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Testimoniare sul contenuto delle intercettazioni viola i diritti della difesa (Cass. 20824/13)

14 maggio 2013, Cassazione penale

La deposizione testimoniale sul contenuto di intercettazioni telefoniche, infatti, non è inutilizzabile, giacchè la sanzione processuale dell'inutilizzabilità discende da espressi divieti di acquisizione probatoria ex art. 191 c.p.p. (inutilizzabilità generali) ovvero da una specifica previsione - che nel caso non è rinvenibile nell'ordinamento - della sanzione in relazione a un'acquisizione difforme dai modelli legali (inutilizzabilità speciali).

Tuttavia, tale deposizione testimoniale - in quanto diretta a introdurre nel processo i risultati delle intercettazioni in una maniera difforme da quella desumibile dalla disciplina di cui al capo 4^ del titolo 3^ del codice di procedura penale, posta a garanzia dei diritti della difesa - deve ritenersi affetta da nullità di ordine generale ex art. 178 c.p.p., lett. c), la cui rilevabilità è soggetta alle preclusioni previste dal capoverso dell'art. 182 c.p.p. e dall'art. 180 c.p.p.

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE QUINTA PENALE

(ud. 10/01/2013) 14-05-2013, n. 20824

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. FERRUA Giuliana - Presidente -

Dott. LAPALORCIA Grazia - Consigliere -

Dott. SABEONE Gerardo - Consigliere -

Dott. ZAZA Carlo - Consigliere -

Dott. GUARDIANO Alfredo - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

sentenza

sul ricorso proposto da:

1) Procuratore Generale presso la corte di appello di Genova;

nei confronti di:

O.D., nata il (OMISSIS);

2) E.B., nata in (OMISSIS);

avverso la sentenza pronunciata il 28.11.2011 dalla corte d'assise di appello di Genova;

visti gli atti, il provvedimento impugnato ed i ricorsi;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dott. Alfredo Guardiano;

udito il Pubblico Ministero nella persona del sostituto procuratore generale Dott. D'Angelo Giovanni, che ha concluso per il rigetto dei ricorsi.

Svolgimento del processo - Motivi della decisione

Con sentenza pronunciata il 28.11.2011 la corte di assise di appello di Genova confermava la sentenza con cui la corte di assise di Genova il 5.5.2008 aveva condannato E.B., imputata del reato di cui agli artt. 110, 602 e 602 ter c.p., alle pene, principale ed accessoria, ritenute di giustizia, mentre in riforma della stessa sentenza, assolveva O.D., imputata dei reati di cui all'art. 110 c.p., D.Lgs. 25 luglio 1998, n. 286, art. 12, comma 3, comma 3 bis, lett. c bis) e comma 3 ter (capo f); art. 110 c.p., L. n. 75 del 1958, art. 3, n. 4), n. 5) e n. 8), I. 75/58 (capo g); artt. 81, 110, 600 e 601 c.p. (capo h).

Avverso tale sentenza, di cui chiedono l'annullamento per ragioni diverse, hanno proposto ricorso, da un lato il procuratore generale presso la corte di appello di Genova, dall'altro la E.. Il procuratore generale presso la corte di appello di Genova eccepisce, in particolare, i vizi della mancanza di motivazione e della inosservanza di norme processuali stabilite a pena di inammissibilità, relativamente alla specifica eccezione sollevata dal pubblico ministero all'udienza del 24.10.2011 sulla inammissibilità dell'appello della O. perchè tardivo, in quanto, depositata la sentenza nel termine di novanta giorni fissato dai giudici di primo grado e notificato l'estratto contumaciale all'imputata il 18.9.2008, l'appello andava depositato nei successivi quarantacinque giorni, cioè entro il 3.11.2008, data entro la quale l'atto di impugnazione è stato effettivamente depositato, ma presso la cancelleria del tribunale di Genova e non presso la cancelleria della corte di assise di Genova, dove perveniva fuori termine il 4.11.2008, con violazione del disposto degli artt. 591, 582 e 585.

La E., dal suo canto, articola plurimi motivi di ricorso e, precisamente: 1) l'esistenza di un legittimo impedimento a comparire dell'imputata nel corso del dibattimento in appello in quanto destinataria di due decreti di espulsione che ne impedivano l'ingresso in territorio italiano; 2) la mancata assunzione di una prova decisiva costituita dai testi indicati dalla difesa (madre della persona offesa O.E.; datore di lavoro e marito dell'imputata), che, dopo essere stati ammessi, non venivano escussi, in mancanza di un'ordinanza di revoca, testi, ad avviso della ricorrente, decisivi perchè avrebbero potuto fare luce sulla condotta della persona offesa e su quella della stessa imputata, dimostrando come la O. non fosse sottoposta all'imperio dell'imputata; 3) la contraddittorietà e la manifesta illogicità della motivazione con riguardo all'art. 602 c.p., reato di cui difetta la prova degli elementi costitutivi, nonchè il vizio del travisamento dei fatti rispetto al contenuto delle intercettazioni disposte dall'autorità giudiziaria, da ritenere, secondo la ricorrente inutilizzabili, sia perchè nella richiesta di rinvio a giudizio e nel decreto che dispone il giudizio non se ne fa menzione, sia in quanto non hanno formato oggetto di perizia trascrittiva; con particolare riferimento alla conversazione n. 7485, interpretata dai giudici di merito nel senso che in essa la E. e l' O. parlano della parte restante del prezzo da corrispondere all'imputata per la vendita della persona offesa O., rileva la ricorrente che essa è suscettibile di una lettura alternativa, essendo possibile che i due interlocutori stessero parlando del prezzo di capi di abbigliamento di cui, a differenza di quanto ritenuto dalla corte di assise di appello, vi è prova che l' O. fa commercio, perchè lo ha riferito il teste dell'accusa P., sottolineando come possa ipotizzarsi una versione alternativa dei fatti per cui si è proceduto, secondo la quale la Om. sarebbe stata avviata alla prostituzione in Sardegna direttamente dall' O., senza nessun contributo della E., le cui dichiarazioni non sono attendibili, avendo quest'ultima affermato di avere appreso dall' O. di essere stata venduta, senza che, al riguardo, si sia proceduto alla escussione dello stesso O. e della presunta acquirente Om.; 4) lamenta il rigetto della richiesta di abbreviato condizionato alla escussione della persona offesa, motivato dal giudice per le indagini preliminari con l'erronea ed insufficiente affermazione che tale escussione sarebbe stata in contrasto con le esigenze di economia processuale, chiedendo, pertanto, in conseguenza di tale ingiustificato rigetto, il riconoscimento della riduzione di un terzo sulla pena inflitta; 5) eccepisce la mancata assunzione, in violazione dell'art. 238 c.p.p., comma 4 del verbale delle sommane informazioni rese dalla O. alla polizia giudiziaria di Sassari in data 16.5.2007, utilizzato per le contestazioni nel corso del controesame del teste, che inammissibilmente la corte territoriale ha ritenuto di non acquisire perchè contenente dichiarazioni non attinenti ai fatti oggetto del procedimento, mentre invece in esse la persona offesa ripercorreva le tappe della sua vicenda, dalla sua partenza dalla Nigeria al suo arrivo in Sardegna; 6) censura il difetto di motivazione in ordine alle ragioni per le quali, nei motivi di appello, si era sostenuta l'insussistenza della contestata aggravante; 7) lamenta la contraddittorietà della motivazione nella parte in cui la corte territoriale non ha riconosciuto in favore dell'imputata le circostanze attenuanti generiche e non ha contenuto la pena in misura più lieve, senza tenere conto del particolare contesto di superstizione e di disagio in cui ha operato l'imputata, costretta a prostituirsi anche in seguito ai fatti per cui si è proceduto nei sui confronti.

Tanto premesso, entrambi i ricorsi appaiono infondati e vanno rigettati.

Quanto al ricorso del Procuratore Generale, va rilevato che il termine per proporre appello nel caso in esame scadeva il 2.11.2008, in giorno festivo (domenica), per cui esso, giusta la previsione dell'art. 172 c.p.p., comma 3, è prorogato di diritto al giorno successivo non festivo, vale a dire al 3.11.2008, data in cui l'atto di appello risulta depositato presso l'ufficio impugnazioni del tribunale di Genova e poi trasmesso alla corte di assise di Genova (cfr. p. 119 del relativo fascicolo processuale), per cui il termine deve ritenersi rispettato con il deposito dell'atto di appello presso la struttura degli uffici giudiziari genovesi preposta alla ricezione delle impugnazioni ed al successivo smistamento delle stesse tra i vari giudici di primo grado.

Quanto al ricorso presentato dalla E., alcuni dei motivi che ne costituiscono il fondamento sono inammissibili, perchè con essi la ricorrente in larga parte ripropone questioni già proposte nei motivi di appello e risolte in senso sfavorevole per l'imputata dalla corte di assise di appello di Genova, dall'altro prospetta censure di fatto, non consentite, come è noto, in sede di legittimità.

Ciò vale in particolare per i motivi di ricorso elencati nei punti n. 2); n. 3) e n. 7), in precedenza indicati, sui quali la corte di assise di appello di Genova si è diffusamente intrattenuto con motivazione approfondita ed immune da vizi (cfr. pp. 18-21 dell'impugnata sentenza).

Come è noto, infatti, va dichiarato inammissibile, ai sensi del combinato disposto dell'art. 581 c.p.p., comma 1, lett. c), e art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), il ricorso per Cassazione fondato acriticamente, come nel caso in esame, su motivi che ripropongono le stesse ragioni già discusse e ritenute infondate dai giudici del gravame, dovendosi gli stessi considerare non specifici, ed anzi, meramente apparenti, in quanto non assolvono la funzione tipica di critica puntuale avverso la sentenza oggetto di ricorso.

La mancanza di specificità del motivo, infatti, deve essere apprezzata non solo per la sua genericità, come indeterminatezza, ma anche per la mancanza di correlazione tra le ragioni argomentate della decisione impugnata e quelle poste a fondamento dell'impugnazione, questa non potendo ignorare le esplicitazioni del giudice censurato, senza cadere nel vizio di mancanza di specificità, conducente, a norma dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità (cfr. Cass., sez. 4, 18.9.1997 - 13.1.1998, n. 256, rv. 210157; Cass., sez. 5, 27.1.2005 - 25.3.2005, n. 11933, rv. 231708; Cass., sez. 5, 12.12.1996, n. 3608, p.m. in proc. Tizzani e altri, rv. 207389). Allo stesso tempo attraverso le censure sub 3, la ricorrente prospetta, come si è detto, censure che si risolvono in una mera rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione impugnata, sulla base di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti, senza individuare vizi di logicità tali da evidenziare la sussistenza di ragionevoli dubbi, ricostruzione valutazione, quindi, precluse in sede di giudizio di Cassazione (cfr. Cass., sez. 1, 16.11.2006, n. 42369, De Vita, rv. 235507; Cass., sez. 6, 3.10.2006, n. 36546, Bruzzese, rv. 235510; Cass., sez. 3, 27.9.2006, n. 37006, Piras, rv. 235508).

Non può non rilevarsi, infatti, come il controllo del giudice di legittimità, pur dopo la novella dell'art. 606 c.p.p., ad opera della L. n. 46 del 2006, si dispiega, pur a fronte di una pluralità di deduzioni connesse a diversi atti del processo, e di una correlata pluralità di motivi di ricorso, in una valutazione necessariamente unitaria e globale, che attiene alla reale esistenza della motivazione ed alla resistenza logica del ragionamento del giudice di merito, essendo preclusa al giudice di legittimità, come si è detto, la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (cfr. Cass., sez. 6, 26.4.2006, n. 22256, Bosco, rv. 234148).

In relazione al motivo di ricorso di cui al n. 1), invece, non può condividersi la tesi difensiva secondo cui la E. era legittimamente impedita a presenziare al dibattimento in appello, trovandosi in Nigeria, in quanto destinataria di due decreti di espulsione che ne impedivano l'ingresso in Italia. Ed invero, come è stato affermato in sede di legittimità, anche al cittadino straniero espulso dal territorio dello Stato debbono applicarsi i principi generali in tema di legittimo impedimento a comparire, che non possono essere derogati dalla mera presenza di un decreto di espulsione, posto che, al fine di presenziare al processo, l'imputato può avvalersi delle procedure semplificate per il reingresso in Italia (cfr. Cass., sez. 3, 20.12.2006, n. 5763, Hodaj, rv. 236176).

Se, dunque, la presenza di un decreto di espulsione non è di per sè causa di legittimo impedimento a comparire, potendo il destinatario, come si è detto, avvalersi delle procedure semplificate per il rientro in Italia, la circostanza che la E. fosse stata espulsa dall'Italia non giustifica la sua mancata partecipazione al dibattimento in appello, mancando, peraltro, la prova certa che la imputata si trovasse in Nigeria ed avesse effettivamente preso un appuntamento per il giorno (OMISSIS) con i funzionari dell'ambasciata italiana nel paese africano (come sostenuto dal difensore) per organizzare il suo rientro in Italia allo scopo di partecipare al giudizio di appello, non avendo ritenuto i giudici di secondo grado, correttamente, sufficienti al riguardo i documenti prodotti dalla difesa in fotocopia, privi di certificazione in ordine alla provenienza dell'atto dall'autorità diplomatica italiana, all'udienza del 28.11.2011.

Con riferimento alla eccezione relativa al contenuto delle conversazioni intercettate ed, in particolare, della n. 7485 tra la E. e l' O., di cui ha riferito il teste P., essa si risolve in una inammissibile censura di fatto ed appare, al tempo stesso, del tutto generica.

Dalla lettura dei motivi di ricorso non si comprende, infatti, se la ricorrente intende contestare (e sotto quale profilo) la mancata indicazione delle suddette intercettazioni nella richiesta di rinvio a giudizio e nel decreto che dispone il giudizio ovvero la inutilizzabilità delle intercettazioni stesse per la mancata trascrizione delle registrazioni prevista dall'art. 268 c.p.p..

Peraltro sul contenuto delle conversazioni intercettate hanno, comunque, deposto i testi P. e R., gli ufficiali di polizia giudiziaria che hanno condotto le indagini (cfr. pp. 4-5 dell'impugnata sentenza), senza che la difesa della ricorrente prima dell'assunzione delle rispettive deposizioni o immediatamente dopo abbia formulato alcuna eccezione, come avrebbe dovuto, ai sensi dell'art. 182 c.p., comma 2.

La deposizione testimoniale sul contenuto di intercettazioni telefoniche, infatti, non è inutilizzabile, giacchè la sanzione processuale dell'inutilizzabilità discende da espressi divieti di acquisizione probatoria ex art. 191 c.p.p. (inutilizzabilità generali) ovvero da una specifica previsione - che nel caso non è rinvenibile nell'ordinamento - della sanzione in relazione a un'acquisizione difforme dai modelli legali (inutilizzabilità speciali). Tuttavia, tale deposizione testimoniale - in quanto diretta a introdurre nel processo i risultati delle intercettazioni in una maniera difforme da quella desumibile dalla disciplina di cui al capo 4^ del titolo 3^ del codice di procedura penale, posta a garanzia dei diritti della difesa - deve ritenersi affetta da nullità di ordine generale ex art. 178 c.p.p., lett. c), la cui rilevabilità è soggetta alle preclusioni previste dal capoverso dell'art. 182 c.p.p. e dall'art. 180 c.p.p. (cfr. Cass., sez. 6, 12.10.1998, n. 402, Aliu e altri, rv. 213328).

Quanto al motivo sub n. 4, ne appare evidente l'infondatezza, non avendo il ricorrente tempestivamente reiterato la richiesta di ammissione al rito abbreviato innanzi al giudice del dibattimento. La mancata riproposizione, prima della dichiarazione di apertura del dibattimento, della richiesta di giudizio abbreviato condizionato già respinta dal giudice dell'udienza preliminare, infatti, secondo il consolidato orientamento della giurisprudenza di legittimità condiviso da questo collegio, preclude l'attivazione del meccanismo del sindacato sul provvedimento reiettivo e dell'eventuale riconoscimento del diritto alla riduzione della pena (cfr., ex plurimis, Cass., sez. 3, 07/05/2009, n. 25983, S., rv. 243910).

Del pari è infondato il rilievo di cui al n. 5), in quanto la possibilità di utilizzare i verbali di prove di altri procedimenti rappresentati dalle dichiarazioni rese dal teste-persona offesa in presenza delle condizioni previste dall'art. 238 c.p.p., ivi compreso il consenso dell'imputato, non comporta un obbligo per il giudice di disporne sempre e comunque l'acquisizione, rientrando nell'esercizio del suo potere discrezionale valutarne la rilevanza o meno ai fini della decisione.

Con riferimento, infine, alle doglianze sub n. 6), relative al trattamento sanzionatorio pure se ne deve rilevare l'infondatezza.

Come è noto, infatti, non è censurabile in sede di legittimità la sentenza che indichi con adeguatezza e logicità le circostanze e le emergenze processuali che siano state determinanti per la formazione del convincimento del giudice, consentendo così l'individuazione dell'iter logico-giuridico seguito per addivenire alla statuizione adottata. Pertanto, anche il silenzio su una specifica deduzione prospettata col gravame non rileva qualora questa sia stata disattesa dalla motivazione della sentenza complessivamente considerata perchè non è necessario che il giudice confuti esplicitamente la specifica tesi difensiva disattesa, ma è sufficiente che evidenzi nella sentenza una ricostruzione dei fatti che conduca alla reiezione implicita di tale deduzione senza lasciare spazio ad una valida alternativa (cfr. Cass., sez. 2, 12/02/2009, n. 8619).

Ciò è puntualmente avvenuto nel caso in esame, avendo dimostrato la corte territoriale (cfr. pp. 4-5; 17-21 dell'impugnata sentenza) attraverso una completa ed esaustiva valutazione dell'intera vicenda in cui è stata coinvolta la persona offesa, di avere condiviso l'impostazione accusatoria secondo cui la vendita della O. dalla E. all' Om.Fa. era diretta a consentirne lo sfruttamento in qualità di prostituta, attività alla quale la O., come dichiarato dalla stessa persona offesa e dai testi escussi, era stata costretta a dedicarsi sia dalla E. (all'atto del suo arrivo in Italia), sia, una volta arrivata a (OMISSIS), da chi l'aveva acquistata come un oggetto (la Om.Fa.).

Sulla base delle svolte considerazioni il ricorso proposto nell'interesse di E.B., va, dunque, rigettato, con condanna della ricorrente, ai sensi dell'art. 616 c.p.p., al pagamento delle spese del procedimento.

P.Q.M.
Rigetta i ricorsi e condanna la parte provata ricorrente al pagamento delle spese processuali.

Così deciso in Roma, il 10 gennaio 2013.

Depositato in Cancelleria il 14 maggio 2013