalità e tassatività della fattispecie, e del divieto di analogia in materia penale; (2^ "motivo") per inosservanza dell'art. 117 Cost., comma 1, e dell'art. 7 C.E.D.U., come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo; (3^ "motivo") per inosservanza dell'art. 117 Cost., comma 1, e dell'art. 6 C.E.D.U., come interpretato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo;

4.2. la violazione degli artt. 129, 530 e 578 c.p.p.: (4^ "motivo") per l'evidente insussistenza dei fatti-reato ascritti; (5^ "motivo") per il mancato rispetto dei principi di diritto enunciati da Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009; (6^ "motivo") per la necessità, per l'effetto, di dichiarare a norma dell'art. 578 c.p.p. l'insussistenza dei fatti-reato in rubrica ascritti.

5. Con note di udienza del 7 settembre 2010, le parti civili San Paolo IMI s.p.a. e Banco di Napoli s.p.a. hanno chiesto dichiararsi l'inammissibilità del ricorso proposto dal R., perchè tardivamente depositato in data 29 maggio 2009, ossia un giorno dopo la scadenza del termine di 45 giorni, previsto dall'art. 585 c.p.p., comma 1, lett. c).

6. Il ricorrente R.A. depositava il 20 settembre 2010, undici memorie difensive che ribadivano e illustravano ulteriormente le censure con specifico riferimento: (1^ memoria) alla violazione dei principi di legalità e del giusto processo; (2^ memoria) alle censure del coimputato, osservando che, diversamente da quanto esposto nel ricorso proposto dal M., le associazioni creditrici non potevano agire nuovamente contro le originarie debitrici Ferrovie dello Stato, senza aver prima - e vanamente - agito nei confronti dei terzi; (3^ memoria) alla nullità radicale del processo per omessa citazione a giudizio; (4^ memoria) alla nullità radicale del processo per violazione dell'art. 108 c.p.p.;

(5^ memoria) alla necessità di dichiarare le nullità verificatesi in primo grado e di tutti gli atti conseguenti; (6^ memoria) alla violazione degli artt. 578 e 125 c.p.p.; (7^ memoria) alla necessità di annullamento senza rinvio; (8^ memoria) all'assenza di induzione in errore e di atto di disposizione dei terzi pignorati, ausiliari del giudice; (9^ memoria) all'inesistenza di ingiusto profitto; (10^ memoria) alla insussistenza della tentata estorsione; (11^ memoria) alla violazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2. 7. Il 24 settembre 2010, il R. depositava altra memoria, in replica alle note di udienza delle parti civili, con la quale illustrava l'infondatezza della censura di tardiva proposizione del ricorso, in particolare sottolineando che, seguendo la tesi opposta, alla parte sarebbero rimasti per impugnare solo quarantaquattro giorni, con un esito contrastante rispetto ai principi affermati dall'art. 3 Cost., comma 1, e art. 24 Cost., comma 2, nonchè dall'art. 6 C.E.D.U..

8. In data 10 novembre 2010, il R. depositava atto a sua firma con il quale riepilogava ed elencava correttamente il numero dei motivi di ricorso già articolati (39 originari e 6 nuovi), segnalando che erano stati erroneamente indicati come undicesimo (11^) sia l'undicesimo sia il dodicesimo motivo; illustrava ulteriori controdeduzioni all'eccezione della parte civile, ribadendo il contenuto della memoria del 24 settembre 2010 (la proroga ex art. 172, comma 3, non aveva ad oggetto il dies a quo per l'impugnazione, ma il dies ad quem per il deposito della sentenza).

9. All'esito dell'udienza celebrata in data 24 settembre 2010, la Seconda Sezione penale di questa Corte pronunciava ordinanza con la quale, rilevato che in ordine alla questione della tardività del ricorso del R. si profilava un contrasto tra la giurisprudenza indicata come prevalente (Sez. 3, n. 133 del 19/11/2008, dep. 2009, Santoro, Rv. 242261; Sez. 2, n. 23694 del 15/05/2008, Schillaci, Rv.

240622) e quella assunta come minoritaria (Sez. 6 n. 42785 del 25/10/2001, Blandino, Rv. 220425) ma condivisa, rimetteva i ricorsi alle Sezioni Unite, ritenendo necessario il loro intervento.

10. Con decreto emesso in data 15 ottobre 2010 il Presidente Aggiunto assegnava il ricorso alle Sezioni Unite penali, fissando per la trattazione del ricorso l'udienza del 25 novembre 2010.

Il 25 novembre 2010 il ricorso veniva rinviato a causa di un difetto di notifica, alla udienza del 25 maggio 2011. 11. Il 23 maggio il ricorrente R. depositava, in vista dell'udienza del 25 maggio, dieci atti di memoria, con i quali, riprendendo argomenti già trattati, illustrava: (1^ memoria) la questione di diritto rimessa alle Sezioni unite; (2^ memoria) la violazione dell'art. 388 c.p., comma 5, ad opera dei terzi esecutati;

(3^ memoria) le conseguenze delle decisioni di merito in termini di frustrazione, in concreto, del giudicato portato dalle sentenze dei giudici civili che avevano conosciuto dei crediti posti in esecuzione; (4^ memoria) l'utilizzazione impropria dello strumento penale a tutela di ragioni civili che potevano semmai essere fatte valere con opposizioni; (5^ memoria) la violazione del principio di legalità prodotto dalla condanna per reati non configurabili; (6^ memoria) la violazione dei principi affermati in tema di truffa da Sez. U, n. 7537 del 10/02/2011; (7^ memoria) la violazione dell'art. 129 c.p.p., comma 2; (8^ memoria) la "criminalizzazione" del principio enunciato dalle Sezioni Unite civili nella sentenza n. 1471 del 1996 (al creditore istante è consentito intimare con il precetto il pagamento delle spese ad esso inerenti); (9^ memoria) la violazione del favor innocentiae e dei principi enunciati da Sez. U, n. 35490 del 28/05/2010 e Sez. 3, n. 6261 del 12/01/2010 in tema di rapporti tra gli artt. 129 e 578 c.p.p.; (10^ memoria) la violazione degli artt. 6 e 7 C.E.D.U., in ordine in particolare al dovere dei giudici di esaminare effettivamente gli argomenti e le deduzioni delle parti, di rispettare i giudicati nonchè ai principi di legalità, di effettività della tutela a mezzo della esecuzione delle decisioni e di legalità. 12. All'udienza del 25 maggio 2011, costituite le parti, il Procuratore Generale, in via preliminare, ai fini e per gli effetti di quanto affermato dalla Corte Europea dei diritti dell'uomo con la sentenza 11 dicembre 2007, Drassich, informava le parti che intendeva sollevare il problema della diversa qualificazione giuridica dei fatti ascritti ai due ricorrenti al capo A) della rubrica.

Anticipava a tale proposito che ad avviso della Procura Generale la sentenza impugnata difettava nella individuazione degli elementi costitutivi del delitto di truffa, in specie l'induzione in errore e l'atto dispositivo - elemento costitutivo implicito - non ravvisabile nelle ordinanze di assegnazione.

Apparivano per contro gli estremi del delitto di abuso di ufficio (ex art. 110 c.p. e art. 323 c.p., comma 2), attesi i riferimenti espliciti, nella contestazione, alla violazione di norme di legge, in specie al disposto dell'art. 273 c.p.p., comma 1, ancorchè non formalmente richiamato, e all'ingiusto vantaggio patrimoniale per il R. e per le trentacinque associazioni creditrici, costituito - come da capo d'imputazione - per il primo nell'assurda e abnorme proliferazione delle spese processuali, vantate, liquidate e in parte riscosse; per le seconde nell'emissione, in favore di ogni società, di trentacinque ordinanze di assegnazione, ciascuna per l'intero importo del credito vantato; con contestuale e corrispondente danno ingiusto per la società esecutata e per i terzi pignorati.

Le parti chiedevano termine.

Il Collegio, ritenuto che alle difese doveva essere assicurato tempo congruo per formulare eventuali controdeduzioni in merito alla prospettiva di una diversa qualificazione dei fatti, rinviava, impregiudicata ogni decisione sul merito, all'udienza del 29 settembre 2011. 13. Il 14 settembre l'avvocato Di Trocchio ha depositato note d'udienza per le parti civili San Paolo IMI e Banco di Napoli, con le quali:

- insiste nella eccezione di tardività del ricorso, nuovamente illustrandone le ragioni, in specie sotto il profilo della natura del termine per il deposito delle sentenze, per il quale il dies ad quem non sarebbe suscettibile quindi di proroga ope legis al giorno successivo non festivo, se quello di scadenza è festivo (richiamando la giurisprudenza in tema di non soggezione dei termini di cui all'art. 544 c.p.p. alla sospensione in periodo feriale);

- insiste per la correttezza della qualificazione dei fatti contestati al capo A) alla stregua di truffa, osservando che il Procuratore Generale avrebbe del tutto impropriamente evocato rilievi riferibili alla fattispecie della cosiddetta truffa processuale, in cui è il giudice ad essere la vittima diretta dell'inganno; nel caso in esame il giudice non era destinatario dell'inganno ma coautore dello stesso; l'intervento del giudice in tale veste comportava la configurabilità del delitto di truffa, gli artifici e raggiri rappresentati dalla maliziosa suddivisione del credito originario e dalla maliziosa mancata riunione, condotte che avevano indotto in errore i terzi sulla entità e spettanza effettive dei crediti;

- osserva che la violazione di specifiche norme di legge ad opera del M. comportava semmai il concorso tra l'abuso di ufficio, che non esauriva l'intera condotta illecita, in specie quella prodromica del R. al quale il M. era rimasto estraneo, e la truffa contestata.

14. Il 23 settembre perveniva memoria a firma dell'avvocato B, nell'interesse dell'imputato M., trasmessa a mezzo fax.

Nella memoria, in replica alle osservazioni del Procuratore Generale:

si contesta la doverosità della riunione, osservandosi che la norma applicabile non era l'art. 273 c.p.c., ma, semmai, l'art. 274 c.p.c.;

si rileva che, a considerare il fatto alla stregua di abuso, esso doveva ritenersi esaurito con le ordinanze di assegnazione, quindi il 10 giugno 1998; si rimarca la conseguenza della prescrizione già maturata alla data della sentenza di primo grado. In relazione al primo aspetto si ribadisce poi la prospettazione difensiva secondo cui le ordinanze di esecuzione non erano titoli esecutivi e il R. in base ad esse non poteva procedere a intimazione con 3.673 atti di precetto, intimando il pagamento di circa sette miliardi di lire.

15. Il 27 settembre il R. ha depositato altre quattordici memorie con le quali: (1^ memoria) afferma che in caso di riqualificazione dei fatti contestati al capo A) alla stregua di abuso, per il quale è prevista l'attribuzione al Tribunale in composizione collegiale, si sarebbero dovute annullare senza rinvio entrambe le sentenze di merito; (2^ memoria) richiama le deduzioni in tema di tempestività del ricorso, nullità per omessa citazione in primo grado e per violazione dell'art. 108 c.p.p.; (3^ memoria) assume che l'ipotetico abuso, commesso il 10/06/1998, era prescritto prima della sentenza del Tribunale; (4^ memoria) denunzia la falsità di quanto descritto nel capo A), a proposito della qualifica di difensore antistatario del R.; (5^ memoria) denunzia (richiamando precedenti osservazioni) falsità ed erroneità nelle deduzioni in tema di regole processuali civili del M., affermando che evidentemente il coimputato non conosce il codice di rito civile; (6^) afferma che non poteva in alcun modo ritenersi che l'imputazione contenesse un implicito riferimento all'art. 273 c.p.c., semmai all'art. 274 c.p.c.; (7^ memoria) rinnova le censure relative all'affermata omessa verifica della legittimazione dei creditori cessionari; (8^ memoria) rinnova le censure in ordine alla falsità delle affermazioni relative alle liquidazioni di spese a suo favore e alla irrilevanza delle riunioni o separazioni sulle spese;

(9^ memoria) rimarca che il M. aveva sciolto le riserve oltre i termini di legge, con danno dei pignoranti e vantaggio delle Ferrovie; aveva limitato l'importo assegnato a quello pignorato anzichè a quello oggetto del riconoscimento di debito, con ingiusto vantaggio per le Ferrovie e svantaggio per le associazioni; (10^ memoria) afferma che se violazioni di legge vi erano state, essere erano perciò tutte a favore del debitore Ferrovie e che non era ravvisabile alcun profitto o vantaggio contra ius delle creditrici;

(11^ memoria) contesta l'elemento soggettivo dell'abuso, ovvero l'esistenza di dolo intenzionale di vantaggio patrimoniale o danno ingiusto; (12^ memoria) torna sugli argomenti della 9^ e 10^ memoria, assumendo che l'abuso a vantaggio delle associazioni era smentito dai fatti; (13^ memoria) sostiene che in ogni caso il R. sarebbe rimasto estraneo ad ogni abuso, non risultando tra i due imputati rapporti personali o altri dati da cui indurre un accordo, nè prove di intesa, neppure essendo il R. destinatario dell'atto, che anzi aveva comunicato alle Ferrovie; (14^ memoria) afferma che emergeva per tabulas l'insussistenza dei reati, sia di truffa sia di abuso e la negazione dell'evidenza sfociava nell'arbitrarietà.

Motivi della decisione

1. La questione rimessa alle Sezioni Unite.

Il quesito rimesso alle Sezioni Unite deve essere precisato nel seguente: "se la regola secondo cui il termine stabilito a giorni, che scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno non festivo, riguardi anche il termine di deposito della sentenza, con conseguenti effetti sull'inizio di decorrenza del termine per impugnare".

1.1. Per chiarezza, è bene riassumere i termini del problema.

La Seconda Sezione ha rimesso i ricorsi alle Sezioni Unite ravvisando profili di contrasto in ordine alla soluzione da dare alla questione preliminare della tempestività del ricorso del R., sollevata con memoria della parte civile San Paolo s.p.a..

La sentenza impugnata è stata pronunciata dalla Corte di appello di Roma in data 12 febbraio 2009, alla presenza di entrambi gli imputati. Al momento della lettura del dispositivo il deposito della motivazione veniva riservato nel termine di 60 giorni, cadente il 13 aprile 2009, che coincideva con il lunedì di Pasqua. La motivazione è stata depositata il 9 aprile 2009, dunque entro il termine. Il ricorso del R. è stato depositato in data 29 maggio 2009, ovverosia il quarantaseiesimo giorno a far data dal giorno festivo del 13 aprile 2009.

Il ricorso sarebbe dunque tardivo se si dovesse calcolare il termine di quarantacinque giorni - assegnato per l'ipotesi in esame dal disposto coordinato dell'art. 585 c.p.p., comma 1, lett. c), e comma 2, lett. c), - come decorrente dal giorno festivo coincidente con la scadenza del termine determinato dal giudice per il deposito della sentenza; sarebbe tempestivo se la data di decorrenza dovesse essere riferita al primo giorno non festivo successivo.

1.2. A tale proposito il Collegio rimettente rileva che secondo un orientamento giurisprudenziale (espresso da Sez. 3, n. 133 del 19/11/2008, dep. 2009, Santoro, Rv. 242261; Sez. 2, n. 23694 del 15/05/2008, Schillaci, Rv. 240622) in materia di termini stabiliti a giorni, la proroga prevista per i giorni festivi dall'art. 172 c.p.p., comma 3, riguarda esclusivamente la scadenza dei termini stessi, e non anche l'inizio della loro decorrenza, la quale pertanto non potrebbe essere prorogata di diritto, anche quando debba essere in concreto riferita ad un giorno festivo. Da tale orientamento discenderebbe nel caso di specie che il termine per l'impugnazione dovrebbe farsi decorrere dal 13 aprile 2009, e il ricorso del R. sarebbe inammissibile.

La Sezione rimettente ritiene però che siffatta interpretazione contrasterebbe con il tenore letterale dell'art. 585 c.p.p., comma 2, laddove stabilisce che i termini previsti dal comma 1 dello stesso articolo decorrono in ogni caso dalla scadenza del termine per il deposito della sentenza (Sez. 6 n. 42785 del 25/10/2001, Blandino, Rv. 220425), senza riferimento alcuno al computo dei dati temporali ex art. 172 c.p.p., facendo in tal modo coincidere il dies a quo per proporre l'impugnazione con il dies ad quem relativo alla scadenza del termine per il deposito della sentenza, prorogabile di diritto al primo giorno non festivo successivo a quello festivo di scadenza.

Avuto riguardo alla ratio dell'art. 585 c.p.p., consistente nell'evitare di dare avviso alle parti del deposito della sentenza in tutti i casi in cui la stessa è depositata nei termini di legge o indicati dal giudice, i parametri di commisurazione di entrambi i predetti termini non potrebbero che essere identici, e sarebbe illogico ritenere decorrente dal giorno festivo il termine per la proposizione del ricorso per cassazione, pur dovendosi individuare in quello successivo non festivo il termine di scadenza per il deposito della sentenza.

2. Effettivamente, Sez. 3, n. 133 del 19/11/2008, dep. 2009, Santoro, Rv. 242261, ha ritenuto l'inammissibilità dell'impugnazione proposta, nel caso al suo esame, il giorno successivo a quello di scadenza del termine, calcolando come data d'inizio il giorno festivo in cui secondo il calendario comune scadeva il termine per il deposito della sentenza, richiamando la consolidata giurisprudenza secondo cui la regola posta dall'art. 172 c.p.p., comma 3, non s'estende al termine iniziale (o intermedio) festivo. Nello stesso senso s'è espressa Sez. 4, n. 2625 del 21/09/1999, Gherardi, Rv. 215000.

2.1. Tali sentenze non hanno tuttavia specificamente considerato l'aspetto che il dies a quo del termine per impugnare decorre, ex art. 585 c.p.p., comma 2, lett. e), dal dies ad quem per il deposito della motivazione della sentenza; che questo, cadendo in giorno festivo, andava di diritto prorogato; che, non ricorrendo ipotesi di sospensione diversamente operanti per i due termini, la decorrenza dell'inizio dell'uno dalla fine dell'altro equivale secondo il calendario comune alla coincidenza del giorno d'inizio con il giorno di fine.

2.2. Nella sentenza Santoro si cita, come precedente conforme, Sez. 6, n. 82 del 22/11/2002, Khaidou, Rv. 225708, relativa alla decorrenza del termine di cui all'art. 309 c.p.p., comma 9, e l'ordinanza di rimessione richiama altresì Sez. 2, n. 23694 del 15/05/2008, Schillaci, Rv. 240622, relativa alla decorrenza dei termini d'impugnazione a far data dal primo giorno successivo alla sospensione feriale (16 settembre), cadente in giorno festivo.

Si tratta però di precedenti non esattamente in termini.

2.3. Sez. 6, n. 82 del 2002, Khaidou, si riferisce ad ipotesi significativamente diversa giacchè la decorrenza del termine di cui all'art. 309 c.p.p., comma 9, è ancorata, da quella stessa disposizione, a una data determinata in base alla materiale trasmissione degli atti ad opera del Pubblico ministero.

2.3. Ipotesi radicalmente differente è quindi quella esaminata da Sez. 2, n. 23694 del 2008, Schillaci, e dalle molte decisioni simili relative alla decorrenza dei termini d'impugnazione a far data dalla cessazione del periodo feriale (16 settembre), in situazione in cui il termine per il deposito della sentenza scade entro detto periodo.

Quando ciò accade, difatti, all'assenza di soluzione di continuità tra termini (piano normativo) non corrisponde assenza di soluzione di continuità anche tra date del calendario comune (piano naturalistico). Il giorno di inizio del termine per impugnare non coincide più con il giorno in cui viene a cadere il termine fissato per legge o determinato dal giudice per il deposito della sentenza, perchè questo, a differenza dell'altro, non è soggetto alla sospensione prevista dalla L. 7 ottobre 1969, n. 742, art. 1 (Sez. U, n. 7478 del 19/06/1996, Giacomini, Rv. 205335). Con la conseguenza che, ove il termine per la redazione della sentenza venga a collocarsi in detto periodo, la regola della decorrenza giuridica non determina coincidenza naturale di date, perchè, intervenendo l'ulteriore regola della sospensione feriale, il termine per proporre impugnazione inizia autonomamente a decorrere dalla fine del periodo di sospensione.

3. Tornando alle decisioni invece pertinenti e all'ordinanza di rimessione, occorre rilevare che se si trattasse davvero di stabilire soltanto se, in materia di termini processuali stabiliti a giorni, la proroga di diritto, in caso di scadenza in giorno festivo, al giorno successivo riguardi anche l'inizio della decorrenza, il quesito non giustificherebbe incertezza alcuna.

3.1. L'art. 172 c.p.p., comma 3, dispone che "il termine stabilito a giorni, il quale scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno successivo non festivo". La disposizione, tassativa nel dato letterale, nega implicitamente ogni rilievo all'ipotesi che i giorni festivi vengano a cadere all'inizio o durante il decorso del termine: salva, ovviamente, diversa previsione normativa che si ponga come lex specialis rispetto alla regola generale (come, ad esempio, quella di cui all'art. 477 c.p.p., comma 2). Nè fra termine iniziale e termine finale è predicabile identità di situazioni o è spendibile analogia di ratioo. La disposizione assicura che allorchè sono fissati dei termini per il compimento di uno specifico atto, o per lo svolgimento di una data attività, "l'interessato possa svolgere l'attività sottoposta a termine anche nell'ultimo giorno utile" (Corte cost., ord. n. 80 del 1967). Ma solo al perfezionamento dell'esistenza giuridica dell'atto, che normalmente si realizza con deposito, ricezione, verbalizzazione o ratifica del funzionario addetto all'ufficio, è indispensabile che il termine non cada in giorno in cui gli uffici sono chiusi; non all'eventuale attività di studio, preparazione, compilazione.

Sul punto appaiono d'altronde concordi dottrina e risalente e consolidata giurisprudenza (cfr., in relazione all'analoga disposizione recata dall'art. 180 c.p.p. del 1930, Sez. 4, n. 2523 del 17/10/1969, Pardini, Rv. 113386; Sez. 5, n. 873 del 03/03/1971, Micheluzzi, Rv. 117940; Sez. 2, n. 1385, 03/12/1984, dep. 1985, Annessi, Rv. 167824; Sez. 2, n. 274 del 25/01/1984, Di Staso, Rv. 163027, e in relazione al codice vigente, tra molte neppure massimate, Sez. 6, n. 28290 del 03/06/2003 Baldassarre, Rv. 226354).

La proroga di diritto del giorno di scadenza non riguarda dunque il giorno d'inizio, così come non riguarda i giorni intermedi.

3.2. Per rispondere agli argomenti delle parte civile, che ha sollevato la questione e che ha insistito su tale aspetto con la memoria e nella discussione orale, può solamente aggiungersi che non riguarda in alcun modo l'ipotesi in esame neppure il problema, sul quale effettivamente si registra una qualche divergenza di orientamenti, della riferibilità della previsione dell'art. 273 c.p.p., comma 3, anche ai termini dilatori.

Dilatorio è il termine entro il quale a un soggetto è impedito il compimento di determinate attività, essendo il tempo intermedio riservato al compimento di attività di altri, di regola a pena di decadenza. Il medesimo lasso temporale potrà dunque rappresentare per taluno un termine dilatorio e per tal altro un termine perentorio, ma non v'è dubbio che la natura del termine assegnato ad un soggetto non dipende nè dal dato cronologico in sè nè dall'attività che altri possa compiere o non compiere nel medesimo tempo, bensì dalla funzione della regola temporale per ciascuno posta. E' decisamente da escludere, perciò, che il termine per impugnare o - in relazione a quanto si dirà - il termine per motivare la sentenza, che individua il tempo entro il quale tali attività possono e debbono essere compiute, siano riconducibili alla nozione di termine dilatorio.

4. Il profilo rilevante per il caso in esame non concerne però l'autonoma decorrenza dei termini stabiliti a giorni, ma piuttosto, come d'altra parte evidenzia la stessa ordinanza di rimessione, il modo d'operare della regola fissata dall'art. 271 c.p.p., comma 3, quando a venire in considerazione siano i termini per impugnare che decorrono, ex art. 585 c.p.p., da quelli assegnati, dalla legge o dal giudice, per il deposito della sentenza: ovverosia l'individuazione del dies a quo allorchè questo coincide per legge e senza che intervengano sospensioni, con il dies ad quem di un altro termine stabilito a giorni.

Per intendere, si prenda il termine di cinque giorni previsto dall'art. 294 c.p.p., comma 1, per il cd. interrogatorio di garanzia, che è ancorato ad un accadimento, la cattura del soggetto colpito da misura cautelare, che può verificarsi naturalmente in qualsiasi giorno dell'anno. Tale termine è un normale termine processuale a giorni al quale, in assenza di una diversa disposizione normativa, non possono che applicarsi, per individuarsi il momento di decorrenza, le regole generali dell'art. 172 c.p.p., commi 2 e 4, (Sez. 6, n. 10863 del 05/03/2007, Venari, Rv. 235931). Sicchè se l'arresto avviene in giorno prefestivo, dies a quo non computatur (art. 172 c.p.p., comma 4) e il termine comincia decorrere dal giorno festivo; se viene a cadere in giorno festivo inizia dal giorno successivo, non in virtù dell'art. 172, comma 3, ma sempre in ragione del comma 4.

Situazione diversa è, invece, quella in cui l'inizio del termine non è autonomo e fisso, nel senso che non coincide con una data autonomamente fissata o con un accadimento, verificatosi in una certa data fenomenologicamente determinata, considerato nella sua materialità; ma va correlato alla scadenza di altro termine a giorni ed ha, per tale ragione, natura mobile e derivata da altro momento che va individuato in base a un criterio composito, fatto di calcolo materiale e regola giuridica, che è nel caso in esame il termine per il deposito della sentenza.

5. Deve verificarsi allora, anzitutto, se l'art. 172 c.p.p., comma 3, si applichi alle sentenze. La soluzione non può essere che positiva.

Nessuna indicazione normativa consente di limitare la portata del disposto dell'art. 172 c.p.p., comma 3, ai soli atti o attività delle parti o ai soli termini perentori. La regola della proroga del termine che cade in giorno festivo al primo giorno immediatamente successivo non festivo, risponde, per altro, a principio generale applicabile nei più diversi settori dell'ordinamento (basterà ricordare l'art. 155 c.p.c., comma 4).

Neppure esiste alcuna ragione extratestuale che giustifichi la limitazione della sfera d'applicazione della norma in esame alla sola attività delle parti. Anche il giudice, come le parti, dipende, per il deposito dei suoi atti dagli uffici di cancelleria. Ove l'ultimo giorno in tesi utile coincida con un giorno festivo, la chiusura degli uffici comporterebbe, per il giudice nello stesso modo che per le parti, l'impossibilità materiale di fruire dell'ultimo giorno utile.

La giurisprudenza è sul punto consolidata: si vedano, tra molte, Sez. 6, n. 4571 del 01/12/1995 Borzoni, Rv. 204007; Sez. 2, n. 5699 del 21/10/1997 Primerano, Rv. 209027; Sez. 6, n. 1795 del 21/05/1998, Pecoraro, Rv. 211252; Sez. 4, n. 42736 del 17/10/2007, Nicotra, Rv. 238304, in tema di termine di dieci giorni per la decisione del tribunale del riesame; Sez. 2, n. 4546 del 24/10/1994, Gronchi, Rv. 200003, in tema di interrogatorio ex art. 294 c.p.p.; nonchè, con riferimento all'analoga disciplina del codice previgente: Sez. 6, n. 175 del 21/01/1989, Montefusco, Rv. 180478, in tema di convalida dell'arresto; Sez. 1, n. 876 del 27/03/1985, Loiacono, Rv. 169293;

Sez. 1, n. 1206 del 20/12/1983, Rigamo, Rv. 162562, in tema di termini per la presentazione al giudizio direttissimo.

Si è discusso, e talora si discute ancora, in specie in materia civile e pur senza alcun fondamento, se la regola sia applicabile ai termini perentori. Non si è mai dubitato invece che concerna anche i termini ordinatori (cfr. da ultimo Sez. 1 civ., n. 5254 del 04/04/2003, Rv. 562171; Sez. 4 pen., n. 4658 del 17/12/1976, Romano, Rv. 135569), per i quali non è in linea generale nè particolare prevista alcuna limitazione del regime della prorogabilità. 6. Anche per i termini per proporre impugnazione decorrenti "dalla scadenza del termine stabilito dalla legge o determinato dal giudice per il deposito della sentenza" (art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c)), l'individuazione del momento d'inizio non può che dipendere, pertanto, dal criterio composito di cui si è detto, costituito dal computo materiale dei giorni assegnati per il deposito e dall'applicazione della regula iuris che dispone la proroga di quello cadente in giorno festivo al successivo non festivo.

Per conseguenza, se il giorno finale del primo termine è festivo, esso è prorogato al primo giorno immediatamente successivo non festivo e da tale giorno non festivo decorre il secondo termine: non perchè il giorno festivo non sarebbe calcolabile quale giorno iniziale di decorrenza, ma semplicemente perchè il giorno iniziale di decorrenza del secondo termine coincide con quello in cui cade il primo termine, sicchè la proroga di diritto del primo comporta lo spostamento dell'inizio della decorrenza del secondo.

6.1. Sotto l'aspetto sistematico tale criterio è poi l'unico conforme allo scopo delle regole poste dall'art. 585 c.p.p., di evitare, mediante il sistema di prefissazione di termini per il deposito, costi e tempi per le notificazioni; scopo che è ragionevolmente perseguito soltanto se si assicura equanimemente alle parti il diritto di proporre impugnazione con pienezza dei tempi previsti per l'esercizio di tale diritto. Così, da un lato, se il deposito è ritardato, anche di un solo giorno, occorre procedere a notifica; dall'altro, se la sentenza è ritualmente depositata nel giorno post-festivo successivo a quello astrattamente coincidente con lo scadere del termine, non può conseguirne per la parte la perdita di un giorno rispetto al termine che deve esserle riconosciuto.

Ad analoga soluzione pervengono d'altronde, in materia di computo dei termini dettata dall'art. 155 c.p.c., le Sezioni civili di questa Corte, allorchè rilevano che la previsione del comma 4 di tale norma si applica anche nel caso in cui il dies ad quem prorogato di diritto costituisca, a sua volta, dies a quo per il termine dato a chi intenda contraddire o ricorrere avverso l'atto per il cui deposito è previsto termine finale cadente in giorno festivo (Sez. 1 civ., n. 13201 del 05/06/2006, Rv. 590480).

6.2. Concludendo, in relazione al quesito per il quale i ricorsi sono stati rimessi alle Sezioni Unite, devono essere affermati i seguenti principi di diritto:

"la regola per cui il termine stabilito a giorni, il quale scade in giorno festivo, è prorogato di diritto al giorno successivo non festivo, posta nello specifico dall'art. 172 c.p.p., comma 3, si applica anche agli atti e ai provvedimenti del giudice, e si riferisce perciò anche al termine per la redazione della sentenza";

"nei casi in cui, come nell'art. 585 c.p.p., comma 2, lett. c), è previsto che il termine assegnato per il compimento di una attività processuale decorra dalla scadenza del termine assegnato per altra attività processuale, la proroga di diritto del giorno festivo in cui il precedente termine venga a cadere al primo giorno successivo non festivo, determina lo spostamento altresì della decorrenza del termine successivo con esso coincidente";

"tale situazione non si verifica ove ricorrano cause di sospensione quale quella prevista per il periodo feriale che, diversamente operando per i due termini, comportino una discontinuità in base al calendario comune tra il giorno in cui il primo termine scade e il giorno da cui deve invece calcolarsi l'inizio del secondo".

Ne discende la tempestività e quindi l'ammissibilità sotto tale profilo del ricorso proposto dall'imputato R.A..

7. Le altre questioni da esaminare.

Una volta assegnati alle Sezioni Unite, sia il ricorso del R. sia quello del M. devono essere esaminati interamente, non essendo previsto per le Sezioni Unite penali che possano limitare la loro decisione alla questione controversa (Sez. U, n. 17 del 21/06/2000 Primavera, Rv. 216660).

Atteso il numero delle questioni prospettate e la grande congerie di atti difensivi, specie del R., è necessaria una ricapitolazione per dare ordine all'esame.

R. ha enunciato nel ricorso trentanove "motivi" di censura, molti dei quali rappresentano tuttavia mere articolazioni di doglianze rivolte agli stessi capi e punti, ulteriormente sviluppati, senza aspetti di novità sostanziali, in innumerevoli "motivi nuovi" e memorie. Le doglianze sono riconducibili: (a) a violazioni della legge processuale che inficerebbero lo svolgimento del processo sin dall'origine; (b) a errata applicazione della legge sostanziale penale e processuale civile, in relazione alla configurabilità dei reati contestati (c) a violazione degli artt. 129 e 578 c.p.p. in relazione alla declaratoria della prescrizione con conferma delle statuizioni civili senza esame dei motivi di appello; (d) a difetti di motivazione (a volta prospettati sotto l'aspetto di violazioni di legge) che renderebbero in ogni caso errata o carente la decisione impugnata.

M. ha articolato tre motivi, approfonditi nelle memorie, riferiti: (a) alla insussistenza della truffa e, in particolare, alla non configurabilità del suo concorso; (b) alla violazione degli artt. 129 e 578 c.p.p. per le medesime ragioni indicate dal R., ancorchè facenti riferimento ad argomenti difensivi in parte differenti; (c) alla prescrizione già maturata, per la sua posizione, prima della sentenza di primo grado.

Il Procuratore Generale ha chiesto la qualificazione dei fatti contestati a titolo di truffa alla stregua di abuso d'ufficio, e le parti hanno replicato opponendosi.

Vanno perciò esaminate le questioni concernenti: le nullità del giudizio di primo grado; la richiesta di riqualificazione e la configurabilità della truffa; la prescrizione maturata antecedentemente alla sentenza di primo grado; la sussistenza della violazione degli artt. 129 e 578 c.p.p. e le questioni di merito che eventualmente residuano (sotto l'aspetto della motivazione della sentenza impugnata).

8. Le nullità denunziate dal ricorso R..

Il ricorso R. denuncia molteplici violazioni della legge processuale verificatesi in primo grado, che avrebbero prodotto nullità, in tesi assolute e comunque già tempestivamente dedotte, idonee a travolgere la sentenza del Tribunale. Denuncia altresì che la Corte di appello ha omesso di esaminare le analoghe censure a lei prospettate con l'atto d'appello.

Le questioni sono in astratto rilevanti, giacchè i giudici del merito hanno deciso non solo in ordine al reato, per il quale è sopravvenuta la declaratoria di prescrizione in appello, ma anche in ordine al risarcimento dei danni cagionati dal reato.

In questa situazione, di condanna agli effetti civili confermata in appello, il principio che, qualora già risulti una causa di estinzione del reato, la sussistenza di una nullità di ordine generale non è rilevabile nel giudizio di legittimità (Sez. U, n. 1021 del 28/11/2001, Cremonesi, Rv. 220511) non opera, perchè, come puntualizza Sez. U, n. 17179 del 27/02/2002, Conti, Rv. 221403, la nullità può incidere sulla validità delle statuizioni civili.

Sez. U, Conti si occupava del caso in cui la prescrizione matura successivamente al giudizio d'appello che ha confermato la condanna sia penale sia civile dell'imputato. La situazione non muta però nel caso in cui la sentenza d'appello dichiara la prescrizione dei reati ma conferma le statuizioni civili. Se la nullità travolgesse il giudizio di secondo grado, ma non quello di primo grado, la Corte di Cassazione dovrebbe comunque annullare la sentenza impugnata con riferimento ai capi che riguardano l'azione civile e rinviare, ex art. 622 c.p.p., al giudice civile competente per valore in grado di appello. Se la nullità travolge il giudizio di primo grado, entrambe le sentenze di merito vanno annullate senza rinvio, con azzeramento dei capi relativi agli interessi civili, giacchè il difetto di una valida sentenza di condanna anche generica dell'imputato, pronunciata a favore della parte civile in primo grado, impedisce l'applicabilità dell'art. 578 c.p.p. nei giudizi d'impugnazione (così anche Sez. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273).

Le censure appaiono però tutte manifestamente infondate, quando non tardive o per altro verso parimenti inammissibili.

9. Il difetto di motivazione sulle questioni di diritto.

In primo luogo non sono rilevanti le doglianze relative alla mancanza di motivazione della sentenza d'appello o ai difetti di motivazione delle ordinanze del giudice di primo grado, sulle eccezioni di nullità (1^ motivo, in genere; specificamente, altresì, 37^ motivo), non riferendosi alle questioni di diritto l'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e).

Non vi è dubbio, alla luce di quanto si è detto al punto che precede, che la Corte di merito aveva il dovere di esaminare le eccezioni con cui si prospettavano nullità d'ordine generale e assolute che potevano travolgere il giudizio di primo grado.

La soluzione da dare alle questioni di diritto, processuali o sostanziali che siano, non attiene però al contesto della giustificazione, ma al contesto della decisione, sicchè quello che importa per la validità della sentenza è soltanto la correttezza di questa, e non rileva che la Corte di appello non abbia espressamente motivato in ordine all'infondatezza o inammissibilità delle eccezioni, se esse sono effettivamente infondate o inammissibili.

In relazione alle questioni di diritto che si riferiscono alle condizioni di procedibilità o alla ritualità del processo nel cui ambito è stata pronunziata la sentenza impugnata (cfr., per la diversa regola nel caso in cui la questione concerna la rituale formazione di un atto di altro procedimento, Sez. U, n. 45189 del 17/11/2004, Esposito, Rv. 229245), il giudice di legittimità è inoltre giudice del fatto (processuale), e ha per tale motivo la possibilità di verificare d'ufficio quanto risulta dagli atti (tra molte decisioni, anche a Sezioni Unite, basti Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092) purchè le questioni e eccezioni sollevate siano sufficientemente specifiche da consentire di individuare l'atto o l'attività processuale cui si riferiscono.

Ovviamente, vi sono questioni di diritto anche processuali che presuppongono accertamenti o valutazioni di fatto, e solo in questo caso si deve distinguere tra sindacabilità ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), della motivazione sui presupposti fattuali, se censurata, e correttezza delle regole di diritto ad essi applicate (tra molte, Sez. 4, n. 47891 del 28/09/2004, Mauro, Rv.230568).

10. Le eccezioni concernenti in particolare la richiesta di rinvio a giudizio.

Il ricorrente denunzia (36^ motivo, riferito alle ordinanze del 4 luglio e del 4 dicembre 2003) la nullità della richiesta di rinvio a giudizio, sotto due profili: a) l'avviso ex art. 415-bis c.p.p. si riferiva solamente alla truffa; b) la richiesta di rinvio a giudizio non era stata preceduta dall'interrogatorio richiesto dall'imputato.

10.1. In relazione al primo aspetto (a), va rilevato che dagli atti emerge che: il 5 marzo 2003, in vista della prima udienza (del 6 marzo 2003, rinviata In limine), il R., identificato a mezzo tessera dell'ordine, depositava in cancelleria memoria a firma dell'avvocato Argenio, con la quale si eccepiva la nullità della richiesta di rinvio a giudizio in data 3 giugno 2002 (dep. 7 giugno 2002); nella seconda udienza, il 4 luglio 2003, il Pubblico ministero prendeva la parola in ordine all'eccezione prospettata con la precedente memoria, e osservava che a seguito di analoga eccezione già sollevata dal difensore, il Giudice per le indagini preliminari aveva restituito gli atti al Pubblico Ministero ai fini della rinnovazione dell'avviso di conclusione delle indagini preliminari, sicchè era stata emessa una nuova richiesta di rinvio a giudizio, preceduta da rituale avviso di conclusione delle indagini preliminari anche per l'imputazione in precedenza mancante; i difensori degli imputati si rimettevano; il Tribunale rigettava l'eccezione, rilevando che dagli atti risultava che il vizio denunziato era stato "superato", in conformità a quanto indicato dal Pubblico ministero; all'udienza del 4 dicembre il R., finalmente comparso personalmente, rinnovava "preliminarmente", fra le altre, anche l'eccezione respinta, senza specificare tuttavia alcunchè in ordine alle osservazioni del Pubblico ministero e del Tribunale.

10.2. A fronte delle ricordate emergenze e delle specifiche considerazioni del Tribunale, (l'avviso era stato rinnovato, completo), sia le eccezioni a suo tempo formulate sia le censure rinnovate con gli atti d'impugnazione appaiono dunque non solo manifestamente infondate, ma anche del tutto generiche.

10.3. In relazione al secondo aspetto (b), dagli atti emerge che:

nella già ricordata memoria per l'udienza del 6 marzo 2003, datata 5 marzo 2003 a firma dell'avvocato A, l'eccezione era stata formulata con riferimento esclusivo all'omessa menzione della tentata estorsione nell'avviso e nell'invito a rendere interrogatorio; nella stessa memoria si evidenziava inoltre in premessa che l'avviso ex art. 415-bis era stato notificato il 20 marzo 2001, che il R. aveva chiesto di essere interrogato, che il Pubblico ministero gli aveva notificato in data 13/04/2001 invito per la presentazione; che il R. non si era presentato; che il Pubblico ministero aveva successivamente chiesto il rinvio a giudizio anche per il reato di tentata estorsione.

Sempre dagli atti emerge che all'udienza del 4 luglio 2003, dopo che il Tribunale aveva respinto le eccezioni sollevate con la memoria del 5 marzo, il difensore si era rimesso; che il R. non ha mai, neppure implicitamente, affermato (nè in ricorso nè nell'atto d'appello) che a seguito del rinnovato avviso ex art. 415-bis c.p.p. avesse altresì rinnovato la richiesta di essere interrogato. Al carteggio processuale è affoliata, inoltre, solamente la richiesta del R. di essere interrogato in data 9 aprile 2001 (p. 140).

10.4. L'interrogatorio non risulta dunque richiesto a seguito del secondo avviso ex art. 415-bis c.p.p.. L'eccezione non è stata per altro sollevata tempestivamente, sicchè la nullità, se anche fosse stata sussistente, non era più deducibile nè con i motivi d'appello nè con il ricorso per cassazione, non rientrando in alcuna delle ipotesi considerate dall'art. 179 c.p.p. e trattandosi invece, pacificamente, di nullità a regime intermedio, ex art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), soggetta alle preclusioni dell'art. 180 c.p.p. (come ricorda tra molte, Sez. 6, n. 19674 del 30/03/2004, Seminario Roncai, Rv. 228337).

La censura è per conseguenza inammissibile sotto ogni profilo.

11. Le eccezioni concernenti le notifiche per l'udienza preliminare.

Il ricorrente denunzia (37 motivo riferito all'ordinanza del 4 dicembre 2003) la nullità della notifica della richiesta di rinvio a giudizio e dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, nonchè l'erroneità del rigetto della relativa eccezione.

11.1. Dagli atti emerge che all'udienza del 4 dicembre 2003 il R. personalmente aveva eccepito la nullità della notifica dell'avviso di fissazione dell'udienza preliminare, perchè nella relata l'ufficiale postale aveva omesso di specificare la mancanza o la inidoneità di persone abilitate a ricevere il plico; il Tribunale respingeva l'eccezione osservando che la notifica risultava ritualmente effettuata avendo l'ufficiale giudiziario indicato tutte le attività svolte fino al deposito del plico presso l'ufficio postale.

Il carteggio processuale (p. 127 e seguenti, in specie p. 135 e 136, I volume atti Tribunale) documenta che il 20 giugno 2002 la cancelleria del Giudice dell'udienza preliminare richiedeva all'ufficiale giudiziario la notifica della richiesta di rinvio a giudizio datata 3 giugno 2002 e dell'avviso in data 17 giugno 2002 di fissazione dell'udienza preliminare per il giorno 18 ottobre 2002; il 28 giugno 2002 l'ufficiale giudiziario, attestando che aveva trovato l'abitazione chiusa e che mancavano portieri e vicini, aveva proceduto ai sensi dell'art. 157 c.p.p. (al deposito dell'atto e alla spedizione di raccomandata); nella cartolina della raccomandata spedita dall'agente postale si legge che il giorno 11 luglio 2002, stante la temporanea assenza del destinatario, si immetteva avviso in casella; le notifiche erano regolarmente effettuate ai difensori di fiducia del R.; il 14 ottobre 2002 il R. personalmente depositava in cancelleria dichiarazione di revoca del difensore avvocato DM, indirizzata al G.u.p., "uff. 21, dott. DD", "ud. prel. 18.10.2002".

11.2. Anche volendosi prescindere dalla tempestività dell'eccezione (relativa alla mera incompletezza della notificazione per l'udienza preliminare), deve osservarsi dunque che risulta che l'imputato aveva conoscenza del contenuto degli atti e che l'eccezione riguarda un aspetto formale - l'omissione della enunciazione della mancanza dei soggetti indicati dall'art. 157 c.p.p., comma 1 - che neppure l'art. 177 c.p.p. richiama fra le cause di nullità (comunque relative). Ad ogni buon conto, va ribadito che la "mancanza" di persone abilitate a ricevere il piego non deve essere riferita dall'ufficiale giudiziario, nè dall'agente postale, mediante formule sacramentali o la pedissequa ripetizione della dizione normativa (cfr., seppure in relazione a diversa fattispecie, Sez. U. civ., n. 11332 del 30/05/2005, Rv. 582127); è situazione di fatto che può essere certificata o risultare in modo inequivocabile da molte diverse attestazioni, riferite al fatto di avere trovato il domicilio chiuso, di non avere avuto risposta, di non avere trovato alcuno, di essere stati costretti a procedere mediante deposito dell'atto e immissione dell'avviso nella cassetta postale. Ciò che conta è, in altri termini, che risulti che l'ufficiale giudiziario e l'agente postale si siano recati sul posto e che, non avendo trovato alcuno, abbiano proceduto correttamente, a norma dell'art. 157 c.p.p., comma 8.

La censura è per tali ragioni, da un lato manifestamente infondata, dall'altro generica perchè il ricorrente neppure sostiene che nella casa v'era qualcuno che avrebbe potuto ricevere l'atto.

12. Le eccezioni concernenti la notifica del decreto di rinvio a giudizio.

E' quindi denunziata (34^ motivo, riferito alle ordinanze del 4 luglio 2003 e 4 dicembre 2003) la nullità per omissione della notifica del decreto di rinvio a giudizio e l'illegittimità della dichiarazione di contumacia fatta all'udienza del 4 luglio 2003.

Si afferma: (a) che all'udienza di comparizione del 6 marzo 2003 il Tribunale, verificato il difetto di notifica del decreto ex art. 429 c.p.p. e non essendo il R. comparso, aveva correttamente disposto la rinnovazione della notifica del predetto decreto e del verbale di udienza, con rinvio all'udienza del 4 luglio 2003; (b) che con memoria del 26-30 giugno 2003, per l'udienza del 4 luglio 2003, il difensore aveva eccepito la nullità derivante dall'omessa citazione dell'imputato, allegando copia conforme della relata dell'atto da notificare, datata 18 aprile 2003, in cui si diceva che la copia firmata era stata "lasciata nel domicilio del suddetto sig. R.A. consegnandola a mani come all'originale", senza che risultasse la persona a mani della quale la copia era stata consegnata e i suoi rapporti con il destinatario; (c) che, ciò nonostante, il Tribunale, all'udienza del 4 luglio 2003, aveva ritenuto ritualmente eseguita la notifica ex art. 157 c.p.p., dichiarando la contumacia del R., nonostante dal testo stesso della relata del 18 aprile 2003 emergesse il mancato espletamento della consegna e non esistesse in atti altra copia o originale; (d) che il difetto era equivalente ad omessa notifica perchè il R. non aveva avuto conoscenza della stessa, essendo rimasto ricoverato in ospedale dal 15 aprile al 19 aprile 2003 e, quindi, in day hospital, dal 16 giugno 2003 all'11 settembre 2003, come documentato.

12.1. Tra gli atti trasmessi a questa Corte dai giudici di merito non è, all'attualità, rinvenibile l'originale della notifica del decreto di rinvio a giudizio la cui rinnovazione era stata disposta per il 4 luglio 2003. L'eccezione è però e comunque sotto ogni aspetto manifestamente infondata.

Lo sviluppo processuale secondo la sentenza del Tribunale e i verbali è il seguente.

Il 18 ottobre 2002, all'esito dell'udienza preliminare, veniva emesso il decreto che disponeva il giudizio; all'udienza del 6 marzo 2003, assenti il R. e il suo difensore, sostituito ex art. 97 c.p.p., comma 4, dall'avvocato B difensore del M., il Tribunale rappresentava alle parti che dalla relata in atti della notificazione del decreto di rinvio a giudizio per tale udienza risultava che "l'imputato R., presa visione del contenuto dell'atto si è rifiutato di riceverlo"; quindi, su richiesta del Pubblico ministero, disponeva la rinnovazione della notificazione degli atti introduttivi al R. rinviando al 4 luglio 2003, dando altresì atto che era stata depositata la memoria di cui si è parlato al par. 10.1., depositata personalmente dal R..

Nella seconda udienza, del 4 luglio 2003, per l'imputato R. era presente l'avvocato G. L ex art. 97 c.p.p., comma 4; il Tribunale, dato atto preliminarmente che era pervenuta memoria del difensore di fiducia del R. con la quale si eccepiva l'omessa notifica (del decreto di rinvio a giudizio e del verbale della precedente udienza), respingeva l'eccezione rilevando che la notifica risultava regolarmente eseguita ai sensi dell'art. 157 c.p.p., come attestato dalla relata in atti, ed erano stati ritualmente eseguiti gli avvisi previsti dalla legge, e dichiarava per l'effetto la contumacia del R.. Veniva quindi ammessa la costituzione della parte civile San Paolo quale società incorporante il Banco di Napoli già costituito, si respingevano le eccezioni relative all'udienza preliminare di cui si è già detto ai paragrafi precedenti, le parti chiedevano l'ammissione delle prove; il difensore del R., in particolare, chiedeva il controesame dei testi del Pubblico ministero e l'esame degli imputati; si rinviava al 31 ottobre 2003.

Il 31 ottobre 2003, terza udienza, a seguito di rinuncia al mandato dell'avvocato G. A, il R. nominava difensore l'avvocato F. F, che chiedeva termine a difesa; il Tribunale in accoglimento della richiesta rinviava al 4 dicembre 2003. Il 4 dicembre 2003 era presente il R. e la dichiarazione di contumacia veniva revocata;

il R. personalmente eccepiva tuttavia, in via preliminare e tra l'altro, la nullità, ex art. 171 c.p.p., comma 1, lett. d), del decreto disponente il giudizio e della sua notifica perchè dalla relata non risultava indicato alcunchè in ordine alla persona cui era stata consegnata la copia. Il Tribunale richiamava in risposta quanto detto all'udienza del 4 luglio e rinviava quindi al 12 dicembre 2003 in accoglimento della richiesta di termini a difesa avanzata dal nuovo difensore del R..

12.2. A fronte di tali dati, la prima osservazione da fare è che in realtà la notifica del decreto di rinvio a giudizio, per l'udienza del 6 marzo 2003, era già rituale. Il rifiuto del destinatario di ricevere materialmente l'atto, dopo la presa di cognizione dei suoi contenuti, attestati dall'ufficiale giudiziario, equivale infatti nel sistema a consegna.

Espressa enunciazione di tale regola recano la L. 20 novembre 1982, n. 890, art. 8, comma 1, ultima parte, e art. 138 c.p.c., comma 2; ad essa fanno inequivocabile riferimento, disciplinando le specifiche modalità di conservazione degli atti rifiutati, ove il destinatario sia detenuto, l'art. 156 c.p.p., comma 2, e art. 57 disp. att. c.p.p.. E' inoltre evidente che l'art. 157, comma 7, laddove si riferisce alle "persone" indicate al comma 1, seconda parte, prevedendo che in caso di loro rifiuto si proceda nuovamente alla ricerca dell'imputato, si riferisce alle sole persone diverse dell'imputato abilitate a ricevere copia dell'atto in sua vece a norma del richiamato comma 1. E' d'altronde principio generale, sia sostanziale sia processuale, che il rifiuto di una prestazione o di un adempimento da parte del destinatario non possa inficiare l'adempimento medesimo.

Sul punto, la giurisprudenza anche penale di questa Corte è assolutamente conforme. Basterà ricordare: Sez. 4, n. 4672 del 04/12/2008, Vasta, non massimata, secondo cui in tema di notificazione del decreto di citazione a giudizio, non è necessario procedere alle ulteriori ricerche di cui all'art. 157 c.p.p., comma 7, qualora a rifiutare di ricevere l'atto sia il destinatario, e non una delle persone indicate dal comma 1 dello stesso articolo; Sez. 5, n. 829 del 08/10/1992 dep. 1993, Bettiga, Rv. 193479, secondo cui la notificazione eseguita personalmente all'imputato, mediante consegna di copia, può essere operata in qualsiasi luogo e il rifiuto di riceverla non ha rilevanza alcuna e la notificazione si ha per eseguita; Sez. 4, n. 6907 del 16/10/1967, dep. 1968, Marianelli Rv. 106616, che enuncia analogo principio in tema di rifiuto della notificazione del verbale di infrazioni stradali sul rilievo che la notificazione delle contravvenzioni al codice della strada, non potute contestare immediatamente al contravventore, va eseguita con le stesse norme dettate dal codice di procedura penale per la notifica degli atti all'imputato non detenuto.

Vi è in atti, inoltre, la prova che l'imputato aveva avuto effettiva conoscenza dei contenuti dell'atto rifiutato, non soltanto mercè l'attestazione dell'ufficiale giudiziario sul fatto che ne aveva preso visione prima di rifiutarlo, fidefacente e mai contestata, ma anche in base al dato, già riferito al par. 10.1., che il R. il giorno precedente l'udienza si era recato personalmente nella cancelleria del Tribunale a depositare la memoria con cui svolgeva eccezioni esclusivamente in relazione alla ritualità dell'udienza preliminare.

La contumacia del R. avrebbe dovuto dunque essere dichiarata sin dalla prima udienza.

12.3. E' opportuno ad ogni buon conto rimarcare che allorchè il Tribunale ha respinto l'eccezione relativa alla seconda (per quanto detto superflua) notifica degli atti introduttivi, ha evidentemente esaminato l'originale, dando atto della ritualità degli avvisi effettuati ai sensi dell'art. 157 c.p.p., di cui non vi è traccia nella copia della relata esibita dal difensore, senza che le parti presenti sollevassero alcuna obiezione. La successiva dispersione dell'originale, quale che ne sia la causa, non è perciò sufficiente ad infirmare la constatazione fattane dal giudice procedente. Le deduzioni con le quali si prospetta che la notifica non poteva essere avvenuta a mani proprie, essendo il R. ricoverato in ospedale, sono del tutto irrilevanti sul punto della ritualità degli avvisi.

Mentre l'eccezione avanzata, sempre in relazione a tale seconda notifica, ex art. 171, comma 1, lett. d), era comunque sanata, a mente dell'art. 184 c.p.p., comma 1, per essersi l'imputato presentato e per essere stati concessi, seppure in accoglimento della richiesta diversamente motivata del difensore, termini a difesa.

13. L'eccezione riferita alla mancata acquisizione di documenti e denunzie prodotte dall'imputato.

In relazione alla mancata acquisizione di memorie e denunzie da lui prodotte il 25 maggio, il 1 giugno, il 4 giugno e il 27 settembre 2007, il R. denunzia la violazione dell'art. 237 c.p.p. (31 motivo, in relazione alle ordinanze in data 1 giugno, 4 giugno e 27 settembre 2007).

13.1. La norma evocata si riferisce ai documenti probatori (Sez. U, n. 26795 del 28/03/2006, Prisco, Rv. 234267, ha già chiarito come le norme sui documenti, tra cui l'art. 237 c.p.p., siano concepite e formulate con esclusivo riferimento ai documenti formati fuori del processo nel quale si chiede o si dispone che essi facciano ingresso, e come solo a questi siano dunque riferibili).

La denunzia di mancata acquisizione a norma dell'art. 237 c.p.p., non può che risolversi, perciò, nella doglianza di mancata acquisizione di prove, di natura documentale. Per potere essere considerata dovrebbe, ai sensi dell'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. d), contenere perlomeno specifico riferimento alla decisività dei documenti non acquisiti e alla riconducibilità della richiesta di acquisizione alle ipotesi dell'art. 495 c.p.p., comma 2.

13.2. Nel caso in esame, al contrario, dallo svolgimento della vicenda processuale emerge che detti documenti erano stati prodotti - quando non anche solo materialmente posati sul banco del Tribunale mentre questo era in camera di consiglio, come da attestazione del cancelliere allegata al verbale 27 settembre 2007 - dopo la chiusura dell'istruzione dibattimentale e la conclusione della discussione, avvenuta il 27 febbraio 2007. In assenza dei presupposti per provvedere ai sensi dell'art. 523 c.p.p., comma 6, e art. 507 c.p.p., neppure evocati e non emergenti dagli atti, correttamente quei documenti sono stati restituiti al ricorrente.

14. La questione sui termini a difesa.

Sostiene il R. (35^ motivo, in relazione alle ordinanze 15 maggio 2007, 25 maggio 2007, 1 giugno 2007, 4 giugno 2007, 27 settembre 2007) che sarebbero stati gravemente lesi il suo diritto di difesa e il suo diritto a un equo processo, perchè per quattro volte, a fronte di richiesta di termini formulata dal difensore ogni volta nuovamente nominato, sarebbero stati disposti rinvii non congrui (dal 15 al 25 maggio 2007, dal 25 maggio al 1 giugno 2007, dal 1 al 4 giugno 2007, dal 4 al 5 giugno 2007) e infine, a fronte di nuova analoga richiesta, sarebbe stato persino negato il rinvio (il 27 settembre 2007): in patente violazione dell'art. 108 c.p.p..

14.1 Si deve iniziare ancora una volta dagli atti.

Nelle prime due udienze, del 6 marzo e 4 luglio 2003, il R. era rappresentato dall'avvocato G. A, sostituito entrambe le volte ex art. 97 c.p.p., comma 4. Il 4 luglio le parti, compreso il sostituto dell'avvocato A, articolavano richiesta di prove; si rinviava al 31 ottobre. Il 31 ottobre 2003, a seguito di rinuncia al mandato dell'avvocato Argenio, il R. nominava difensore l'avvocato F. F, che chiedeva termine a difesa; il Tribunale rinviava, in accoglimento della richiesta, al 4 dicembre 2003. Il 4 dicembre 2003 il R. (la cui contumacia veniva revocata), a seguito di rinuncia al mandato dell'avvocato F, datata 24 novembre 2003, pervenuta in sezione il 28 novembre 2003, nominava in udienza difensore l'avvocato G. S, che chiedeva termine a difesa; si rinviava al 12 dicembre 2003, data in cui veniva sentito un teste. Il 2 marzo 2004 R. nominava nuovo difensore l'avvocato CS e produceva memoria. Nelle udienze successive venivano esaminati i testimoni e i documenti, veniva sentito M., mentre R. rifiutava di rendere esame ma faceva dichiarazioni spontanee, producendo memorie e copiosa documentazione.

Il 31 marzo 2006 si dichiarava chiuso il dibattimento; discutevano il Pubblico ministero e il difensore delle Ferrovie. Nel prosieguo discuteva l'altra parte civile e il difensore del M., mentre il R. rendeva ancora dichiarazioni spontanee producendo memorie, sinchè, il 27 febbraio 2007, il suo difensore concludeva, il R. rendeva altre dichiarazioni e produceva altre memorie; si rinviava al 27 marzo 2007 per eventuali repliche del Pubblico ministero. Il 27 marzo 2007 il Pubblico ministero chiedeva rinvio perchè non gli erano state trasmesse le memorie prodotte dall'imputato in sede di conclusioni; il R. produceva ulteriori memorie. Il 24 aprile 2007 il Tribunale disponeva ex art. 507 c.p.p. un'integrazione dell'istruttoria dibattimentale che veniva revocata, dopo un rinvio, il 15 maggio 2007. Lo stesso 15 maggio l'avvocato Srinunziava al mandato e il R. nominava l'avvocato F, che chiedeva un termine a difesa di 60 giorni; si rinviava al 25 maggio in accoglimento della richiesta difensiva (primo rinvio denunziato come incongruo).

Il 25 maggio 2007 l'avvocato Frinunziava al mandato e il R. nominava l'avvocato Lche chiedeva termine a difesa, contestualmente producendo altre memorie; il Pubblico ministero rinunziava alla replica; il Tribunale rinviava comunque al 1 giugno 2007 in accoglimento della richiesta difensiva (secondo rinvio denunziato come incongruo).

Il 1 giugno 2007 l'avvocato L rinunziava al mandato e R. nominava l'avvocato R che chiedeva termine; il R. produceva memoria che veniva acquisita assieme a quella del 25 maggio, con esclusione della documentazione allegata ad entrambe; si rinviava al 4 giugno 2007 in accoglimento della richiesta difensiva (terzo rinvio denunziato come incongruo).

Il 4 giugno 2007 l'avvocato R rinunziava al mandato e R. nominava l'avvocato F, che chiedeva termine; R. produceva memoria che veniva acquisita, con esclusione della denunzia allegata; si rinviava in accoglimento della richiesta difensiva al 5 giugno 2007 (quarto rinvio denunziato come incongruo).

Il 5 giugno 2007, tuttavia, il procedimento veniva rinviato per legittimo impedimento dell'imputato, impegnato in altro procedimento a suo carico; si rinviava al 15 giugno 2007. Il 15 giugno si rinviava per omessa notifica del precedente rinvio all'imputato (dalla relazione dei Carabinieri risultava che il R., presente in cancelleria il 12 giugno 2007, alla vista dei Carabinieri che intendevano notificargli il verbale si era dato a precipitosa fuga); veniva acquisita ulteriore memoria del R..

Il 22 giugno 2007 R. ricusava il giudice; il procedimento veniva sospeso in attesa della decisione della Corte di appello; il 6 luglio, 13 luglio, 19 luglio e 18 settembre si rinviava ancora in attesa della decisione della Corte di appello. Il 27 settembre 2007, veniva acquisita la decisione della Corte di appello di inammissibilità della ricusazione; R. produceva memorie con allegati, depositava rinunzia al mandato dell'avvocato Fe nominava nuovo difensore l'avvocato AC che chiedeva termine; il Tribunale acquisiva la memoria escludendo gli allegati e, su sollecitazione della parte civile, rigettava la richiesta di termine a difesa (ultimo provvedimento denunziato); R. rendeva altre dichiarazioni; il Pubblico ministero rinunziava ancora alla replica e il Tribunale emetteva sentenza.

14.2. Riassumendo: nel corso del giudizio di primo grado si sono succeduti ben otto difensori, compreso quello che è poi tornato ad assistere il R. in appello e in Cassazione.

Le ultime cinque rinunce e sostituzioni, in relazione alle quali l'imputato lamenta che i termini a difesa non erano congrui o (per l'ultima) non erano stati concessi, sono avvenute dopo che le parti avevano concluso e si era rinviato solo per replica del Pubblico ministero, dato che il R., contestualmente e dopo la discussione del suo difensore aveva prodotto nuove memorie e documenti; le ultime quattro sostituzioni sono addirittura successive alla rinunzia alla replica da parte del Pubblico ministero; le rinunzie depositate dal R. sono identiche nel riferirne la ragione alla scarsità di tempo, ma i difensori sostituiti e i nuovi nominati non sono mai comparsi e non risulta accettazione delle nomine fatte in udienza dal R.; di fatto dopo l'ultimo rinvio per termini a difesa il processo è slittato di oltre tre mesi e mezzo (per impedimento dell'imputato, per essersi il R. sottratto alla notifica del rinvio, per via di una inammissibile ricusazione del giudice); per tutte le udienze impiegate, dopo la conclusione della discussione (27 febbraio 2007) e la revoca dell'ordinanza ex art. 507 c.p.p. (15 luglio 2007), ad accondiscendere alle richieste di termini a difesa dei nuovi difensori, l'unica attività svolta è stata ascoltare e riascoltare il R. che chiedeva di rendere spontanee dichiarazioni, e acquisire sue ulteriori memorie.

15. L'abuso del processo.

L'analitica esposizione delle vicende processuali fin qui condotta serve alla constatazione di come anche l'avvicendamento di difensori, realizzato a chiusura del dibattimento secondo uno schema reiterato non giustificato da alcuna reale esigenza difensiva, non avesse altra funzione che ottenere, come le eccezioni di nullità manifestamente infondate prima esaminate e la ricusazione dichiarata inammissibile, una dilatazione dei tempi processuali: che ha poi sortito, anche se solo nel prosieguo, l'effetto della declaratoria di estinzione dei reati per prescrizione.

Lo svolgimento e la definizione del processo di primo grado sono stati insomma ostacolati da un numero esagerato di iniziative difensive, ciascuna in astratto di per sè espressione di una facoltà legittima, ma che, essendo in concreto del tutto prive di fondamento e di scopo conforme alle ragioni per cui dette facoltà sono riconosciute, hanno realizzato un abuso del processo, che rende le questioni di nullità prospettate in relazione all'art. 108 c.p.p. manifestamente infondate.

15.1. Si intende parlare, in relazione all'aspetto in esame, specificamente di abuso degli strumenti difensivi del processo penale per ottenere non garanzie processuali effettive o realmente più ampie, ovvero migliori possibilità di difesa, ma una reiterazione tendenzialmente infinita delle attività processuali.

Ciò non di meno, per chiarire sin d'ora quali sono i termini oggettivi che consentono di qualificare abusiva una qualsivoglia strategia processuale, civile o penale, condotta apparentemente in nome del diritto fatto valere, non può non ricordarsi che è oramai acquisita una nozione minima comune dell'abuso del processo che riposa sull'altrettanto consolidata e risalente nozione generale dell'abuso del diritto, riconducibile al paradigma dell'utilizzazione per finalità oggettivamente non già solo diverse ma collidenti ("pregiudizievoli") rispetto all'interesse in funzione del quale il diritto è riconosciuto.

Il carattere generale del principio dipende dal fatto che, come osserva autorevole Dottrina, ogni ordinamento che aspiri a un minimo di ordine e completezza tende a darsi misure, per così dire di autotutela, al fine di evitare che i diritti da esso garantiti siano esercitati o realizzati, pure a mezzo di un intervento giurisdizionale, in maniera abusiva, ovvero eccessiva e distorta.

Sicchè l'esigenza di individuare limiti agli abusi s'estende all'ordine processuale e trascende le connotazioni peculiari dei vari sistemi, essendo ampiamente coltivata non solo negli ordinamenti processuali interni, ma anche in quelli sovrannazionali. E viene univocamente risolta, a livello normativo o interpretativo, nel senso che l'uso distorto del diritto di agire o reagire in giudizio, rivolto alla realizzazione di un vantaggio contrario allo scopo per cui il diritto stesso è riconosciuto, non ammette tutela.

In relazione alla nozione di abuso riferita ai diritti di azione, è sufficiente richiamare, per la materia processuale civile, Sez. U. civ., n. 23726 del 15/11/2007, Rv. 599316, che rimarca come nessun procedimento giudiziale possa essere ricondotto alla nozione di processo giusto ove frutto, appunto, di abuso del processo "per esercizio dell'azione in forme eccedenti, o devianti, rispetto alla tutela dell'interesse sostanziale, che segna il limite, oltrechè la ragione dell'attribuzione, al suo titolare, della potestas agendi".

In ambito sovrannazionale l'art. 35, p. 3 (a) (già 35, p. 3, e prima 27) della Convenzione Europea dei diritti dell'uomo (secondo cui la Corte dichiara irricevibile ogni ricorso individuale presentato ai sensi dell'art. 34 se ritiene che "il ricorso è incompatibile con le disposizioni della Convenzione o dei suoi Protocolli, manifestamente infondato o abusivo") consente, nella interpretazione consolidata della Corte di Strasburgo, di ritenere "abusivo" e dunque irricevibile il ricorso quando la condotta ovvero l'obiettivo del ricorrente sono manifestamente contrari alla finalità per la quale il diritto di ricorrere è riconosciuto. In altri termini, come dice l'esplicazione della norma divulgata dalla Corte di Strasburgo nella "Guida pratica sulla ricevibilità" (in www.echr.coe.int) al punto 134: "La nozione di abuso ai sensi dell'art. 35 p. 3 a) deve essere compresa nel suo senso comune contemplato dalla teoria generale del diritto - ossia (come) il fatto, da parte del titolare di un diritto, di attuarlo al di fuori della sua finalità in modo pregiudizievole (La notion "d'abus", au regard de l'article 35 p. 3 a), doit erre compnse dans son sens ordinaire retenu par la theorie generale du droit - à savoir le fait, par le titulaire d'un droit, de le mettre en oeuvre en dehors de sa finalitè d'une maniere prejudiciable).

Pertanto, è abusivo qualsiasi comportamento di un ricorrente manifestamente contrario alla vocazione del diritto di ricorso stabilito dalla Convenzione e che ostacoli il buon funzionamento della Corte e il buono svolgimento del procedimento dinanzi ad essa (Des lors, est abusif tout comportement d'un requerant manifestement contraire à la vocation du droit de recours etabli par la Convention et entravant le bon fonctionnement de la Cour ou le bon deroulement de la procedure devant elle) (Molubovs e altri c. Lettonia, p.p. 62 e 65)". Non può non ricordarsi inoltre il provvedimento della Corte EDU del 18 ottobre 2011, Petrovic c. Serbia, ric. n. 56551/11, per quanto successivo alla presente decisione, in relazione al "concetto di abuso, ai sensi dell'art. 35 p. 3 della Convenzione (...) inteso (...) come esercizio dannoso di un diritto, per scopi diversi da quelli per i quali è previsto".

Amplissima è poi la giurisprudenza della Corte di Giustizia UE che richiama la nozione di abuso per affermare la regola interpretativa che colui il quale si appelli al tenore letterale di disposizioni dell'ordinamento comunitario per far valere avanti alla Corte un diritto che confligge con gli scopi di questo (è contrario all'obiettivo perseguito da dette disposizioni), non merita che gli si riconosca quel diritto (v. in particolare sentenza 20 settembre 2007, causa C-16/05, Tum e Dari, punto 64; sentenza 21 febbraio 2006, causa C-255/02, Halifax e a., e ivi citate, a punto 68).

15.2. Alla luce della giurisprudenza delle Sezioni Unite civili, della Corte di Strasburgo e della Corte di Lussemburgo, l'abuso del processo consiste, dunque, in un vizio, per sviamento, della funzione; ovvero, secondo una più efficace definizione riferita in genere all'esercizio di diritti potestativi, in una frode alla funzione.

E quando, mediante comportamenti quali quelli descritti all'inizio del presente paragrafo 15, si realizza uno sviamento o una frode alla funzione, l'imputato che ha abusato dei diritti o delle facoltà che l'ordinamento processuale astrattamente gli riconosce, non ha titolo per invocare la tutela di interessi che non sono stati lesi e che non erano in realtà effettivamente perseguiti.

16. L'art. 108 c.p.p., in particolare.

Tornando all'art. 108 c.p.p., la disposizione prevede la concessione di un congruo termine a difesa, con riferimento alle situazioni di difensore nominato d'ufficio o di fiducia in sostituzione del precedente nei casi di "rinunzia, revoca o incompatibilità" (per la non estensibilità della previsione cfr. Corte cost. sent. n. 470 del 1997, ordd. nn. 162 del 1998, 464 del 1998, 17 del 2006). La prescrizione non è espressamente accompagnata da una specifica sanzione di nullità in caso di sua violazione; ciò non di meno l'eventuale violazione determina, secondo orientamenti consolidati, una nullità a regime intermedio in forza della norma generale posta dall'art. 178 c.p.p., comma 1, lett. c), in quanto incide sull'assistenza dell'imputato.

Sicchè non può dare luogo a nullità alcuna il diniego di termini a difesa o la concessione di termini a difesa ridotti rispetto a quelli previsti dall'art. 108 c.p.p., comma 1, quando nessuna lesione o menomazione ne derivi, in assoluto, all'esercizio effettivo del diritto alla difesa tecnica.

16.1. La disposizione d'altronde, come rimarca Corte cost., ord. n. 16 del 2006, è esclusivamente dedicata a disciplinare l'istituto del termine a difesa - il quale presuppone, ma non regola, la revoca o la rinuncia del difensore precedentemente nominato -, di modo che, in assenza di altra norma che espressamente disciplini anche tali facoltà, essa si presta a uso arbitrario.

L'uso arbitrario trasmoda poi in patologia processuale, dunque in abuso, quando l'arbitrarietà degrada a mero strumento di paralisi o di ritardo e il solo scopo è la difesa dal processo, non nel processo: in contrasto e a pregiudizio dell'interesse obiettivo dell'ordinamento e di ciascuna delle parti a un giudizio equo celebrato in tempi ragionevoli.

In questo caso non soltanto la norma non legittima ex post eccezioni di nullità, ma va escluso, in radice, che il diritto in essa previsto possa essere riconosciuto.

16.2. In conclusione, nè il rigetto della richiesta finale di termini a difesa nè i rinvii per un numero di giorni inferiori rispetto a quelli indicati dall'art. 108 c.p.p. hanno prodotto alcuna nullità, non avendo determinato una reale lesione del diritto di difesa dell'imputato o di altri sui diritti fondamentali. Deve anzi riconoscersi che del tutto correttamente il giudice del merito ha rigettato la richiesta finale di un rinvio ai sensi dell'art. 108 c.p.p., che nella situazione processuale considerata (in cui il Pubblico ministero aveva rinunciato a replicare e quindi non v'era ulteriore spazio per la discussione) il ricorrente non aveva titolo per invocare.

17. La riqualificazione della condotta di truffa in abuso d'ufficio, chiesta dal Procuratore Generale.

Come anticipato, il Procuratore Generale ha chiesto la qualificazione dei fatti contestati come truffa alla stregua di abuso d'ufficio, osservando che gli elementi della fattispecie descritta nell'art. 323 c.p. sono tutti in fatto già contenuti nell'imputazione. La richiesta comporta la preliminare constatazione di quanto in effetti è stato contestato e addebitato nelle sentenze di merito.

17.1. I fatti addebitati al R. e al M. a titolo di truffa, secondo il capo d'imputazione, sono nel dettaglio i seguenti.

R. aveva agito quale legale di quindici dipendenti delle Ferrovie dello Stato, in favore dei quali il Pretore di Napoli aveva emesso sentenza di condanna delle Ferrovie al pagamento della somma complessiva di lire 17.674.860, oltre accessori e spese legali.

M. aveva agito quale "Vice Pretore onorario della Pretura di Avellino con funzioni di Giudice dell'esecuzione e in violazione dei doveri propri della pubblica funzione esercitata". In concorso avevano posto in essere una fittizia e artificiosa proliferazione di crediti attraverso: (a) la cessione dei crediti iniziali dei lavoratori verso le Ferrovie dello Stato, liquidati nelle sentenze di merito, all'avv. R. e da questi a trentacinque associazioni di fatto, tutte denominate con nomi di santi, aventi sede presso lo studio del medesimo avvocato e fittiziamente costituite al solo scopo d'illecita proliferazione; (b) la promozione di procedure esecutive da parte di tutte le predette associazioni, nella forma del pignoramento presso terzi (dodici soggetti, dei quali solo tre avevano reso dichiarazione positiva circa l'esistenza di un loro debito); (c) l'intervento di ciascuna associazione nella procedura esecutiva promossa dalle altre; (d) la mancata riunione da parte del Giudice dell'esecuzione, avv. M., di tutte le procedure nonostante l'identità delle pretese; (d1) la mancata verifica della legittimazione dei creditori istanti e (d2) l'emanazione, da parte del medesimo Giudice onorario, di trentacinque ordinanze di assegnazione, in ognuna delle quali erano liquidate somme in favore di ciascuna delle trentacinque associazioni ed era liquidata, a titolo di spese del procedimento, in favore del procuratore avv. R., una somma calcolata sul valore complessivo di tutti i crediti azionati, in via diretta o per intervento, e dunque lire 5.900.000 in ciascuna procedura per ciascun soggetto, per complessivi 7 miliardi (di lire) circa; (e) la notifica di 3.675 precetti a tre terzi pignorati, San Paolo IMI s.p.a., Banco di Napoli e Poste s.p.a. (1.225 per ciascuno), con i quali veniva richiesta la complessiva somma di circa 4 miliardi e 434 milioni.

I due imputati avevano così, in concorso, indotto "in errore i terzi pignorati circa l'effettiva entità e spettanza dei crediti" e conseguito "un ingiusto profitto per l'avv. R. in ragione del versamento, da parte del terzo esecutato San Paolo IMI s.p.a., di trentaquattro assegni circolari dell'importo di lire 42.553.316 ciascuno, di un assegno circolare dell'importo di lire 41.318.546 e di un assegno circolare dell'importo di lire 1.400.000, nonchè in ragione del versamento, da parte del terzo esecutato Banco di Napoli s.p.a., di trentacinque vaglia cambiari dell'importo di lire 42.107.275 ciascuno e di trentacinque vaglia cambiari dell'importo di lire 386.374 ciascuno", "con corrispondente danno patrimoniale di rilevante entità per il debitore Ferrovie dello Stato s.p.a.".

Avevano poi tentato di conseguire un ulteriore ingiusto profitto - pari alla residua somma oggetto dei precetti - in danno del debitore Ferrovie dello Stato s.p.a., non riuscendo nell'intento per cause indipendenti dalla loro volontà.

17.2. Il Tribunale ha condannato gli imputati per truffa evidenziando, ai fini che qui rilevano: la natura fittizia delle trentacinque associazioni cessionarie, costituite ai sensi dell'art. 36 c.c. e della L. n. 266 del 1991, aventi tutte nomi di santi e quale oggetto sociale attività di beneficenza, di fatto non operanti; l'assenza di giustificazione economica sostanziale della cessione dei crediti a tali associazioni di fatto; la circostanza che il R. aveva agito nella duplice veste di rappresentante legale e difensore delle trentacinque associazioni che, in data 12 novembre 1997, avevano notificato alle Ferrovie dello Stato trentacinque atti di precetto, per importi variabili da 3 a 18 milioni di lire, cui aveva fatto seguito l'avvio di trentacinque procedure esecutive nella forma del pignoramento mobiliare presso terzi, ex artt. 543 ss. c.p.c.; la circostanza che ciascuna delle trentacinque associazioni - tutte egualmente sia rappresentate sia difese dal R. - aveva agito ex art. 543 per la propria quota di credito e che ciascuna delle altre trentaquattro era altresì intervenuta per tale quota nell'ambito delle diverse procedure, tanto avendo determinato un numero complessivo di 1.225 pretese creditorie azionate, contemporaneamente, da ciascuna nella veste di creditore procedente e per altre trentaquattro volte in quella di creditore interveniente; la circostanza che tutte le procedure erano state trattate dal M. nella medesima udienza, del 22 dicembre 1997; la circostanza che per tutte il M. si era riservato la decisione depositando poi, il 10 giugno 1998, trentacinque ordinanze di assegnazione identiche, salvo l'ammontare delle cifre assegnate; che in tutte il M. aveva liquidato per ciascun creditore, in ciascuna procedura, la somma di lire 5.900.000; la circostanza che l'importo pignorato ammontava complessivamente a 345 milioni di lire, pari a 115 milioni per ogni terzo da dividersi per trentacinque, ma l'importo delle somme liquidate, comprese le spese di procedura e gli onorari di precetto, era complessivamente superiore a 7 miliardi di lire (lire 5.900.000 a ciascun creditore per trentacinque procedure, il tutto trentacinque volte); il fatto che di seguito il R. aveva notificato ai tre terzi pignorati 3.675 precetti, pari a 1.225 precetti per ciascuno, con i quali era richiesta la somma complessiva di circa 4 miliardi di lire.

17.3. La Corte di appello ha quindi in particolare osservato: che l'abnorme proliferazione delle spese era stata resa possibile dalla mancata verifica ad opera del M., giudice dell'esecuzione, della legittimazione dei creditori procedenti e intervenuti, ovverosia delle trentacinque associazioni di fatto, nonchè dalla omessa riunione delle varie procedure, alla quale il giudice doveva provvedere al fine di rendere operante il concorso dei creditori, dando corso a una procedura unitaria nei confronti di ciascuno dei terzi esecutati.

17.4. I ricorrenti hanno sostenuto di contro la legittimità del loro operato, e il R. ha allegato al ricorso, a mò di esempio della ritualità formale dei procedimenti e delle assegnazioni, tra l'altro una delle ordinanze di assegnazione, da cui risulta: una somma pignorata pari a lire 6.000.000; l'intervento delle altre trentaquattro associazioni; l'imputazione della somma assegnata ex art. 510 c.p.c. alle sole spese del procedimento; la liquidazione per ciascun creditore di spese della procedura per lire 5.900.000, oltre accessori e somme successive; la dichiarazione, per l'effetto, della "incapienza del credito" per sorti, interessi e il residuo delle spese, posto a carico delle Ferrovie e ammontante per ciascun creditore a lire 5.772.480, di cui lire 1.467.579 per residui onorari di avvocato, lire 4.207.062 per residui diritti di procuratore, lire 97.839 per residui esborsi.

17.5. Esattamente, dunque, il Procuratore Generale osserva che nel fatto contestato e ritenuto dai giudici del merito può già integralmente individuarsi una condotta integrante il reato di abuso d'ufficio, ascritta in concorso ai due imputati (ex art. 110 c.p. e art. 323 c.p., comma 2).

Del tutto esplicito è il riferimento, nel capo d'imputazione, alla condotta abusiva del giudice dell'esecuzione concretatasi nella violazione di norme di legge, in specie del disposto dell'art. 273 c.p.c., comma 1, ancorchè non formalmente richiamato, e alla intenzionale produzione d'ingiusto vantaggio patrimoniale per il R. e per le trentacinque associazioni creditrici con contestuale e corrispondente danno ingiusto per la società esecutata e per i terzi pignorati.

Sulla sussistenza di una condotta oggettivamente abusiva del M. i giudici del merito hanno, come si è visto, ampiamente motivato segnalando sia gli aspetti costitutivi di specifiche violazioni di legge sia l'obiettiva esistenza di una eclatante ingiusta locupletazione patrimoniale del R. a danno delle persone offese, alla cui produzione era inequivocabilmente funzionale l'attività abusiva.

In ordine a tali aspetti i ricorrenti si sono ampiamente difesi nei giudizi di merito, hanno sviluppato specifiche censure nei ricorsi, hanno quindi ribadito e illustrato le rispettive prospettazioni con le memorie prodotte a seguito del termine loro riconosciuto dalla Corte a seguito della anticipazione in udienza del problema della esatta qualificazione dei fatti, posta dal Procuratore Generale.

17.6. Si deve poi concordare con il Procuratore Generale anche quando osserva che non soltanto l'abuso d'ufficio è stato astrattamente contestato e ritenuto in concreto realizzato dalle sentenze di merito, ma che le censure articolate in entrambi i ricorsi a tale proposito appaiono palesemente infondate o irrilevanti.

Si tratta difatti di censure pressochè esclusivamente in diritto, che si risolvono nella tesi dell'assenza delle omissioni di attività doverose contestate e della conformità invece a legge dell'operato del M. quale giudice dell'esecuzione. E in relazione agli aspetti di diritto prospettati, che hanno in concreto peso risolutivo, può darsi risposta da questa Corte per ragioni analoghe a quelle esposte al par. 9, a prescindere dalle eventuali carenze motivazionali della sentenza impugnata in relazione alle deduzioni sviluppate con gli atti di gravame.

18. La configurabilità dell'abuso d'ufficio.

Occorre al proposito premettere che quello che nelle loro deduzioni i ricorrenti paiono presupporre è che in tema di abuso d'ufficio il requisito della violazione di norme di legge s'estende al punto da richiedere che, allorchè la violazione è commessa dal giudice, l'abuso è configurabile solo se l'inosservanza concerne disposizioni tassative o la cui violazione è sanzionata da nullità.

Diversamente, ciò che in linea generale deve ritenersi rilevante ai fini della violazione di legge, è che l'atto di ufficio non sia stato posto in essere nel rispetto delle norme di legge che regolano un'attività ovvero che attribuiscono al pubblico ufficiale il "potere" di compierla.

18.1. Per qualsivoglia pubblica funzione autoritativa, in tanto può parlarsi di esercizio legittimo in quanto tale esercizio sia diretto a realizzare lo scopo pubblico in funzione del quale è attribuita la potestà, che del potere costituisce la condizione intrinseca di legalità. Secondo la giurisprudenza nettamente prevalente di questa Corte, si ha pertanto violazione di legge, rilevante a norma dell'art. 323 c.p., non solo quando la condotta di un qualsivoglia pubblico ufficiale sia svolta in contrasto con le norme che regolano l'esercizio del potere (profilo della disciplina), ma anche quando difettino le condizioni funzionali che legittimano lo stesso esercizio del potere (profilo dell'attribuzione), ciò avendosi quando la condotta risulti volta alla sola realizzazione di un interesse collidente con quello per il quale il potere è conferito.

Anche in questa ipotesi si realizza un vizio della funzione legale, che è denominato sviamento di potere e che integra violazione di legge perchè sta a significare che la potestà non è stata esercitata secondo lo schema normativo che legittima l'attribuzione (in termini analoghi, tra le tante, Sez. 6, n. 5820 del 09/02/1998, Mannucci, Rv. 211110; Sez. 6, n. 28389 del 19/05/2004, Vetrella, Rv. 229594; Sez. 6, n. 12196 dell'11/03/2005, Delle Monache, Rv. 231194; Sez. 6, n. 38965 del 18/10/2006, Fiori, Rv. 235277; Sez. 6, n. 41402 del 25/09/2009, D'Agostino, Rv. 245287; Sez. 5, n. 35501 del 16/06/2010, De Luca, Rv. 248496; Sez. 6, n. 35597 del 05/07/2011, Barbera).

Non interessa, in questa sede, verificare se tali arresti s'attaglino a tutta l'azione amministrativa. Certamente valgono allorchè si tratta di definire l'ambito dell'attività per legge doverosa dei giudici. La peculiarità della categoria sta nel fatto che per dettato costituzionale i giudici sono soggetti alla legge ed esercitano una funzione, quella giurisdizionale, che postula terzietà e imparzialità e si attua in un giusto processo il cui primo requisito è d'essere regolato dalla legge. Se si fa riferimento ai "doveri propri della pubblica funzione esercitata", si parla dunque anzitutto e inequivocabilmente di terzietà e di indifferenza rispetto agli interessi e ai soggetti coinvolti nel processo e di rispetto della legge, tassativa o ordinatoria che sia.

Neppure può indurre in errore, per il giudice, il riferimento che sovente si fa alla discrezionalità per indicare i suoi poteri di valutazione del merito. Se per discrezionalità s'intende, come per la pubblica amministrazione, la valutazione d'opportunità che attiene alla fase di ponderazione degli interessi, l'attività del giudice non ha di regola nulla di discrezionale. Il suo agire in funzione di arbitro e regolatore di una pretesa di parte non è connotato da libertà della scelta ma, come detto, dal principio di legalità ed è in tali termini sempre doveroso. Altra cosa è la cosiddetta discrezionalità che coincide con la valutazione di merito che compete al giudice effettuare allorchè si tratta di ricostruire la materialità del fatto (sostanziale o processuale) in vista della qualificazione di esso dal punto di vista della legge, cui in ogni caso consegue il cosiddetto "potere-dovere" - ossia il dovere che sorge da un potere (recte, da una potestà) a esercizio necessario - della applicazione della norma al caso concreto in essa sussumibile.

Altra cosa ancora è il giudizio secondo equità o la commisurazione equitativa del quantum, che non riguardano le situazioni in esame e che restano in ogni caso ancorati a parametri previsti dalla legge nonchè al rispetto del principio di eguaglianza, comportante in primo luogo rispetto della parcondicio civium.

18.2. Tornando al caso in esame e considerata la contestazione, il riferimento alla violazione dei doveri propri della pubblica funzione esercitata, nell'ambito di una ipotesi di concorso nell'attività tesa a procurare ingiusto vantaggio a colui che aveva intentato l'azione esecutiva (ovverosia al R. che agiva in proprio come difensore e sotto il nome delle associazioni pignoranti di cui era rappresentante e titolare) a scapito del debitore e dei terzi, richiama perciò anzitutto la violazione del dovere di imparzialità e terzietà (cfr. Sez. 6, n. 9862 del 20/01/2009, Rigoldi, Rv. 243532) e del principio della soggezione alla legge, cui si collegano specifici doveri del giudice, da un lato d'astensione, dall'altro di non ledere alcune parti procurando un vantaggio ingiusto ad altre (cfr., con le dovute differenze, Sez. 6, n. 3391 del 14/12/1995, Marini, Rv. 204496), da cui non va certamente esente il giudice dell'esecuzione.

Il contesto in cui è inserito il richiamo, relativo a un'abnorme lievitazione delle spese liquidate in favore delle associazioni creditrici facenti capo al coimputato, inequivocabilmente rimanda, inoltre, alla violazione del dovere del giudice di vigilare che le parti si comportino con lealtà e probità, secondo quanto previsto dall'art. 88 c.p.c., in relazione ai connessi poteri in tema di riduzione o condanna alle spese, ai sensi quantomeno dell'art. 92 c.p.c.. E sul punto relativo alla estensione e ai contenuti del dovere di conformazione al canone generale di buona fede oggettiva e correttezza, che ripetendo forza normativa dall'art. 2 Cost. deve improntare anche le azioni giudiziarie per il soddisfacimento della pretesa sostanziale, è sufficiente richiamare le considerazioni di Sez. U. civ., n. 23726 del 15/11/2007, Rv. 599316.

Anche prescindendosi dall'addebito relativo all'omessa verifica della legittimazione delle società cessionarie (evidentemente da intendere esteso alla inverosimile esistenza, alla luce dell'art. 476 c.p.c., e allegazione di tante copie munite di formula esecutiva quante servivano a legittimare l'assegnazione pro quota dei compendi pignorati in favore dei trentacinque creditori che agivano ognuno, in via principale o di intervento, per trentacinque volte), sta infine, e come giustamente è stato segnalato dal Procuratore Generale con rilievo decisivo, il riferimento alla omessa riunione delle trentacinque procedure in ciascuna delle quali avevano partecipato in forma di intervento i medesimi trentacinque creditori pignoranti, e alla liquidazione, ciò nonostante, a titolo di spese per ciascuno dei creditori in ognuna delle procedure, di una somma calcolata sul valore complessivo dei crediti azionati. Riferimento che inequivocabilmente e correttamente evoca la violazione di legge costituita dalla mancata adozione dei provvedimenti doverosi previsti dall'art. 273 c.p.c.: non già dal solo art. 274 c.p.c., come sostengono i ricorrenti.

Le trentacinque procedure intentate dai trentacinque cessionari, avrebbero potuto forse all'inizio essere formalmente considerate solo connesse (agli effetti dell'art. 274 c.p.c.); tuttavia la partecipazione per l'assegnazione, in ciascuna, di ognuno dei trentacinque pignoranti, come intervenienti, replicava ed estendeva le medesime pretese in ciascuna, e rendeva perciò le procedure complessivamente identiche quanto a soggetti e ad oggetto. Sicchè a venire in rilievo era alla sostanza il divieto di bis in idem, che costituisce principio generale immanente alle nozioni stesse, correlate, di azione e processo, valevole per ogni tipo di procedura.

Nè può dubitarsi dell'applicabilità dell'art. 273 c.p.c. alle procedure esecutive. Il principio di tendenziale unitarietà della esecuzione, il cui primo postulato è che più creditori possono colpire il medesimo bene con unico pignoramento, ha indotto dottrina e giurisprudenza a dare per scontato il dato, liquidando la soluzione positiva con pochissime parole, evidentemente perchè non sembrava necessario soffermarsi più di tanto sull'eventualità - ritenuta al limite dell'inverosimiglianza - che gli stessi creditori potessero agire sullo stesso bene con più procedure contemporanee davanti allo stesso giudice, senza che questo procedesse a riunirle. Per altro, persino nell'ipotesi di pignoramenti successivi, per giurisprudenza risalente e consolidata il giudice dell'esecuzione che venga comunque a conoscenza (d'ufficio o su rilievo di parte) della contemporanea pendenza di due procedimenti esecutivi ricollegabili a due pignoramenti diretti sul medesimo bene, deve necessariamente provvedere alla riunione dei due procedimenti esecutivi, e anche ove ciò comporti la revoca del provvedimento di assegnazione eventualmente emesso e non ancora eseguito (Sez. 3 civ., n. 1703 del 12/06/1973, Rv. 364627; Sez. 3 civ., n. 4713 del 11/07/1983, Rv. 429605; Sez. 3 civ., n. 17029 del 20/07/2010, Rv. 614235; Sez. 3 civ., n. 20595 del 04/10/2010, Rv. 615419, che specifica come, in materia di espropriazione di crediti presso terzi, il pignoramento successivo di quote diverse del medesimo credito non costituisca pignoramento di beni diversi, ma di un bene unitario).

All'aspetto in esame della vicenda oggetto d'imputazione pienamente si confanno, d'altro canto, i rilievi svolti in generale nella trattazione del tema dell'abuso del processo, nonchè, più in particolare, le considerazioni di Sez. U. civ., n. 23726 del 2007, già più volte richiamata, sul fatto che la disarticolazione, da parte del creditore, dell'unità sostanziale del rapporto, sia pur nella fase patologica della coazione all'adempimento, oltre a violare il generale dovere di correttezza e buona fede, in quanto attuata nel processo e tramite il processo, si risolve automaticamente anche in abuso dello stesso.

18.3. In conclusione, nel caso in esame l'evidente pretestuosità del frazionamento dei crediti, non avente altra funzione che quella, realizzata, di far lievitare le spese legali in progressione geometrica e assolutamente sproporzionata alla sorte, comportava il dovere del giudice, innanzi al quale la situazione di abuso si era manifestata, di intervenire facendo applicazione d'ogni norma che gli consentisse di arginare detto abuso: in modo diretto ovvero avvalendosi, in via sussidiaria, dei poteri riconosciutigli dall'art. 88 c.p.c., anche al fine, nel caso in esame di rilevanza decisiva, di escludere le spese eccessive e superflue.

In relazione alle altre deduzioni difensive sul punto, è quindi sufficiente aggiungere che la tesi secondo cui il frazionamento dei crediti e delle procedure non era idonea ad incidere sulla entità delle somme assegnate e liquidate e non avrebbe procurato un profitto del tutto ingiustificato al R., che operava nella doppia veste di rappresentante delle associazioni creditrici e di difensore, con pari danno dei terzi debitori e del debitore principale, è del tutto priva di fondamento. La incidenza e la locupletazione sono in re, nel divario prodotto tra valore delle somme dovute per sorte e spese liquidate nei giudizi di merito, da un lato; nell'ammontare, dall'altro, delle spese legali prodotte mediante le procedure oggetto di contestazione, che avevano raggiunto (senza contare le anomalie immediatamente rilevabili nella formazione dei precetti, redatti a mò di trattatelli giurisprudenziali con riproduzione per esteso delle sentenze di legittimità ritenute rilevanti, riflettentisi nel collegato calcolo delle spese autoliquidate) un valore 100 volte maggiore rispetto alle prime (da 70 milioni a 7 miliardi, a stare agli stessi calcoli del ricorrente): e senza ancora esaurire nè il debito principale nè le spese liquidate per le procedure, secondo quanto risulta dallo stesso atto d'assegnazione prodotto in copia dal R..

A fronte di tali dati obiettivi, irrilevanti appaiono le osservazioni che s'appuntano su aspetti assolutamente marginali, specie in relazione alla natura di conferma di condanna generica della sentenza impugnata. Irrilevanti sono in particolare le deduzioni circa i limiti entro i quali l'ordinanza di assegnazione ha valore di titolo esecutivo (e in cui si confonde tra accertamento doveroso del giudice dell'esecuzione circa l'idoneità del titolo e la correttezza della quantificazione del credito operata dal creditore nel precetto, che non fa però stato e non costituisce titolo - cfr. Sez. 3 civ., n. 5510 del 08/04/2003, Rv. 561980 - e valore di titolo esecutivo, invece, dell'ordinanza di assegnazione nei confronti del terzo e a favore dell'assegnatario per le spese liquidate nel provvedimento e per le spese conseguenti e necessarie per la sua concreta attuazione - cfr. Sez. 3 civ., n. 3976 del 18/03/2003, Rv. 561189 -). E irrilevanti sono ancora, a fronte dell'ammontare raggiunto, le puntualizzazioni in ordine alla veste di procuratore antistatario, o non antistatario, attribuibile al R., ovvero alle divergenze, nell'ordine di pochi milioni, delle somme dovute in forza delle sentenze di condanna o alla loro imputazione.

Inammissibili sono inoltre le deduzioni: sulla conformità a legge della costituzione delle associazioni cessionarie perchè irrilevanti; sulla effettiva operatività di tali associazioni, in quanto similmente impiegate per la cessione di crediti in occasione del fallimento "De Asmundis", perchè contraddittoria e non conducente; sulla non artificiosità del frazionamento dei crediti mediante cessione alle trentacinque associazioni e sulla conformità a legge degli istituti di diritto sostanziale e processuale attivati, perchè prive di intrinseca consistenza e ancorate ad aspetti esclusivamente formali non pertinenti; sulle asserite violazioni degli obblighi incombenti ai custodi poste in essere dalle persone offese e su illeciti civili e penali ad esse ascrivibili, perchè costituenti ardite costruzioni avulse da dati di realtà relativi alla legalità delle pretese e con essi anzi in contrasto; sulla ingiustizia del profitto e sulla intenzionalità della condotta abusiva, perchè del tutto generiche e manifestamente infondate a fronte dei dati obiettivi già rilevati.

Quello che conta è che le procedure di cui si discute non avevano la funzione che è propria dei procedimenti di esecuzione, di realizzare coattivamente il comando contenuto nelle sentenze di condanna, ma tendevano al solo scopo di produrre e moltiplicare spese legali e che ciò è stato reso possibile grazie alla violazione dei doveri di controllo e intervento del giudice dell'esecuzione. Nessuno degli argomenti difensivi lambisce l'aspetto dell'immanente e complessivo vizio funzionale, nè supera perciò l'evidenza delle violazioni di legge.

19. L'assorbimento nella truffa.

Ciò nonostante non può accogliersi la sollecitazione alla riqualificazione di tali fatti alla stregua del solo reato di abuso d'ufficio.

Proprio la enunciazione delle condotte integranti tale reato nell'ambito della contestazione del reato di truffa, rende palese che il fatto di abuso è stato considerato assorbito in quello più ampio di truffa, in virtù della clausola di consunzione contenuta nell'art. 323 c.p.p. ("salvo che il fatto non costituisca un più grave reato"), che impone di considerare la fattispecie d'abuso d'ufficio quale residuale e sussidiaria e che è diretta, indipendentemente da un rapporto di specialità tra fattispecie astratte, ad escludere l'applicazione del precetto penale nel caso in cui la condotta materiale di abuso, integri al tempo stesso un reato più grave e in esso si consumi. E ciò si verifica non solo quando il fatto commesso realizza un ulteriore reato che implica l'abuso di poteri dell'ufficio (peculato, corruzione, estorsione) ma anche quando una fattispecie criminosa di diverso contenuto illecito (truffa, falso) è commessa, o è aggravata, mediante un comportamento che costituisce abuso di ufficio, sempre però che la condotta integrante l'abuso s'esaurisca interamente nella fattispecie maggiore.

Non essendovi stata impugnazione ad opera del Pubblico ministero della sentenza di primo grado sul punto, non è compito di questa Corte stabilire se l'assorbimento è anche in fatto corretto, il dato storico è quanto rileva.

Il reato d'abuso sarebbe suscettibile di autonoma considerazione, pertanto, solo nell'ipotesi in cui, come rileva il Procuratore generale, non fosse ravvisabile la truffa per difetto di alcuno dei suoi elementi costitutivi. Ma questo allo stato, e contrariamente a quanto affermano i ricorrenti, non può dirsi.

20. La condotta di truffa.

I ricorrenti hanno contestato la configurabilità della truffa sotto molteplici profili, ma l'argomento di diritto, in base al quale è stata chiesta dal Procuratore generale la riqualificazione, è che non sarebbero ravvisabili nel caso in esame l'induzione in errore e l'atto dispositivo - elemento costitutivo implicito della truffa - non individuabile nelle ordinanze di assegnazione.

20.1. Deve ricordarsi dunque che effettivamente nella formulazione dell'art. 640 c.p. la condotta tipica, consistente nella realizzazione di artifici o raggiri, introduce una serie causale che porta agli eventi di ingiusto profitto con altrui danno passando attraverso l'induzione in errore; e che l'induzione in errore pur rappresentando il modo in cui si manifesta il nesso causale, non lo esaurisce. Dottrina e giurisprudenza tradizionalmente concordano nel rilevare che il passaggio dall'errore agli eventi consumativi deve essere contrassegnato da un elemento sottaciuto dal legislatore, costituito dal comportamento "collaborativo" della vittima che per effetto dell'induzione arricchisce l'artefice del raggiro e si procura da sè medesimo danno. La collaborazione della vittima per effetto del suo errore rappresenta in altri termini il requisito indispensabile perchè ingiusto profitto e danno possano dirsi determinati dalla condotta fraudolenta dell'agente; e costituisce il tratto differenziale del reato in esame rispetto ai fatti di mera spoliazione da un lato, ai reati con collaborazione della vittima per effetto di coartazione dall'altro.

Tradizionalmente codesto requisito implicito, ma essenziale, della truffa quale fatto di arricchimento a spese di chi dispone di beni patrimoniali, realizzato tramite lo stesso grazie all'inganno, è definito "atto di disposizione patrimoniale". 20.2. La definizione è tuttavia imprecisa, nel senso che apparentemente evoca categorie civilistiche rispetto alle quali è impropria. Nulla nella formulazione della norma consente difatti di restringere l'ambito della "collaborazione carpita mediante inganno" ad un atto di disposizione da intendersi nell'accezione rigorosa del diritto civile e di escludere, all'inverso, che il profitto altrui e il danno proprio o di colui del cui patrimonio l'ingannato può legittimamente disporre, sia realizzato da costui mediante una qualsiasi attività rilevante per il diritto, consapevole e volontaria ma determinata dalla falsa rappresentazione della realtà in lui indotta. Più corretto e semplice è allora dire che per l'integrazione della truffa occorre, e basta, un comportamento del soggetto ingannato che sia frutto dell'errore in cui è caduto per fatto dell'agente e dal quale derivi causalmente una modificazione patrimoniale, a ingiusto profitto del reo e a danno della vittima.

Se, insomma, il senso riposto dell'atto di disposizione è che il danno deve potersi imputare ad un'azione che viene svolta all'interno della sfera patrimoniale aggredita, causata da errore e produttiva di danno e ingiusto profitto, il profilo penalisticamente rilevante della cooperazione della vittima non deve necessariamente riposare nella sua qualificabilità in termini di atto negoziale e neppure di atto giuridico in senso stretto, bastando la sua idoneità a produrre danno. Il così detto atto di disposizione ben può consistere per tali ragioni in un permesso o assenso, nella mera tolleranza o in una traditio, in un atto materiale o in un fatto omissivo: quello che conta è che sia un atto volontario, causativo di ingiusto profitto altrui a proprio danno e determinato dall'errore indotto da una condotta artificiosa. Non può per conseguenza in linea teorica escludersi che tale atto volontario consista nella dazione di denaro effettuata nella erronea convinzione di dovere eseguire un ordine del giudice conforme a legge.

Che poi nella vicenda in esame ricorresse in concreto tale ipotesi è questione di fatto che attiene al contesto della giustificazione, da esaminare alla luce delle censure sulla violazione del dovere di motivazione imposto dall'art. 578 c.p.p..

21. La violazione degli artt. 129 e 578 c.p.p..

Per unitarietà di discorso, va anticipato che la Corte di appello, dopo avere osservato quanto riportato al punto 17.3., ovverosia dopo avere trattato esclusivamente della esistenza di un uso oggettivamente abusivo dell'istituto della cessione dei crediti e delle procedure esecutive, si è limitata a osservare, anche ai fini della conferma delle statuizioni civili, che mancavano le condizioni per il proscioglimento ai sensi del capoverso dell'art. 129 c.p.p..

La sentenza impugnata, nel confermare la condanna degli imputati al risarcimento dei danni in favore delle parti civili, non ha dunque specificamente esaminato i motivi di merito dell'atto di appello, evocando una disposizione, quella dell'art. 129 c.p.p., comma 2, che andava al contrario coordinata con la norma posta dall'art. 578 c.p.p..

Questa impone difatti al giudice dell'appello, quando deve dichiarare estinto il reato per amnistia o prescrizione verificatasi nelle more del giudizio di secondo grado, di decidere sull'impugnazione ai soli effetti delle disposizioni e dei capi della sentenza impugnata che concernono gli interessi civili. E, come rammenta Set. U, n. 35490 del 28/05/2009, Tettamanti, Rv. 244273, ciò comporta che in relazione agli effetti civili la valutazione da compiersi ad opera del giudice d'appello che dichiari la prescrizione del reato, non è legata ai canoni di economia processuale fissati dall'art. 129 c.p.p., comma 2, ma è la stessa che deve assistere ogni decisione che confermi una condanna: approfondita nell'esame richiesto dal compendio probatorio acquisito ed esauriente nelle risposte da dare in fatto ai motivi d'appello.

21.1. Per quanto concerne le condotte contestate a titolo di truffa, deve perciò riconoscersi che, escluse le questioni che questa Corte ha potuto autonomamente esaminare in quanto in diritto o in quanto comunque palesemente inammissibili, restano senza risposta nella motivazione della sentenza impugnata le deduzioni di merito articolate negli atti d'appello di entrambi gli imputati: in ordine alla sussistenza della induzione in errore di coloro che avevano partecipato alle procedure di cui si discute per conto delle persone offese e all'induzione in errore, per conseguenza, di coloro che del patrimonio delle persone offese potevano legittimamente disporre; in ordine alla sussistenza, quindi, di un atto di disposizione volontario, ma frutto di induzione in errore, delle persone offese, nel senso prima precisato; in ordine alla sussistenza del concorso di entrambi gli imputati nelle svariate condotte di truffa ovvero di abuso contestate e alla natura intenzionale, per l'effetto, delle violazioni di legge realizzate dal M..

21.2. Analoghe carenze affliggono d'altronde, negli stessi limiti, la sentenza impugnata in relazione al reato di tentata estorsione contestato al capo B), che interessa la sola posizione del R..

Anche con riferimento a tale reato, le considerazioni già svolte in punto di contrarietà a diritto dell'agire complessivo del R. consentono sin d'ora di dichiarare manifestamente infondate le censure concernenti l'ingiustizia del profitto. Tuttavia occorre riconoscere che la Corte di appello non ha dato alcuna risposta alle doglianze con le quali si contestavano le prove dichiarative su cui è basata l'affermazione di responsabilità per la realizzazione del tentativo di estorsione. E poichè la costituzione di parte civile dell'istituto San Paolo si riferisce pure alla tentata estorsione, anche in relazione a codeste doglianze alla Corte d'appello era richiesta una valutazione di merito approfondita, alla quale non può supplire la Corte di legittimità. 21.3. Limitatamente agli aspetti evidenziati la sentenza impugnata dovrà dunque essere annullata con rinvio per nuovo esame al giudice civile competente in grado d'appello.

22. La deduzione del M. sulla prescrizione.

Manifestamente infondata è invece l'eccezione relativa alla prescrizione articolata nel ricorso M..

Il ricorrente muove dall'assunto che il suo contributo s'era esaurito con l'emissione delle ordinanze di assegnazione e sostiene che per tale ragione in relazione alla sua posizione il reato doveva ritenersi prescritto prima della sentenza di primo grado. Anche ad ammettere il presupposto fattuale, la conclusione è però del tutto erronea.

Il fatto reato oggetto d'imputazione è unitario e, vuoi che lo si voglia considerare alla stregua di abuso, vuoi che resista (nel giudizio di rinvio) la contestazione di truffa, trattandosi in entrambi i casi di reato d'evento, esso si consuma con la realizzazione dell'ingiusto profitto. Non ha alcun rilievo, al riguardo, l'eventualità che un concorrente abbia posto materialmente in atto una condotta meramente prodromica o conclusasi in anticipo rispetto al momento consumativo.

Dalla sentenza di primo grado (pag. 5) risulta che l'ultima dazione, di 70 vagli cambiari, per un importo complessivo superiore a lire 1.400.000.000 s'è avuta il 10 dicembre 1999. Considerati i termini di prescrizione, pari a sette anni e sei mesi, e le sospensioni nel corso del dibattimento di primo grado pari a undici mesi e nove giorni, la prescrizione è dunque maturata il 19 maggio 2008, senz'altro dopo la sentenza di primo grado, del 27 settembre 2007;

sarebbe in ogni caso successiva anche a considerare solo le sospensioni pari a sette mesi e 29 giorni, cui si riferisce la sentenza d'appello.

23. In conclusione, la sentenza impugnata deve essere annullata ai sensi dell'art. 622 c.p.p. limitatamente agli effetti civili, con rinvio alla Corte di appello di Roma in sede civile perchè proceda a nuovo esame degli aspetti di merito indicati ai paragrafi 21.1 e 21.2.

I ricorsi vanno per il resto rigettati.

Le spese processuali tra le parti dovranno essere regolate, anche in relazione al presente giudizio, secondo l'esito di quello di rinvio.

P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata limitatamente agli effetti civili e rinvia alla Corte di appello di Roma in sede civile. Rigetta i ricorsi nel resto. Spese processuali tra le parti al definitivo.

Così deciso in Roma, il 19 dicembre 2011.

Depositato in Cancelleria il 10 gennaio 2012