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Pubblicizzare su Internet prostitute è reato (Cass. 16292/18)

12 aprile 2018, Cassazione Penale

Contattare prostituite, fotografare e immettere le foto su un sito internet di annunci, con avvisi pubblicitari, il tutto al fine evidentemente di rendere più allettante l'offerta e di facilitare l'approccio con un maggior numero di clienti, è reato.

E' reato favorire consapevolmente, vuoi sotto forma di attività di intermediazione, vuoi con l'induzione diretta, la prostituzione.

Ricorre reato di lenocinio non solo quando si induca una donna a prostituirsi per la prima volta, ma, anche quando si rafforza la sua determinazione a fare commercio del proprio corpo.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE TERZA PENALE (ud. 27/02/2018) 12-04-2018, n. 16292

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. ANDREAZZA Gastone - Presidente -

Dott. GALTERIO Donatella - rel. Consigliere -

Dott. ACETO Aldo - Consigliere -

Dott. DI STASI Antonella - Consigliere -

Dott. CORBETTA Stefano - Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

SENTENZA

sul ricorso proposto da:

M.V., nato a (OMISSIS);

avverso la sentenza in data 4.5.2017 della Corte di Appello di Torino;

visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;

udita la relazione svolta dal Consigliere Dr. Donatella Galterio;

udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Generale Dott. Romano Giulio, che ha concluso chiedendo l'inammissibilità del ricorso;

udito il difensore, avv. SB, che ha concluso chiedendo l'accoglimento del ricorso.

Svolgimento del processo


1.Con sentenza in data 4.5.2017 la Corte di Appello di Torino ha integralmente confermato la pronuncia resa in primo grado dal Tribunale della stessa città che aveva condannato M.V. alla pena di 10 mesi e 20 giorni di reclusione ed Euro 266 di multa ritenendolo responsabile del reato di cui alla L. n. 75 del 1958, art. 3, n. 5 per aver indotto alla prostituzione alcune ragazze non identificate pubblicizzando su siti internet a carattere pornografico la loro attività mediante indicazione delle prestazioni offerte e dei relativi contatti telefonici.

Avverso il suddetto provvedimento l'imputato ha proposto, per il tramite del proprio difensore, ricorso per cassazione articolando due motivi di seguito riprodotti nei limiti di cui all'art. 173 disp. att. c.p.p..

2. Con il primo motivo deduce, in relazione al vizio motivazionale, il travisamento della prova per aver il Tribunale attribuito la pubblicazione di tutti gli annunci rinvenuti sul sito internet di cui l'imputato era intestatario a quest'ultimo, ignorando che la maggior parte delle inserzioni pubblicitarie erano effettuate direttamente inserite dagli utenti e non dall'amministratore del sito. Sottolinea che in tali casi il mero rapporto contrattuale tra chi pubblica l'annuncio e chi ne richiede la pubblicazione non implica alcuno sfruttamento della prostituzione, perseguendo il primo la mera finalità di prestare il servizio offerto dietro compenso per la stessa pubblicazione, indipendentemente dal contenuto dell'avviso, al pari di una qualunque attività commerciale con fine di lucro. Deduce inoltre che nessuno degli annunci pubblici contenesse la descrizione delle prestazioni sessuali fornite come erroneamente indicato nel capo di imputazione e come altrettanto illegittimamente concluso da entrambe le sentenze di merito.

3. Con il secondo motivo deduce, in relazione al vizio di violazione di legge riferito all'art. 47 c.p. e al vizio motivazionale, che sin dai motivi di appello si era contestato l'errore sull'illiceità del fatto, ma che siffatta contestazione era stata negata dalla Corte distrettuale che la aveva liquidata come generica e che aveva, di contro, ritenuto che l'ampia confessione resa dall'imputato in sede di interrogatorio di garanzia comprovasse sia la materialità del fatto che l'elemento del dolo. Sostiene invece la difesa che la pubblicazione degli annunci delle meretrici riguardi solo l'elemento materiale e non la consapevolezza dell'agente di porsi quale mediatore della prestazione offerta da costoro, avendo l'imputato tratto dalla pubblicità di identico contenuto continuativamente divulgata dai vari mezzi di comunicazione la convinzione che si trattasse di condotta lecita.

Motivi della decisione
1. Il primo motivo deve ritenersi manifestamente infondato. In nessun travisamento della prova risulta essere incorsa la Corte distrettuale che ha fondato l'ascrivibilità dei fatti all'imputato sulla circostanza, da lui stessa ammessa in sede di interrogatorio, di essersi fatto parte diligente nella ricerca delle inserzioni delle prostitute al fine di promuoverne l'attività, avendo chiarito che la sua attività consisteva nel contattare le persone che pubblicizzavano la loro attività di prostituzione su altri siti, consapevole della prestazione che svolgevano, invitandole a pubblicare analoghi annunci anche sul sito di cui lui era titolare e percependo un compenso per la pubblicità così effettuata.

Risulta invero dalla sentenza impugnata che l'imputato non si era limitato a pubblicare gli annunci pubblicitari nel suo sito web - nel qual caso effettivamente si sarebbe dovuto adeguatamente motivare sulle ragioni per le quali non si era ritenuto trattarsi di una attività simile a quella svolta da molti quotidiani che pubblicano annunci pubblicitari del genere, solitamente considerati come un normale servizio svolto a favore della persona della prostituta e non della prostituzione bensì perchè aveva svolto, oltre a quella della mera pubblicazione, una attività ulteriore e diversa, consistente nell'aver offerto un contributo intenzionale all'attività di prostituzione eccedendo i limiti dell'ordinaria prestazione di servizi. Con la L. n. 75 del 1958, art. 3, comma 5, che punisce chiunque compia atti di lenocinio, sia personalmente in luoghi pubblici o aperti al pubblico, sia a mezzo della stampa o con qualsiasi altro mezzo di pubblicità, il legislatore ha, invero, inteso incriminare talune forme specifiche di invito al libertinaggio consistente nel favorire consapevolmente, vuoi sotto forma di attività di intermediazione, vuoi con l'induzione diretta, la prostituzione (Sez. 3, n.15275 del 20.2.2007, Rv. 237045; Sez. 3, n. 26343 del 18/03/2009 - dep. 25/06/2009, Sacchetti, Rv. 244266; e, a contrario, Sez. 3, n. 48981 del 21/10/2014 - dep. 25/11/2014, P.G. in proc. Piantoni, Rv. 261209).

Correttamente pertanto, la Corte territoriale ha ritenuto che rientrasse nell'ambito del reato in contestazione l'attività posta in essere dal prevenuto, concretizzatasi nell'aver ricercato, assumendone direttamente l'iniziativa, le donne che invitava al libertinaggio adoperandosi per l'inserimento degli avvisi pubblicitari sul proprio sito internet e nell'aver cooperato concretamente ad allestirne la pubblicità interessandosi, al fine evidentemente di rendere più allettante l'offerta e di facilitare l'approccio con un maggior numero di clienti, alle foto delle donne da pubblicare, che aveva scattato lui stesso od avvalendosi dell'attività di un suo collaboratore.

Del tutto irrilevante è pertanto il numero delle prestazioni effettuate a fronte di un'attività che di per sè si profila illecita, ricorrendo il reato di lenocinio non solo quando si induca una donna a prostituirsi per la prima volta, ma, anche quando si rafforza la sua determinazione a fare commercio del proprio corpo.

2. Il secondo motivo è inammissibile.

Dal momento che l'errore invocato dal ricorrente, dichiaratosi non consapevole dell'illiceità della condotta di intermediazione nell'attività di prostituzione, configura un errore di diritto, ne consegue che, essendo la conoscenza della legge penale presunta dall'art. 5 c.p., nessuna rilevanza può assumere la mancata consapevolezza dell'antigiuridicità del fatto in relazione all'elemento soggettivo del reato, senza che i giudici di appello, pur avendo omesso di motivare sul punto, siano incorsi in alcun vizio motivazionale. Invero, i vizi di cui all'art. 606 c.p.p., lett. B) e C) relativi all'inosservanza e all'erronea applicazione della legge non fanno alcun riferimento al percorso logico-argomentativo del giudice, a differenza della successiva lettera e), che si riferisce, però, alla motivazione relativa ai profili di fatto. Si ritiene pertanto che vizio di motivazione denunciabile nel giudizio di legittimità è solo quello attinente alle questioni di fatto e non anche di diritto, posto che il giudice di merito non ha l'onere di motivare l'interpretazione prescelta, essendo sufficiente che il risultato finale sia corretto (Sez. 3, n. 6174 del 23/10/2014 - dep. 11/02/2015, Monai, Rv. 264273; Sez. 2, n. 19696 del 20/05/2010 - 25/05/2010, Maugeri, Rv. 247123, secondo cui ove le questioni di diritto, anche se in maniera immotivata o contraddittoriamente od illogicamente motivata, siano comunque esattamente risolte, non può sussistere ragione alcuna di doglianza).

Pertanto la non riconducibilità del motivo svolto ai vizi tassativamente indicati dall'art. 606 c.p.p. si traduce nella manifesta carenza di una censura di legittimità in relazione al disposto dell'art. 581 c.p.p., lett. c) che necessariamente conduce, a norma dell'art. 591 c.p.p., comma 1, lett. c), all'inammissibilità.

Deve quindi concludersi per l'inammissibilità del ricorso e, a norma dell'art. 616 c.p.p., non ravvisandosi assenza di colpa nella determinazione della causa di inammissibilità (Corte Cost. sent. n. 186 del 13.6.2000), segue alla condanna della ricorrente al pagamento delle spese del procedimento quella al versamento della sanzione pecuniaria nella misura indicata in dispositivo.

P.Q.M.
Dichiara il ricorso inammissibile e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e al versamento della somma di Euro 2.000 in favore della Cassa delle Ammende.

In caso di diffusione del presente provvedimento omettere le generalità e gli altri dati identificativi a norma del D.Lgs. n. 196 del 2003, art. 52 in quanto imposto dalla legge.

Così deciso in Roma, il 27 febbraio 2018.

Depositato in Cancelleria il 12 aprile 2018