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Perqusizione alla ricerca di armi (Cass. 15537/20)

20 maggio 2020, Cassazione penale

La facoltà di procedere a perquisizione domiciliare per indizio di detenzione di armi non può essere esercitata sulla base di un mero sospetto, che può trarre origine anche da un personale convincimento; essa presuppone l’esistenza di un dato indiziante, teso a rappresentare la presenza dell’arma in un determinato luogo, ma non richiede che tale dato sia stato raccolto conformemente ai modelli procedimentali del codice di rito, sicché è pacifica in giurisprudenza la considerazione del possibile utilizzo, a tal fine, di informazioni fornite da fonti confidenziali.

L'attività di perquisizione diretta alla ricerca delle armi, rientrando anche, e principalmente, in un’attività di carattere preventivo, non presuppone l’esistenza di una notizia di reato e non richiede, pertanto, la pre-condizione costituita dall’autorizzazione dell’autorità giudiziaria; non presupponendo la commissione di un reato e, dunque, non essendo funzionale alla ricerca e all’acquisizione della prova di un reato di cui risulti già l’esistenza, può essere eseguita anche solo sulla base di notizie confidenzialmente apprese e senza obbligo di avvertire la persona sottoposta a controllo del diritto all’assistenza di un difensore, giacché procedendosi sulla base di notizia confidenziale, non v’è, nè può esservi, alcun indagato.

La tutela accordata alla libertà di domicilio non è assoluta, ma trova dei limiti stabiliti dalla legge ai fini della tutela di preminenti interessi costituzionalmente protetti: la normativa di cui al R.D. n. 773 del 1931, art. 41 appaia giustificata dalla esigenza di porre gli organi di polizia giudiziaria in grado di provvedere, con prontezza ed efficacia, in ordine a situazioni (quali la detenzione clandestina o comunque abusiva di armi, munizioni o materie esplodenti) idonee, per loro stessa natura, ad esporre a grave pericolo la sicurezza e l’ordine sociale, reputando, quindi, la censurata normativa in linea con le previsioni dettate dall’art. 14 Cost.

La denuncia anonima o confidenziale non soltanto non costituisce elemento di prova, ma neppure integra notitia criminis, sicché l’accusa non può procedere, sulla sola base di essa, a perquisizioni, sequestri, intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità.

La perquisizione non può tradursi in un improprio mezzo di ricerca della notizia di reato, costituendo invece un mezzo di ricerca delle prove di un determinato reato e quindi l’attività perquirente necessita di un provvedimento motivato nel quale deve essere indicato il thema probandum, ossia il reato per il quale si procede nei suoi dati normativi specifici e con riferimento agli elementi essenziali del fatto e agli indizi che convergono nell’accreditare la probabilità che l’oggetto da ricercare si trovi nel luogo oggetto di perquisizione.

Corte di Cassazione

Sezione I Penale

sentenza 12 novembre 2019 – 20 maggio 2020, n. 15537
Presidente Tardio – Relatore Saraceno

Ritenuto in fatto

1. C.G. , a mezzo dei difensori avvocati AD e FeP, ricorre per cassazione avverso il decreto con cui, in data 25 maggio 2019, il Procuratore della Repubblica presso il Tribunale di Roma, ha convalidato la perquisizione del suo domicilio eseguita, con esito negativo, ai sensi dell’art. 41 T.U.L.P.S., dalla Squadra Mobile, Sezione criminalità organizzata, in data 24 maggio 2019.

1.1. Denunzia violazione degli artt. 13 e 14 Cost., art. 203 c.p.p., comma 1-bis, art. 352 c.p.p., art. 355 c.p.p., comma 2, in relazione all’art. 125 c.p.p., comma 3 e art. 41 T.U.L.P.S., dolendosi in particolare:
- dell’omessa motivazione del provvedimento di convalida, costituito dalla mera apposizione di un timbro contenente l’attestazione della sussistenza delle condizioni di legge;
- dell’avvenuta convalida di una perquisizione eseguita sulla base di fonte confidenziale non specificata, così avallandosi un comportamento illegittimo della polizia giudiziaria; al proposito richiama l’art. 203 c.p.p., comma 1-bis, che prevede l’inutilizzabilità, anche per le fasi diverse dal dibattimento, delle notizie fornite da informatori della polizia che non siano stati interrogati nè assunti a sommarie informazioni;
- dell’abnormità del provvedimento impugnato per evidente deviazione rispetto al modello legale, in quanto nè il verbale di perquisizione nè il decreto di convalida danno evidenza della sussistenza di indizi, per come definiti dalla giurisprudenza costituzionale e di legittimità (Corte Cost. sentenze n. 173 del 1974, n. 261 del 1983, ordinanza n. 332 del 2011; Cass. Sez. 6, n. 48552 del 18/11/2009, Rv. 245341); la circostanza che la perquisizione sia stata effettuata -e successivamente convalidata- sulla base di notizie apprese da fonte confidenziale comporta che il decreto impugnato sia stato adottato in una situazione processuale diversa da quella configurata dalla legge, cioè al di fuori dei casi stabiliti, non potendo l’iniziativa della polizia giudiziaria essere giustificata da meri sospetti, ma dovendo trovare la sua legittimazione nell’esistenza di un dato oggettivo che costituisca "notizia anche per indizio", ossia in un fatto obiettivamente certo o in più fatti certi e concordanti tra loro.

1.2. Evidenzia, inoltre, che anche un’attività investigativa infruttuosa sul piano processuale, come la perquisizione non seguita da sequestro, è suscettibile di provocare nocumento per chi la subisce, incidendo su beni costituzionalmente tutelati, quale il domicilio, inteso come estrinsecazione della libertà personale; che di recente la Corte Europea dei diritti nell’uomo (con sentenza del 27/11/2018, Brazzi contro Italia) ha riconosciuto come lo Stato italiano non offra garanzie adeguate a fronte della possibilità di abusi e di arbitrarietà dei pubblici poteri in tema di perquisizioni, garanzie che solo un controllo giurisdizionale ex ante o ex post facto, è in grado di assicurare; che, peraltro, la stessa giurisprudenza di legittimità ha chiarito che il decreto di convalida della perquisizione deve ritenersi ricorribile per cassazione laddove lo stesso sia qualificabile come atto abnorme; che unico strumento esperibile al fine di assicurare il necessario controllo giurisdizionale è rappresentato dal ricorso per violazione di legge ai sensi dell’art. 111 Cost., comma 7.
Chiede, in via subordinata, ove fosse confermata l’inoppugnabilità del provvedimento, che questa Corte sollevi questione di legittimità costituzionale dell’art. 568 c.p.p., comma 2, per violazione dell’art. 117 Cost. in relazione all’art. 8 CEDU.

Considerato in diritto

1. Osserva il Collegio che il ricorso appare inammissibile in ogni sua deduzione.

2. È regola consolidata nella giurisprudenza di legittimità quella secondo la quale, in applicazione del più generale principio della tassatività delle impugnazioni e degli atti soggetti a tale strumento di verifica, sia il decreto di perquisizione locale adottato dal pubblico ministero, sia quello di convalida, ove l’atto sia stato eseguito per ragioni di urgenza dalla polizia giudiziaria, non sono suscettibili di impugnazione, neppure per motivi di legittimità (Sez. U, n. 23 del 20/11/1996, dep. 1997, Bassi, Rv. 206656; Sez. 2, n. 6149 del 09/12/1999, dep. 2000, Marini, Rv. 21635; Sez. 5, n. 2108 del 04/04/2000, Peluso, Rv. 216365; Sez. 5, n. 6502 del 19/12/2000, Bellomo, Rv. 218973; Sez. 3, n. 40985 del 23/10/2002, Incastrone, Rv. 222857; Sez. 2, Ordinanza n. 45532 del 08/11/2005, Di Paola, Rv. 233144; Sez. 3, n. 8841 del 13/01/2009, Guasco, Rv. 243002; Sez. 3, n. 8999 del 10/02/2011, Brazzi, Rv. 249615; Sez. 1, n. 30130 del 24/06/2015, Laezza, Rv. 264489).

Tanto perché si tratta di provvedimenti che non hanno natura decisoria sicché non sono coperti dalla garanzia costituzionale del doppio grado di giudizio, fornita dall’art. 111 Cost., comma 7, per gli atti aventi natura - anche solo sostanziale - di sentenza e che, non essendo idonei ad attentare all’intangibilità della libertà personale del destinatario, non possono dirsi provvedimenti "sulla libertà personale".

Conclusione avvalorata da altre pronunzie di questa Corte che hanno, invece, espressamente affermato la ricorribilità del decreto che dispone la perquisizione personale, ai sensi dell’art. 13 Cost. e art. 568 c.p.p., comma 2, confermando l’inoppugnabilità di quello che dispone la perquisizione locale (Sez. 5, n. 2793 del 27/11/1995, Melillo, Rv. 203593); in particolare, Sez. 3, n. 562 del 04/02/2000, Grova, Rv 216575, muovendo dal presupposto che la perquisizione personale costituisce una restrizione della libertà personale, che l’art. 13 Cost. ammette solo per atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge, e che l’art. 111 Cost., comma 7, stabilisce che è sempre ammesso ricorso in cassazione per violazione di legge contro i provvedimenti sulla libertà personale pronunciati dagli organi giurisdizionali ordinari o speciali, ha rilevato che è proprio in aderenza a tali principi che l’art. 568 c.p.p., al comma 2, derogando al principio della tassatività delle impugnazioni di cui al comma 1, ammette sempre il ricorso per cassazione avverso i provvedimenti, quando non altrimenti impugnabili, con i quali il giudice decide sulla libertà personale.

Avverso il decreto di perquisizione personale emesso dal pubblico ministero non è previsto uno specifico mezzo di impugnazione, ma tanto non può escludere l’applicabilità della clausola generale della ricorribilità per cassazione dei provvedimenti sulla libertà personale che, in ragione della materia, deroga al principio di tassatività delle impugnazioni. E tale specifico rimedio deve ritenersi azionabile non solo per i provvedimenti adottati dal giudice, ma anche per quelli emessi dal P.M.; "infatti, anche se gli artt. 13 e 111 Cost. e art. 568 c.p.p. si riferiscono ai provvedimenti dell’autorità giudiziaria, il pubblico ministero va considerato incluso nel concetto di autorità giudiziaria in una prospettiva garantistica, che richiede una espansione della tutela in senso sostanziale in tale specifica materia".

3. Viceversa, il decreto che dispone o convalida la perquisizione domiciliare non è sottoponibile a gravame o a querela nullitatis, se non nei limiti in cui possa avere avuto riflessi sul sequestro, ossia nei limiti di un’indagine strumentale alla verifica della legittimità del sequestro medesimo. È stato, infatti, osservato che l’irritualità della perquisizione, quando riscontrata, non dà luogo ad ipotesi di nullità, ma solo, se ravvisabili, a rilievi disciplinari, nè ad ipotesi di inutilizzabilità, non potendo essere qualificato come inutilizzabile un mezzo di ricerca della prova, ma solo la prova stessa.

Epperò, il procedimento acquisitivo assume rilevanza, ai fini dell’utilizzabilità della prova, se la sua manifesta illegittimità lo ponga completamente al di fuori del parametro normativo di riferimento, quando cioè la sua difformità dal modello legale sia di per sé "rivelatrice di una lesione concreta o potenziale dei diritti soggettivi, oggetto di specifica tutela costituzionale".

Dunque, quando una perquisizione sia stata effettuata senza l’autorizzazione del magistrato e non "nei casi" e "modi" stabiliti dalla legge, si è in presenza di un mezzo di ricerca della prova che non è più compatibile con la tutela di diritti soggettivi che, per la loro stessa rilevanza costituzionale, "reclama(no) e giustifica(no) la più radicale sanzione di cui l’ordinamento processuale dispone, e cioè l’inutilizzabilità della prova così acquisita in ogni fase del procedimento" (Sez. U, n. 5021 del 27/03/1996, Sala, Rv. 204643). L’illegittimità della ricerca della prova, dunque, quando assuma le dimensioni conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a tutela dei diritti soggettivi irrinunciabili, non può, in linea generale, non diffondere i suoi effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di acquisire, salvo che ricorra l’ipotesi prevista dall’art. 253 c.p.p., comma 1, nella quale il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, costituendo un atto dovuto, rende del tutto irrilevante il modo con cui ad esso si sia pervenuti.

4. Per le medesime ragioni, in mancanza del successivo sequestro e impregiudicata restando la reazione dell’ordinamento al vizio della perquisizione attraverso l’eventuale applicazione di sanzioni disciplinari (art. 124 c.p.p., art. 16 disp. att. c.p.p.) o penali (artt. 323 e 615 c.p. e art. 61 c.p., n. 9) per colui o per coloro che ne sono stati gli autori, anche il decreto che ha disposto o convalidato la perquisizione, risultata infruttuosa, deve ritenersi ricorribile per cassazione, laddove lo stesso sia qualificabile come abnorme.

4.1. Questa Corte ha avuto modo di affermare, in un caso analogo a quello in esame, che il concetto di abnormità possa e debba essere applicato anche in relazione a quei provvedimenti del P.M. direttamente incidenti su diritti oggetto di tutela costituzionale, quale il diritto all’inviolabilità del domicilio rispetto al decreto di convalida della perquisizione in via d’urgenza eseguita dalla polizia giudiziaria. Tanto perché "l’ordinamento non potrebbe giustificare che rimanga senza alcuna tutela il diritto di libertà del singolo che dovesse risultare compresso da una iniziativa procedimentale adottata in assenza di alcun potere o in totale difformità dai canoni di legge". Soluzione ermeneutica ritenuta rispondente "ad una esegesi conforme sia al precetto dettato dall’art. 14 della nostra Carta costituzionale, che a quello previsto dall’art. 8 CEDU, che salvaguarda il diritto della persona al rispetto della sua vita privata e familiare e del suo domicilio, fatte salve le eccezionali forme di "interferenza" dell’autorità pubblica nei casi previsti dalla legge" (Sez. 6, n. 46250 del 20/11/2012, Albanese, Rv. 253711; in termini: Sez. 3, n. 28770 del 15/05/2018, Bardi, Rv. 273352).

4.2. È noto che l’abnormità costituisce una forma di patologia dell’atto giudiziario priva di riconoscimento testuale, ma frutto dell’elaborazione giurisprudenziale e dottrinale, tramite cui si è inteso porre rimedio, attraverso il ricorso immediato per cassazione, a situazioni processuali extra ordinem, altrimenti non eliminabili, ossia agli effetti pregiudizievoli derivanti da provvedimenti non previsti nominativamente come impugnabili, ma affetti da anomalie genetiche o funzionali che li rendono difformi ed eccentrici rispetto al sistema processuale e con esso radicalmente incompatibili.

Le Sezioni Unite di questa Corte hanno in più occasioni ribadito che abnorme è non solo il provvedimento che, per la singolarità e stranezza del contenuto, risulti avulso dall’intero ordinamento processuale, ma anche quello che, pur essendo in astratto espressione di un legittimo potere, si esplichi, al di là di ogni ragionevole limite, al di fuori dei casi consentiti o delle ipotesi previste (Sez. U, n. 26 del 24/11/1999, dep. 2000, Magnani, Rv. 215094 e n. 17 del 10/12/1997, dep. 1998, Di Battista, Rv. 209603). Peraltro, l’abnormità dell’atto può riguardare tanto il profilo strutturale, che attiene al caso in cui l’atto si pone al di fuori del sistema normativo, quanto il profilo funzionale, che concerne l’ipotesi in cui, pur non ponendosi al di fuori del sistema, determini comunque una stasi del processo, con impossibilità di proseguirlo. Le Sezioni Unite, con la sentenza n. 25957 del 26/03/2009, Toni, Rv. 243590, hanno, anche, offerto una rigorosa e puntuale delimitazione dell’area dell’abnormità, ricorribile per cassazione, la cui duplice accezione, strutturale e funzionale, hanno ricondotto ad un fenomeno unitario, caratterizzato dall’esercizio di un potere in difformità dal modello descritto dalla legge. La categoria dell’abnormità, così elaborata, presenta carattere eccezionale e derogatorio al principio di tassatività dei mezzi d’impugnazione, sancito dall’art. 568 c.p.p., mantenuto inalterato nel suo testo anche dopo la riforma introdotta con la L. 23 giugno 2017, n. 103: essa è, dunque, riferibile alle sole situazioni in cui l’ordinamento non appresti altri rimedi idonei per rimuovere il provvedimento che sia frutto di sviamento di potere e fonte di un pregiudizio altrimenti insanabile per le situazioni soggettive delle parti.

5. Tanto posto, il ricorrente non denunzia arbitri, violenze o danni nell’esecuzione della perquisizione, ma evoca l’abnormità del provvedimento impugnato, asseritamente adottato in una situazione radicalmente diversa da quella configurata dalla legge, cioè al di fuori dei casi ivi stabiliti, per avere convalidato una perquisizione originata da notizie confidenzialmente apprese che impediscono l’adozione di qualsivoglia atto investigativo, non legittimata dall’esistenza di dati oggettivi ma eseguita sulla base di meri sospetti, e per essere assolutamente privo di motivazione, giacché, anche a voler ritenere sufficiente ad integrare il necessario e obbligatorio corredo motivazionale l’apposizione di un timbro, "è del tutto evidente la distonia tra l’operato della polizia - che ha agito con i poteri del TULPS (...)- ed il decreto di convalida che, nel richiamare l’art. 352 c.p.p., fa rinvio a diversi presupposti non evocati e non evocabili nel verbale di perquisizione oggetto di impugnazione".

5.1. È allora evidente, alla luce dei principi sopra richiamati, che sotto nessun profilo è riscontrabile il carattere abnorme del provvedimento in oggetto, nè avulso dal sistema processuale nè, come si dirà, adottato in difformità del modello prescritto dalla legge, ossia fuori dei casi consentiti.

Non è revocabile in dubbio che la denuncia anonima o confidenziale non soltanto non costituisce elemento di prova, ma neppure integra notitia criminis, sicché l’accusa non può procedere, sulla sola base di essa, a perquisizioni, sequestri, intercettazioni telefoniche, trattandosi di atti che implicano e presuppongono l’esistenza di indizi di reità (tra le molte: Sez. 6, n. 34450 del 22/04/2016, Morico, Rv. 267680; Sez. 6, n. 36003 del 21/09/2006, Macrì, Rv. 235279; Sez. 5, Ordinanza n. 37941 del 13/05/2004, P.M. in proc. Patricelli, Rv. 230174); che la perquisizione non può tradursi in un improprio mezzo di ricerca della notizia di reato, costituendo invece un mezzo di ricerca delle prove di un determinato reato; che l’attività perquirente necessita di un provvedimento motivato nel quale deve essere indicato il thema probandum, ossia il reato per il quale si procede nei suoi dati normativi specifici e con riferimento agli elementi essenziali del fatto e agli indizi che convergono nell’accreditare la probabilità che l’oggetto da ricercare si trovi nel luogo oggetto di perquisizione.
Vero è però che i superiori, consolidati e condivisi principi non si attagliano al caso in disamina.

5.2. Non va sottaciuto che i poteri concessi alla polizia giudiziaria dal R.D. n. 773 del 1931, art. 41 sono molto più ampi di quelli previsti dal codice di rito; la disposizione, espressamente mantenuta in vigore dall’art. 225 disp. coord. c.p.p., prevede la possibilità per la polizia giudiziaria di compiere perquisizioni di iniziativa quando abbia comunque notizia, anche se per indizio, della presenza in un determinato luogo di armi e munizioni abusivamente detenute ("gli ufficiali e gli agenti della polizia giudiziaria, che abbiano notizia, anche se per indizio, della esistenza, in qualsiasi locale pubblico o privato o in qualsiasi abitazione, di armi, munizioni o materie esplodenti, non denunziate o non consegnate o comunque abusivamente detenute, procedono immediatamente a perquisizione e sequestro").

Tale facoltà, derivante da norma di legge con connotazione marcatamente derogatoria, certamente non può essere esercitata sulla base di un mero sospetto, che può trarre origine anche da un personale convincimento; essa presuppone l’esistenza di un dato indiziante, teso a rappresentare la presenza dell’arma in un determinato luogo, ma non richiede che tale dato sia stato raccolto conformemente ai modelli procedimentali del codice di rito, sicché è pacifica in giurisprudenza la considerazione del possibile utilizzo, a tal fine, di informazioni fornite da fonti confidenziali (tra le tante: Sez. 6, n. 16844 del 01/03/2018, Gangemi, Rv. 272925, in motivazione; Sez. 4, n. 38559 del 06/10/2010, Cirillo, Rv. 248837; Sez. 4, n. 30313 del 17/05/2005, Cicerone, Rv. 23202; Sez. 6, Sentenza n. 16844 del 01/03/2018, Gangemi, Rv. 272925).

Va, infatti, rammentato che l’attività di perquisizione diretta alla ricerca delle armi, rientrando anche, e principalmente, in un’attività di carattere preventivo, non presuppone l’esistenza di una notizia di reato e non richiede, pertanto, la pre-condizione costituita dall’autorizzazione dell’autorità giudiziaria; non presupponendo la commissione di un reato e, dunque, non essendo funzionale alla ricerca e all’acquisizione della prova di un reato di cui risulti già l’esistenza, può essere eseguita anche solo sulla base di notizie confidenzialmente apprese e senza obbligo di avvertire la persona sottoposta a controllo del diritto all’assistenza di un difensore, giacché procedendosi sulla base di notizia confidenziale, non v’è, nè può esservi, alcun indagato.

E il Giudice delle leggi, rammentando che la tutela accordata alla libertà di domicilio non è assoluta, ma trova dei limiti stabiliti dalla legge ai fini della tutela di preminenti interessi costituzionalmente protetti, non ha mancato di sottolineare come la disposizione dettata dal R.D. n. 773 del 1931, art. 41 appaia giustificata dalla esigenza di porre gli organi di polizia giudiziaria in grado di provvedere, con prontezza ed efficacia, in ordine a situazioni (quali la detenzione clandestina o comunque abusiva di armi, munizioni o materie esplodenti) idonee, per loro stessa natura, ad esporre a grave pericolo la sicurezza e l’ordine sociale, reputando, quindi, la censurata normativa in linea con le previsioni dettate dall’art. 14 Cost. (Corte Cost. n. 173 del 1974 e n. 110 del 1976).

5.3. Alla luce di tali principi e fermo restando l’obbligo di verbalizzazione delle operazioni compiute e di trasmissione entro le 48 ore successive del verbale di perquisizione all’autorità giudiziaria, cui spetta di verificare la legittimità degli atti compiuti dagli organi di polizia nell’esercizio delle loro funzioni (art. 352 c.p.p., comma 4, disposizione correttamente richiamata), del tutto conferente alla situazione specifica, posto che l’attività di perquisizione volta alla ricerca di armi fu eseguita "a seguito di notizia confidenziale pervenuta da fonti ritenute attendibili" (così il verbale di perquisizione, testualmente trascritto in ricorso nella parte di interesse), appare essere la motivazione del provvedimento impugnato che ha convalidato la perquisizione, dando atto della sussistenza delle condizioni di legge.

6. Le superiori riflessioni consentono di riscontrare la palese erroneità ed eccentricità degli argomenti posti a fondamento della prospettata illegittimità della perquisizione e dell’abnormità strutturale del provvedimento di convalida, esimendo questa Corte da ogni ulteriore considerazione.
Si impone, pertanto, la declaratoria di inammissibilità del ricorso, cui segue, ai sensi dell’art. 616 c.p.p., la condanna della proponente al pagamento delle spese processuali e - per i profili di colpa correlati all’irritualità dell’impugnazione (C. Cost. n. 186 del 2000) - di una somma in favore della Cassa delle Ammende nella misura che, in ragione delle questioni dedotte, si stima equo determinare in Euro 3.000,00.

P.Q.M.

Dichiara inammissibile il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro tremila in favore della Cassa delle Ammende.