Il delitto di sequestro di persona, commesso in danno di tossicodipendenti sottoposti in comunità «chiusa» a programmi terapeutici comprendenti la restrizione della libertà personale, è seriminato dal consenso ai programmi predetti anticipatamente prestato dal ricoverato all'atto di ammissione in comunità, quando la privazione della libertà non si protragga oltre il tempo strettamente necessario al recupero del soggetto, e non venga attuata con modalità tali (ad es. incatenamento o chiusura in ambienti indecorosi e malsani) da lederne la dignità di persona umana.
Il tossicodipendente, accettando la condizione di essere trattenuto a forza in comunità, ha anticipatamente previsto e consentito di accettare la privazione della propria libertà personale ora per allora, cioè per il momento in cui la manifestazione della volontà di uscire sarebbe stata esplicitata e certamente attribuibile alla irrefrenabile «sete della droga», per cui la pretesa revoca del consenso dato alla temporanea e finalizzata restrizione della libertà personale altro non sarebbe che il verificarsi di quella condizione oggetto proprio della pattuizione accettata all'atto della richiesta di ammissione nella comunità.
Gli operatori di una comunità «chiusa», ove i tossicodipendenti vengono sottoposti a programmi terapeutici comprendenti la restrizione della libertà personale, non sono punibili per gli eccessi colposamente commessi nell'uso dei mezzi necessari a impedire che un ricoverato abbandoni la comunità con il dichiarato proposito di ricominciare a drogarsi (nella specie, incatenamento o chiusura in ambienti malsani), poiché il delitto di sequestro di persona non è punibile a titolo di colpa.
Esercita un diritto-dovere e pertanto, alla stregua dell'art. 51 c.p., non risponde di sequestro di persona l'operatore di una comunità «chiusa», il quale rinchiuda a chiave dentro una stanza la tossicodipendente minorenne che abbia manifestato l'intenzione di abbandonare il luogo di ricovero al fine di prostituirsi per disporre dei soldi necessari all'acquisto di dosi di eroina.
canestrinilex.com pubblica in esclusiva il testo della sentenza di assoluzione, successivamente confermata dalla Suprema Corte di Cassazione, che rovescia la condanna comminata in primo grado dal Tribunale di Rimini (16 febbraio 1985; Pres. ed est. Righi; imp. Muccioli e altri); il testo è in parte omissato.
CORTE D'APPELLO DI BOLOGNA
sentenza 28 novembre 1987; Pres. RICCA, Est. GUARINO; imp. Muccioli e altri.
(Omissis). Vanno ora prese in considerazione le argomentazioni svolte dalla difesa circa la ricorrenza delle cause di giustificazione del consenso dell'avente diritto e dello stato di necessità,· anche sotto il profilo putativo, oltreché dell'eccesso colposo.
Il consenso dell'avente diritto.
Deve intanto dirsi che nella materia in esame le due cause di giustificazione proposte si intersecano, anche se restano ovviamente distinte dal punto di vista concettuale ed applicativo. Ciò in quanto il rapporto tossicodipendente-comunità terapeutica (al di là delle classificazioni e definizioni di quest'ultima entità) ha intuitivamente caratteri e motivazioni assolutamente peculiari per la specifica complessità del fenomeno tossicodipendenza. Si è detto prima del minimo denominatore comune che sorregge la richiesta di ammissione in comunità: impedirsi il consumo e, soprattutto, vederselo impedito fino al completo recupero della capacità di fare a meno della droga. Tanto nelle intenzioni, che devono essere ragionevolmente serie e responsabili.
Secondo le concordi innumerevoli testimonianze raccolte in questo processo, condicio sine qua non per l'ammissione nella comunità di San Patrignano dei postulanti era costituita dalla serietà del proposito di disintossicarsi senza fare uso di stupefacenti o psicofarmaci.
Altra condizione posta ai tossicodipendenti all'atto della ammissione era quella di consentire di essere trattenuti anche contro la loro volontà nella fase di disintossicazione: le carte processuali dimostrano al di là d'ogni ragionevole dubbio che tutti conoscevano ed accettavano siffatta condizione esternando la stessa volontà di entrare nella comunità.
Difatti, le lamentele di coloro che hanno denunziato Muccioli e gli altri imputati quando non erano strumentali alla impellente volontà di tornare alla droga riguardavano le modalità della sorveglianza e le condizioni di vita riscontrate, più che il divieto di uscire in sé. Divieto che, come si è già detto, era assolutamente ovvio e perfettamente coerente col proposito serio che si era manifestato.
Ora, l'accettazione di quel divieto era già un'autolimitazione della propria libertà personale, della quale ci si privava volontariamente in funzione di un risultato benefico.
Questa considerazione non sembra in alcun modo contestabile e dimostra intanto che la temporanea privazione della libertà personale può essere consentita al singolo e che a date condizioni anche la «libertà personale» è un bene disponibile. Gli esempi della vita di tutti i giorni sono innumerevoli: si pensi all'accettazione incondizionata del divieto di allontanarsi da una sala da concerto fino alla fine dell'esecuzione; del divieto di allontanarsi da un pullman ove si sia verificato un furto fino all'avrrivo della polizia.
È evidente che gioca un ruolo decisivo la finalità lecita sottesa al sacrificio del bene della libertà personale, mentre appare del tutto fuorviante il richiamo alla «inviolabilità» della libertà personale di cui all'art. 13 Cost.
In realtà la questione più delicata e rilevante è costituita dal significato da attribuire alla c.d. revoca del consenso alla temporanea privazione della libertà personale. La soluzione di questo problema costringe a considerare in tutta la sua peculiarità il caso del tossicodipendente ospite di una comunità.
Come acutamente osservato dalla difesa degli imputati, il problema della «revoca» del consenso è mal posto. In realtà il tossicodipendente, accettando la condizione di cui s'è detto (quella di essere trattenuto a forza), ha anticipatamente previsto e consentito di accettare la privazione della propria libertà personale ora per allora, cioè per il momento in cui la sua manifestazione di volere uscire sarebbe stata esplicita e certamente attribuibile all'irrefrenabile «sete della droga». In altri termini, la pretesa revoca del consenso dato alla (temporanea e finalizzata) privazione della libertà personale altro non è che il verificarsi di quella condizione oggetto proprio della pattuizione accettata all'atto della richiesta di immissione nella comunità.
Si tratta di un punto fondamentale per capire la peculiarità di quel rapporto tossicodipendente-comunità terapeutica al quale ci si richiamava prima. E la riprova dell'esattezza della considerazione fatta è data dalla costante affermazione degli imputati, concretamente verificata, di non accettare nella comunità coloro che non fossero animati dal serio e forte proposito di disintossicarsi e non si sentissero quindi di confermare quella pattuizione.
Oltreché dalle dichiarazioni di Muccioli, dei diretti interessati e dalle deposizioni testimoniali, risulta dalle acquisizioni peritali che il periodo susseguente alla mancata assunzione dell'eroina (questa la sostanza stupefacente alla quale i tossicodipendenti erano dediti nella totalità dei casi considerati) è caratterizzato da due fasi: la prima della c.d. «scimmia», nella quale la crisi di astinenza si manifesta in tutta la sua crudezza anche per lo scomposto atteggiarsi del corpo, e la seconda, di più lunga durata, intrisa dal bisogno fisio-psichico di ricorrervi ancora (la c.d. idea fissa) ad ogni costo (bugie, simulazioni, violenze intrafamiliari e sovente anche violazioni della legge penale), Muccioli si è difeso cosi spiegando, in via generale, il fenomeno: «La fase di disintossicazione fisica è la più breve e più semplice ... le difficoltà insorgono nella seconda fase, ossia in quella psico-riabilitativa. All'inizio di questa seconda fase si prospetta il pericolo che l'ospite possa ritornare alla droga e manifesta la volontà di lasciare la comunità, perché è ancora in fase di dipendenza psichica. Noi gli facciamo presente che non possiamo lasciarlo andare, perché altrimenti tutto comincerebbe di nuovo. Se il richiedente non accetta tali condizioni noi non lo accogliamo». Aggiungeva: «Superata tale fase entra in un'altra più delicata che è rappresentata dalla dipendenza psicologica: questo è il momento in cui rimanendo nel tossicodipendente le pulsioni che lo indussero a rimanere nella droga può sentire i richiami a ritornare a questa. Ripeto che, come rilevato dalla letteratura e dalle altre comunità, questa è la fase più delicata e cioè l'intervento degli operatori deve essere più incisivo; ciò perché il tossicodipendente, sperimentata una prima esperienza in comunità, (se) si allontanasse da questa, potrebbe a giustificazione futura nel suo comportamento addurre di avere sperimentato vanamente la comunità e divenire irrecuperabile. Preciso che il tossicodipendente non è un incapace di intendere, ma di volere, cioè sa quello che fa, ma non sa determinarsi».
Orbene, è di tutta evidenza che la vera questione è allora data, non tanto dalla efficacia e rilevanza della condizione inizialmente accettata di consentire alla privazione della propria libertà personale per il fine curativo, quanto dalle modalità attuative di quella privazione e dalla durata temporale della validità del consenso iniziale. Sotto questi due profili ritorna, infatti, il tema della disponibilità del bene sacrificato, affrontato dalla sentenza impugnata, avendo a parametro l'art. 5 e.e., che, come è noto, pone il divieto degli atti di disposizione del proprio corpo, quando cagionino una permanente dimunizione della integrità fisica o quando siano altrimenti contrari alla legge, all'ordine pubblico o al buon costume. Il richiamo alla norma in questione è certamente utile, ma non sembra risolutivo per i fatti oggetto del presente procedimento, non venendo in considerazione l'integrità fisica del corpo, né il buon costume (che attiene alla sfera sessuale), né l'ordine pubblico, pur nell'accezione più lata «consistente in determinati principi fondamentali etico-sociali di cui la comunità avverte l'esigenza in un dato periodo storico ed assunti dal legislatore per informare i singoli istituti giuridici» (Cass. 17 marzo 1970,
- 690, Foro it., 1970, I, 1677), a meno che non si abbia riguardo a specifiche disposizioni costituzionali o, particolarmente, della legge penale.
Ritiene a tal proposito la corte che più pertinente sia il richiamo all'ultima parte del 2° comma dell'art. 32 Cost., che impedisce allo stesso legislatore di violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana, persino in caso di trattamento sanitario obbligatorio. Alla stregua di questa disposizione è evidente che il consenso alla privazione della propria libertà personale non può coprire un arco temporale incongruamente dilatato rispetto alle esigenze di recupero del singolo soggetto e non può assumere carattere lesivo della dignità sociale (art. 3 Cost.) di quest'ultimo. L'incatenamento o la penosa restrizione in condizioni ambientali indecorose confliggono coi richiamati principi costituzionali e perciò, anche se conosciuti a priori ed accettati, non possono formare oggetto di consenso, quale scriminante del delitto di sequestro di persona, in quanto il concetto di dignità umana esprime un valore non suscettibile di patteggiamenti individuati o col
lettivi ed è quindi un bene indisponibile.
Il venir meno di quella stretta relazione che deve esistere fra accettazione della privazione della libertà personale ed esigenze di cura nella particolarissima condizione in cui versa il tossicodipendente, apparentemente lucido di autodeterminarsi ed in realtà succube della droga-idea fissa, può essere materia di verifica concreta, caso per caso, anche di natura penalistica, ma non può, per quanto già detto e ripetuto, essere fatta discendere semplicisticamente dal fatto che cosi ha deciso il soggetto passivo della privazione della libertà personale.
Alla scontata obiezione che, cosi argomentando, si lasciano arbitri i «terapeuti» di decidere quando l'ospite da disintossicare è davvero pronto ad abbandonare senza pericoli la comunità, si può rispondere che gli stessi sono soggetti alla legge penale e quindi alla costante verifica di terzi esperti a rispondere circa la sussistenza o meno di quella relazione, caso per caso.
Del resto proprio questa vicenda giudiziaria conferma l'assunto: nessuno dei soggetti passivi dei reati di sequestro di persona ha mai sostenuto di essere stato trattenuto nonostante l'avvenuta liberazione fisico-psichica dal desiderio di assumere altra droga.
Gli ospiti fuggiti, che hanno denunziato i fatti, hanno continuato ad assumere eroina e la loro fuga era stata determinata principalmente dal desiderio di «bucarsi». La Cesarini ha ammesso di essere tornata in piazza a drogarsi fino al 1983, aggiungendo nel corso del dibattimento di primo grado di essersi «sdrogata» avendo trovato aiuto in una parrocchia e il soccorso della fede. Anche Costi aveva continuato a drogarsi. Turco dichiarava al magistrato di Palermo che era in corso di disintossicazione presso l'ospedale civico di quella città. Schiappa nel 1984 era in terapia al CMAS di Pescara. La Stanzione asseriva nel corso dell'istruttoria dibattimentale di avere smesso di assumere farmaci «da sola e con l'aiuto di un amico», evidentemente dopo l'uscita da S. Patrignano. La Gaballo era tornata a «bucarsi», tanto da richiedere di essere riaccolta nella comunità. Ambra Patrignani (la vedova di Walter Mosca) aveva scelto di stare nella comunità anche dopo la fuga del marito (non riaccolto a San Patrignano perché non dimostrava alcuna seria intenzione di smettere di drogarsi) ed aveva fatto certamente uso di eroina. Il caso, infine, di Moni ca Casarini di Ferrara dimostra proprio l'assunto difensivo del Muccioli: «Sono uscita volontariamente dalla comunità sebbene Muccioli dicesse che era ancora presto. Diceva che la mia uscita doveva essere organizzata. Ora lavoro in una pellicceria, lavoro che ho imparato a fare a S. Patrignano; non buco più e sono ancora in contatto con la comunità». La Casarini, irreperibile, non è stata sentita a dibattimento e la madre, Raffaella Previati, aveva prudentemente riferito al g.i. il 12 marzo 1983 che le «sembrava» che la figlia si fosse rimessa completamente e che non si fosse più «bucata» da quando era uscita dalla comunità, con la quale era tuttavia rimasta in contatto.
Altra risposta alla possibile obiezione sopra riferita circa la delega in bianco data agli operatori della comunità con l'iniziale consenso ad essere trattenuto da parte del tossicodipendente accolto è costituita dal rilevantissimo numero di persone che hanno lasciato la comunità stessa e dai risultati, certo non miracolistici, ma sicuramente di rilievo ottenuti da Muccioli e dai suoi collaboratori: risultati peraltro apprezzati anche dai primi giudici (un significativo riscontro è dato dalle pregevolissime tesi di laurea allegate agli atti, opera di ex tossicodipendenti, che con le loro dediche hanno manifestato tutta la loro gratitudine a Muccioli personalmente) e non smentiti, nonostante il tempo trascorso dalla pronuncia della sentenza appellata, tanto da fornire a questa corte un innegabile vantaggio rispetto alle riflessioni ed ai timori sottesi alla decisione degli stessi primi giudici del Tribunale di Rimini. Orbene, per le considerazioni fatte, la causa di giustificazione del consenso dell'avente diritto non appare applicabile per i reati di sequestro di persona di cui al capo A) - relativi a Cesarini, Rubini, Costi, Sola, Farneti e Gastone Castellani ed in danno di Leonardo Bargiotti (incluso nella contestazione di cui al capo S), in quanto le modalità stesse della privazione della libertà personale (anche ad ammettere che fossero note ed accettate: il che può dirsi con certezza solo per Castellani) erano di per sé contrarie alla dignità ed al rispetto della persona umana, siccome risulta dalla documentazione fotografica in atti e dalle dichiarazioni degli interessati.
Il consenso risulta invece scriminante per le imputazioni riguardanti Paolo Morosini (capo I), Maria Stanzione (capo P), Ambra Patrignani, Alessandro Melodia e Monica Casarini (capo S).
In nessuno di questi casi è stato fatto uso di catene, né c'è la prova di «segregazioni» realizzate con modalità umilianti.
Morosini aveva già detto ai carabinieri di Cattolica il 19 aprile 1980 che sapeva di non potersi allontanare dalla comunità e la moglie (Fiorella Boccalini) aveva confermato l'accettazione delle condizioni all'atto dell'ammissione da parte del coniuge; lo stesso Morosini nel corso dell'istruttoria dibattimentale aveva finito per ammettere di aver simulato i collassi perché voleva andare a «bucarsi» ed allo stesso fine aveva lanciato fuori dalla finestra il bigliettino portato ai carabinieri, in quanto era costantemente sorvegliato. Proprio questa costante sorveglianza, esercitata anche dalla moglie, era stata ritenuta la forma più efficace e iegittima di terapia da parte del g.i. e lo stesso p.m. d'udienza in primo grado come s'è già detto aveva richiesto l'assoluzione degli imputati dal reato riguardante il Morosini: questi era rientrato a San Patrignano la sera stessa dell'esame da parte dei carabinieri il 29 dicembre 1979; aveva poi chiesto di uscire dopo una quindicina di giorni e non glielo avevano impedito, riprendendo quindi la sua vita normale, «cioè randagia e costellata di reati»; dopo una settimana era di nuovo in carcere ed aveva continuato a drogarsi; era uscito dal carcere il giorno prima della deposizione al1'udienza dibattimentale del 28 novembre 1984. La deposizione testimoniale resa all'udienza del 28 novembre 1984 da Maria Stanzione detta Manuela è per molti versi sconcertante e la stessa verbalizzazione tradisce un non sopito risentimento personale nei confronti di Muccioli ed una reattività certamente al di fuori della norma («Si dà atto che la teste dichiara di rispondere concitatamente perché 's'incazza'; ... ha chiesto anche di rivolgersi col 'tu' al presidente ... Lo sai che lo Stato passa un tanto per ogni tossicodipendente e lui, il signore, ci diceva che ci manteneva lui e non ci dava la cioccolata . . . Ripeto che voglio che Muccioli sia condannato perché si fa un sacco di 'pile' (soldi), fa le sfilate di pellicce ed ha cavalli, cani e terreni. Prima era un fallito, lo sai? Solo che è un uomo molto furbo, ma crollerà»).
Nella stessa deposizione nega tuttavia di essere stata legata nel tino, come invece aveva detto ai carabinieri, pur aggiungendo senza specificazioni «ma Muccioli lega le persone». Conviene di essere stata assistita ed aiutata da una certa Katia di Milano, molto buona, sulla quale non poteva dire molto perché era ancora li («La castiga, la picchia sicuramente»). Aveva detto ai carabinieri il 3 maggio 1981 di avere telefonato a Muccioli circa un mese prima, chiedendo di poterla ospitare in quanto era appena uscita dall'ospedale per un collasso dovuto all'uso di eroina, aggiungendo che faceva largo uso di droga da circa cinque anni e che era intenzionata ad uscirne. A proposito della Stanzione, Katia Meneghini di Milano all'udienza del 3 dicembre 1984 cosi deponeva: «Sono stata a San Patrignano come tossicodipendente per diciannove mesi e in quel periodo ha conosciuto la Stanzione che io ho assistito, a questa volevo bene; ella mandava biglietti amorosi a Muccioli e non fu redarguita, né chiusa in alcun luogo e non fu maltrattata, anzi era 'coccolata'. Io ora lavoro e sono in una direzione dei centri Narconon come volontaria e non mi drogo più».
Ora, sulla attendibilità della versione della Stanzione aveva già manifestato dubbi lo stesso m.llo Capogreco della stazione dei carabinieri di Coriani nel rapporto 5 maggio 1981 (circostanza ribadita a dibattimento), oltre che Franca Suzzi (l'amica dalla quale la ragazza aveva detto ai carabinieri sarebbe andata, a Bologna, dopo la fuga), considerata poi una «bastarda» dalla giovane. Ci sarebbero quindi forti dubbi persino della sussistenza del fatto materiale del sequestro lamentato, ma non si può negare che la richiesta di ospitalità dalla stessa riferita ai carabinieri implicasse accettazione delle regole fissate per l'ammissione dei tossicodipendenti: regole peraltro «reclamizzate» per cosi dire dalle ampie informazioni giornalistiche per il clamore suscitato dagli arresti degli imputati. Non appare perciò nemmeno azzardato per i casi nei quali dalle carte processuali non risulti l'esplicito consenso ad essere temporaneamente trattenuti ipotizzare la ricorrenza del consenso putativo ex art. 59, ultimo comma, c.p.p. Deve, tuttavia, per completezza aggiungersi che, ancora in riferimento alla Stanzione, la teste Adriana Sgnaolin in sede dibattimentale ha detto di non ricordare nulla circa la Stanzione Maria, né la Manuela, quando invece, sentita dal g.i., aveva dichiarato essere totalmente vere le dichiarazioni rese da Gaballo Livia e da Stanzione Maria, dando cosi non poco impulso alla «svolta» nel convincimento dello stesso g.i. circa la ripresa dei metodi che avevano portato agli arresti del 28 ottobre 1980. Anche il caso di Ambra Patrignani presenta aspetti particolari, che meritano una specifica attenzione. Va intanto detto che la stessa non fuggi da San Patrignano, ma se ne allontanò quando seppe della morte del marito, Walter Mosca, per assistere ai suoi funerali a Milano nel settembre 1981. Inoltre non presentò alcuna denunzia, ma fu sentita a seguito della testimonianza della suocera Maddalena Sgnaolin e della sorella di quest'ultima, Adriana, presentatesi spontaneamente al g.i. soprattutto per evidenziare come Muccioli avesse trattato il congiunto, non accogliendolo a S. Patrignano, nonostante le reiterate insistenze e rendendosi, a loro modo di vedere, responsabile della sua morte avvenuta per overdose a Milano. La Patrignani, al di là delle sue dichiarazioni minimizzanti, era anch'essa, come il marito, una tossicodipendente, sia pure in misura più lieve: in questo senso vi sono le dichiarazioni delle sorelle Sgnaolin sia al g.i., sia a dibattimento. È quindi evidente che la Patrignani fosse stata accolta in comunità quanto meno anche per la sua tossicodipendenza e le sue «chiusure» facevano parte della terapia, ove si consideri poi che stava praticamente nell'ambiente di lavoro (pellicceria) dove si trovavano prevalentemente donne. C'era certamente nei suoi riguardi anche un risvolto, per cosi dire, «disciplinare», dal momento che la sua costante infedeltà coniugale (ribadita dalle due sorelle Sgnaolin)aveva creato vari problemi in comunità: da ciò il suo «isolamento» relativo in un ambiente frequentato da donne.
Ma tutto ciò era stato accettato dalla stessa Patrignani, che non risulta abbia fatto alcuna rimostranza o abbia manifestato l'intenzione di andarsene: in sostanza la c.d. punizione era consistita nello stare sola la notte e nel consumare i pasti da sola per quindici giorni. Anche la Patrignani ha escluso di essere stata legata o di avere visto altri «legati»
Quanto ad Alessandro Melodia, si sa soltanto quanto riferito dallo stesso Muccioli, il quale aveva detto di averlo chiuso in una botte di cemento dove normalmente si conserva il vino, ma ha anche spiegato che c'erano stati vari episodi di fuga e sarebbe potuto uscire, perché non c'era chiusura vera e propria, tanto che lo aveva fatto e si era trovato lo stesso Muccioli, che lo sorvegliava; l'imputato ha anche riferito che si trattava di un enorme recipiente, indicandone le dimensioni nel corso dell'ispezione in loco: «occupava un'ampiezza di quattro metri, una lunghezza di otto metri e forse più e misurava quattro di altezza». Del Melodia si sa poi che era all'estero, in quanto frequentava l'università di San Diego in California all'epoca del dibattimento di primo grado.
Non sembra quindi che ricorrano condizioni diverse da quelle tipiche degli ospiti tossicodipendenti di San Patrignano e valgono quindi le considerazioni svolte a proposito della Stanzione circa, quanto meno, la ricorrenza del consenso putativo. Evidente risulterebbe l'iniquità di una condanna, in assenza di dati più precisi in ordine all'episodio narrato dallo stesso Muccioli ed invero tralasciato dallo stesso g.i., tanto da far chiedere al p.m. l'assoluzione con la formula dubitativa.
Monica Casarini, irreperibile nel corso dell'istruttoria dibattimentale, proveniva dal carcere ed era fuggita tre volte: la terza volta era stata rinchiusa in uno stanzino vicino alla lavanderia, ma, a quanto dichiarato dalla stessa ragazza, di notte stava con lei Mirella col compito di sorvegliarla. Ora, a parte il fatto che la stessa Casarini non fece alcuna denunzia e, come si è già ricordato, usci volontariamente contro il parere di Muccioli dalla comunità, pur mantenendo i contatti con la stessa, è mancato ogni approfondimento e si è potuto solo dare lettura delle sue dichiarazioni testimoniali. La condotta riferita dalla teste ricalca la ordinaria situazione di sorveglianza del tossicodipendente accolto in comunità e seguito personalmente per impedire la tentazione della fuga e del ritorno alla droga. Vale la pena di riportare le esatte parole della teste: «Muccioli venne una volta o due a parlare con me, mi chiedeva che cosa volevo fare, io gli rispondevo che se mi faceva uscire sarei scappata. La seconda sera non risposi più cosi e Vincenzo mi fece uscire». A proposito della Casarini il tribunale incorre in errore, avendo ritenuto che la teste Adriana Sgnaolin si fosse riferita alla Casarini quando aveva parlato di una «Monica di Verona» tenuta legata a letto con una catena: la Sgnaolin, infatti, sia al g.i., sia a dibattimento si è sempre riferita, appunto, a «Monica di Verona», mentre la Casarini (nata e residente a Ferrara) era conosciuta, come lei stessa ebbe a dire al g.i., «come Monica di Ferrara» ed aveva conosciuto Adriana, la zia di Walter Mosca. Si aggiunga che di un sequestro ai danni di «Monica di Verona» non c'è traccia in alcuna delle contestazioni fatte agli imputati, nemmeno in sede suppletiva. Anche Livia Gaballo (conosciuta come Lilly) accenna alla Casarini come a «Monica di Ferrara», riferendo del suo invito a fuggire rivolto a quest'ultima e a tale «Laura di Milano» (identificata nella teste Laura Scandura): invito non raccolto ed anzi riferito a Muccioli. Si è già detto che spesso le cause di giustificazione invocate dalla difesa, avuto riguardo ai reati di «sequestro di persona» si intersecano ed evidentemente in sede applicativa non si può non fare riferimento ad una priorità logica tra le stesse. Cosi il consenso dell'avente diritto (in presenza ovviamente di un bene disponibile e degli altri requisiti di legge), sia reale che putativo (senza che metta conto in questa sede affrontare il più controverso tema del c.d. consenso presunto), assume carattere prioritario rispetto allo stato di necessità.
Ritiene tuttavia la corte che, per completezza, sia opportuno rilevare come in tutti i casi esaminati possa fondatamente invocarsi anche la scriminante dello stato di necessità, senza nemmeno far ricorso al «putativo» ex art. 59, ultimo comma, c.p.
Va intanto detto che l'elemento psicologico del delitto di sequestro di persona è fatto consistere da autorevolissima dottrina «nella volontà (originaria o sopravvenuta) cosciente e libera e nell'intenzione di compiere il fatto illegittimo contro l'altrui interesse relativo alla attuabilità della propria libertà di movimento», sottolineandosi «la coscienza dell'illegittimità del fatto», «quantunque codesta illegittimità sia un carattere obiettivo del reato»; e la stessa dottrina ricorda come fosse stato soppresso l'avverbio «illegittimamente» presente nel codice del 1889, perché, secondo la relazione ministeriale sul progetto del codice penale vigente,
«la illegittimità dell'azione è, per cosi dire, un presupposto logico».
Ora, sulla base della descrizione dei fatti esaminati, siccome risulta anche dall'amplissima istruttoria svolta dai primi giudici, persino il dolo generico richiesto dall'art. 605 c.p. appare in qualche misura scolorirsi o, per usare una terminologia più tecnica, scemare di intensità, pur ricorrendo.
Del che non sembra corretto non tener conto in sede di verifica della ricorrenza delle cause di giustificazione, ferma restando - è appena il caso di dirlo a concettuale differenziazione dei vari requisiti ed istituti penalistici.
È noto che, secondo la previsione dell'art. 54 c.p., la non punibilità dell'agente è collegata alla sussistenza di un «pericolo attuale di un danno grave alla persona, pericolo da lui non volontariamente causato, né altrimenti evitabile, sempre che il fatto sia proprozionato al pericolo». Come si è già detto, tutte le persone offese compiutamente indicate nei capi di imputazione relativi ai sequestri di persona sono risultate dedite all'uso di stupefacenti, compresa l'eroina (di cui alla tabella I dell'art. 12 I. 22 dicembre 1975 n. 685), sui cui effetti assuefativi e devastanti della personalità non è il caso di indugiare, tanto sono ormai noti nella società e, in particolare, nelle aule giudiziarie della magistratura di merito. Senza minimizzazioni o catastrofismi di maniera, è certo che l'assunzione di eroina rechi grave danno alla persona per il progressivo dilatarsi delle dosi necessarie a colmare la brama irresistibile di detta sostanza, con ogni prevedibile conseguenza. La tossicomania indica uno stato, ma anche una tendenza perdurante nel tempo se non arrestata da un risveglio della coscienza e della volontà, sorretta necessariamente dall'esterno ad opera delle giuste persone. La natura tendenzialmente permanente di quello stato fa riconoscere un altro requisito indicato dall'art. 54 c.p., vale a dire l'attualità del pericolo, dal quale salvare con le giuste terapie chi di quella sostanza faccia incontrollabile uso. Può ben dirsi che non è una mera coincidenza la comune natura permanente del reato di «sequestro di persona» e della tossicodipendenza.
Altro dato singolare che ricorre nei casi esaminati alla stregua della sussistenza dei requisiti voluti dalla legge perché sussista Io stato di necessità è dato dal fatto che è lo stesso soggetto passivo del reato (da giustificare) ad essersi posto in pericolo volontariamente con la progressiva assunzione della droga, mentre solitamente il danneggiato da chi abbia agito in istato di necessità è del tutto incolpevole, tanto da essere ritenuto meritevole dalla legge civile (art. 2045 e.e.) di un'indennità, la cui misura è rimessa all'equo apprezzamento del giudice. Ora, anche questo dato concorre a fare apprezzare la proporzione fra il bene sacrificato (la temporanea privazione della libertà personale) ed il pericolo del danno grave alla persona, tanto più che singolarmente è Io stesso soggetto in pericolo a vedere sacrificato un suo bene.
Più delicato è, infine, l'esame della ricorrenza dell'ultimo requisito richiesto dall'art. 54 c.p., cioè l'evitabilità del pericolo. La corte non ignora che un certo orientamento anche della Cassazione è nel senso che «la moderna organizzazione sociale, venendo incontro con diversi mezzi ed istituti agli indigenti, agli inabili al lavoro ed ai bisogni in genere, elimina per costoro il pericolo di restare privi di quanto occorre per le loro cure ed il loro sostentamento quotidiano», facendo cosi escludere che Io stato di bisogno possa integrare l'esimente di cui all'art. 54 c.p.
Deve tuttavia osservarsi come anche autorevoli parlamentari nel corso dell'istruttoria dibattimentale di primo grado abbiano dovuto convenire circa i ritardi e l'inadeguatezza delle strutture pubbliche a fronteggiare il gravissimo fenomeno della tossicodipendenza, cosi da accentuarne la drammaticità e da avvalorare il senso di frustrazione e di impotenza dei diretti interessati e delle loro famiglie. È del resto noto come i nuovi fenomeni emergenti, specie se di vaste dimensioni, non trovino spesso pronta ed adeguata risposta nella legislazione vigente, per non parlare delle strutture amministrative effettivamente operanti.
Non è peraltro casuale che solo di recente lo Stato abbia preso atto del ruolo, pressoché necessitato, delle «associazioni di volontariato, cooperative e privati», garantendo, a date condizioni, «la erogazione di contributi finalizzati al sostegno delle attività di prevenzione e reinserimento dei tossicodipendenti» (cosi la rubrica della I. 21 giugno 1985 n. 297). Si aggiunga inoltre quanto è emerso dalle numerosissime testimonianze di familiari di tossicodipendenti, che hanno riferito degli innumerevoli tentativi (spesso anche costosissimi) fatti, prima di rivolgersi alla comunità di San Patrignano, per risolvere o, almeno, affrontare con qualche speranza il problema.
Non può quindi dirsi che il pericolo in questione fosse «altrimenti» evitabile, avuto riguardo alle possibilità offerte «dalla moderna organizzazione sociale» e sanitaria. Si tenga conto che il pericolo di cui si parla è quello del grave danno alla persona per effetto della constatata irrinunciabilità alla riassunzione della droga (eroina, nella specie): non si deve, infatti, cadere nell'errore di considerare l'inciso «altrimenti evitabile» come riferito al sacrificio del bene (nella specie la libertà personale entro ragionevoli limiti), in quanto questo aspetto è dalla norma tenuto presente laddove si occupa di quella «proporzione» tra fatto e pericolo, di cui s'è già detto. Gli episodi di sequestro prima esaminati, attraverso la considerazione delle singole vicende personali, evidenziano, quindi, al di là del consenso prestato, la ricorrenza anche dello stato di necessità per la manifestata intenzione di fuga (Morosini; Stanzione; Melodia; Casarini; per la Patrignani ci fu accettazione della limitazione della sua libertà di movimento anche per la sregolatezza della sua condotta nella comunità): fuga che equivaleva a ritorno all'uso di eroina.
Tutte le considerazioni fatte circa la ricorrenza dello stato di necessità valgono anche per i sequestri di persona di cui al capo A), interessante Maria Rosa Cesarini, Luciano Rubini, Marco Marcello Costi, Massimo Sola, Mauro Farneti e Gastone Castellani, nonché di Leonardo Bargiotti (inserito nel capo S dell'imputazione). In questi casi, come già anticipato, le modalità poste in essere per impedire loro la fuga (incatenamenti o chiusure in ambienti assolutamente indecorosi e malsani) fanno escludere ogni rilevanza di un qualsivoglia consenso, in quanto, venendo in considerazione sic et simpliciter la dignità ed il rispetto della persona umana, si verte in tema di bene indisponibile, giusta tutto ciò che s'è detto prima.
Non è il caso di indugiare sulla condizione in cui vennero a trovarsi i predetti giovani, dal momento che i fatti sono stati ammessi e sono, in parte, documentati dalle fotografie scattate dalla polizia all'atto dell'irruzione.
È invece necessario considerare il loro stato di tossicodipendenza.
La Cesarini quando era entrata nella comunità faceva uso da circa tre anni di eroina; era scappata tre volte ed era stata ripresa prima di essere rinchiusa nella c.d. piccionaia per sedici giorni; dopo l'ultima fuga era stata arrestata per detenzione di trenta grammi di eroina nel gennaio 1981 e giudicata dal Tribunale di Forli; aveva ripreso a drogarsi (cosi la stessa Cesarini).
Rubini faceva uso di eroina da circa due anni ed era scappato due volte dalla comunità, nella quale era andato spontaneamente per disintossicarsi e gli avevano spiegato che per ovviare all'eventuale crisi di astinenza lo avrebbero trattenuto anche contro la sua volontà; le sue fughe erano state determinate dal desiderio di drogarsi. Non è stato più esaminato dopo il 31 ottobre 1980, perché all'estero.
Costi era stato accettato nella comunità il 15 settembre 1980, essendo «ancora intossicato, ma non molto»; dopo essere stato liberato avevano ripreso a «bucarsi»; aveva accettato il divieto di allontanarsi anche quando lo avesse desiderato, se non col consenso di Muccioli, anche se non gli avevano prospettato la segregazione in una cella e l'incatenamento; si diceva infine disintossicato.
Sola si era recato in comunità il 7 settembre 1980 per disintossicarsi dall'eroina; era scappato due volte perché aveva il desiderio di drogarsi (faceva uso di eroina da circa un anno).
Farneti si trovava nella comunità da un anno; aveva fatto uso di eroina e dichiarava di essere stato tossicodipendente «in condizioni abbastanza disperate»; era scappato tre volte per potersi andare a «bucare» e dichiarava di avere manifestato agli altri le sue intenzioni suicide; era tornato poi nella comunità.
Castellani Gastone era giunto a portare eroina nella comunità, nella quale si trovava dal 22 luglio 1980, quando era stato posto in libertà provvisoria; era fuggito ed aveva ripreso a drogarsi;
La madre del Castellani asseriva che il figlio era stato anche violento con lei durante le crisi e lo aveva dovuto accompagnare in ospedale in ambulanza perché in coma.
Leonardo Bargiotti, entrato in comunità ai primi del giugno 1980, dichiarava di avere smesso di usare eroina nel luglio di quell'anno ed aveva deciso lui, consigliato da Giulio Canini, di farsi incatenare (cosi alla p.g. la mattina della liberazione, il 28 ottobre 1980); le sue condizioni fisio-psichiche erano gravemente compromesse: nonostante la giovane età era affetto da epatite cronica e sifilide, come riferito dal suo carissimo amico Mauro Farneti, che lo conosceva ancor prima che entrasse nella comunità, sapendo che si drogava da tempo con eroina e con morfina; era stato ricoverato al Niguarda di Milano (dove lo stesso Farneti lo aveva accompagnato per le cure del caso); ancora Farneti riferiva delle sue stranezze, pur precisando che con lui aveva sempre ragionato molto bene, forse per la grande confidenza ed amicizia che c'era tra loro due; il padre riferiva delle gravissime preoccupazioni create in famiglia dallo stato di tossicodipendenza del fi. glia e delle speranze alimentate dal suo ricovero a San Patrignano dopo due vari ricoveri in ospedale per cure metadoniche prive di risultato pratico, quando tutti li avevano lasciati soli e nessuno aveva fatto niente. La drammaticità della conclusione della vicenda con la morte del giovane dimostra certamente che aveva bisogno di essere controllato momento per momento e che non avrebbe dovuto essere lasciato solo.
Ora, il dato comune ricavabile dalle posizioni dei tossicodipendenti sopra indicati è che la segregazione loro imposta era strettamente legata alla necessità di impedire loro il drammatico ritorno all'eroina, come i fatti hanno dimostrato. Riprendendo gli argomenti già svolti per dimostrare la ricorrenza (e, a fortiori, la putatività, cioè la ragionevole convinzione della ricorrenza) dello stato di necessità, mentre non appare facilmente contestabile che l'uso dell'eroina costituisca un pericolo di danno grave alla persona, quanto al requisito della attualità deve osservarsi che spesso, anche dalla giurisprudenza della Suprema corte, si fa coincidere tale concetto con quello di incombenza o di immanenza, che però sembra gravare la formula usata dal legislatore di un quid p/uris inespresso, in quanto l'attualità esprime solo la presenza di quel pericolo ed in questi termini il sicuro (provato in tutti i casi in esame, salvo che per il povero Leonardo) ritorno all'eroina appare integrare l'attualità di quel pericolo. Non sembra perciò il caso di appesantire la dimostrazione dell'assunto qua condiviso col richiamo ai quotidiani fatti di cronaca funestamente punteggiati dalle morti per droga di tanti giovani (anche in questo processo le carte in atti ne danno riprova: fra l'altro il caso di Walter Mosca è stato paradossalmente usato contro Muccioli, incolpato di non averlo voluto riprendere nella comunità, per magari poi addebitargli il suo sequestro di persona, ove lo avesse ripreso e trattenuto contro la sua volontà proprio per impedirgli di finire miseramente per overdose).
È a questo punto importante ribadire un fatto, per quanto scontato sia, che talora è stato dimenticato: la scelta di recarsi a San Patrignano da parte di tutti i soggetti passivi dei reati di sequestro di persona addebitati agli imputati è stata del tutto autonoma e volontaria e giammai sollecitata dagli operatori della comunità. In questo senso il «diritto all'autodeterminazione dei tossicodipendenti» (come si esprime l'art. I bis della citata I. 21 giugno 1985 n. 297) era perfettamente rispettato ancor prima che una legge sul punto invero in maniera del tutto pleonastica lo ponesse come condizione per l'erogazione dei contributi statali a soggetti privati. Ma «autodeterminazione» significa scelta volontaria di curarsi e quindi anche accettazione di quel minimum di costrizioni atte ad impedirsi il ritorno alla droga: perciò si ripropone il problema della c.d. revoca del consenso, già preso in considerazione trattando di questa particolare causa di giustificazione.
È evidente che il tossicodipendente è, per cosi dire, autodeterminato «per destinazione» a tornare alla droga; non si può non considerare la formula usata dal legislatore come scelta di curarsi o no; pertanto la c.d. revoca del consenso in corso di cura è talmente prevedibile (la terapia consiste infatti proprio nell'evitare il ritorno alla droga) che non può evidentemente entro limiti di tempo ragionevoli farsi rientrare semplicisticamente nel suo «diritto ali'autodeterminazione». La ragionevolezza dei tempi di terapia non può certo essere fissata in via generale (meno che mai con una sentenza penale), ma può essere oggetto di concreta verifica caso per caso, eventualmente anche dal giudice penale con l'ausilio di periti, avuto riguardo alla specificità di una singola vicenda personale. In ciò sta come si è già accennato la garanzia del rispetto di quel «diritto all'autodeterminazione dei tossicodipendenti» voluto dal legislatore, per scongiurare quello che (invero per altri casi) è stato definito l'accanimento terapeutico.
Può anche darsi che quanto detto possa essere inquadrato nello schema definito da alcuni studiosi «contratto terapeutico», ma è certo che l'autodeterminazione del tossicodipendente di farsi curare, cioè di accettare la terapia offertagli da altri, implica una scelta autolimitativa, che non può essere, al primo inevitabile richiamo istintivo alla droga, revocata in nome di un'autodeterminazione, il cui sapore di farsa non dovrebbe sfuggire a nessuno. Altra è la questione relativa alle modalità adottate per la temporanea privazione della libertà personale in funzione della terapia autolimitativa liberamente accettata.
Ora, una volta accertato che ricorressero tutte le condizioni volute dalla legge per l'integrazione dello schema legale dello stato di necessità nei casi da ultimo considerati per l'evidente pericolo incombente su quei soggetti specifici, ove lasciati liberi di fuggire (come avevano fatto o manifestato di fare per andarsi a «bucare»), ritiene la corte che le modalità attuative della limitazione della libertà personale di cui s'è detto siano state frutto di un eccesso. In altri termini è stato fatto uso di mezzi esorbitanti e perciò gravemente censurabili, in quanto apportatori di squilibrio rispetto al fine di salvamento, benché riferibili ad una rudimentale ed approssimativa (e quindi colpevole) struttura organizzativa esistente al momento di quei fatti, tutti antecedenti al 28 ottobre 1980 (data dagli arresti degli imputati e di liberazione degli incatenati), come risulta per certo provato in questo processo, una volta corretti gli errori di tempo e di persone in cui è incorso il tribunale. Non sembra peraltro corretto addebitare agli imputati di avere accolto quei disperati, nonostante la prevedibile insufficienza dei mezzi a disposizione, perché la valutazione deve essere fatta ex ante: quando erano stati accolti non si prevedeva certo di dovere ricorrere a quei mezzi sproporzionati e quando se ne manifestò l'esigenza si ritenne per colpa di non potere fare diversamente. Significativa appare a questo proposito la risposta data dall'imputato Bernardi al g.i.: «Di fronte al gran numero di persone che chiedono di entrare e che fuori morirebbero, abbiamo sovente superato i limiti che noi stessi ci eravamo imposti. Io non me la sento di dire di no a uno che ha fatto la mia stessa vita».
Sembra quindi giuridicamente appropriato il richiamo fatto alla previsione di cui all'art. 55 c.p., in relazione al citato art. 54. Gli imputati non sono perciò punibili, non essendo previsto il reato di sequestro di persona colposo.
Dal punto di vista sostanziale è conclusione analoga a quella adottata come si e detto all'inizio dal giudice istruttore con l'ordinanza di scarcerazione del 1° dicembre 1980, anche se diversa dal punto di vista formale, avendo quel magistrato esclu so la causa di giustificazione della necessità (qua riconosciuta), pur considerandola erroneamente supposta dagli arrestati ex art. 59, ultimo comma, c.p., prima di sentirsi gravemente contraddetto dalle successive denunzie e testimonianze a carico di Muccioli e degli altri in relazione a fatti e circostanze fortemente ridimensionate nel corso dell'istruttoria dibattimentale di primo grado, tanto da far segnare un nettissimo spartiacque tra i fatti antecedenti agli arresti e quelli successivi.
Va da sé che lo si aggiunge ad abundantiam questa corte reputa assolutamente corretta (e nient'affatto strumentale) la ben motivata argomentazione svolta dal giudice istruttore con la citata ordinanza del 1° dicembre 1980 a favore della sussistenza dello stato di necessità putativo. Seguendo cosi il ragionamento detto a fortiori (per cui il più contiene il meno), è evidente come il ritenuto eccesso colposo ex art. 55 c.p. debba spiegare la sua efficacia applicativa anche in presenza di un «erroneo convincimento di essere stati a ciò (segregando e incatenando) costretti dalla necessità di salvare i medesimi (tossicodipendenti ospiti della comunità S. Patrignano) dal pericolo attuale di un grave danno alla persona, costituito dal ritorno all'assunzione di eroina e dalle relative conseguenze fisiche, sociali e anche criminali, pericolo che con una valutazione più adeguata dei mezzi a disposizione e una equilibrata gestione delle ammissioni nella comune, ben avrebbero potuto tentare di evitare con lo stesso metodo adottato in precedenza, ossia il colloquio e una presenza attenta accanto al tossicodipendente» (cosi l'ordinanza di scarcerazione del g.i. del 1° dicembre 1980, su conforme parere del p.m.).
Secondo una interpretazione del cpv. dell'art. 152 c.p.p. che questo collegio condivide, pur in presenza della causa estintiva dei reati per morte, anche il Canini va assolto o dichiarato non punibile, come gli altri imputati, ferme restando le altre antecedenti (art. 183 c.p.) cause estintive degli altri reati ascrittigli.
Va ora considerata la doglianza della difesa relativamente alla condanna del Muccioli per il reato di sequestro di persona in danno di Livia Gaballo detta Lilly di Roma.
Il caso presenta molti tratti in comune con altri episodi di temporanea limitazione della libertà personale, per cui varrebbe anche la causa di giustificazione dello stato di necessità, secondo l'opinione accolta e già motivata da questo collegio. È certo infatti che la ragazza (non ancora diaciassettenne al tempo della fuga) aveva fatto uso anche di eroina prima di essere stata affidata dai genitori a Muccioli (v. deposizione del padre il 21 giugno 1981 e le sue stesse dichiarazioni a dibattimento): e che dopo la denunzia e la fuga da S. Patrignano, dopo un breve periodo di «normalità» in famiglia, aveva ripreso a «bucarsi», dopo avere venduto gli orecchini (deposizione del padre al g.i. il 6 luglio 1981); finendo per ritornare a San Patrignano da maggiorenne. La ragazza ha dichiarato di essersi prostituita ed anzi aveva fatto la proposta di scappare a Monica di Ferrara (la Casarini) ed aLaura di Milano (la Scandura), dicendo a quest'ultima che «la
sua vocazione era di andare a fare la puttana».
Muccioli si è difeso dicendo che, avendo saputo la cosa, l'aveva chiusa a chiave in una stanza al massimo per un'ora di notte perché non fuggisse ed in attesa dell'arrivo del padre che aveva informato telefonicamente. Il padre ha confermato la circostanza approvando il comportamento anche energico del Muccioli (la madre era ancora più dura nei confronti delle figlia). Ora, anche ad ammettere che la «segregazione» della minorenne sia stata più ampia di quella ammessa dal Muccioli, deve ammettersi che questi ebbe a comportarsi come il padre della ragazza, esercitando il dirittodovere di impedirle di fuggire, conoscendo lo scopo dichiarato della fuga (andarsi a prostituire per disporre dei soldi necessari all'acquisto della droga).
È del resto significativo, anche in questa occasione, il misurato atteggiamento dello stesso g.i., che, con missiva del 30 settembre 1981 al p.m., Io invitava (trovando consenso nello stesso p.m.) a riesaminare la richiesta di emissione di mandato di cattura contro Muccioli, la cui «attività era stata svolta in sostanza su richiesta del padre della minore Gaballo, la quale sembra(va) peraltro avere fatto ampio ricorso alla fantasia», opinando dell'opportunità di «valutare l'unificazione delle imputazioni di sequestro di persona e di maltrattamenti sotto l'unica rubrica dell'art. 572 c.p. o dell'art. 571 c.p.».
Pare quindi di giustizia, correttamente interpretando la sostanziale richiesta difensiva di assoluzione, dichiarare il Muccioli non punibile dal delitto di cui al capo P) della rubrica ai sensi dell'art. 51 c.p.
Per quanto riguarda infine i reati minori, già dichiarati estinti per amnistia, la sentenza appellata va confermata, non ricorrendo gli estremi di cui al cpv. dell'art. 152 c.p.p. alla stregua delle già ricordate testimonianze (Camosetti, Pieri, Grossi), senza peraltro che la discussione orale dei difensori abbia proposto temi nuovi e significativi in proposito.