Il reato di rifiuto di atti di ufficio è configurabile anche in caso di inerzia omissiva che, protraendo il compimento dell’atto oltre i termini prescritti dalla legge, si risolve in un rifiuto implicito, non essendo necessaria una manifestazione di volontà solenne o formale.
Ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione.
Il reato di rifiuto di atti di ufficio in relazione al mancato deposito di un provvedimento giudiziario si realizza sia a seguito del decorso di un ragionevole margine temporale dopo la camera di consiglio, sia dopo l’inutile consumazione di trenta giorni dopo le due intimazione a provvedere.
CORTE DI CASSAZIONE
SEZ. VI PENALE - SENTENZA 3 ottobre 2018, n.43903
Pres. De Amicis – est. Corbo
Ritenuto in fatto
Con sentenza emessa in data 12 ottobre 2017, la Corte di appello di Reggio Calabria ha integralmente confermato la sentenza del Tribunale di Reggio Calabria che aveva condannato M.G. per il delitto di cui all’ad. 328 cod. pen., e gli aveva irrogato la pena di quattro mesi di reclusione, con concessione delle circostanze attenuanti generiche, della sospensione condizionale e della non menzione della condanna.
Secondo la ricostruzione operata dai giudici di merito, l’imputato aveva omesso di depositare tempestivamente, nella sua qualità di presidente del collegio della Corte di appello di Messina e di estensore della motivazione, il provvedimento decisorio del giudizio conseguente all’impugnazione da parte di C.E. del decreto di applicazione della misura di sorveglianza speciale di pubblica sicurezza, nonostante le sollecitazioni provenienti sia dal difensore sia dalla prevenuta. Segnatamente, la decisione era stata riservata all’udienza dell’i luglio 2009 ed era stata depositata solo il 24 marzo 2011, dopo le sollecitazioni formulate nelle date dell’11 marzo 2010 e del 14 maggio 2010, e la denuncia del 14 febbraio 2011.
Ha presentato ricorso per cassazione avverso la sentenza della Corte di appello indicata in epigrafe l’avvocato TC, quale difensore di fiducia dell’imputato, articolando due motivi di ricorso.
2.1. Con il primo motivo di ricorso, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 328 cod. pen. e 530 cod. proc. pen., nonché vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo alla ritenuta sussistenza dell’elemento soggettivo della fattispecie.
Si deduce che la sentenza impugnata non ha esaustivamente risposto alle doglianze prospettate dalla difesa con l’atto di gravame, specialmente avendo riguardo alla duplice circostanza inerente l’elevata produttività dell’imputato in termini di provvedimenti emessi e l’abnorme carico di lavoro gravante sull’ufficio di appartenenza, risultando tali circostanze idonee di per sé a dimostrare l’assenza del dolo richiesto dalla fattispecie. Si rappresenta, più specificamente, che, ai fini della configurabilità del dolo del delitto di cui all’art. 328 cod. pen., non è sufficiente la consapevolezza e volontà di omettere, rifiutare o ritardare un atto del proprio ufficio, ma anche la consapevole volontà di agire in violazione dei doveri istituzionali, e che tale profilo dell’elemento psicologico è incompatibile con l’elevata produttività personale dell’imputato e con i gravosi carichi di lavoro incombenti sul medesimo e sull’intero ufficio di appartenenza, di cui si era data prova mediante le statistiche e la testimonianza del dott. G. , attuale presidente della Corte d’appello di Messina.
2.2. Con il secondo motivo, si denuncia violazione di legge, in riferimento agli artt. 54 e 328 cod. pen., nonché vizio di motivazione, ai sensi dell’art. 606, comma 1, lett. b) ed e), cod. proc. pen., avendo riguardo al mancato riconoscimento della causa di giustificazione dello stato di necessità.
Si deduce che la grave situazione familiare dell’imputato, determinata da una sopravvenuta paralisi della figlia, era tale da poter inquadrare la condotta dell’imputato all’interno del paradigma normativo di cui all’art. 54 cod. pen..
Considerato in diritto
La sentenza impugnata deve essere annullata senza rinvio perché il reato è estinto per prescrizione.
Infondate sono le censure esposte nel primo motivo di ricorso, che contestano l’affermazione della sussistenza dell’elemento soggettivo del reato.
Costituisce principio consolidato in giurisprudenza, e che il Collegio condivide, quello secondo cui, ai fini della configurabilità dell’elemento psicologico del delitto di rifiuto di atti d’ufficio, è necessario che il pubblico ufficiale abbia consapevolezza del proprio contegno omissivo, dovendo egli rappresentarsi e volere la realizzazione di un evento contra ius, senza che il diniego di adempimento trovi alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione (cfr., tra le tante, Sez. 6, n. 36674 del 22/07/2015, Martin, Rv. 264668, e Sez. 6, n. 51149 del 09/04/2014, Scopelliti, Rv. 261415). Vi è anche qualche decisione, la quale, muovendosi nell’ambito di questo orientamento, ha espressamente precisato che non è necessario il fine specifico di violare i doveri imposti dal proprio ufficio (Sez. 6, n. 8996 del 11/02/2010, Notarpietro, Rv. 246410).
La sentenza impugnata rileva che M.G. è stato estensore del provvedimento emesso dalla Corte d’appello di Messina in relazione al gravame proposto da C.E. avverso il decreto adottato in primo grado dal Tribunale di Messina in data 19 settembre 2008, e che le aveva applicato la misura della sorveglianza speciale con obbligo di dimora per la durata di tre anni. Osserva, poi, che la procedura era stata trattata nella camera di consiglio dell’i luglio 2009, e che il provvedimento è stato depositato in cancelleria solo in data 24 marzo 2011, nonostante i solleciti scritti presentati dal difensore di C.E. l’11 marzo 2010 e da C.E. personalmente il 14 maggio 2010, ricevuti personalmente dal ricorrente, tra l’altro anche presidente del Collegio che aveva trattato la procedura. Aggiunge, inoltre, che M.G. , il quale aveva anche altri ritardi nella redazione delle sentenze, non aveva adottato alcuna iniziativa per redigere sollecitamente il provvedimento, come, ad esempio, richieste di esonero parziale, per l’eccessiva gravosità dei carichi di lavoro, ovvero di aspettativa per motivi di famiglia, a causa di una grave vicenda familiare concernente lo stato di salute di una figlia, tra l’altro risalente nel tempo. Osserva, ancora, che non risultano carichi di lavoro insostenibili o ingestibili, anche perché non sono emersi, per gli altri componenti della Sezione di cui faceva parte M. , problemi analoghi a quelli del ricorrente, né sono state offerte concrete allegazioni in ordine a sproporzioni di distribuzione degli affari in danno di quest’ultimo.
Alla luce dei principi indicati e dei fatti come ricostruiti correttamente dalla sentenza impugnata, risulta immune da vizi la conclusione in ordine alla sussistenza del dolo richiesto ai fini della configurabilità della fattispecie di rifiuto di atti di ufficio di cui all’art. 328, primo comma, cod. pen..
Invero, è stato accertato, in modo incensurabile in questa sede, che M.G. , agendo nell’esercizio della funzione giudiziaria, e quindi quale pubblico ufficiale, aveva piena consapevolezza del proprio contegno omissivo rispetto al dovere di redigere il provvedimento di prevenzione, anche per le sollecitazioni scritte ricevute, e che il diniego di adempimento non ha trovato alcuna plausibile giustificazione alla stregua delle norme che disciplinano il dovere di azione gravante su di lui, anche perché egli non ha attivato quelle iniziative previste dall’ordinamento giuridico che gli avrebbero consentito di fruire di maggior tempo per provvedere.
Infondate sono anche le censure esposte nel secondo motivo di ricorso, che contestano il mancato riconoscimento della causa di giustificazione dello stato di necessità, derivante dalle gravi condizioni di salute della figlia.
La sentenza impugnata ha escluso la configurabilità di uno stato di necessità innanzitutto premettendo che l’incidente relativo alla figlia del ricorrente era risalente nel tempo, e quindi, privo di un impatto emotivo immediato, e che, anzi la stessa, all’epoca dei fatti, conduceva vita autonoma, in quanto residente in altra località per ragioni di riabilitazione. Ha poi osservato che il ricorrente non ha rappresentato una situazione di oggettiva impossibilità di adempiere 'quantomeno al momento dei ripetuti solleciti, come sarebbe stato fisiologico e doveroso da parte sua fare, se di oggettiva impossibilità si trattava', ad esempio presentando richiesta di collocamento in aspettativa per motivi di famiglia o di esonero parziale.
In questo modo, la Corte d’appello ha evidenziato correttamente l’insussistenza, in particolare, del 'pericolo attuale di un danno grave alla persona (...) non (...) altrimenti evitabile', costituente elemento necessario per la configurabilità della causa di giustificazione di cui all’art. 54 cod. pen..
La non inammissibilità del ricorso, e, quindi, la corretta costituzione del rapporto giuridico processuale davanti alla Corte di cassazione, tuttavia, impone, a norma dell’art. 129 cod. proc. pen., di rilevare la sopravvenienza della causa di estinzione del reato integrata dalla prescrizione, così come richiesto dal Procuratore generale in udienza.
4.1. È utile premettere che, secondo l’orientamento assolutamente consolidato della giurisprudenza, il reato di rifiuto di atti di ufficio è configurabile anche in caso di inerzia omissiva che, protraendo il compimento dell’atto oltre i termini prescritti dalla legge, si risolve in un rifiuto implicito, non essendo necessaria una manifestazione di volontà solenne o formale (così, tra le tante, Sez. 6, n. 10051 del 20/11/2012, dep. 2013, Nolè, Rv. 255717).
È poi principio generale ripetutamente ribadito quello in forza del quale il reato di cui all’art. 328, primo comma, cod. pen. è un reato istantaneo, il cui, momento consumativo si realizza con il rifiuto o con l’omissione (così, specificamente: Sez. 6, n. 12238 del 27/01/2004, Bruno, Rv. 228277; Sez. 4, n. 9086 del 28/03/2000, Caputo, Rv. 217125; Sez. 6, n. 10137 del 24/06/1998, Fusco, Rv. 211569; Sez. 1, n. 1107 del 10/03/1992, Frasca, Rv. 190189). Una di queste decisioni, in particolare, rileva che il reato di rifiuto di atti di ufficio anche nella formulazione introdotta dall’art. 16 della I. 26 aprile 1990, n. 86 consiste nel mancato adempimento di un’attività doverosa, per il compimento della quale è fissato un termine unico finale e non soltanto iniziale, essendo il soggetto obbligato all’adempimento appena possibile, sicché la consumazione del reato si verifica nel momento stesso in cui si è verificata l’omissione o è stato opposto il rifiuto e, quindi, l’agente è punibile per reato istantaneo senza che abbia nessun rilievo l’ininterrotta protrazione dell’inattività individuale, giacché la legge non riconosce alcuna efficacia giuridica a detta persistenza e nemmeno all’eventuale desistenza (Sez. 6, n. 10137 del 24/06/1998, cit.).
Questi principi, inoltre, sono stati affermati anche con specifico riferimento all’attività del giudice ed in relazione all’omesso o tardivo deposito di provvedimenti giudiziari (il riferimento è a Sez. 6, n. 7766 del 09/12/2002, dep. 2003, Masi, Rv. 223955-223959).
Nella decisione appena citata, infatti, si è sottolineato non solo che il delitto di rifiuto di atti di ufficio può essere 'integrato dalla silente inerzia del pubblico ufficiale', ma pure, in motivazione, che lo stesso 'è reato istantaneo'; si è, anzi, precisato, sempre in motivazione, che proprio per tale natura, l’omissione può essere 'di breve o di lunga durata' senza che ciò incida sulla configurabilità e sussistenza del reato, potendo tale profilo essere solo 'funzionale piuttosto ad apprezzare, ai fini del trattamento sanzionatorio, la condotta post delictum dell’agente'.
Nella medesima pronuncia, si è così ricostruita 'la disciplina applicabile in relazione alla specificità delle singole situazioni:
a) l’indebito rifiuto di provvedimento qualificato indifferibile (comma 1) integra di per sé il concetto di 'denegata giustizia' e non abbisogna, quindi, della previa istanza di parte, ex art. 3 della legge n. 117/’88, finalizzata ad attivare il procedimento: né ciò implica l’anticipazione della soglia di tutela penale rispetto a quella civile, posto che la responsabilità civile in questo caso, in quanto connessa a fatto costituente già di per sé reato, è regolata dalle norme ordinarie (art. 13 legge n. 117/38);
b) il mancato compimento dell’atto senza esporre le ragioni dell’omissione per oltre trenta giorni dalla richiesta (messa in mora di cui al comma 2) assume rilievo penale soltanto nel momento in cui, integrati tutti i requisiti posti dalla legge speciale e perfezionatosi, quindi, il diniego di giustizia, il termine di trenta giorni dalla messa in mora, attivata dopo la scadenza dei termini previsti per il compimento dell’atto di ufficio, sia inutilmente decorso: in questa ipotesi e soltanto in questa, sussiste un rapporto di presupposizione necessaria tra il diniego di giustizia di cui all’art. 3 della legge n. 117/’88 e l’art. 328/2 c.p., ciò per la necessità di coordinamento tra le due norme e di armonizzazione tra responsabilità civile e penale.'.
Si è poi ulteriormente evidenziato che 'l’assenza di un termine esplicito o la previsione di un termine meramente ordinatorio non esclude che l’atto debba comunque essere compiuto in un ristretto margine temporale, delimitato dal sostanziale aumento del rischio per gli interessi tutelati dalla fattispecie incriminatrice'.
4.2. Applicando questi principi, fondati su considerazioni condivise dal Collegio, ai fatti come ricostruiti dalla sentenza impugnata, deve ritenersi decorso il termine di prescrizione.
La Corte d’appello ha evidenziato che il ricorrente, pur avendo preso in carico come relatore l’obbligo di redigere il provvedimento in data 1 luglio 2009, ha omesso di depositare l’atto fino al 24 marzo 2011, nonostante le sollecitazioni presentate dal difensore in data 11 marzo 2010 e dall’interessata il 4 maggio 2010. Ha inoltre rappresentato che il provvedimento aveva ad oggetto l’applicazione della misura di prevenzione della sorveglianza speciale con obbligo di dimora per la durata di tre anni, disposta dal Tribunale di Messina in data 19 settembre 2008, la quale era, quindi, in atto, stante la specifica disciplina relativa all’esecuzione di tale tipologia di provvedimenti.
È pertanto corretto ritenere, innanzitutto, che il reato di rifiuto di atti di ufficio si è realizzato sia a seguito del decorso di un ragionevole margine temporale dopo la camera di consiglio, sia dopo l’inutile consumazione di trenta giorni dopo le due istanze presentate dal difensore della persona sottoposta alla misura di prevenzione e da quest’ultima.
È poi doveroso concludere che i fatti in questione si sono consumati entro il 4 giugno 2010, ossia dopo l’inutile decorso di trenta giorni dalla presentazione dell’ultimo degli atti di messa in mora, posto che, al momento del deposito di questo, era abbondantemente scaduto il termine per la redazione del provvedimento, in quanto riservato in decisione 11 luglio 2009.
Di conseguenza, stante l’assenza di periodi di sospensione della prescrizione, questa è maturata in data ampiamente antecedente a quella della presente decisione.
P.Q.M.
Annulla senza rinvio la sentenza impugnata perché il reato è estinto per prescrizione.