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"Rom ladri", politico condannato per propaganda razziale (Cass. 32862/19)

22 luglio 2019, CAssazione penale

Dichiarazioni diffamatorie verso esponenti dell’etnia rom non sono scriminate dalla libertà di espressione e giustificano l’ingerenza statuale punitiva nei confronti della libertà di espressione.

Corte di Cassazione

Sezione V penale

sentenza 7 maggio - 22 luglio 2019 n. 32862/19

relatore Tubino Presidente Sabeone 

(link esterno a sentenza in .pdf) 


È’ compatibile con il disposto dell’art. 10 della convenzione europea dei diritti dell’uomo, l’applicazione dell’aggravante ex art. 3, comma 1, l. 25 giugno 1993, n. 205 (ora art. 604 ter cod. pen.), in relazione al reato di cui all’art. 3, comma 1, lett. a), l. 13 ottobre 1975, n. 654 (ora art. 604 bis cod. pen.) commesso da un parlamentare mediante dichiarazioni rese nel corso di un’intervista radiofonica, volgari ed irridenti nei confronti di esponenti dell’etnia rom, ripetutamente associati ad una condizione di illegalità condivisa, per via genetica, dall’intero popolo, configurandosi in tal caso una manifestazione d’odio funzionale alla compressione dei principi di eguaglianza e libertà rientrante nelle “ipotesi eccezionali” individuate dalla giurisprudenza della corte EDU (Corte Europea Dei diritti Dell’uomo), in presenza delle quali si giustifica l’ingerenza statuale punitiva nei confronti della libertà di espressione.

I fatti

L’imputato Mario Borghezio, all’epoca dei fatti membro del Parlamento Europeo eletto nel partito Lega Nord, nel corso di un’intervista resa nell’ambito della trasmissione “La Zanzara”, avente ad oggetto l’incontro tenutosi, nello stesso giorno, presso la Camera dei deputati tra il Presidente ed esponenti delle comunità Rom e Sinti italiane, affermava che si trattava de “la giornata della demagogia e del fancazzismo, poi con contorno di festival dei ladri”, mentre agli ospiti veniva riservata la definizione “quelle facce di cazzo che qualche Presidente della Camera riceve…”, concludendo con l’auspicio “speriamo non si portino via gli arredi della Camera, perché lì è pieno di quadri di pregio, di soprammobili…un esamino con l’elenco di tutto quello che c’era prima della visita e di quello che è rimasto lo farei prudenzialmente…l’esperienza insegna”.

Affermava inoltre l'imputato che  “una certa cultura tecnologica nello scassinare gli alloggi della gente onesta (che) indubbiamente molti Rom ce l’hanno”, “non tutti i Rom sono ladri ma molti ladri sono Rom… una bella percentuale”, “i Rom neanche si propongono di lavorare, perché come l’acqua con l’olio loro con il lavoro, in generale…poi c’è qualcuno che lavora, ma come termine generale”, “penso quello che pensano tutti: mano alla tasca del portafogli per evitare che te lo portino via, è un riflesso pavloviano, dettato da un’esperienza secolare” fino a concludere “un saluto al popolo Rom glielo mando con una certa tranquillità, e con una certa preoccupazione perché non sono in casa e quindi spero in bene”.

Il Tribunale, nel condannare l’imputato, ha ritenuto assorbito nel delitto di diffamazione, continuato ed aggravato dalla finalità di discriminazione razziale, il reato di cui alla L. n. 654 del 1975, art. 3, comma 1, lett. a) in applicazione della clausola di riserva espressa, che risolve il concorso apparente di norme incriminatrici, mentre le conformi sentenze di merito hanno escluso la sussistenza della causa di giustificazione dell’esercizio del diritto di manifestazione del pensiero, sub specie di espressione, in forma satirica, di un’opinione sorretta da intendimento provocatorio, nonché l’esimente dell’immunità ex art. 68 Cost.

Avverso la sentenza ha proposto ricorso l’imputato, per mezzo del difensore articolando quattro motivi.

Con il primo motivo, deduce violazione di legge e correlato vizio della motivazione in riferimento alla mancata applicazione della causa di giustificazione del diritto di satira, alla carenza del soggetto passivo del reato ed ai connotati della trasmissione radiofonica e dell’intervista.

Con il secondo motivo, deduce analoga censura in relazione all’applicazione dell’aggravante di cui alla L. n. 205 del 1993, art. 3, comma 1, erroneamente ritenuta alla stregua della volontà di diffusione del messaggio di superiorità della razza italiana.

Con il terzo motivo, lamenta manifesta illogicità della motivazione, sub specie di travisamento della prova, in merito all’applicabilità dell’immunità parlamentare ex art. 68 Cost., esclusa omettendo di valutare il contenuto delle pregresse dichiarazioni rese dall’onorevole nel contesto parlamentare, di cui era stata richiesta l’acquisizione ex art. 603 c.p.p., indicative di una identità sostanziale tra le dichiarazioni rese nelle diverse sedi.

Con il quarto motivo, deduce violazione di legge e mancanza di motivazione in riferimento alla richiesta di esclusione di aumenti di pena a titolo di continuazione, erroneamente disposti pur in presenza di un unico reato.

La Suprema Corte, nel decidere nel caso de quo, vietava il ricorso salvo la quantificazione della pena per la riqualificazione del fatto da diffamazione aggravata propaganda e istigazione a delinquere per motivi di discriminazione razziale etnica e religiosa.

Rimandando al testo integrale della sentenza (link esterno a sentenza in .pdf) , di seguito le ragioni di diritto, in sintesi: 

1) Causa di giustificazione del diritto di satira

Invero, la Corte di Cassazione riteneva innanzitutto infondate le censure sviluppate nel primo motivo di ricorso in punto di (in)sussistenza della causa di giustificazione del diritto di libera manifestazione del pensiero, sotto forma di satira. Ciò in virtù del fatto che è sufficiente ad escludere la ricorrenza dell’invocata scriminante rilevare come le contestate espressioni non siano state profferite a chiosa di un’indagine giudiziaria, avente ad oggetto fatti illeciti ascritti ad esponenti della predetta etnia, tali da rappresentare nella prospettiva del dichiarante la concreta dimostrazione di un dato ricorrente, bensì in corrispondenza di un’iniziativa finalizzata a promuovere il senso di appartenenza e l’integrazione sociale delle comunità Rom e Sinti.

In presenza di tale dato di contesto, è lo stesso interesse pubblico di quel tipo di esternazioniche viene a mancare, finendo per porsi la notizia di cronaca quale mero pretesto per l’esternazione di una intenzionale e pervicace invettiva, espressiva di un esplicito disprezzo razziale manifestato da un esponente politico nei confronti di una minoranza etnica, di cui invece l’iniziativa tendeva alla promozione.

Solo quando l’autore presenti in un contesto di leale inverosimiglianza, di sincera non veridicità finalizzata alla critica e alla dissacrazione delle persone di alto rilievo, una situazione e un personaggio trasparentemente inesistenti, senza proporsi alcuna funzione informativa e non quando si diano informazioni che, ancorché presentate in veste ironica e scherzosa, si rivelino false, generalizzanti o, comunque, inconferenti si può ritenere applicabile l’esimente del diritto di critica.
Anche in relazione all’eventuale riconoscimento dell’esimente prevista dall’art. 51 c.p., la sentenza impugnata resiste alle critiche mosse dal ricorrente, facendo corretta applicazione del principio per cui, qualora l’esternazione rappresenti una critica formulata con modalità proprie della satira, il giudice, nell’apprezzare il requisito della continenza, deve tener conto del linguaggio essenzialmente simbolico e paradossale dello scritto satirico, rispetto al quale non si può applicare il metro consueto di correttezza dell’espressione, restando, comunque, fermo il limite del rispetto dei valori fondamentali, che devono ritenersi superati quando la persona pubblica, oltre che al ludibrio della sua immagine, sia esposta al disprezzo.

Il lessico utilizzato dall’imputato invece si poneva all’evidenza oltre i limiti della continenza, anche alla stregua dello standard valutativo che si impone nella delibazione dell’espressione satirica.
Deve, pertanto, essere ribadito in materia di diffamazione a mezzo stampa il principio per cui, in via di principio, la aperta inverosimiglianza dei fatti espressi in forma satirica esclude la loro capacità di offendere la reputazione la satira è incompatibile col metro della verità, tuttavia essa non si sottrae invece al limite della continenza, poichè comunque rappresenta una forma di critica caratterizzata da particolari mezzi espressivi.

Ne consegue che, come ogni altra critica, la satira non sfugge al limite della correttezza, onde non può essere invocata la scriminante ex art. 51 c.p. per le attribuzioni di condotte illecite o moralmente disonorevoli, gli accostamenti volgari o ripugnanti, la deformazione dell’immagine in modo da suscitare disprezzo e dileggio.

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2) La qualificazione giuridica

La Suprema Corte ritiene tuttavia fondato il primo motivo di ricorso nella parte in cui censura la ritenuta sussistenza del delitto di diffamazione in danno dell’etnia Rom e Sinti, indistintamente considerata.
Invero, il reato di diffamazione è costituito dall’offesa alla reputazione di una persona determinata e non può essere, quindi, ravvisato nel caso in cui vengano pronunciate o scritte frasi offensive nei confronti di una o più persone appartenenti ad una categoria, anche limitata, se le persone cui le frasi si riferiscono non sono individuabili.

Le invettive riferite in genere al popolo Rom integrano, invece, il reato previsto dalla L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, comma 1, lett. a), prima parte, originariamente contestato ed erroneamente ritenuto escluso in virtù della clausola di riserva. Infatti, nel caso de quo la condotta dichiarativa dell’imputato si è articolata in diversi fatti offensivi, parte dei quali rivolti ai membri della delegazione ricevuta dal Presidente della Camera dei Deputati, e parte rivolta indistintamente al popolo Rom. Conseguentemente, non ricorre l’unitarietà del fatto ed il concorso apparente di norme, rispetto al quale trova applicazione la clausola di riserva contenuta nella norma evocata, ma ci si trova in presenza di una pluralità di reati che concorrono tra loro, e che possono trovare unitaria riconduzione solo nei termini di cui all’art. 81 cpv. c.p..

Invero, la reiterata insistenza sulla pericolosità sociale di una razza, ribadita da un noto esponente politico persino in conclusione di un’intervista che, per popolarità e audience, risulta seguita da un numero considerevole di persone, s’appalesa del tutto idonea a fomentare ed acuire un generalizzato sentimento di diffidenza e discriminazione. Palese e reiterato è il richiamo al timore di furti, in abitazione e sulla persona, riferiti esclusivamente all’etnia insistentemente richiamata e tali da ingenerare e rafforzare diffidenza e sospetto presso un numero indeterminato di ascoltatori, anche in ragione della popolarità e dell’autorevolezza dell’intervistato.

In tal senso, l’invettiva contro la popolazione Rom costituisce una “propaganda di idee”, in quanto divulgazione di opinioni finalizzata ad influenzare il comportamento o la psicologia di un vasto pubblico ed a raccogliere adesioni, manifestando una forma di “odio razziale o etnico”, che non si limita alla propalazione di un sentimento di generica antipatia, insofferenza o rifiuto riconducibile a motivazioni attinenti alla razza, alla nazionalità o alla religione, bensì disvela un atteggiamento interiore idoneo a determinare il concreto pericolo di comportamenti discriminatori, intendendosi per “discriminazione per motivi razziali” quella fondata sulla qualità personale del soggetto e non sui suoi comportamenti.

Il fatto deve essere, pertanto, qualificato ai sensi della L. 13 ottobre 1975, n. 654, art. 3, comma 1, lett. a), prima parte.

Siffatta corretta qualificazione giuridica del fatto non è preclusa a questa Corte. Invero, nel giudizio di legittimità, l’esercizio del potere della Corte di cassazione di attribuire al fatto una qualificazione giuridica diversa da quella contenuta nel capo di imputazione è condizionato alla preventiva instaurazione del contraddittorio tra le parti sulla relativa questione di diritto in conformità all’art. 111 Cost., comma 3, e art. 6, comma 3, lett. a), della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali; contraddittorio nella specie esperito non solo alla stregua dell’originaria, conforme, contestazione, bensì nell’ampia latitudine della discussione che ha investito l’omogenea aggravante di cui al D.L. n. 122 del 1993, art. 3 conv. con L. n. 205 del 1993, con conseguente piena esplicazione del diritto di difesa anche rispetto al prevedibile epilogo decisorio sul punto, peraltro direttamente discendente dall’accoglimento della censura sviluppata nel primo motivo di ricorso.

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3) L’aggravante

Per quel che concerne, invece, le censure sviluppate nel secondo motivo di ricorso in riferimento all’aggravante di cui alla L. n. 205 del 1993, art. 3, comma 1, del reato di diffamazione sub 1) le stesse devono ritenersi inconducenti.

Invero, a fronte dell’incontestabile tenore delle espressioni rese dall’imputato nell’intervista radiofonica in disamina, incentrata sulla visita di una delegazione di esponenti delle etnie Rom e Sinti alla Presidenza della Camera dei Deputati, il ricorrente ha criticato la ritenuta sussistenza dell’aggravante, richiamando il principio secondo cui non costituisce elemento necessario della fattispecie che la manifestazione d’odio razziale sia destinata o, quantomeno, potenzialmente idonea a rendere percepibile all’esterno il riprovevole sentimento o, comunque, il pericolo di comportamenti discriminatori o di atti emulativi, inferendone il difetto di volontà di diffusione di un sentimento di odio razziale, a tal fine censurando la mancata contestualizzazione delle dichiarazioni sia in riferimento alle caratteristiche, esplicitamente provocatorie e dissacranti, della trasmissione, che del ruolo politico dell’imputato e della funzione rilevante che la critica riveste nell’ambito di una democrazia matura.

Tuttavia trattasi di rilievi infondati.

Infatti, secondo il consolidato insegnamento della Suprema Corte, la circostanza aggravante della finalità di discriminazione o di odio etnico, razziale o religioso (configurabile nel caso di ricorso ad espressioni ingiuriose che rivelino l’inequivoca volontà di discriminare la vittima del reato in ragione della sua appartenenza etnica o religiosa) sussiste non solo quando l’azione, per le sue intrinseche caratteristiche e per il contesto in cui si colloca, risulta intenzionalmente diretta a rendere percepibile all’esterno e a suscitare in altri analogo sentimento di odio e comunque a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori, ma anche quando essa si rapporti, nell’accezione corrente, ad un pregiudizio manifesto di inferiorità di una razza.
In tal senso, deve essere affermato come, ai fini della configurabilità dell’aggravante, sia necessario che l’azione manifesti un esplicito pregiudizio di inferiorità di una razza, potendo eventualmente declinarsi anche nell’intenzionale esternazione del medesimo sentimento ed alla volontaria provocazione in altri di analogo sentimento di odio fino a dar luogo, in futuro o nell’immediato, al concreto pericolo di comportamenti discriminatori. Nel caso in esame, l’irridente e volgare espressione rivolta ai membri della delegazione ricevuta dal Presidente della Camera dei Deputati e l’esplicito ed insistito appellativo di ladri, è stata fondata esclusivamente sulla appartenenza dei medesimi all’etnia Rom e Sinti, come risulta dall’ampio e reiterato richiamo alla generalizzata condizione di illegalità condivisa, per via genetica, dall’intero popolo.

E siffatta valutazione risulta operata proprio valorizzando il contesto complessivo delle dichiarazioni, rese nell’ambito di una trasmissione radiofonica intrinsecamente accessibile ad un numero indeterminato di persone, avente ad oggetto il commento di una iniziativa svolta, ad altissimo livello istituzionale, con evidenti finalità di integrazione della comunità Rom, e non già nell’ambito di una discussione suggerita da eventi criminosi, riferibili a soggetti appartenenti alla medesima etnia.

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4) La giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo

In tal senso, anche il riferimento alle sentenze della Corte Europea dei diritti dell’uomo in tema di hate speechs, richiamate nel ricorso in correlazione al ruolo di parlamentare rivestito dall’imputato, asseritamente svalutato, si appalesa del tutto inconferente, ed anzi di segno decisamente opposto rispetto a quanto asserito dal ricorrente.

In via generale, la giurisprudenza della Corte Europea dei diritti dell’uomo si esprime nel senso che la incriminazione della diffamazione costituisce una interferenza con la libertà di espressione e quindi contrasta, in principio, con l’art. 10 CEDU, a meno che non sia “prescritta dalla legge”, non persegua uno o più degli obiettivi legittimi ex art. 10, par. 2 e non sia “necessaria in una società democratica”. E la necessità dell’incriminazione di ogni forma di incitamento all’odio è stata costantemente ribadita dai giudici di Strasburgo. Invero, mentre la Convenzione non offre un’espressa definizione di “incitamento all’odio”, la Raccomandazione n. (97)20 del Comitato dei ministri del Consiglio d’Europa, adottata il 3 ottobre 1997, definisce l'”hate speech” come riferito a “tutte le forme di espressione che diffondono, incitano, promuovono o giustificano l’odio razziale, la xenofobia, l’antisemitismo o altre forme di odio basate sull’intolleranza”.

Partendo da tale dato enunciativo, la consolidata giurisprudenza della Corte in tema di hate speech si esprime, innanzitutto, nel senso che l’istigazione all’odio non richiede necessariamente il riferimento ad atti di violenza o delitti già consumati in danno del ricorrente, in quanto i pregiudizi rivolti alle persone ingiuriando, ridicolizzando o diffamando talune frange della popolazione e isolandone gruppi specifici – soprattutto se deboli – o incitando alla discriminazione, sono sufficienti perché le autorità interne privilegino la lotta contro il discorso razzista, a fronte di una libertà di espressione irresponsabilmente esercitata e che provoca offesa alla dignità e alla sicurezza di queste parti o gruppi della popolazione.

In secondo luogo, l’identificazione in concreto dell’incitamento alla violenza, secondo la giurisprudenza della Corte Edu, passa attraverso il riscontro di diversi indicatori, tra i quali assume particolare rilevanza il modo in cui la comunicazione è effettuata, il linguaggio usato nell’espressione aggressiva, il contesto in cui è inserita, il numero delle persone cui è rivolta l’informazione, la posizione e la qualità ricoperta dall’autore della dichiarazione e la posizione di debolezza o meno del destinatario della stessa.

Conseguentemente ed in estrema sintesi, può affermarsi che la Corte EDU esclude il bisogno di restringere la libertà di espressione in una società democratica quando si tratti della promozione di valori coessenziali alla tutela dei diritti dell’uomo, soprattutto in presenza della loro minaccia o restrizione, ritenendo, invece, legittima e necessaria l’ingerenza statuale punitiva in presenza di manifestazioni d’odio funzionali proprio alla compressione dei principi di uguaglianza e di libertà. Ne deriva che l’argomentazione difensiva rassegnata sul punto nel secondo motivo di ricorso è inconferente anche sotto tale profilo, in presenza di una mirata, insistita e crescente accentuazione di caratteristiche peculiari di una determinata razza, unitariamente associata all’illegalità mediante un’esplicita equazione disvaloriale, che costituisce espressione di disprezzo ed inferiorità e, in sostanza, di un generalizzato discredito fondato sulla razza, e come tale, integrante l’aggravante contestata.

5) L’art. 68 Cost.

Infine, la Suprema Corte non ritiene rilevante l’invocata applicazione dell’art. 68 Cost..
Al riguardo, deve essere rimarcato, anche alla luce di quanto desumibile dai principi esposti dalla sentenza n. 379 del 1996 della Corte costituzionale, come l’immunità costituisca lo strumento principe per assicurare l’autonomia e la libertà delle Camere e come dunque essa, correlativamente, non possa considerarsi espressione di un privilegio spettante alla persona del parlamentare, ma lo strumento di cui il parlamentare si avvale nell’esercizio e nei limiti dell’esercizio delle relative funzioni, sul quale riposa la relativa ratio giustificativa.

Tale individuata ratio giustificativa è stata, con costante indirizzo, confermata dalla Corte costituzionale, anche al fine di definire i limiti dell’immunità, in relazione a manifestazioni suscettibili di più incerta classificazione.

Dopo le sentenze n. 10 e n. 11 del 2000, la Consulta ha avuto modo di ribadire le proprie valutazioni anche a seguito dell’entrata in vigore della L. 140 del 2003, avente la funzione di dare più concreta attuazione al principio sancito dall’art. 68 Cost. Il richiamo, ivi espresso, a varie tipologie di attività parlamentari si è accompagnato al riferimento ad attività non specificamente tipizzate, qualificate dalla connessione alla funzione di parlamentare, comunque espletata anche al di fuori del Parlamento. In tal senso, è stato da un lato rilevato come la L. n. 140 del 2003 non si pone al di fuori dei limiti costituzionali nella misura in cui dà attuazione al principio espresso dall’art. 68 Cost., incentrato sullo stretto collegamento con le funzioni (Corte Cost. 120 del 2004) e, dall’altro, affermato che l’insindacabilità è “..una “qualità” che caratterizza, in sè e ovunque, la opinione espressa dal parlamentare, la quale, proprio per il fondamento costituzionale che la assiste, è necessariamente destinata ad operare, oggettivamente e soggettivamente, erga omnes” (sentenza n. 194 del 2011).

Nel segnalare come la legge ordinaria non possa creare ex novo prerogative a vantaggio del parlamentare, diverse ed ulteriori rispetto a quelle risultanti dal vigente assetto delineato dalla Costituzione, la Corte costituzionale (Corte Cost. n. 262 del 2009) ha avuto modo di sottolineare che le immunità si inquadrano nel genus degli istituti diretti a tutelare lo svolgimento delle funzioni di organi costituzionali, sostanziandosi nella protezione di persone munite di status costituzionale, tale da sottrarle all’applicazione delle regole ordinarie: tali prerogative, che possono assumere diverse forme e denominazioni, sono comunque dirette a garantire l’esercizio della funzione derogando al regime giurisdizionale comune.

Su tali basi l’inquadramento giuridico dell’immunità non può prescindere dal più ampio percorso compiuto dalla Corte costituzionale al fine di delineare la sfera di autonomia delle Camere anche nella classificazione dell’attività del parlamentare, al di fuori delle categorie del diritto comune. Considerando che l’immunità riguarda non solo la sfera di operatività del diritto penale, ma più in generale concerne l’ambito della responsabilità, sia essa penale, civile o disciplinare, la classificazione dogmatica dell’istituto non risulta agevole.

Appare infatti nel contempo arduo parlare da un lato in termini totalizzanti di incapacità penale, a fronte di un ambito comunque più esteso di irresponsabilità, e dall’altro in termini riduttivi di mera causa di non punibilità, riflettente il dato dell’esonero da sanzione penale. In tal senso, la nozione di incapacità penale, intesa quale incapacità di divenire centro di imputazione di situazioni giuridiche rilevanti nel sistema penale, non esprime adeguatamente il fenomeno delineato dalla Corte costituzionale, che inerisce all’esercizio delle funzioni e non coinvolge di per sè la persona del parlamentare, il quale può nondimeno essere soggetto a sindacato ove operi all’esterno di quelle funzioni o in violazione dei limiti ad esse inerenti.

D’altronde la nozione di causa di non punibilità non coglie il complesso fenomeno che è alla base di tale non punibilità, non costituente mero esonero da pena, ma convergente risultato di due profili diversi, cioè, da un lato, l’agire con libertà dei fini e senza vincolo di mandato e, dall’altro, l’agire in un quadro costituzionale che non tollera la sua classificazione secondo le regole del diritto comune, ove non emergano frazioni esterne di quell’agire ovvero il coinvolgimento di beni ulteriori o di terzi. Ciò significa che la immunità costituisce in primo luogo il risultato di una causa di imperscrutabilità dell’attività del parlamentare, la quale solo ove posta in essere in violazione dei limiti ad essa propri, in quanto parimenti di rango costituzionale, ovvero tale da non esaurire in sè l’esercizio della funzione o da coinvolgere beni ulteriori, ad essa esterni, risulta classificabile secondo il diritto comune e dunque anche secondo il diritto penale.

In ogni caso, l’effetto finale risulta quello dell’esonero da responsabilità.

Nel quadro così delineato, si è ritenuto come l’immunità parlamentare ex art. 68 Cost., comma 1, essendo limitata agli atti e alle dichiarazioni che presentano un chiaro nesso funzionale con il concreto esercizio dell’attività parlamentare, operi, quanto alle dichiarazioni “extra moenia”, solo quando queste presentino una sostanziale coincidenza di contenuti con quelle rese in sede parlamentare e siano cronologicamente successive alle dichiarazioni cosiddette “interne”, e dunque un nesso funzionale con il concreto esercizio delle funzioni, anche se svolte in forme non tipiche o “extra moenia”, purché identificabili come espressione dell’esercizio funzionale.

Alla luce di ciò, deve ritenersi del tutto inconducente il preteso vizio di motivazione prospettato dal ricorrente in riferimento agli interventi effettuati dall’Onorevole nel Parlamento Europeo il 20 maggio 2008 in riferimento alla presenza dei Rom in Italia ed il riferimento alle iniziative intese a sanzionare i comportamenti antisociali delle comunità Rom, ponendosi le esternazioni in disamina (per occasione, contenuto, tono e forma) del tutto al di fuori dei temi trattati in sede parlamentare Europea. Invero, in quella sede, invero, gli interventi di cui si lamenta la sottovalutazione erano effettivamente orientati ad affiancare al dibattito sull’inclusione le concorrenti tematiche della sicurezza, mentre è evidente l’eccentricità rispetto a quei temi delle invettive in contestazione, ai primi accomunate solo dall’etnia interessata.

Conseguentemente, la decisione impugnata s’appalesa, pertanto, incensurabilmente argomentata anche al riguardo.

6) Conclusioni

In conclusione ed alla luce di tutte le rassegnate argomentazioni, la Suprema Corte, riqualificato il fatto ascritto nei confronti dell’etnia Rom nell’originaria contestazione di cui all’art. 3, comma I, lett. a), prima parte, legge 13 ottobre 1975, n. 654, annulla la sentenza impugnata limitatamente alla determinazione della pena e rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Milano, rigettando nel resto il ricorso.

 

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