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Verbale ispettivo INPS, quale valore probatorio? (Cass. 19982/20)

23 settembre 2020, Cassazione civile

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Nel nostro ordinamento non vige alcun principio di gerarchia tra le fonti di prova, salvo il giuramento che ha valore di prova legale; spetta al giudice del merito il potere di valutare liberamente le prove secondo il suo apprezzamento, con possibilità di verifica nella motivazione della sentenza.

I verbali ispettivi redatti dagli ispettori del lavoro, o comunque dai funzionari degli enti previdenziali,  fanno fede fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., solo relativamente alla loro provenienza dal sottoscrittore, alle dichiarazioni a lui rese ed agli altri fatti che egli attesti come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti nel giudizio promosso dal contribuente per l'accertamento negativo del credito previdenziale, incombe all'INPS l'onere di provare i fatti costitutivi della pretesa contributiva, che l'Istituto fondi su rapporto ispettivo.

Il verbale ispettivo dei funzionari INPS è attendibile fino a prova contraria, rimanendo comunque, liberamente valutabile dal giudice unitamente agli altri elementi probatori raccolti nel giudizio.

 

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

Ordinanza 23 settembre 2020, n. 19982

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. D’ANTONIO Enrica - Presidente -
Dott. MANCINO Rossana - Consigliere - Dott. CALAFIORE Daniela - rel. Consigliere - Dott. CAVALLARO Luigi - Consigliere -

Dott. BUFFA Francesco - Consigliere - ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 5471-2015 proposto da:

ST.R.L., in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, VIA**, presso lo studio dell'avvocato M**

- ricorrente -

nonchè contro

- I.N.P.S. - ISTITUTO NAZIONALE PREVIDENZA SOCIALE, in persona del suo Presidente e legale rappresentante pro tempore, in proprio e quale mandatario della S.C.C.I. S.P.A. società di cartolarizzazione dei crediti I.N.P.S., elettivamente domiciliati in ROMA, VIA CESARE BECCARIA 29, presso l'Avvocatura Centrale dell'Istituto, rappresentati e difesi dagli avvocati **

- resistenti con mandato -

avverso la sentenza n. 460/2014 della CORTE D'APPELLO di GENOVA, depositata il 19/11/2014, R.G.N. 383/2014;

Il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Svolgimento del processo

Con sentenza n. 460 del 2014, la Corte d'appello di Genova ha accolto l'impugnazione proposta dall'Inps nei confronti di SiT s.r.l. avverso la sentenza di primo grado, di accoglimento della domanda di accertamento negativo della pretesa contributiva, formulata dall'Inps in seguito ad accertamento ispettivo, relativa alla qualificazione in termini di lavoro subordinato e non di sub appalto dei rapporti intercorsi con T.F., X.E. e G.I.;

la Corte territoriale, dopo aver riportato le diverse prospettazioni delle parti ed i contenuti dell'attività istruttoria svolta in primo grado, ha accolto l'impugnazione dell'Inps rilevando che, seppure la sentenza di primo grado non poteva dirsi affetta da nullità in ragione dell'asserita carenza di motivazione in ordine al regime del riparto dell'onere della prova, che non costituisce capo autonomo di domanda, dalle risultanze istruttorie emerse in primo grado si evinceva che le dichiarazioni rese agli ispettori da tale T. e dal geometra C. (su aspetti decisivi per il giudizio, quali: proprietà degli strumenti di lavoro, modalità di pagamento, criterio di determinazione della somma spettante in base alle ore lavorate e modalità di espletamento dell'attività lavorativa) si ponevano in contrasto insanabile con quelle rese nel corso del giudizio, ed alle prime, in quanto rese nell'immediatezza, andava riconosciuta maggiore attendibilità, anche in considerazione del valore da riconoscere ai verbali ispettivi quanto ai fatti attestati dal pubblico ufficiale come da lui compiuti o avvenuti in sua presenza (artt. 2699 e 2700 c.c.) e della contraddittorietà, anche rispetto alla tesi della società sulla pluralità dei contratti di sub appalto, delle dichiarazioni testimoniali rese in giudizio;

inoltre, la questione della difficoltà di comprensione della lingua italiana da parte del T., confermata dalla circostanza che il giudice di primo grado aveva nominato un interprete per procedere al suo esame, andava risolta nel senso che tale difficoltà di comprensione non era tale da inficiare il valore della dichiarazione resa in sede ispettiva, trattandosi di enunciazione di fatti semplici relativi alla propria attività di lavoro e del tutto corrispondenti alle dichiarazioni rese agli ispettori dal geometra C. (per più di venti anni direttore tecnico della società);

allo stesso modo, la documentazione offerta solo in giudizio e non agli ispettori (contratti del tutto privi di indicazione delle opere da realizzare e dei cantieri da costituire, con la sola previsione di pagamento a seguito di rilascio di fattura, elenchi delle attrezzature privi di date e verbali interni mal concilianti con le fatture; comunicazioni ai Comuni committenti che non si correlavano interamente per tempi ai contratti di sub appalto) non poteva assumere rilievo favorevole alla tesi della società ed anzi consentiva di accordare maggiore pregnanza alle concrete modalità di espletamento dell'attività che andavano sussunte all'interno dello schema della subordinazione;

quanto, infine, alla domanda subordinata diretta ad ottenere l'applicazione delle sanzioni civili per l'ipotesi di omissione ai sensi della L. n. 388 del 2000, art. 1, comma 217, anzichè per quella dell'evasione, la sentenza impugnata ha ritenuto che la parte appellata non l'avesse adeguatamente riproposta, ai sensi dell'art. 346 c.p.c., in quanto nulla era argomentato in seno alla comparsa di costituzione ed anche le conclusioni dell'atto avevano riportato solo le conclusioni della originaria domanda principale;
avverso tale sentenza, SiTi s.r.l. ricorre per cassazione sulla base di quattro motivi: 1) in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 4, nullità della sentenza d'appello ex art. 111 Cost. e art. 132 c.p.c., n. 4, per motivazione solo apparente e/o irriducibile contraddittorietà ed obiettiva incomprensibilità e perplessità della motivazione; 2) in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c. e art. 2700 c.c., violazione o falsa applicazione dei principi in tema di formazione e valutazione delle prove (artt. 244 e seguenti c.p.c. e artt. 116 e ss. c.p.c.; 3) in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 2094 c.c. e degli artt. 1655, 1656 e 2222 c.c., nonchè violazione falsa applicazione dei principi e delle norme in tema di interpretazione dei contratti (artt. 1362, 1366, 1367 e 1369 c.c.) e di formazione e valutazione delle prove (artt. 244 e ss. c.p.c. e artt. 116 e ss. c.p.c.; 4) in relazione all'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 346 c.p.c.;

l'INPS non ha svolto attività difensiva limitandosi a rilasciare procura speciale in calce alla copia notificata del ricorso;

il Procuratore Generale ha concluso per il rigetto del ricorso. Motivi della decisione

Il primo motivo è inammissibile;

la ricorrente giunge a formulare il motivo relativo alla nullità della sentenza, essendo ormai venuto meno il vizio della contraddittorietà della motivazione previsto dall'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), nella versione precedente all'attuale, introdotta dal D.L. n. 83 del 2012, art. 54 conv. in L. n. 83 del 2012, come interpretata da Cass. SS.UU. n. 19881/2014, facendolo scaturire dalla irriducibile contraddittorietà, dalla obiettiva incomprensibilità e dalla perplessità della motivazione che emergerebbero dai passi della sentenza che hanno valutato come maggiormente attendibili le dichiarazioni rese dal T. agli ispettori, piuttosto che quelle rese in udienza e pur avendo affermato che il predetto non comprendeva la lingua italiana (tanto che fu nominato un interprete) e che tale situazione si manifestò allorquando il giudice di primo grado si accinse a formulargli le domande aventi ad oggetto le stesse circostanze asseritamente riferite agli ispettori; allo stesso modo sarebbe incomprensibile il riferimento fatto dalla sentenza impugnata a dichiarazioni rese dal teste C. che facevano rinvio al "P.O.S. della ditta S...", documento mai prodotto agli atti del giudizio nè indicato nel verbale di accertamento; ancora, non sarebbe comprensibile la ragione per la quale la Corte territoriale abbia ritenuto che il teste I.I. (dipendente della ricorrente) intendesse parlare del T. quando riferì dell'attività svolta da un certo N., essendo del tutto arbitrario ritenere tale nome simile a " F." che è il nome di battesimo del T.;

le circostanze che si indicano quali eloquenti dimostrazioni del vizio radicale della motivazione apparente non sono idonee a determinare tale vizio ed il motivo è inammissibile;

trattandosi, infatti, di sentenza soggetta, ratione temporis, al nuovo testo dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5), introdotto dal D.L. 22 giugno 2012, n. 83, convertito, con modifiche, nella L. 7 agosto 2012, n. 134, nella specie, il vizio di motivazione è
configurabile nell'ipotesi di omesso esame circa un fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, ovvero laddove la motivazione sia assente o meramente apparente;

tutti i punti contestati nel motivo, invece, sono stati oggetto di esame e valutazione da parte della Corte d'appello, sicchè le censure sono da ritenere inammissibili sulla base dei criteri indicati dalla sentenza 7 aprile 2014, n. 8053, delle Sezioni Unite di questa Corte;

la ricorrente, invece, vorrebbe censurare nei termini suddetti un vero e proprio vizio di contraddittoria motivazione, ipotizzando erroneamente la sopravvivenza della figura del vizio di motivazione attraverso la semplice contestazione della nullità della sentenza ai sensi dell'art. 360 c.p.c., n. 4), il che non trova alcun supporto nella motivazione della citata sentenza delle Sezioni Unite;

peraltro, il vizio di motivazione apparente a cui si appiglia la ricorrente, per la giurisprudenza di questa Corte di legittimità (vd. Cass. n. 3819 del 2020) si ravvisa laddove il vizio di motivazione, previsto dall'art. 132 c.p.c., comma 2, n. 4 e dall'art. 111 Cost., sussiste quando la pronuncia riveli una obiettiva carenza nella indicazione del criterio logico che ha condotto il giudice alla formazione del proprio convincimento, come accade quando non vi sia alcuna esplicitazione sul quadro probatorio, nè alcuna disamina logico-giuridica che lasci trasparire il percorso argomentativo seguito; tali caratteri sono del tutto assenti nella sentenza in esame e la stessa ricorrente rileva difetti di coerenza e di mancanza di chiarezza nella motivazione adottata;

il secondo motivo è infondato;

ci si duole, nella sostanza, che la Corte d'appello abbia violato le disposizioni che disciplinano l'efficacia probatoria dei verbali ispettivi provenienti da pubblici ufficiali e la regola di riparto dell'onere della prova, sovvertendo un principio, che rivendica, di prevalenza della prova acquisita in giudizio rispetto alle acquisizioni delle attività ispettive e, quindi, imputa alla sentenza impugnata di aver sostanzialmente capovolto la regola che attribuisce all'Inps l'onere di provare i fatti costitutivi della pretesa contributiva (nella specie la natura subordinata dei rapporti di lavoro);

la sentenza non ha violato le disposizioni ed i principi indicati; in particolare, la violazione dell'art. 2697 c.c., si configura soltanto nell'ipotesi in cui il giudice abbia attribuito l'onere della prova ad una parte diversa da quella su cui esso avrebbe dovuto gravare secondo le regole di scomposizione delle fattispecie basate sulla differenza tra fatti costitutivi ed eccezioni (vd. Cass. 26769 del 2018), mentre, nel caso di specie la sentenza impugnata, non ha assegnato alla società ricorrente l'onere di provare la sussistenza della subordinazione (anzi, a pagina 20, ha esplicitato che tale onere spetti all'Inps, ma ha vagliato, in vero in modo accurato, l'intero corredo probatorio acquisito al processo e ne ha tratto le conclusioni ritenute più opportune alla luce della rilevanza da accordare ai classici indici della subordinazione, relativi alle concrete modalità di espletamento della prestazione ed al sistema di remunerazione accettato ed effettivamente eseguito dalle parti;

la sentenza impugnata, peraltro, ha pure ricordato correttamente la giurisprudenza di
questa Corte di legittimità formatasi in ordine alla valenza probatoria dei verbali ispettivi redatti dagli ispettori del lavoro, o comunque dai funzionari degli enti previdenziali, secondo la quale essi fanno fede fino a querela di falso, ai sensi dell'art. 2700 c.c., solo relativamente alla loro provenienza dal sottoscrittore, alle dichiarazioni a lui rese ed agli altri fatti che egli attesti come avvenuti in sua presenza o da lui compiuti (vd. Cass. 15702/2014) e, coerentemente, ha ritenuto coperta da fede privilegiata la circostanza che le risposte fornite dal T. fossero quelle effettivamente riportate in verbale, ferma restando la necessità di sottoporre i loro contenuti al vaglio complessivo di tutte le ulteriori acquisizioni probatorie;

peraltro, in tale contesto, non vige alcun principio di gerarchia tra le fonti di prova posto che nel nostro ordinamento, tranne che per il giuramento, a cui è attribuito valore di prova legale, spetta al giudice del merito il potere esclusivo, nell'individuare le fonti del proprio convincimento, di valutare le prove secondo il suo prudente apprezzamento, del quale, peraltro, egli deve dare una motivazione immune da vizi logici e giuridici, senza che possa pretendersi l'attribuzione di un maggior valore ad un accertamento rispetto ad un altro a cagione della sua provenienza (vd. Cass. 4743/2005; n. 2627/1980);

si è, dunque, fatta corretta applicazione del principio espresso da questa Corte (vd. Cass. n. 14965/2014) secondo il quale nel giudizio promosso dal contribuente per l'accertamento negativo del credito previdenziale, incombe all'INPS l'onere di provare i fatti costitutivi della pretesa contributiva, che l'Istituto fondi su rapporto ispettivo. A tal fine, il rapporto ispettivo dei funzionari dell'ente previdenziale, pur non facendo piena prova fino a querela di falso, è attendibile fino a prova contraria, quando esprime gli elementi da cui trae origine (in particolare, mediante allegazione delle dichiarazioni rese da terzi), restando, comunque, liberamente valutabile dal giudice in concorso con gli altri elementi probatori;

il terzo motivo è pure Infondato;

ci si duole del giudizio di sussunzione degli indici accertati a seguito dell'esame della concreta fattispecie, all'interno della fattispecie del lavoro subordinato (art. 2094 c.c.) piuttosto che di quella del lavoro autonomo (art. 2222 c.c.), sotto la specie del sub appalto (artt. 1655 e 1656 c.c.) e che a tale errore la sentenza sia pervenuta per aver male interpretato i contratti intercorsi tra le parti (artt. 1362 e ss. c.c.);

la sentenza impugnata ha ritenuto che tra la ricorrente ed i signori T., X. e I. fossero intercorsi rapporti di lavoro subordinato in quanto: a) i contratti scritti prodotti in giudizio avevano contenuto generico ed incompatibile con l'intento di stipulare un contratto di sub appalto ed anche l'indicazione della emissione di fattura in seguito al versamento del compenso e la titolarità della ditta individuale in capo a ciascuno di essi non assumevano rilievo a fronte dell'accordo sulla prestazione lavorativo per un anno con rinnovazione tacita per altro anno; b) era emerso, dalle dichiarazioni del geometra C. agli ispettori, che i tre ricevessero direttive quotidiane in ordine all'attività da svolgere e che tale attività fosse oggetto di controllo quotidiano; i tre si avvalevano delle attrezzature della Simes Tigullio per svolgere la propria attività, resa in via esclusiva alla medesima; c) le modalità di retribuzione delle prestazioni rese che erano cadenzate per mese in base alle ore prestate, seppure coperte dalla emissione di formali fatture; d) la prestazione era resa secondo un orario fisso, tutti i
giorni lavorativi e per l'intera giornata (dal lunedì al venerdì, dalle 8 alle 17 con pausa di un'ora);e) assenza di rischio economico in capo ai lavoratori;

secondo la giurisprudenza di questa Corte di legittimità, l'accertamento della natura subordinata del rapporto di lavoro va condotto privilegiando il piano dell'effettività piuttosto che quello delle formali risultanze documentali (vd. Cass. n. 4884/2018; Cass. n. 22289/ 2014), con la conseguenza che laddove il giudice accerti, come nel caso di specie, la ricorrenza del pieno inserimento organico del lavoratore all'interno dell'organizzazione aziendale, attestata dal manifestarsi di ordini specifici, reiterati ed intrinsecamente inerenti alla prestazione lavorativa e non di mere direttive di carattere generale, nonchè rivelata dall'esercizio della potestà organizzativa del datore di lavoro, concretizzatasi in un effettivo inserimento del lavoratore nell'organizzazione aziendale e non in un mero coordinamento della sua attività, può ritenersi realizzata la tangibile differenziazione della subordinazione rispetto al lavoro autonomo (Cass. 26986/2009);

nessun errore di diritto può, dunque ravvisarsi nella decisione, mentre le ulteriori lagnanze sollevate dalla ricorrente rivelano, in realtà, una critica alle valutazioni del materiale istruttorio operata dalla sentenza impugnata, non passibile di disamina in seno al giudizio di legittimità;

infine, il quarto motivo va dichiarato inammissibile;

la questione non attiene alla sussistenza dell'onere di riproposizione della domanda subordinata rimasta assorbita all'esito del giudizio di primo grado, recentemente affrontata dalle Sezioni Unite con la sentenza n. 7940 del 2019, secondo la quale le parti del processo di impugnazione, nel rispetto dell'autoresponsabilità e dell'affidamento processuale, sono tenute, per sottrarsi alla presunzione di rinuncia (al di fuori delle ipotesi di domande e di eccezioni esaminate e rigettate, anche implicitamente, dal primo giudice, per le quali è necessario proporre appello incidentale ex art. 343 c.p.c.), a riproporre ai sensi dell'art. 346 c.p.c., le domande e le eccezioni non accolte in primo grado, in quanto rimaste assorbite, con il primo atto difensivo e comunque non oltre la prima udienza, trattandosi di fatti rientranti già nel "thema probandum" e nel "thema decidendum" del giudizio di primo grado;

nel caso di specie, la sentenza ha ritenuto generica la modalità di riproposizione della domanda subordinata in quanto non espressamente riprodotta nelle conclusioni, al contrario di quanto fatto a proposito della domanda principale in ordine alla quale la parte era rimasta pienamente vittoriosa;

la ricorrente rileva di aver fatto esplicito richiamo alle conclusioni del ricorso di primo grado che conteneva anche la domanda subordinata relativa alle sanzioni applicabili e che, dunque, l'interpretazione della memoria di costituzione adottata dalla Corte territoriale sarebbe errata;

la situazione denunciata si risolve nella denuncia di un errore nell'interpretazione del contenuto della memoria di costituzione e non in quella di una omissione di pronuncia;

in sede di giudizio di legittimità, (vd. Cass. civ. Sez. 1^, 26/11/2002, n. 16654) va
tenuta distinta l'ipotesi in cui si lamenta l'omesso esame di una domanda da quella in cui si censura l'interpretazione data alla domanda stessa, ritenendosi in essa compresi o esclusi alcuni aspetti della controversia in base ad una valutazione non condivisa dalla parte. Nel primo caso si verte propriamente in tema di violazione dell'art. 112 c.p.c. e si pone un problema di natura tipicamente processuale, per risolvere il quale la Corte di cassazione ha il potere - dovere di procedere al diretto esame degli atti e di acquisire gli elementi di giudizio necessari alla richiesta pronunzia. Nel secondo caso, poichè l'interpretazione della domanda e l'apprezzamento della sua ampiezza e del suo contenuto costituiscono un tipico accertamento di fatto, come tale attribuito dalla legge al giudice del merito, alla Corte di legittimità è solo riservato, nei limiti in cui lo consente la formulazione attuale dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, il controllo della motivazione che sorregge sul punto la pronunzia impugnata;

in applicazione di tale parametro non si rinviene, anche a voler prescindere dall'erronea indicazione del vizio fatto valere, la carenza assoluta di motivazione o la sua logica insostenibilità;

in definitiva, il ricorso va rigettato e le spese seguono la soccombenza nella misura liquidata in dispositivo.

P.Q.M.

La Corte rigetta il ricorso. Condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali liquidate in Euro 5000,00 per compensi ed Euro 200,00 per esborsi oltre spese generali nella misura del 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.Lgs. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento da parte del ricorrente dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso a norma dello stesso art. 13, comma 1 bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di Consiglio, il 21 luglio 2020. Depositato in Cancelleria il 23 settembre 2020