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Perquisizione illegittima, nullità derivata? (Corte Cost., 219/19)

3 ottobre 2019, Corte Costituzionale

L’illegittimità della ricerca della prova del commesso reato, allorquando assume le dimensioni conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a tutela dei diritti soggettivi oggetto di specifica tutela da parte della Costituzione, non può, in linea generale, non diffondere i suoi effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di acquisire: non è codificato un principio di "inutilizzabilità derivata".

Nel campo delle nullità oepra peraltro l’art. 185 comma 1 c.p.p., a norma del quale «la nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo».

Qualora l’inosservanza delle disposizioni in materia di perquisizione implicasse una violazione dei diritti difensivi, la perquisizione dovrebbe reputarsi nulla, le conclusioni a cui è giunta la Corte costituzionale non escludono (ma anzi sembrano suggerire) la propagazione dell’invalidità - necessariamente nello stesso tipo e regime - al sequestro della fonte di prova così appresa, viziando gli elementi di prova dalla stessa eventualmente ottenuti. 

 

CORTE COSTITUZIONALE

SENTENZA N. 219 ANNO 2019

 composta dai signori:

Presidente: Giorgio LATTANZI;

Giudici: Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolò ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANÒ, Luca ANTONINI,

ha pronunciato la seguente

SENTENZA

nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, promossi dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Lecce, con ordinanze del 3 ottobre e del 12 dicembre 2017, iscritte rispettivamente ai numeri 14 e 93 del registro ordinanze 2018 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica numeri 6 e 26, prima serie speciale, dell’anno 2018.

Visto l’atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri;

udito nella camera di consiglio del 22 maggio 2019 il Giudice relatore Franco Modugno.

Ritenuto in fatto

1.– Con due ordinanze di tenore in larga misura analogo, del 3 ottobre 2017 (r. o. n. 14 del 2018) e del 12 dicembre 2017 (r. o. n. 93 del 2018), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 14 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente – «non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità ai fini della prova riguardi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’[autorità giudiziaria] con provvedimento motivato, nonché la deposizione testimoniale in ordine a tali attività».

La sola ordinanza r. o. n. 93 del 2018 assume che la norma denunciata violi, in parte qua, anche gli artt. 2, 24 e 97, terzo (recte: secondo) comma, Cost.

1.1.– Il giudice a quo premette, in entrambi i casi, di essere chiamato a giudicare, nelle forme del giudizio abbreviato, una persona imputata del reato di detenzione di sostanze stupefacenti per uso non personale.

Riferisce, altresì, che gli elementi a carico dell’imputato sono costituiti, nel caso dell’ordinanza r. o. n. 14 del 2018, dai risultati dell’ispezione del bagaglio e della perquisizione personale e, nel caso dell’ordinanza r. o. n. 93 del 2018, dai risultati della perquisizione personale e domiciliare cui l’imputato era stato sottoposto, di loro iniziativa, da militari appartenenti all’Arma dei carabinieri: ispezione e perquisizioni che avevano portato al rinvenimento e al conseguente sequestro di alcuni grammi di sostanza stupefacente (hashish e marijuana, in un caso, sola canapa indiana, nell’altro).

Stando alle indicazioni del processo verbale di perquisizione, i Carabinieri erano stati indotti a procedere a tali attività, «particolarmente invasiv[e]»:

a) nel caso dell’ordinanza r. o. n. 14 del 2018, da un non meglio specificato «atteggiamento asseritamente sospetto» tenuto dall’imputato, allorché, verso le ore 14.00, si aggirava nei pressi del litorale di Gallipoli;

b) nel caso dell’ordinanza r. o. n. 93 del 2018, dalla circostanza che «fonti confidenziali» avevano indicato nell’imputato uno spacciatore di sostanze stupefacenti: sicché, avendo in precedenti occasioni rilevato, in quella zona, «un andirivieni di soggetti noti come tossicodipendenti» (peraltro non indicati), e avendo scorto un giovane che consegnava una banconota all’imputato, i militari avevano proceduto alla immediata identificazione di tali soggetti. Pur avendo accertato che il giovane era il fratello dell’imputato e pur avendo questi chiarito che stava consegnando al fratello denaro per le «spese di casa», i Carabinieri avevano proceduto alla perquisizione personale dell’imputato e, avendogli trovato in tasca tre involucri di sostanza stupefacente, avevano esteso la perquisizione all’abitazione, dove avevano rinvenuto la restante parte della sostanza sottoposta a sequestro.

Ad avviso del rimettente, i ricordati atti di ispezione e perquisizione dovrebbero ritenersi “abusivi”, in quanto eseguiti fuori dei casi tassativamente indicati dalla legge.

Al riguardo, il giudice salentino rammenta che l’art. 13 Cost. (richiamato, quanto a garanzie e forme ivi previste, dall’art. 14 Cost. con riguardo a ispezioni, perquisizioni e sequestri domiciliari) prevede che ogni forma di limitazione della libertà personale – compresa quella insita nelle ispezioni e nelle perquisizioni personali – possa essere disposta solo con «atto motivato dell’autorità giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla legge». A tale principio può derogarsi unicamente «in casi eccezionali di necessità ed urgenza, indicati tassativamente dalla legge», nei quali l’autorità di pubblica sicurezza può adottare «provvedimenti provvisori» soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria, in difetto della quale essi «si intendono revocati e restano privi di ogni effetto».

L’ipotesi principale che, in base alla legge ordinaria, legittima l’intervento eccezionale delle forze di polizia è quella della flagranza di reato (artt. 352 e 354 cod. proc. pen.). Norme speciali hanno, peraltro, ampliato i casi nei quali la polizia giudiziaria può procedere a ispezioni e perquisizioni. A fianco delle ipotesi previste dall’art. 4 della legge 22 maggio 1975, n. 152 (Disposizioni a tutela dell’ordine pubblico) – che consente, in casi eccezionali di necessità e urgenza, la perquisizione, per la ricerca di armi e strumenti di effrazione, di persone il cui atteggiamento o la cui presenza non appaiano giustificabili, in relazione a specifiche e concrete circostanze di luogo e di tempo – e dall’art. 41 del regio decreto 18 giugno 1931, n. 773 (Approvazione del testo unico delle leggi di pubblica sicurezza) – che permette la perquisizione domiciliare per la ricerca delle armi della cui esistenza, in locali pubblici o privati, la polizia abbia notizia, anche per indizio –, la fattispecie più ricorrente nella pratica – e rilevante anche nei giudizi a quibus – è quella contemplata dall’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza). I commi 2 e 3 del citato art. 103 abilitano, infatti, la polizia giudiziaria a procedere – nel corso di operazioni finalizzate alla prevenzione e alla repressione del traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope – rispettivamente, all’ispezione dei mezzi di trasporto, dei bagagli e degli effetti personali, e a perquisizioni, personali e domiciliari, allorché vi sia «fondato motivo» di ritenere che possano essere rinvenute tali sostanze e ricorrano, altresì – nel caso delle perquisizioni – «motivi di particolare necessità ed urgenza che non consentano di richiedere l’autorizzazione telefonica del magistrato competente». Delle operazioni deve essere data notizia, entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica, il quale le convalida nelle quarantotto ore successive, sempre che ne sussistano i presupposti.

A parere del giudice a quo, una interpretazione delle disposizioni ora richiamate rispettosa del dettato costituzionale imporrebbe di ritenere che il presupposto che legittima l’intervento della polizia giudiziaria, anche fuori dai casi di flagranza nel reato, debba possedere un «requisito minimo di comprovabilità e verificabilità»: non occorrerebbe, cioè, la prova preventiva della detenzione illegittima di armi o stupefacenti, ma dovrebbero esservi almeno degli indizi in tal senso, sia pure semplici e non gravi, ma comunque sia verificabili. Diversamente opinando, infatti, si attribuirebbe alla polizia giudiziaria il potere di ledere «ad libitum» la libertà personale e domiciliare dell’individuo, vanificando il senso del controllo dell’autorità giudiziaria sul suo operato.

In questa prospettiva, la sussistenza di un indizio di detenzione delle armi o dello stupefacente non potrebbe essere desunta da fonti anonime o confidenziali, le quali non sono in alcun modo verificabili dal giudice e delle quali è proprio per questo prevista, in via generale, l’inutilizzabilità (artt. 195, comma 7, 203, comma 1, e 240 cod. proc. pen.): conclusione che troverebbe riscontro in plurime pronunce della giurisprudenza di legittimità.

Alla luce di quanto precede, l’ispezione e le perquisizioni di cui si discute nei giudizi a quibus apparirebbero illegittime, risultando del tutto ingiustificate sulla base del «giudizio ex ante» che deve presiedere alla valutazione degli atti della polizia giudiziaria che incidano su libertà costituzionalmente tutelate. Nei casi di specie non ricorrerebbe, infatti, l’ipotesi della flagranza del reato, essendosi questa manifestata solo ex post, all’esito dell’ispezione e delle perquisizioni. Ma neppure ricorrerebbe il «fondato motivo» per ritenere che potessero essere rinvenute sostanze stupefacenti, richiesto dall’art. 103 t.u. stupefacenti.

Nel caso dell’ordinanza r. o. n. 14 del 2018, infatti, il verbale di perquisizione non specifica in alcun modo in che cosa concretamente consistesse l’«atteggiamento sospetto» tenuto nella circostanza dall’imputato. Il riferimento a quest’ultimo si tradurrebbe, di conseguenza, in un’affermazione «apodittica» e «non verificabile».

Analogamente, nel caso dell’ordinanza r. o. n. 93 del 2018, il verbale – di là dal riferimento a fonti confidenziali, inidoneo per quanto detto a legittimare l’intervento – non indica quali elementi inducessero a ritenere che l’imputato fosse dedito allo spaccio, ovvero a qualificare come acquisto di stupefacenti la dazione al medesimo di denaro da parte del fratello. La conseguente «abusività» della perquisizione personale non potrebbe, d’altra parte, non riverberarsi sulla successiva perquisizione domiciliare. Peraltro, anche a voler diversamente opinare sul punto, le questioni resterebbero rilevanti, in quanto la pena da irrogare è in funzione della gravità del fatto e questa dipende anche dalla quantità di sostanza stupefacente detenuta: sicché la possibilità, o meno, di computare nel relativo calcolo quanto è stato rinvenuto sulla persona dell’imputato influirebbe, comunque sia, sugli esiti del giudizio principale.

Il rimettente rileva, per altro verso, come gli atti di ispezione e perquisizione siano stati convalidati dal pubblico ministero – in entrambi i casi – con provvedimenti totalmente privi di motivazione, consistenti nella mera formula «v°, si convalida». Essi non permetterebbero, pertanto, di comprendere in base a quali ragioni il pubblico ministero abbia ritenuto legittimo l’operato della polizia giudiziaria.

Secondo il giudice a quo, simili provvedimenti non varrebbero a impedire la perdita di efficacia degli atti di polizia, stabilita dall’art. 13 Cost. nel caso di mancata convalida da parte dell’autorità giudiziaria nel termine stabilito. Pur in assenza di esplicita previsione in tal senso, sarebbe giocoforza, infatti, ritenere che la convalida debba essere effettuata mediante provvedimento motivato, rimanendo altrimenti frustrata la ratio della garanzia apprestata dall’art. 13 Cost., la quale presuppone l’effettività del controllo sulla legalità degli atti di polizia. Non avrebbe senso, d’altronde, che la norma costituzionale richieda l’«atto motivato» quando l’autorità giudiziaria, titolare in via ordinaria del potere, incida di sua iniziativa sulla libertà personale, e non pure nell’ipotesi – più delicata – in cui sia chiamata a verificare se la polizia giudiziaria abbia agito fuori dai casi eccezionali nei quali la legge le consente di intervenire.

La conclusione risulterebbe, peraltro, avvalorata anche dalla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo, la quale ha posto in evidenza – in particolare con la sentenza 16 marzo 2017, Modestou contro Grecia – come la presenza di controllo effettivo dell’autorità giurisdizionale sugli atti di perquisizione rappresenti condizione essenziale per il rispetto della garanzia prevista dall’art. 8 CEDU.

1.2.– Tutto ciò premesso, il giudice rimettente osserva come, al lume della previsione dell’art. 13 Cost., gli atti di ispezione, perquisizione e sequestro eseguiti abusivamente dalla polizia giudiziaria, o non convalidati dall’autorità giudiziaria con atto motivato, debbano rimanere privi di effetto anche sul piano probatorio.

La sanzione della revoca e della perdita di efficacia non è, infatti, limitata ai soli provvedimenti di arresto e di fermo, ma si estende, in modo indistinto, a tutti i «provvedimenti provvisori» adottabili dalla polizia giudiziaria in base alla norma costituzionale, e dunque anche alle ispezioni e alle perquisizioni personali. Ciò emergerebbe anche dal rinvio operato dall’art. 14 Cost. con specifico riguardo a «ispezioni, perquisizioni o sequestri» eseguiti nel domicilio.

Per altro verso, poi, l’unica efficacia perdurante nel tempo degli atti di perquisizione o ispezione è quella relativa alla loro «capacità probatoria»: di modo che la perdita di efficacia non potrebbe che equivalere, per essi, a quella che, nell’art. 191 cod. proc. pen. del 1988, è qualificata come inutilizzabilità delle prove assunte in violazione di un divieto di legge.

Tale esito interpretativo, al quale dovrebbe condurre una piena esegesi dello stesso art. 191 cod. proc. pen. – apparendo evidente che la polizia giudiziaria, allorché procede a un atto di perquisizione fuori dei casi consentiti, compie un atto che le è vietato, e non semplicemente un atto irrituale o nullo – risulterebbe, tuttavia, contraddetto dall’indirizzo della giurisprudenza di legittimità divenuto «assolutamente dominante» a partire dalla sentenza della Corte di cassazione, sezioni unite penali, 27 marzo-6 maggio 1996, n. 5021.

Nella citata sentenza, le Sezioni unite hanno, in verità, riconosciuto che le conseguenze della illiceità dell’attività di acquisizione di una prova – nella specie, una perquisizione illegittima – non possono esaurirsi nell’applicazione di sanzioni amministrative, disciplinari o penali nei confronti dell’autore dell’illecito, ma debbono estendersi anche al piano dell’inutilizzabilità della prova stessa: profilo in relazione al quale non assume rilievo la distinzione concettuale, pur esistente, tra la perquisizione, quale mezzo di ricerca della prova, e il sequestro, quale strumento di acquisizione della prova stessa.

Vanificando, di fatto, i principi affermati, le Sezioni unite hanno ritenuto, nondimeno, valido il sequestro conseguente a una perquisizione eseguita fuori dai casi e dai modi previsti dalla legge, allorché abbia ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato, posto che, in tal caso, il sequestro costituisce un atto dovuto ai sensi dell’art. 253, comma 1, cod. proc. pen., che non potrebbe essere omesso dalla polizia giudiziaria solo a causa dell’abuso compiuto. Correlativamente, gli agenti di polizia giudiziaria potrebbero anche testimoniare sugli esiti della perquisizione, ferma restando l’inutilizzabilità di quest’ultima in quanto tale (ossia, sembrerebbe, del verbale che la documenta).

La giurisprudenza di legittimità successiva si sarebbe allineata «monoliticamente» a tale soluzione interpretativa, confermando ripetutamente la legittimità del sequestro conseguente a una perquisizione illegittima e la sua piena utilizzabilità a fini probatori. Ciò, senza neppure tentare di valorizzare i principi affermati dalle Sezioni unite nella prima parte della pronuncia, per limitare l’utilizzabilità del sequestro «alla res in quanto tale»: vale a dire, ai fini della sola dimostrazione della sussistenza del reato e come fonte di eventuali tracce a carattere individualizzante, quali, ad esempio, impronte digitali (a ciò essendo, in effetti, circoscritta la valenza probatoria della cosa sequestrata come tale, mentre quel che conta, al fine di addebitare il reato a un determinato soggetto, sono soprattutto le modalità del suo rinvenimento – nella specie, la perquisizione – che dimostrano la relazione tra il soggetto stesso e la cosa “indiziante”).

1.3.– Il giudice a quo dubita, tuttavia, che l’art. 191 cod. proc. pen. – come interpretato dalla giurisprudenza assolutamente prevalente –, tale da dar luogo a un vero e proprio diritto vivente – possa ritenersi compatibile con il dettato costituzionale.

L’interpretazione censurata si porrebbe, infatti, inevitabilmente in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost., negando concreta attuazione alla previsione della perdita di efficacia delle perquisizioni e delle ispezioni, nonché dei sequestri ad esse conseguenti, allorché eseguiti in violazione dei divieti.

La ragion d’essere della disciplina stabilita dall’art. 191 cod. proc. pen. non è, in effetti, tanto di ordine etico (il rifiuto del legislatore di riconoscere valore probatorio ad atti illeciti), quanto piuttosto di ordine «politico costituzionale». La disposizione mirerebbe, cioè, ad offrire una efficace tutela ai diritti costituzionalmente garantiti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all’acquisizione della prova col prevedere l’inutilizzabilità dei relativi risultati.

Ammettendo una “sanatoria” ex post di tali violazioni, legata agli esiti della perquisizione o dell’ispezione, si verrebbe a negare la tutela del cittadino in confronto agli abusi della polizia giudiziaria, i quali verrebbero incentivati dalla mancanza di conseguenze processuali in ordine all’impiego dei loro esiti probatori.

L’interpretazione censurata violerebbe anche l’art. 3 Cost., negando irragionevolmente la conseguenza dell’inutilizzabilità, pur a fronte di una palese identità di ratio, in casi del tutto sovrapponibili ad altri – per certi versi, addirittura meno gravi – per i quali la legge espressamente la prevede: quali, ad esempio, quelli delle intercettazioni eseguite dalla polizia giudiziaria in assenza di decreto motivato dell’autorità giudiziaria (caso sanzionato con l’inutilizzabilità dall’art. 271 cod. proc. pen.) e dell’acquisizione di tabulati del traffico telefonico eseguita senza provvedimento motivato del pubblico ministero (caso che le stesse Sezioni unite della Corte di cassazione hanno ritenuto dar luogo a un’ipotesi di inutilizzabilità della prova perché acquisita in violazione di un divieto di legge: Corte di cassazione, sezioni unite penali, 13 luglio-24 settembre 1998, n. 21). In tal modo, verrebbe quindi operata una ingiustificata disparità di trattamento fra indagati in situazioni del tutto analoghe.

La lettura della norma denunciata offerta dal diritto vivente si porrebbe in contrasto, ancora, con l’art. 8 CEDU e, quindi, con l’art. 117 Cost., risolvendosi nella mancata adozione di efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio.

Secondo la sola ordinanza r. o. n. 93 del 2018, l’interpretazione maggioritaria violerebbe anche il «principio di necessaria razionalità dell’ordinamento dello Stato di diritto», espresso dall’art. 3 Cost., dando luogo – «in maniera del tutto paradossale» – a un sistema giuridico che vede inefficaci ab origine le leggi incostituzionali, ma «efficacissimi», anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino.

Sempre secondo la citata ordinanza, la soluzione ermeneutica censurata lederebbe anche l’art. 2 Cost., facendo sì che vengano a mancare effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali rientra senz’altro quello alla libertà personale; come pure l’art. 97, terzo (recte: secondo) comma, Cost., che sottopone in via generale l’azione dei pubblici poteri al principio di legalità, rendendo prevalente l’azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti costituzionali dei consociati: con ulteriore violazione dell’art. 3 Cost., posto che in un ordinamento che prevede come centrali i diritti inviolabili della persona questi dovrebbero porsi quantomeno sullo stesso piano dei diritti della collettività e dello Stato.

Un conclusivo profilo di violazione dell’art. 3 Cost. è ravvisato dalla medesima ordinanza nel fatto che l’interpretazione censurata si trova irrazionalmente a convivere con quella che riconosce l’inutilizzabilità di prove vietate dalla legge solo perché non verificabili (come nel caso degli scritti anonimi e delle fonti confidenziali), laddove invece, nell’ipotesi che qui interessa, essa viene negata in rapporto a prove acquisite in diretta violazione di un divieto di legge (anche costituzionale) e caratterizzate anch’esse da una «ridotta verificabilità». Al riguardo, basterebbe considerare come l’«insondabilità» degli elementi che hanno spinto, nel caso di specie, la polizia giudiziaria a eseguire la perquisizione non consenta di escludere la possibilità che siano stati proprio i terzi latori della notizia confidenziale o anonima – se non, addirittura, come talora pure è avvenuto, le stesse forze di polizia – a introdurre nell’abitazione dell’imputato la res illicita. Aspetto per il quale emergerebbe anche la violazione dell’art. 24 Cost., stante la limitazione all’esplicazione del diritto di difesa conseguente all’ingresso tra le prove utilizzabili di elementi dei quali è impossibile verificare in modo approfondito la genuinità.

Secondo entrambe le ordinanze di rimessione, la dedotta illegittimità costituzionale avrebbe, come necessaria conseguenza, anche il divieto di testimonianza degli operatori di polizia giudiziaria in ordine al risultato delle attività di ispezione, perquisizione e sequestro indebitamente eseguite: divieto che discenderebbe logicamente dalla perdita di ogni efficacia di tali attività, rimanendo altrimenti frustrata la ratio dell’inutilizzabilità sancita dall’art. 191 cod. proc. pen. Per questo verso, le questioni sarebbero rilevanti anche nell’ambito del giudizio abbreviato – rito con il quale si svolgono i giudizi a quibus – laddove si dovesse ravvisare, per ovviare all’inutilizzabilità delle perquisizioni e dell’ispezione, l’assoluta necessità di procedere, ai sensi dell’art. 441, comma 5, cod. proc. pen., all’audizione dei verbalizzanti in ordine a quanto rinvenuto sulla persona e nel bagaglio dell’imputato.

2.– Nel solo giudizio relativo all’ordinanza r. o. n. 14 del 2018 è intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall’Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che le questioni siano dichiarate inammissibili o infondate.

Secondo la difesa dello Stato, le questioni si baserebbero su un duplice, erroneo presupposto. Il giudice a quo, infatti, per un verso, avrebbe posto impropriamente sullo stesso piano le perquisizioni “ordinarie” disciplinate dal codice di procedura penale e le perquisizioni cosiddette “preventive”, disciplinate da leggi speciali o di emergenza, che hanno ratio e natura differenti dalle prime; per un altro verso, sarebbe caduto in equivoco circa l’ambito di applicazione dell’istituto della nullità degli atti processuali, sovrapponendolo a quello – ben distinto – della inutilizzabilità delle prove.

Al riguardo, l’Avvocatura dello Stato rileva come questa Corte, con l’ordinanza n. 332 del 2001, abbia già dichiarato manifestamente inammissibili analoghe questioni di legittimità costituzionale, relative agli artt. 191 cod. proc. pen. e 41 t.u. pubblica sicurezza, proprio perché basate su una interpretazione che «finisce per confondere fra loro fenomeni – quali quelli della nullità e dell’inutilizzabilità – tutt’altro che sovrapponibili, mirando in definitiva il rimettente a trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione al tema delle nullità»: richiedendo, con ciò, alla Corte l’esercizio «di opzioni che l’ordinamento riserva esclusivamente al legislatore, in una tematica, per di più, che – quale quella dei rapporti di correlazione o dipendenza tra gli atti probatori – ammette, già sul piano logico, un’ampia varietà di possibili configurazioni e alternative».

Inoltre, la Corte europea dei diritti dell’uomo, con la decisione 10 luglio 2007, Giugliano contro Italia, ha escluso che la perquisizione eseguita ai sensi dell’art. 41 t.u. pubblica sicurezza violi l’art. 8 CEDU. La circostanza che, in base al citato art. 41 t.u. pubblica sicurezza, la polizia possa agire con urgenza e senza la previa autorizzazione di un magistrato, allorché fonti considerate attendibili indichino la presenza in un dato luogo di armi, munizioni o materie esplodenti, non può costituire, infatti, indice di arbitrio. L’esigenza di una convalida a posteriori da parte di un magistrato della procura della Repubblica garantisce un controllo sulla legalità della condotta della polizia.

L’ispezione e la perquisizione personale, di cui si discute nel giudizio a quo, sono state, in effetti, convalidate dalla competente procura della Repubblica, la quale, con il proprio provvedimento, avrebbe dunque «assorbito e superato» l’operato della polizia giudiziaria: donde l’inammissibilità delle questioni riguardanti tale operato.

Considerato in diritto

1.– Con due ordinanze di analogo contenuto (r. o. n. 14 e n. 93 del 2018), il Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Lecce ha sollevato, in riferimento agli artt. 3, 13, 14 e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, nella parte in cui – secondo l’interpretazione predominante nella giurisprudenza di legittimità, assunta quale diritto vivente – «non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità ai fini della prova riguardi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla [polizia giudiziaria] fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’[autorità giudiziaria] con provvedimento motivato, nonché la deposizione testimoniale in ordine a tali attività».

Con la sola ordinanza r. o. n. 93 del 2018 si deduce che la norma denunciata violerebbe, in parte qua, anche gli artt. 2, 24 e 97, terzo (recte: secondo) comma, Cost.

A parere del giudice rimettente, la disposizione censurata si porrebbe in contrasto con gli artt. 13 e 14 Cost., in forza dei quali l’autorità di pubblica sicurezza può procedere a ispezioni personali e a perquisizioni, personali e domiciliari, solo in casi eccezionali di necessità e urgenza indicati tassativamente dalla legge, mediante atti soggetti a convalida da parte dell’autorità giudiziaria, in mancanza della quale essi «restano privi di ogni efficacia»: perdita di efficacia che implicherebbe necessariamente l’inutilizzabilità dei loro risultati sul piano probatorio, anche perché solo in questo modo si tutelerebbero efficacemente i diritti fondamentali alla libertà personale e domiciliare, disincentivando la loro violazione ad opera della polizia giudiziaria per finalità di ricerca della prova.

Sarebbe altresì violato l’art. 3 Cost. sotto un duplice ordine di considerazioni. Da un lato, infatti, la previsione denunciata darebbe luogo ad una ingiustificata disparità di trattamento delle ipotesi considerate rispetto a situazioni analoghe, per le quali la sanzione dell’inutilizzabilità è espressamente prevista dalla legge, quali quelle delle intercettazioni e dell’acquisizione di tabulati del traffico telefonico operate dalla polizia giudiziaria in difetto di provvedimento motivato dell’autorità giudiziaria. Dall’altro lato, si determinerebbe un contrasto con il «principio di necessaria razionalità dell’ordinamento», venendosi a teorizzare un sistema che considera «inefficaci ab origine le leggi incostituzionali», ma «efficacissimi», anche sotto il profilo probatorio, gli atti di polizia giudiziaria compiuti in violazione dei diritti costituzionali del cittadino.

Si prospetta, anche, la violazione dell’art. 117 Cost., in relazione all’art. 8 CEDU, giacché verrebbero a mancare efficaci disincentivi agli abusi delle forze di polizia che implichino indebite interferenze nella vita privata della persona o nel suo domicilio.

Vulnerato sarebbe pure l’art. 2 Cost., non risultando predisposte effettive garanzie contro le illecite compromissioni dei diritti inviolabili dell’uomo, tra i quali certamente rientra quello alla libertà personale, nonché gli artt. 3 e 97, terzo [recte, verosimilmente: secondo] comma, Cost., rendendo prevalente l’azione illegale degli organi statali, finalizzata alla repressione dei reati, rispetto ai diritti inviolabili dei consociati, posti al centro dell’ordinamento costituzionale.

Deduce, infine, il rimettente, la violazione degli artt. 3 e 24 Cost., essendo generalmente riconosciuta l’inutilizzabilità di prove vietate dalla legge solo perché non verificabili (quali gli scritti anonimi e le fonti confidenziali), mentre, nell’ipotesi in esame, si considerano irrazionalmente utilizzabili prove acquisite in diretta violazione di un divieto di legge (anche costituzionale) e caratterizzate anch’esse da una «ridotta verificabilità», in particolare quanto agli elementi che hanno indotto la polizia giudiziaria a procedere alla perquisizione, con conseguente compromissione anche del diritto di difesa dell’imputato.

2.– Le ordinanze sollevano questioni in larga misura analoghe, sicché i relativi giudizi vanno riuniti per essere decisi con un’unica sentenza.

3.– Le questioni, che il giudice rimettente solleva, si riflettono su una disposizione cardine del codice di procedura penale, che introduce nel sistema processuale il principio secondo il quale è preclusa la possibilità di utilizzare prove assunte in violazione dei divieti stabiliti dalla legge.

Come ricorda la relazione al progetto preliminare del codice di procedura penale vigente, l’istituto della inutilizzabilità non può definirsi una novità in senso assoluto, dal momento che, anche sotto la vigenza del codice del 1930, legislazione, dottrina e giurisprudenza avevano già maturato una propensione a designare con tale nomen una figura destinata a frapporsi, in termini di maggiore incisività, all’impiego di prove vietate dalla legge, in contrapposizione alla tradizionale sanzione della nullità, riservata, invece, alla violazione delle forme degli atti processuali. Già nel codice del 1930, infatti, la figura della inutilizzabilità era stata richiamata nell’art. 304, terzo comma, ove appunto si era stabilito che «non possono, comunque, essere utilizzate» le dichiarazioni rese da persone esaminate quali testimoni, quando fossero emersi indizi di reità nei loro confronti e non fosse stato nominato un difensore. Preclusione, dunque, destinata ad impedire la violazione del fondamentale canone del nemo tenetur contra se edere e delle conseguenti facoltà difensive. Analogamente, anche l’art. 226-quinquies dello stesso codice (introdotto dall’art. 5 della legge 8 aprile 1974, n. 98, recante «Tutela della riservatezza e della libertà e segretezza delle comunicazioni») stabiliva che «non si può tener conto» delle intercettazioni effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge od eseguite in difformità dalle prescrizioni in essa stabilite, pur esordendo con la formula «a pena di nullità insanabile da rilevare d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento», evocativa della sanzione più tradizionale, richiamata per sancire il relativo regime di rilevabilità processuale. Anche in questo caso, la inutilizzabilità derivante dal divieto probatorio, si saldava intimamente alla “gravità” del vizio in rapporto alla rilevanza dei valori protetti, essendo il legislatore intervenuto, sul tema delle intercettazioni, in aderenza ai principi affermati da questa Corte nella sentenza n. 34 del 1973, ove, fra l’altro, si avvertì la necessità di «mettere nella dovuta evidenza il principio secondo il quale attività compiute in dispregio dei fondamentali diritti del cittadino non possono essere assunte di per sé a giustificazione ed a fondamento di atti processuali a carico di chi quelle attività costituzionalmente illegittime abbia subito».

Questa stessa Corte, nella successiva sentenza n. 120 del 1975, chiarì come proprio l’allora introdotto art. 226-quinquies cod. proc. pen. impedisse «di tener conto delle intercettazioni effettuate fuori dei casi consentiti dalla legge o in difformità delle relative prescrizioni, sancendo una nullità insanabile, rilevabile d’ufficio in ogni stato e grado del procedimento. Ciò equivale a dire che nessun effetto probatorio può derivare da intercettazioni siffatte, le quali debbono ritenersi come inesistenti […]».

Mettendo dunque a frutto questo ampio fermento di idee – ha soggiunto la citata relazione – il legislatore delegato ritenne di stabilire, con la disposizione oggetto delle odierne questioni, che «[a]nche quando le norme di parte speciale non prevedono espressamente alcuna sanzione, l’inutilizzabilità può desumersi dall’art. 191, comma 1, là dove siano configurabili veri e propri divieti probatori», richiamandosi, a titolo esemplificativo, l’art. 197, in materia di incompatibilità a testimoniare, e l’art. 234, comma 3, concernente documenti su voci correnti nel pubblico. I risultati della prova acquisita in violazione dei divieti tassativamente previsti dall’ordinamento non sono, dunque, «in alcun modo utilizzabili in ogni stato e grado del procedimento, quale che sia il comportamento della parte interessata a far rilevare la violazione […]».

4.– È ovvio, dunque, che la scelta del legislatore è stata quella di introdurre un meccanismo preclusivo che direttamente attingesse, dissolvendola, la stessa “idoneità” probatoria di atti vietati dalla legge, distinguendo in tal modo nettamente tale fenomeno dai profili di inefficacia conseguenti alla eventuale violazione di una regola sancita a pena di nullità dell’atto.

E da qui, il naturale ed ampio dibattito, sviluppatosi, tanto in sede giurisprudenziale quanto in sede dottrinaria, non soltanto sul versante, prevalentemente teorico, relativo alla individuazione della “natura sanzionatoria” da annettere alla categoria degli atti inutilizzabili, bensì, anche, e soprattutto, su quello della effettiva portata applicativa dell’istituto, non essendo mancate voci che ne hanno addirittura stigmatizzato la relativa incoerenza sistematica e la stessa utilità processuale.

D’altra parte, e come rammentato dalla giurisprudenza di legittimità, «essendo il diritto alla prova un connotato ineludibile del nuovo processo penale, assurto al rango di paradigma del parametro costituzionale sul “giusto processo”, qualsiasi divieto probatorio positivamente introdotto dal legislatore può spiegarsi solo nell’ottica di preservare equivalenti valori, anch’essi di rango costituzionale» (Corte di cassazione, sezioni unite penali, sentenza 25 marzo-9 aprile 2010, n. 13426), con l’ovvia conseguenza che le norme le quali introducano divieti probatori si atteggiano, nel sistema, alla stregua di norme eccezionali e di stretta interpretazione.

Per altro verso, è altrettanto evidente come, proprio in ragione delle peculiarità “funzionali” che caratterizzano il sistema delle inutilizzabilità e dei connessi divieti probatori, in ragione dei valori che mirano a preservare, esista una gamma “differenziata” di regole di esclusione, alle quali corrisponde un altrettanto differenziato livello di lesione dei beni che quelle regole intendono tutelare: il tutto, come è ovvio, in funzione di scelte di “politica processuale” che soltanto il legislatore è abilitato, nei limiti della ragionevolezza, ad esercitare.

D’altra parte, è lo stesso art. 191 cod. proc. pen. ad offrire, icasticamente, dimostrazione di tale assunto. Nello stabilire, infatti, il generale principio in forza del quale le prove assunte in violazione dei divieti probatori previsti dalla legge sono inutilizzabili e che la inutilizzabilità è rilevabile anche di ufficio in ogni stato e grado del processo, il comma 2-bis, introdotto dall’art. 2, comma 1, della legge 14 luglio 2017, n. 110 (Introduzione del delitto di tortura nell’ordinamento italiano), ha inserito nel sistema dei divieti probatori una regola, per così dire “rafforzata” per la specifica ipotesi di dichiarazioni “estorte” con la tortura. Di là, infatti, dal divieto probatorio sancito dall’art. 188 cod. proc. pen., a norma del quale non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interessata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti, la novella di cui si è detto sancisce che le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono «comunque utilizzabili, salvo che contro le persone accusate di tale delitto e al solo fine di provarne la responsabilità penale».

Il “limite” della inutilizzabilità, quindi, è stato allargato dal legislatore non soltanto alle dichiarazioni, ma anche alle “informazioni” provenienti dalla persona, e copre radicalmente qualunque oggetto (contro o a favore di se stessa o di altri), che non sia quello espressamente eccettuato dalla legge.

Il che dimostra come il legislatore abbia inteso precludere – ed in tal modo prevenire – qualsiasi utilizzabilità processuale di dichiarazioni scaturite dall’uso di metodi riconducibili alla fattispecie di cui all’art. 613-bis cod. pen. (Tortura), avuto riguardo all’estremo livello di lesione che una siffatta attività presenterebbe per i diritti fondamentali della persona. A un “massimo” di illegalità dell’atto probatorio, perché compiuto in violazione di divieti di elevato spessore, deve corrispondere, dunque, una equivalente “estensione” dell’area di inutilizzabilità processuale.

5.– Da tutto ciò è pertanto possibile desumere una serie di corollari che appaiono essere, ormai, sufficientemente sedimentati, tanto in giurisprudenza quanto in dottrina. È da considerare infatti pacifico l’assunto secondo il quale l’istituto della inutilizzabilità abbia vita totalmente autonoma rispetto al regime ed alla stessa natura giuridica delle nullità, non essendo anzi mancati tentativi definitori che hanno fatto riferimento ad una ipotesi di «difetto funzionale della “causa” dell’atto probatorio, vale a dire come una inidoneità dell’atto stesso a svolgere la funzione che l’ordinamento processuale gli assegna» (Cass., sez. un., n. 13426 del 2010).

Un simile “vizio”, peraltro, risponde anch’esso – al pari delle nullità – ai paradigmi della tassatività e legalità, dal momento che è soltanto la legge a stabilire quali siano – e come si atteggino – i diversi divieti probatori.

Infine, è lo stesso sistema normativo ad avallare la conclusione secondo la quale, per la inutilizzabilità che scaturisce dalla violazione di un divieto probatorio, non possa trovare applicazione un principio di “inutilizzabilità derivata”, sulla falsariga di quanto è previsto invece, nel campo delle nullità, dall’art. 185, comma 1, cod. proc. pen., a norma del quale «[l]a nullità di un atto rende invalidi gli atti consecutivi che dipendono da quello dichiarato nullo».

Derivando il divieto probatorio e la conseguente “sanzione” della inutilizzabilità da una espressa previsione della legge, qualsiasi “estensione” di tale regime ad atti diversi da quelli cui si riferisce il divieto non potrebbe che essere frutto di una, altrettanto espressa, previsione legislativa. Del resto, è ricorrente in giurisprudenza l’affermazione secondo la quale tale principio, valido per le nullità, non si applica in materia di inutilizzabilità, riguardando quest’ultima solo le prove illegittimamente acquisite e non quelle la cui acquisizione sia avvenuta in modo autonomo e nelle forme consentite (ex plurimis, Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 settembre 2018-4 febbraio 2019, n. 5457).

6.– In tale quadro di riferimento, coglie dunque nel segno il rilievo svolto dall’Avvocatura generale dello Stato relativo al fatto che il giudice rimettente ha omesso qualsiasi riferimento, se non altro per confutarne gli argomenti, a quanto questa Corte ha avuto modo di affermare nella ordinanza n. 332 del 2001, con la quale è stata dichiarata la manifesta inammissibilità di questioni di legittimità costituzionale riguardanti l’art. 41 t.u. pubblica sicurezza e l’art. 191 cod. proc. pen., quest’ultimo censurato, in riferimento all’art. 24 Cost., «nella parte in cui tale disposizione – alla luce, anche, della interpretazione offerta dalla giurisprudenza di legittimità – consente la utilizzazione di prove che derivano, non solo in via diretta, ma anche “in via mediata”, da un atto posto in essere in violazione di divieti, e, in particolare, nella parte in cui consente l’utilizzazione del risultato di una perquisizione nulla».

La Corte, nel frangente, pervenne, infatti, alla declaratoria di inammissibilità delle questioni proprio perché basate su una interpretazione che «finisce per confondere fra loro fenomeni – quali quelli della nullità e dell’inutilizzabilità – tutt’altro che sovrapponibili, mirando in definitiva il rimettente a trasferire nella disciplina della inutilizzabilità un concetto di vizio derivato che il sistema regola esclusivamente in relazione al tema delle nullità»: richiedendo, con ciò, alla Corte l’esercizio «di opzioni che l’ordinamento riserva esclusivamente al legislatore, in una tematica, per di più, che – quale quella dei rapporti di correlazione o dipendenza tra gli atti probatori – ammette, già sul piano logico, un’ampia varietà di possibili configurazioni e alternative».

7.– Ebbene, non misurandosi con i rilievi dianzi esposti, il giudice rimettente incorre anche nello stesso tipo di inammissibilità del petitum, in quanto fondato su una richiesta fortemente “manipolativa”, pretendendo di desumere l’automatica “inutilizzabilità” degli atti di sequestro, attraverso il “trasferimento” su di essi dei “vizi” che affliggerebbero gli atti di perquisizione personale e domiciliare dai quali i sequestri sono scaturiti, in ragione di una ritenuta non congruità – rispetto ai presupposti enunciati dall’art. 103 del d.P.R. 9 ottobre 1990, n. 309 (Testo unico delle leggi in materia di disciplina degli stupefacenti e sostanze psicotrope, prevenzione, cura e riabilitazione dei relativi stati di tossicodipendenza) – dell’apparato di motivazioni esibito dalla polizia giudiziaria a corredo degli atti in questione, ancorché convalidati da parte del pubblico ministero.

In numerose occasioni, questa Corte ha infatti avuto modo di dichiarare l’inammissibilità di questioni rispetto alle quali il rimettente chiedeva una pronuncia additiva, nei casi in cui il petitum formulato si connotava per un cospicuo tasso di manipolatività, tanto più in materie rispetto alle quali, come quella processuale, è stata riconosciuta l’ampia discrezionalità del legislatore (sentenze n. 23 del 2016 e n. 277 del 2014; ordinanze n. 254 e n. 122 del 2016). E ciò, tutte le volte in cui il petitum, pur meritevole di considerazione, implichi una modifica «rientrante nell’ambito delle scelte riservate alla discrezionalità del legislatore» (sentenza n. 45 del 2018).

Affermazioni, queste, che assumono un risalto ancor più specifico allorché, come si è accennato, vengano in discorso disposizioni di carattere “eccezionale” (in quanto strutturalmente derogatorie rispetto alla opposta, ordinaria, regola), quali istituti che sanciscano divieti probatori e clausole di inutilizzabilità processuale, vigendo in materia un rigoroso regime di tipicità e tassatività.

La tesi del giudice rimettente, secondo la quale la illegittimità della perquisizione dovrebbe condurre – come soluzione costituzionalmente imposta – alla “inutilizzabilità” del sequestro del corpo del reato, secondo la nota teoria dei “frutti dell’albero avvelenato”, rinverrebbe, d’altra parte, la propria ragion d’essere nella circostanza che l’art. 191 cod. proc. pen. svolgerebbe una funzione di tipo “politico costituzionale”, in quanto mirerebbe ad assicurare una effettiva tutela ai valori costituzionali coinvolti, disincentivando le loro violazioni finalizzate all’acquisizione della prova attraverso lo strumento della inutilizzabilità dei relativi risultati. Sarebbe proprio grazie a tale divieto di utilizzabilità – sostiene il giudice rimettente – che si «scoraggeranno e disincentiveranno quelle pratiche di acquisizione della prova con modalità illegali (e talora francamente illecite), che violano i diritti costituzionali al cui presidio sono appunto posti i divieti rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali».

In questa prospettiva, la stessa ratio essendi delle censure – volte a rendere automaticamente “contaminata” la utilizzabilità del sequestro, ove questo derivi da una perquisizione in ipotesi eseguita fuori dai casi consentiti dalla legge – finisce ineluttabilmente per coinvolgere scelte di “politica processuale” che la stessa Costituzione riserva al legislatore.

In sostanza, il giudice rimettente, dichiaratamente, vuole raggiungere, attraverso la pronuncia additiva e manipolativa che enuncia e propone in dispositivo, l’obiettivo di disincentivare gli abusi (o quelli che lui ipotizza esser tali) rendendo gli abusi stessi “non paganti” sul piano processuale, attraverso un passaggio che estende ad un atto in sé valido (il sequestro) la illegittimità (e inutilizzabilità) di quello che ne costituisce la occasio (la perquisizione ed ispezione).

8.– Tutto ciò, d’altra parte, è reso particolarmente evidente dallo stesso tenore del quesito enunciato nel dispositivo delle ordinanze di rimessione, ove viene sollevata questione di legittimità costituzionale dell’art. 191 cod. proc. pen., «nella parte in cui non prevede che la sanzione dell’inutilizzabilità ai fini della prova riguardi anche gli esiti probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione compiuti dalla p.g. fuori dei casi tassativamente previsti dalla legge o comunque non convalidati dall’A.G. con provvedimento motivato, nonché la deposizione testimoniale in ordine a tali attività».

La richiesta di addizione, dunque, non soltanto mira ad introdurre un nuovo caso di inutilizzabilità di ciò che l’ordinamento prescrive come attività obbligatoria (il sequestro del corpo del reato), ma si propone altresì di introdurre, ex novo, uno specifico divieto probatorio, sancendo la inutilizzabilità delle dichiarazioni a tal proposito rese dalla polizia giudiziaria: preclusione, quest’ultima, che si colloca in posizione del tutto eccentrica rispetto al tema costituzionale coinvolto dagli artt. 13 e 14 Cost.

Va da sé, peraltro, che se è vero quanto afferma il giudice a quo a proposito del fatto che le regole che stabiliscono divieti probatori riposano essenzialmente sulla esigenza di introdurre misure volte anche a disincentivare possibili “abusi” – è noto, al riguardo, che nei sistemi di common law la finalità prevalente delle exclusionary rules è proprio quella di deterrence – è altrettanto vero che un simile obiettivo viene in ogni modo perseguito dall’ordinamento a traverso la persecuzione diretta, in sede disciplinare o, se del caso, anche penale, della condotta “abusiva” che possa essere stata posta in essere dalla polizia giudiziaria, come d’altra parte espressamente affermato in varie occasioni dalla giurisprudenza di legittimità (ad esempio, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 28 aprile-25 maggio 2006, n. 18438).

9.– Le questioni proposte devono, pertanto, essere dichiarate inammissibili.

Per Questi Motivi

LA CORTE COSTITUZIONALE

riuniti i giudizi,

dichiara inammissibili le questioni di legittimità costituzionale dell’art. 191 del codice di procedura penale, sollevate, in riferimento agli artt. 2, 3, 13, 14, 24, 97, secondo comma, e 117, primo comma, della Costituzione, quest’ultimo in relazione all’art. 8 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, dal Giudice dell’udienza preliminare del Tribunale ordinario di Lecce, con le ordinanze indicate in epigrafe.

Così deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 15 luglio 2019.

F.to:

Giorgio LATTANZI, Presidente

Franco MODUGNO, Redattore

Roberto MILANA, Cancelliere

Depositata in Cancelleria il 3 ottobre 2019.

 

***

 

N. 14 ORDINANZA (Atto di promovimento) 3 ottobre 2017

Ordinanza del 3 ottobre 2017 del G.I.P. del Tribunale di Lecce nel procedimento penale a carico di Y.N..

Processo penale - Indagini preliminari - Perquisizioni e ispezioni
compiuti dalla polizia giudiziaria fuori dei casi previsti dalla
legge o comunque non convalidati dall'autorita' giudiziaria -
Inutilizzabilita' degli esiti probatori, compreso il sequestro del
corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, nonche' la
deposizione testimoniale in ordine a tale attivita' - Mancata
previsione.
- Codice di procedura penale, art. 191.

(GU n.6 del 7-2-2018 )

TRIBUNALE ORDINARIO DI LECCE
Ufficio del Giudice per le indagini preliminari

Il G.I.P. dott. Stefano Sernia all'udienza preliminare del giorno
3 ottobre 2017, nel processo pendente nei confronti di N. Y. nato...
il... sentite le parti, ha pronunziato la seguente ordinanza.
A seguito di rituale richiesta di rinvio a giudizio, depositata
dal pubblico ministero in data in data 1° marzo 2017, l'imputato N.
Y. veniva citato per l'udienza preliminare del 23 maggio 2017, per
rispondere dell'accusa di detenzione, al fine di cederle a terzi, di
sostanze stupefacenti del genere hashish e marijuana, idonee al
confezionamento di 23 dosi, sia dell'una che dell'altra sostanza,
aventi effetto psicotropo.
All'udienza preliminare, il difensore di fiducia dell'imputato
dichiarava di aderire all'astensione dalla partecipazione alle
udienze, proclamata per quel giorno dalla associazione di categoria;
sulla non opposizione del pubblico ministero, e non presentando il
processo ragioni di urgenza, stante lo stato di liberta'
dell'imputato, l'udienza veniva quindi rinviata a quella odierna in
cui il difensore, nella sua qualita' di procuratore speciale
dell'imputato, ha avanzato richiesta di giudizio abbreviato, che il
giudice ha conseguentemente ammesso.
Il materiale probatorio e' quindi cristallizzato in quello
raccolto durante le indagini e documentato come in atti.
Va osservato che gli elementi a carico dell'imputato (che
peraltro non risulta aver rilasciato alcuna dichiarazione, tantomeno
di natura confessoria) risiedono nei risultati della ispezione del
suo bagaglio (ove vennero rinvenuti 5 stecchette di hashish del peso
di 5 gr) e della perquisizione personale (che porto' al rinvenimento,
nei suoi slip, di 4 gr. di marijuana) cui lo stesso venne sottoposto
d'iniziativa di militi appartenenti alla Compagnia di Gallipoli, che
a tale attivita' particolarmente invasiva (si pensi alla
perquisizione negli slip) e limitatrice della liberta' personale
furono motivati - stando a quanto indicato nel p.v. di perquisizione
- dall'atteggiamento asseritamente sospetto tenuto dall'odierno
imputato (del quale peraltro non e' in nessun modo indicato quali
atti, atteggiamenti o condotte possano aver dato luogo al sospetto
che detenesse sostanze stupefacenti) che, verso le ore 14,00 (ora in
cui peraltro e' tutt'altro che rara, in quella stagione, la presenza
di persone che si portino in quei luoghi per le attivita' balneari)
si aggirava nei pressi del litorale gallipolino.
Nel caso concreto, le ragioni della perquisizione e
dell'ispezione non sono evincibili dal verbale di p.g., che si
risolve in una formula assolutamente non motivata con l'apodittica -
e quindi non verificabile - affermazione che l'atteggiamento
dell'imputato fosse «sospetto»; sicche', nell'assenza di ogni
concreta indicazione circa le ragioni poste a fondamento
dell'esercizio dei poteri di ispezione del bagaglio e di
perquisizione personale, queste appaiono essere state eseguite in
assenza non solo di una pregressa situazione di flagranza del reato,
ma anche in assenza di altri fondati motivi (di cui all'art. 103
decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90), apparendo
inammissibile ritenere che il giudice debba ritenere la sussistenza
dei presupposti di tali atti, solo perche' lo affermi, senza alcuna
concreta indicazione o spiegazione, la p.g..
Invero, la situazione di flagranza di reato, che evidentemente si
e' manifestata solo dopo la perquisizione, non puo' aver quindi
svolto la funzione di preventiva legittimazione di tale atto, che la
legge ordinaria (articoli 354 e 356 del codice di procedura penale) e
costituzionale (articoli 13 e 14 della Costituzione) le assegnano in
deroga al principio generale per cui simili atti, limitando la
liberta' personale (e della inviolabilita' del domicilio per quel che
attiene alla perquisizione domiciliare), possono essere disposti solo
dall'A.G. e nei casi e modi previsti dalla legge; allo stesso modo,
un non meglio specificato «atteggiamento sospetto» non puo' valere a
significare la ricorrenza di un fondato motivo atto, ai sensi
dell'art. 103 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90, a
far ritenere il possesso di sostanze stupefacenti.
Cio' premesso, va sottolineata la cautela del legislatore
costituzionale, che ha assegnato solo all'Autorita' giudiziaria il
potere di disporre atti di perquisizione ed ispezione, prevedendo
solo in via eccezionale quelli della p.g. ed entro ambiti ben
delimitati, fissati dalla legge, e con rispetto delle garanzie di
liberta' della persona.
I limiti fissati dalla legge si atteggiano, invero, in ragione
della previsione costituzionale che li assiste, come invalicabili e
di stretta interpretazione; e qualsiasi interpretazione che,
comunque, si risolva in una vanificazione dei limiti posti alla p.g.
(ad es., impedendo la verifica circa il rispetto di tali limiti; o
stabilendo l'irrilevanza processuale di tali violazioni) o nella
lesione - sia pure mediata - della liberta' personale, appare da
rigettarsi.
Invero, l'art. 13 della Costituzione (richiamato, quanto a
garanzie e forme ivi previste, dall'art. 14 della Costituzione in
tema di ispezioni, perquisizioni e sequestri domiciliari) prescrive
che ogni atto di limitazione della liberta' personale - tra i quali
annovera non solo l'arresto o il fermo, ma anche le perquisizioni e
le ispezioni personali, sia riservato ad «allo motivato
dell'autorita' giudiziaria e nei soli casi e modi previsti dalla
legge»; riserva di legge e di provvedimento dell'Autorita'
giudiziaria, quindi, cui puo' derogarsi solo per casi eccezionali
previsti dalla legge, atteso che la norma prosegue prevedendo che
solo «in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, l'autorita' di pubblica sicurezza puo'
adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro
quarantotto ore all'autorita' giudiziaria e, se questa non li
convalida nelle eccessive quarantotto ore, si intendono revocati e
restano privi di ogni efficacia».
Ai sensi della norma costituzionale ora considerata,
costituiscono quindi restrizioni della liberta' personale - che il
Legislatore costituzionale accoglie quindi e tutela in un'accezione
particolarmente ampia, ricomprendente tutti i casi in cui il corpo
dell'individuo debba sottostare ad attivita' degli organi pubblici -
non solo i casi dell'arresto e fermo, ma anche la sottoposizione ad
atti di ispezione e perquisizione personale; a garanzia
dell'effettivita' della tutela di tali diritti personali, il
Legislatore costituzionale stabilisce in primo luogo che solo la
legge puo' e deve indicare i casi ed i modi in cui e' possibile
procedere a tali atti, riservando inoltre il potere di disporli
all'autorita' giudiziaria, che puo' adottarli solo con provvedimento
motivato.
I suddetti diritti sono quindi assistiti - a sottolinearne
l'importanza nell'assetto democratico dell'ordinamento repubblicano
voluto dal Legislatore costituzionale come fondato sulla tutela di
quelle liberta' individuali tendenzialmente negate o fortemente
compresse dal precedente regime - da un corredo di significative
cautele date dalla riserva di legge, dalla riserva del potere
giudiziario, dall'obbligo di provvedere con atto motivato.
Solo in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, che spetta
alla legge indicare tassativamente, agli organi di pubblica sicurezza
(e cioe' alle forze di polizia, che di tali compiti sono titolari
unitamente a quelli di polizia giudiziaria) e' attribuito un potere
di intervento, provvisorio e soggetto a perdere ogni effetto in caso
di mancata convalida da parte dell'A.G. con provvedimento che,
sebbene cio' non sia espressamente previsto dalla norma, deve
ritenersi debba anch'esso essere motivato, dato che non vi e' ragione
di ritenere che il Legislatore costituzionale, per l'ipotesi di
particolare delicatezza costituzionale data della convalida (la cui
funzione e' verificare che la p.g. non abbia agito in tali
delicatissime materie abusando dei propri poteri, fuori dei casi in
cui essi sono loro riconosciuti), abbia voluto esonerare l'Autorita'
giudiziaria dalla necessita' di motivare i propri provvedimenti (come
peraltro previsto gia' in via generale dall'art. 111 comma 6 della
Costituzione).
Come si e' accennato, tali garanzie sono estese dall'art. 14
della Costituzione anche al caso delle perquisizioni, ispezioni e
sequestri domiciliari, giusta il richiamo che tale norma opera alle
garanzie prescritte (dall'art. 13 della Costituzione) per la tutela
della liberta' personale; caso che in questo caso specifico non
interessa, ma che si ritiene utile menzionare al fine di sottolineare
l'unitarieta' della visione del Legislatore costituzionale in tema di
tutela di liberta' fondamentali della persona.
L'ipotesi principale ed originaria prevista dalla legge ordinaria
a legittimare l'intervento eccezionale delle forze di polizia, e'
datala dai casi di flagranza di reato, allorche' gli organi di
polizia intervengono in un momento in cui il reato e' in corso di
esecuzione, o il reo, subito dopo la commissione del reato, ne reca
indosso le tracce, o e' inseguito dalla polizia, dalla persona offesa
o da altri: casi di evidenza probatoria che, nel giudizio del
legislatore, rendono meno pericolosa la deroga ai poteri
dell'Autorita' giudiziaria (cfr. sul punto anche Corte di cassazione
SS.UU. 39131/2015 che ha anche statuito, in tale linea di pensiero,
che la c.d. quasi flagranza rileva solo in quanto le forze di polizia
abbiano assistito alla commissione del reato o abbiano direttamente
percepito le tracce del reato sulla persona del reo).
Non si e' mai dubitato che le ipotesi della flagranza di reato,
concorrendo il requisito della pericolosita' dell'autore come
segnalata dalla sua personalita' o dalla gravita' del reato
(pericolosita' e gravita' presunte nei casi dei piu' gravi delitti di
cui all'art. 380 del codice di procedura penale, e da valutarsi nel
concreto nei casi di cui all'art. 381 del codice di procedura penale)
valgano ad individuare delle ipotesi generali di necessita' ed
urgenza tassativamente ben delineate, in cui si giustifichi
l'esercizio provvisorio dei poteri di arresto da parte della p.g.;
cosi', in relazione alla gravita' del reato (che la legge ancora
all'entita' della pena o all'appartenenza a ben definite tipologie di
delitto), il pericolo di fuga appare altra situazione di necessita'
ed urgenza che legittimi l'esercizio del potere di fermo e la
conseguente restrizione della liberta' personale.
Allo stesso modo, senz'altro la flagranza del reato integra una
situazione di necessita' ed urgenza quanto agli atti di perquisizione
e conseguente sequestro ad opera della p.g., finalizzati ad acquisire
al processo fonti di prova che altrimenti il reo, sapendo di essere
stato scoperto, provvederebbe verosimilmente a distruggere o
disperdere; sicche' anche gli articoli 352 e 354 del codice di
procedura penale appaiono rispettosi del dettato costituzionale.
Sia per le perquisizioni e sequestri che per gli atti di arresto
e fermo, la legge prevede poi la necessita' della convalida da parte
dell'A.G., con provvedimento motivato, ed il dettato costituzionale
e' rispettato.
Norme speciali hanno ampliato i casi in cui alla p.g. e'
consentito procedere ad atti di ispezione e perquisizione.
Oltre all'ipotesi prevista dall'art. 41 TULPS - che peraltro
riguarda le perquisizioni domiciliari e non quelle personali - per la
ricerca di armi di cui, anche per indizio, la polizia abbia notizia
dell'esistenza all'interno di locali pubblici o privati, quella piu'
frequentemente ricorrente e' quella di cui all'art. 103 commi 2 e 3
decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90 che disciplinano,
rispettivamente, le attivita' di controllo ed ispezione dei mezzi di
trasporto e dei bagagli e degli effetti personali, e gli atti di
perquisizione in senso stretto, sia domiciliari che personali; in
entrambi i casi e' previsto un provvedimento di controllo da parte
dell'Autorita' giudiziaria, nella specie il pubblico ministero, che
assumera' le forme della convalida nel caso degli atti di ispezione
controllo, e quello dell'autorizzazione preventiva, anche orale
telefonica, nei casi di perquisizione; solo per i casi di particolare
necessita' ed urgenza che non consentano di richiedere
l'autorizzazione telefonica, la polizia puo' procedere ad atti di
perquisizione senza previa autorizzazione del pubblico ministero, che
dovra' comunque successivamente convalidare, se del caso, l'operato
della p.g.
Invero, le norme cosi' recitano:
«2. Oltre a quanto previsto dal comma 1 [che riguarda
ispezioni e perquisizioni negli spazi doganali, n.d.r.], gli
ufficiali e gli agenti di polizia giudiziaria, nel corso di
operazioni di polizia per la prevenzione e la repressione del
traffico illecito di sostanze stupefacenti o psicotrope, possono
procedere in ogni luogo al controllo e all'ispezione dei mezzi di
trasporto, dei bagagli e degli effetti personali quando hanno fondato
motivo di ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti
o psicotrope. Dell'esito dei controlli e delle ispezioni e' redatto
processo verbale in appositi moduli, trasmessi entro quarantotto ore
al procuratore della Repubblica il quale, se ne ricorrono i
presupposti, li convalida entro le successive quarantotto ore. Ai
fini dell'applicazione del presente comma, saranno emanate, con
decreto del Ministro dell'interno di concerto con i Ministri della
difesa e delle finanze, le opportune norme di coordinamento nel
rispetto delle competenze istituzionali.
3. Gli ufficiali di polizia giudiziaria, quando ricorrano motivi
di particolare necessita' ed urgenza che non consentano di richiedere
l'autorizzazione telefonica del magistrato competente, possono
altresi' procedere a perquisizioni dandone notizia, senza ritardo e
comunque entro quarantotto ore, al procuratore della Repubblica il
quale, se ne ricorrono i presupposti, le convalida entro le
successive quarantotto ore.
L'art. 103 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90,
pertanto, legittima - nel corso di operazioni finalizzate alla
prevenzione e repressione dei reati in tema di stupefacenti - le
perquisizioni, anche fuori dei casi di flagranza, allorche' la p.g.
abbia «fondato motivo di ritenere» (analogamente alla «notizia anche
per indizio» secondo quanto prescrive l'art. 41 TULPS in tema di
perquisizioni domiciliari alla ricerca di armi) che taluno detenga
sostanza stupefacente; con l'ulteriore necessita' dell'autorizzazione
telefonica preventiva del pubblico ministero o, ove l'urgenza non
consenta di ricercarla, successiva comunicazione al P.M. e convalida
ad opera dello stesso.
A parere di questo Giudice, le norme surrichiamate impongono la
sussistenza di un requisito minimo di comprovabilita' della
ricorrenza del presupposto all'esercizio del potere di perquisizione
da parte della p.g.: non sara' necessaria la preventiva prova della
detenzione illegittima di armi o stupefacenti, ma di tale detenzione,
qua le condizione legittimante la perquisizione da compiersi,
dovranno gia' esservi almeno indizi, sia pure semplici e non gravi;
ma non potra' procedersi al di sotto della soglia indiziaria,
espressamente richiesta dall'art. 41 TULPS, e la cui assenza
impedirebbe il concretizzarsi del «fondato motivo» di cui all'art.
103 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90.
Una diversa interpretazione attribuirebbe, di fatto, alla p.g. un
potere insindacabile di procedere ad atti di perquisizione, e
vanificherebbe quindi quei limiti che la Costituzione ha invece
ritenuto necessari, sia pure demandandone la determinazione alla
legge ordinaria; e la legge ordinaria, per quel che qui interessa, ha
richiesto che la p.g. abbia fondato motivo di ritenere che taluno
detenga sostanza stupefacente; e l'esistenza di un indizio in tal
senso deve necessariamente essere verificabile, posto che altrimenti
si attribuirebbe alla p.g. il potere di ledere ad libitum la liberta'
personale e violare la vita privata e domiciliare della persona (in
spregio anche a quanto prescritto dall'art. 8 della Convenzione
europea dei diritti dell'uomo).
Se cosi' non fosse, se si ammettesse (come non di rado la Suprema
Corte ha affermato) la liberta' della p.g. di procedere a
perquisizione in forza di un mero inverificabile e soggettivo
sospetto, o di un asserito «indizio» che non dovesse essere nemmeno
specificato nella fonte (Corte di cassazione Sez. 3, sentenza n.
19365 del 17 febbraio 2016, ad es., che e' giunta ad affermare che
«Le perquisizioni che la polizia giudiziaria, nel caso di sospetto di
illecita detenzione di sostanze stupefacenti, e' legittimata a
compiere in forza del disposto dell'art. 103 del decreto del
Presidente della Repubblica 9 ottobre 1990, n. 309, non presuppongono
necessariamente la commissione di un reato, ma possono essere
effettuate sulla base di notizie confidenzialmente apprese, senza
obbligo di avvertire la persona sottoposta a controllo del diritto
all'assistenza di un difensore; in ogni caso, anche se effettuate
illegittimamente, non rendono illegittimo l'eventuale sequestro dello
stupefacente e delle altre cose pertinenti al reato rinvenute
all'esito della perquisizione»), si impedirebbe ogni controllo
giurisdizionale sulla legittimita' dell'agire della p.g. e sulla
attendibilita' dei risultati della sua azione; si vanificherebbe la
previsione di inefficacia contenuta nell'art. 13 della Costituzione;
contravverrebbe di fatto al regime dell'utilizzabilita' delle prove
(che pacificamente riguarda anche gli indizi) per come stabilito
dalla legge (nella specie, l'art. 191 del codice di procedura penale
per quel che riguarda il divieto di utilizzazione di prove acquisite
in violazione di un divieto posto dalla legge); si vanificherebbe
quindi (incentivandone le violazioni per l'inesistenza di sanzioni
processuali all'utilizzabilita' degli esiti delle perquisizioni) la
tutela costituzionale della inviolabilita' del domicilio; si
realizzerebbe, infine, una potenziale lesione della liberta'
personale, atteso che questa verrebbe ad essere giurisdizionalmente
limitata per effetto di una apparenza di flagranza di reato
conseguente (e non preesistente) alla perquisizione, senza che sia
possibile verificare la affidabilita' della catena indiziaria che ha
portato all'emersione di quella situazione di apparenza probatoria,
la cui genuinita' dovra' quindi essere assunta per atto di fede.
Pertanto, deve ritenersi, in via del tutto conseguente, che, a
fondamento della ricorrenza di un indizio di detenzione delle armi o
sostanze stupefacenti:
a) non possano essere utilizzate fonti anonime o
confidenziali, perche' queste sono in via generale inutilizzabili
(cfr. artt. 195 commi 7, 203 comma 1 del codice di procedura penale,
che in via generale prevedono l'inutilizzabilita' delle deposizioni
de relato fondate su fonti che non si intenda o non si possa
indicare, risolvendosi queste in fonti anonime non utilizzabili come
gia' previsto dall'art. 240 del codice di procedura penale per il
divieto di utilizzazione dei documenti anonimi) e non sussumibili
nella nozione di indizio, che indica l'elemento di prova non
univocamente concludente ma utilizzabile, posto che per
giurisprudenza pacifica ed assolutamente condivisibile, l'art. 191
del codice di procedura penale si applica anche agli indizi;
b) l'A.G. dovra' poter conseguentemente verificare se
l'elemento posto a fondamento della «notizia» circa l'esistenza delle
armi nei locali da perquisire, abbia dignita' di indizio
utilizzabile.
Pertanto, deve ritenersi, in via del tutto conseguente, che, a
fondamento della ricorrenza di un indizio di detenzione di
stupefacenti o armi, ai sensi degli articoli 103 decreto del
Presidente della Repubblica n. 309/90 e 41 TULPS;
c) non possano essere utilizzate fonti anonime o
confidenziali, perche' queste sono in via generale inutilizzabili e
non sussumibili nella nozione di indizio, che indica l'elemento di
prova non univocamente concludente ma utilizzabile;
d) l'A.G. dovra' poter conseguentemente verificare se
l'elemento posto a fondamento della «notizia» circa l'esistenza delle
armi nei locali da perquisire, abbia dignita' di indizio
utilizzabile.
In conclusione, poiche' nel verbale di perquisizione non e'
assolutamente specificato in cosa consistesse l'atteggiamento
sospetto dell'imputato, si e' trattato di una perquisizione abusiva
perche' assolutamente ingiustificata - in base al giudizio ex ante
che deve presiedere ad ogni valutazione circa la legittimita'
dell'operato della p.g. i n tutti gli atti che interferiscono con
l'esercizio di liberta' costituzionalmente tutelate - e compiuta al
di fuori di una situazione di flagranza.
Tali attivita' di perquisizione ed ispezione, inoltre, sono state
convalidate dal pubblico ministero con un provvedimento assolutamente
immotivato, consistente nella sola formula «v°, si convalida», e che
pertanto non permette di rilevare (e valutare) in base a quali
ragioni il pubblico ministero abbia ritenuto legittimamente
esercitato il potere che l'art. 13 della Costituzione vuole limitato
ai casi tassativamente previsti dalla legge e del tutto eccezionale
e, in quanto limitativo della liberta' personale (come gia' si e'
notato l'art. 13 della Costituzione assegna tale natura agli atti di
ispezione e perquisizione personali) sottoposto a convalida
dell'A.G., sotto espressa pena di inefficacia assoluta degli effetti
dell'atto illegittimo (cfr. art. 13 comma 3 della Costituzione).
Non ricorrendo le ipotesi della flagranza o le altre ipotesi
previste da leggi speciali che a tanto facultizzino le forze di
polizia, deve ritenersi che gli atti di perquisizione, ispezione e
sequestro da queste eseguiti siano stati compiuti inviolazione di un
divieto, derivante dalla generale riserva di tali atti alla sola
Autorita' giudiziaria.
Come si e' detto, gli articoli 13 e 14 della Costituzione
prevedono che «in casi eccezionali di necessita' ed urgenza, indicati
tassativamente dalla legge, l'autorita' di pubblica sicurezza puo'
adottare provvedimenti provvisori, che devono essere comunicati entro
quarantotto ore all'autorita' giudiziaria e, se questa non li
convalida nelle successive quarantotto ore, si intendono revocati e
restano privi di ogni efficacia»; cio' comporta, a parere di questo
Giudice, che gli atti di ispezione, perquisizione e sequestro
abusivamente compiuti dalla p.g. o non motivatamente convalidati
dall'A.G. rimangano senza effetto anche sul piano probatorio; la
legge ordinaria ha quindi dato attuazione alla previsione
costituzionale, prevedendo casi tassativi per l'esercizio dei poteri
di arresto, fermo, perquisizione, ispezione e sequestro da parte
delle forze di polizia, ed ha introdotto in via generale, con l'art.
191 del codice di procedura penale, la previsione della
inutilizzabilita' delle prove acquisite in violazione di un divieto
di legge; come pero' si vedra', il diritto vivente quale discendente
dalla monolitica interpretazione delle norme di legge (in
particolare, proprio dell'art. 191 del codice di procedura penale)
dettate a sanzione di inutilizzabilita' dell'assunzione di prove
vietate dalla legge, non assegna conseguenze di inutilizzabilita'
agli esiti delle perquisizioni ed ispezioni compiute dalle forze di
polizia fuori dei casi in cui la legge glielo consente; con il
prevedere l'utilizzabilita' probatoria del corpo di reato e delle
cose pertinenti al reato acquisite grazie a tali perquisizioni ed
ispezioni, anche se avvenute in violazione di un divieto, la
Giurisprudenza della Suprema Corte (vero e proprio diritto vivente,
stante la sua monoliticita'), a parere di questo Giudice, vanifica le
garanzie costituzionali, dando luogo ad un diritto vivente che si
pone in contrasto con esse, come meglio oltre si dira'.
A prescindersi poi dalla gia' chiara lettera dell'art. 13 comma 3
della Costituzione, gia' le ordinarie disposizioni processuali
dovrebbero condurre al risultato interpretativo della
inutilizzabilita' degli esiti della perquisizione illegittima, in
presenza di una norma, come l'art. 191 del codice di procedura
penale, che sanziona con l'inutilizzabilita' le prove acquisite in
violazione di un divieto di legge.
Nel caso in oggetto non rileva la questione circa la
inadeguatezza costituzionale della norma, nella parte in cui prevede
la idoneita' della autorizzazione telefonica orale senza
espressamente prevedere la necessita' di una sua documentazione
successiva con motivazione che soddisfi i requisiti di forma
richiesti dall'art. 13 della Costituzione; ed invero, nel caso in
oggetto e' presente una convalida scritta, apposta in calce al p.v.
di perquisizione, che si risolve unicamente e semplicemente nella
formula «si convalida» seguita da data e firma e priva di ogni
motivazione.
Compiuta tale preliminare ricognizione delle norme che
disciplinano la materia, deve quindi ribadire che le prove a carico
dell'imputato consistono di quanto rinvenutogli indosso a seguito di
una perquisizione eseguita al di fuori dei casi e modi previsti dalla
legge, atteso che ne' ricorreva una percepibile situazione di
flagranza del reato, ne' risulta ricorressero i presupposti di cui
all'art. 103 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90, non
potendosi ritenere che un indefinito «atteggiamento sospetto» possa
giustificare l'adozione di provvedimenti di p.g. che, per essere del
tutto eccezionali, devono essere ancorati a situazioni oggettive e
serie, tali anche da consentire una verifica, all'autorita'
giudiziaria, circa la ricorrenza dei presupposti per l'esito positivo
di tale controllo. Peraltro, degli atti di ispezione e perquisizione
di cui all'art. 103 decreto del Presidente della Repubblica n. 309/90
non risultano rispettati neppure forme e modi, e per l'assenza di un
provvedimento motivato di convalida, e perche' la p.g. ha proceduto a
ispezione del bagaglio e perquisizione personale dell'imputato in
base ad un non descritto e quindi non valutabile «atteggiamento
sospetto», e perche' il pubblico ministero ha proceduto a convalida
dell'operato di p.g. omettendo ogni forma di motivazione.
Invero, se quanto operato dalla p.g. a limitazione della liberta'
personale e' sottoposto, per previsione costituzionale, a verifica e
controllo da parte dell'Autorita' giudiziaria, che per convalidarne
l'operato deve emettere provvedimento motivato, cio' implica
necessariamente che la p.g. debba dare atto degli specifici elementi
valutati e che l'hanno indotta a ravvisare un fondato motivo di
ritenere che possano essere rinvenute sostanze stupefacenti o
psicotrope»; qualsiasi diversa interpretazione che legittimasse
l'operato della p.g. sulla base di elementi da essa indicati in via
del tutto generica ed astratta, si' da impedirne una concreta
valutazione, sarebbe necessariamente da ritenersi incostituzionale.
Cio' detto, in forza di quanto previsto dall'art. 13 della
Costituzione, cio' dovrebbe condurre all'inutilizzabilita' della
perquisizione e del sequestro, in quanto, essendo stata la
perquisizione e l'ispezione eseguite fuori dei casi e modi
tassativamente previsti dalla legge e non convalidate con
provvedimento motivato dell'A.G., detti atti «si intendono revocati e
restano privi di ogni efficacia»: con linguaggio la cui chiarezza non
e' stata finora adeguatamente apprezzata, il Legislatore
costituzionale aveva cioe' chiaramente introdotto la sanzione
dell'inutilizzabilita' degli esiti degli atti di p.g.
illegittimamente invadenti la sfera della liberta' personale.
Ed invero, la sanzione delle «revoca e perdita di ogni efficacia»
e' dalla norma costituzionale assegnata non solo alla illegittima
esecuzione di atti di arresto o di fermo, ma genericamente e
complessivamente al caso dell'adozione dei «provvedimenti» di
polizia, in materia di liberta' personale, fuori dei casi previsti
dalla legge; e - a meno di voler affermare che il Legislatore
costituzionale abbia impiegato con imprecisione e scarsa padronanza
la lingua italiana i provvedimenti in questione non possono non
essere che tutti quelli contemplati dalla norma stessa, e quindi
anche le ispezioni e le perquisizioni personali, che l'art. 13 della
Costituzione tutti ricomprende nell'ambito degli atti che limitano la
liberta' personale. Non appare quindi corretta l'interpretazione che
voglia limitare la previsione costituzionale della «perdita di
efficacia» ai soli provvedimenti soppressivi della liberta'
personale, quali l'arresto ed il fermo, atteso che l'art. 13 della
Costituzione utilizza una formula omnicomprensiva (i «provvedimenti
provvisori» adottabili dalla p.g.) che a tutti i provvedimenti da
detta norma contemplati risulta riferirsi, come evincibile anche
dalla disciplina adottata dall'art. 14 della Costituzione, che
espressamente li richiama «nominatim» («ispezioni, perquisizioni o
sequestri») prevendone l'adottabilita' da parte della p.g. «secondo
le garanzie prescritte per la tutela della liberta' personale».
Cio' precisato, va osservato che l'unica efficacia perdurante nel
tempo (e di cui la norma costituzionale si e' preoccupata di
prevedere la cessazione), che puo' ipotizzarsi rispetto ad atti di
perquisizione o ispezione che siano gia' stati compiuti e terminati
nella loro esecuzione (come e' necessariamente, dato che ne e'
prevista la convalida entro 96 ore al massimo dalla loro esecuzione),
e' solo quella che attiene alla loro capacita' probatoria; la
sanzione di perdita dell'efficacia equivale quindi a quella, nel
linguaggio del codice di procedura repubblicano, quarant'anni dopo
l'approvazione della Costituzione, dell'inutilizzabilita' introdotta
dall'art. 191 del codice di procedura penale per le prove assunte in
violazione di un divieto di legge.
E' bene precisare che l'art. 13 della Costituzione riconnette la
conseguenza delle perdita di efficacia degli atti di polizia, alla
circostanza che essi non vengano convalidati dall'A.G. in un termine
dato; ma la ratio della norma costituzionale sarebbe senz'altro
frustrata se la convalida si risolvesse in una pura forma non
esprimente un effettivo controllo circa la legalita' dell'atto di
p.g.; di qui la prescrizione (a parere di questo Giudice evincibile
dal comma 2 dell'art. 13 della Costituzione, come si e' gia'
osservato) che l'atto di convalida debba essere motivato, poiche' e'
solo con un atto avente tali caratteristiche che l'art. 13 della
Costituzione consente che l'A.G. incida sulla liberta' personale: e
non avrebbe senso prevedere la necessita' dell'atto motivato
allorche' l'A.G., titolare in via ordinaria di tale potere, proceda
di sua iniziativa, e non gia' allorche' debba verificare che la p.g.
non abbia esorbitato dai (od addirittura abusato dei) casi del tutto
eccezionali in cui la legge le concede di intervenire in materia di
liberta' personale.
E' quindi ovvio che, nel sistema delineato dall'art. 13 della
Costituzione, la convalida operi in quanto espressione di un
effettivo potere di verifica in ordine alla concreta ricorrenza dei
presupposti legali di esecuzione della perquisizione personale (non
e' un caso, ad es., che lo stesso art. 103 decreto del Presidente
della Repubblica n. 309/90 prevede, come peraltro e' ovvio, che
l'A.G. convalidera' la perquisizione «ove ne ricorrano i
presupposti»), e non sia sufficiente un mero provvedimento di
convalida assolutamente immotivato e non riconducibile ad una
situazione di concreta ravvisabilita' della situazione legittimante
la perquisizione personale: situazione che, nel vigente sistema, e'
data fondamentalmente dalla ricorrenza della flagranza del reato o
dalla ricorrenza di fondate ragioni che inducano a ritenere che sia
in corso l'esecuzione di un delitto in materia di stupefacenti o armi
(con riferimento alle due norme gli articoli 103 decreto del
Presidente della Repubblica n. 309/90 e 41 TULPS - legittimanti la
perquisizione fuori dei casi di flagranza, di maggiore rilevanza
statistica).
Peraltro, non solo le norme nazionali, costituzionali e di legge
ordinaria, impongono che la polizia giudiziaria proceda a
perquisizioni solo nei casi tassativamente stabiliti dalla legge, e
che il loro operato sia sottoposto ad un effettivo controllo da parte
dell'Autorita' giudiziaria.
Infatti, a proposito della necessita' di una valutazione concreta
e condivisibile da parte dell'A.G., circa la ricorrenza di ragioni
adeguatamente giustificatrici dell'esercizio del potere di
perquisizione, va anche richiamata, per l'assoluta importanza della
fonte, che assegna alla decisione rilievo costituzionale ex art. 117
della Costituzione, la sentenza 16 marzo 2017, Modestou c. Grecia,
con la quale la Corte europea dei diritti dell'uomo (d'ora in poi per
brevita' CEDU) ha ritenuto essersi verificata violazione dell'art. 8
della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e
delle liberta' fondamentali, in un caso in cui era stata eseguita
perquisizione presso il domicilio personale e professionale del
ricorrente senza alcun controllo giurisdizionale ex ante e sulla
scorta di un mandato di perquisizione generico; ne' era stato
previsto un immediato controllo giurisdizionale ex post, considerato
che la Corte d'appello, adita dal ricorrente, aveva respinto la
doglianza non solo piu' di due anni dopo la perquisizione in
questione, ma nemmeno indicando neppure i motivi «rilevanti e
sufficienti» giustificativi della perquisizione: sentenza dalla quale
si trae quindi conferma che l'A.G. debba operare una illustrazione
motivata (e condivisibile) delle ragioni della perquisizione, al fine
di rendere verificabile la legittimita' dell'esercizio del relativo
potere; statuizione che, se vale per le perquisizioni autorizzate
dall'A.G., deve a maggior ragione valere per quelle operate
direttamente dalla P.G. e successivamente convalidate dalla A.G..
Poiche' quindi e' ad un provvedimento adeguatamente motivato che
l'art. 13 della Costituzione ricollega la salvezza degli effetti
dell'operato della p.g., ne consegue che, sebbene le nullita' degli
atti per difetto di motivazione siano generalmente rilevabili ad
eccezione di parte, in questo caso debba invece ritenersi che la
ricorrenza di un atto di convalida adeguatamente motivato, nella sua
funzione costituzionale di salvezza degli effetti dell'atto di p.g.,
sia un elemento della fattispecie «sanante» la cui ricorrenza debba
essere verificata d'ufficio; cosi' come dovra' verificarsi che, a
prescindere da quanto eventualmente affermato col provvedimento di
convalida (si pensi ad es. al caso di una motivazione non aderente ai
dati fattuali emergenti dagli atti; o che da questi tragga
conclusioni assolutamente illogiche o non giustificate), ricorressero
effettivamente i presupposti perche' la p.g. esercitasse i suoi
poteri previsti in via del tutto eccezionale (sul punto, relativo
alla portata dell'art. 191 del codice di procedura penale, si dira'
meglio oltre).
Tanto premesso, va peraltro preso atto che tali esiti
epistemologici sono estranei alla interpretazione accolta dalla
giurisprudenza assolutamente dominante che, a far data
dall'insegnamento espresso dalle Sezioni unite della Corte di
cassazione con la sent. 5021 del 27 marzo 1996, ha ritenuto la piena
utilizzabilita' probatoria degli esiti delle perquisizioni e
sequestri eseguiti dalla p.g. al di fuori dei casi previsti dalla
legge.
In realta', con la suddetta sentenza, le Sezioni unite della
Suprema Corte di cassazione hanno in primo luogo affermato a chiare
lettere che la conseguenza di un'attivita' di illecita acquisizione
della prova, nello specifico una perquisizione illegittima, non puo'
limitarsi a mere sanzioni amministrative, disciplinari o penali nei
confronti dell'autore dell'illecito, ma deve comportare
l'inutilizzabilita' della prova stessa, statuendo che: «non e'
certamente difficile riconoscere che allorquando una perquisizione
sia stata effettuata senza l'autorizzazione del magistrato e non nei
«casi» e nei «modi» stabiliti dalla legge, cosi come disposto
dall'art. 13 della Costituzione, si e' in presenza di un mezzo di
ricerca della prova che non e' piu' compatibile con la tutela del
diritto di liberta' del cittadino, estrinsecabile attraverso il
riconoscimento dell'inviolabilita' del domicilio. L'illegittimita'
della ricerca di una prova, pur quando non assuma le dimensioni
dell'illiceita' penale (cfr. art. 609 c.p.), non puo' esaurirsi nella
mera ricognizione positiva dell'avvenuta lesione del diritto
soggettivo, come presupposto per l'eventuale applicazione di sanzioni
amministrative o penali per colui o per coloro che ne sono stati gli
autori. La perquisizione, oltre ad essere un atto di investigazione
diretta, e' il mezzo piu' idoneo per la ricerca di una prova
preesistente e, quindi, diviene partecipe del complesso procedimento
acquisitivo della prova, a causa del rapporto strumentale che si pone
tra la ricerca e la scoperta di cio' che puo' essere necessario o
utile ai fini della indagine: nessuna prova, diversa da quelle che
possono formarsi soltanto nel corso del procedimento, potrebbe essere
acquisita al processo se una sua ricerca non sia stata compiuta e
questa non abbia avuto esito positivo.
Se e' vero che una perquisizione, quale mezzo di ricerca di una
prova, non puo' essere a quest'ultima assimilata e, quindi, e' di per
se' stessa sottratta alla materiale possibilita' di essere
suscettibile di una diretta utilizzazione nel processo penale, e'
altrettanto vero che il rapporto funzionale che avvince la ricerca
alla scoperta non puo' essere fondatamente escluso.
Ne consegue che il rapporto tra perquisizione e sequestro non e'
esauribile nell'area riduttiva di una mero consequenzialita'
cronologica, come si era affermato in numerose pronunce di questa
Corte prima dell'entrata in vigore del nuovo codice di procedura
penale, e com'e' stato, anche in epoca successiva, qualche volta,
ribadito (cfr. Sez. I -17 febbraio 1976 ric.; Sez. VI- 23 gennaio
1973 ric.; Sez. V- 24 novembre 1977 ric.; Sez. I- 15 marzo 1984 ric.;
Sez. VI- 24 aprile 1991 ric.; Sez. V- 12 gennaio 1994 ric. etc.); la
perquisizione non e' soltanto l'antecedente cronologico del
sequestro, ma rappresenta lo strumento giuridico che rende possibile
il ricorso al sequestro.»
Proseguiva inoltre la Corte osservando che, pur vero che esista
una distinzione concettuale tra la perquisizione, qual e mezzo di
ricerca della prova, ed il sequestro quale strumento di acquisizione
della prova, cio' non ha alcuna rilevanza ai fini della
inutilizzabilita' della prova acquista a seguito di una perquisizione
illegittima, atteso che:
«la stessa utilizzabilita' della prova e' pur sempre
subordinata alla esecuzione di un legittimo procedimento acquisitivo
che si sottragga, in ogni sua fase, a quei vizi che, incidendo
negativamente sull'esercizio di diritti soggettivi irrinunciabili,
non possono non diffondere i loro effetti sul risultato che,
attraverso quel procedimento, sia stato conseguito. Del resto, non
puo' neppure ignorarsi che e' lo stesso ordinamento processuale ad
aver riconosciuto il rapporto funzionale esistente tra perquisizione
e sequestro: l'art. 252 codice di procedura penale impone il
sequestro delle «cose rinvenute a seguito della perquisizione» e
l'art. 103 comma VII dello stesso codice espressamente sancisce
l'inutilizzabilita' dei risultati delle perquisizioni allorquando
queste sono state eseguite in violazione delle particolari garanzie
di cui debbono fruire i difensori per poter esercitare congruamente
il diritto di difesa. E non si vede perche' a diverse ed opposte
conclusioni dovrebbe pervenirsi quando una perquisizione sia stata
comunque eseguita in violazione di particolari disposizioni normative
che assicurano, in concreto, l'attuazione di quella ineludibile
garanzia costituzionale, nei limiti in cui essa e' stata riconosciuta
dall'art. 13 comma 2° della Costituzione: si tratta pur sempre di un
procedimento acquisitivo della prova che reca l'impronta ineludibile
della subita lesione ad un diritto soggettivo, diritto che, per la
sua rilevanza costituzionale, reclama e giustifica la piu' radicale
sanzione di cui l'ordinamento processuale dispone, e cioe'
l'inutilizzabilita' della prova cosi' acquisita in ogni fase del
procedimento.»
Il prosieguo della statuizione della Suprema Corte si risolveva
peraltro nella vanificazione della portata pratica di tali principi
appena enunciati; continuava infatti detta sentenza affermando
comunque valido il sequestro, perche' atto dovuto, allorche' avesse
ad oggetto il corpo del reato o cose pertinenti al reato; di fatto,
l'unico sequestro che sarebbe stato inutilizzabile a fini probatori,
sarebbe stato quello gia' di per se' inutile e che non avrebbe quindi
comunque dovuto essere disposto, perche' non relativo ne' al corpo
del reato, ne' a cose pertinenti al reato; affermava infatti la
Suprema Corte a SS.UU.:
«Orbene, se e' vero che l'illegittimita' della ricerca della
prova del commesso reato, allorquando assume le dimensioni
conseguenti ad una palese violazione delle norme poste a tutela dei
diritti soggettivi oggetto di specifica tutela da parte della
Costituzione, non puo', in linea generale, non diffondere i suoi
effetti invalidanti sui risultati che quella ricerca ha consentito di
acquisire, e' altrettanto vero che allorquando quella ricerca,
comunque effettuata, si sia conclusa con il rinvenimento ed il
sequestro del corpo del reato o delle cose pertinenti al reato, e' lo
stesso ordinamento processuale a considerare del tutto irrilevante il
modo con il quale a quel sequestro si sia pervenuti: in questa
specifica ipotesi, e ancorche' nel contesto di una situazione non
legittimamente creata, il sequestro rappresenta un «atto dovuto», la
cui omissione esporrebbe gli autori a specifiche responsabilita'
penali, quali che siano state, in concreto, le modalita'
propedeutiche e funzionali che hanno consentito l'esito positivo
della ricerca compiuta.
Con cio' non si intende affatto affermare che l'oggetto del
sequestro, a causa della sua intrinseca illiceita', ovvero per il
rapporto strumentale che esso puo' esprimere in relazione al reato
commesso, possa, per cio' solo, dissolvere quella connessione
funzionale che lega la perquisizione alla scoperta ed
all'acquisizione di cio' che si cercava, ma si vuole soltanto
precisare che allorquando ricorrono le condizioni previste dall'art.
253 comma 1° del codice di procedura penale, gli aspetti strumentali
della ricerca, pur rimanendo partecipi del procedimento acquisitivo
della prova, non possono mai paralizzare l'adempimento di un obbligo
giuridico che trova la sua fonte di legittimazione nello stesso
ordinamento processuale ed ha una sua razionale ed appagante
giustificazione nell'esigenza che l'ufficiale di polizia giudiziaria
non si sottragga all'adempimento dei doveri indefettibilmente legati
al suo «status», qualunque sia la situazione - legittima o no - in
cui egli si trovi ad operare».
Concludevano quindi le SS.UU. osservando che gli agenti di p.g.
avrebbero poi potuto testimoniare sugli esiti della perquisizione,
ferma restano l'inutilizzabilita' di essa in quanti tale (e cioe',
par di capire, del verbale che ne documenta modalita', tempo, luoghi
e risultato).
Da tale arresto delle Sezioni unite ha tratto origine e sviluppo
una giurisprudenza che, del tutto dimentica dell'insegnamento ed ai
principi affermati dalle stesse SS.UU. nella prima parte della
propria statuizione (e che probabilmente avrebbero meritato una
riflessione e sviluppo ulteriori), si ancoravano alle statuizioni
circa la legittimita' ed utilizzabilita' a fini probatori del
sequestro.
Come si e' detto, la successiva giurisprudenza di legittimita' di
e' monoliticamente assestata su tali esiti interpretativi,
confermando reiteratamente la legittimita' del sequestro conseguente
ad una perquisizione illegittima, e la sua piena utilizzabilita'
probatoria; si citano, ad es., ed in assenza di pronunzie di segno
contrario, che lo scrivente magistrato non e' riuscito a rinvenire:
Sez. 3, ordinanza n. 3879 del 14 novembre 1997; Sez. 1, sentenza
n. 2791 del 27 gennaio 1998, Sez. 5, sentenza n. 6712 del 7 dicembre
1998, Sez. 3, sentenza n. 1228 del 17 marzo 2000, Sez. 4, sentenza n.
8052 del 2 giugno 2000, Sez. 6, sentenza n. 3048 del 3 luglio 2000,
Sez. 2, sentenza n. 12393 del 10 agosto 2000, Sez. 1, sentenza n.
45487 del 28 settembre 2001, Sez. 1, sentenza n. 41449 del 2 ottobre
2001, Sez. 1, sentenza n. 497 del 5 dicembre 2002, Sez. 5, sentenza
n. 1276 del 17 dicembre 2002, Sez. 2, sentenza n. 26685 del 14 maggio
2003, Sez. 2, sentenza n. 26683 del 14 maggio 2003, Sez. 1, sentenza
n. 18438 del 28 aprile 2006, Sez. 2, sentenza n. 40833 del 10 ottobre
2007, Sez. 6, sentenza n. 37800 del 23 giugno 2010, Sez. 1, sentenza
n. 42010 del 28 ottobre 2010, Sez. 2, sentenza n. 31225 del 25 giugno
2014, Sez. 3, sentenza n. 19365 del 17 febbraio 2016, Sez. 2,
sentenza n. 15784 del 23 dicembre 2016.
Questo giudicante dubita che le norme vigenti, per come
interpretate dalla giurisprudenza assolutamente prevalente (e tale da
dar luogo ad un vero e proprio diritto vivente), siano rispettose del
dettato costituzionale, ed in particolare degli articoli 3, 13, 14 e
117 (con riferimento all'art. 8 della Convenzione EDU) della
Costituzione, nella parte in cui le norme di diritto ordinario
consentono l'utilizzabilita' processuale - mediante deposizione
testimoniale o lettura del verbale di quanto risultante dalla
perquisizione e dal sequestro - della valenza probatoria degli esiti
di una perquisizione o ispezione e di quanto eventualmente
sequestrato in occasione dell'esecuzione di tali atti, allorche' essi
si ano eseguiti dalla p.g. fuori dei casi in cui la legge
costituzionale e quel la ordinaria le attribuiscono il relativo
potere.
L'interpretazione maggioritaria circa l'irrilevanza della
illegittimita' della perquisizione sulla utilizzabilita' dei suoi
esiti si risolverebbe quindi, del tutto paradossalmente, nella
teorizzazione di un sistema giuridico che vuole inefficaci ab origine
le leggi incostituzionali, ma efficacissimi gli atti di p.g. compiuti
in violazione dei diritti costituzionali del cittadino.
Tale giurisprudenza, invero:
a) sembra operare una con fusione di piani tra il sequestro
inutilizzabile ed il sequestro inutile probatoriamente, posto che, di
fatto, e data l'estensione concettuale della nozione di cose
pertinenti al reato, finisce con escludere la validita' - in caso di
perquisizione illegittima - solo del sequestro inutile: il che e'
assolutamente inconferente rispetto alle tematiche e problematiche
poste dall'art. 191 del codice di procedura penale;
b) non considera che il sequestro non e' una prova, ma il
mezzo che serve ad assicurare al processo la res che puo' essere
fonte di prova;
c) non considera che la valenza probatoria di una determinata
res e' generalmente data non dalla sola cosa in se' (la quale puo'
generalmente provare la sussistenza del fatto ma non necessariamente
chi lo abbia commesso, se non nel caso in cui sulla res siano
rinvenibili tracce biologiche, papillari o di altro genere che ne
permettano la riconducibilita' ad un determinato soggetto), ma anche
dalle circostanze del suo rinvenimento, specie allorche' si tratti
appunto del corpo del reato, essendo il suo possesso (svelato dalla
perquisizione) ad essere indizio grave di commissione del reato
stesso;
d) non osserva che, pertanto, cio' che sommamente rileva non
e' tanto la legittimita' del sequestro, quanto quella della
perquisizione tramite la quale si e' rinvenuta la res (con suo
successivo sequestro), atteso che e' la perquisizione che
generalmente comprova quella relazione personale tra la cosa
indiziante di delitto e l'autore dello stesso;
e) non avverte che la ratio della norma di cui all'art. 191
del codice di procedura penale, che prevede l'inutilizzabilita' delle
prove acquisite in violazione di un divieto di legge, e quella di
offrire un valido presidio ai diritti costituzionalmente garantiti,
disincentivandone le violazioni finalizzate all'acquisizione della
prova, rendendone inutilizzabili gli esiti probatori (si veda ad es.
la disciplina della inutilizzabilita' delle intercettazioni
illegittime ex art. 271 del codice di procedura penale; si pensi
all'inutilizzabilita' ex art. 188 del codice di procedura penale di
una confessione assunta sotto tortura o sotto l'effetto di metodi che
possano influire sulle capacita' di autodeterminazione della persona
dichiarante; si considerino le conseguenze di un'acquisizione di
tabulati del traffico telefonico eseguita dalla p.g. in assenza di
provvedimento motivato dell'A.G.);
f) non assegna adeguato valore alla circostanza che una
perquisizione domiciliare o personale, eseguita da chi non ne ha il
potere, e' un caso tipico di prova vietata dalla legge ed in
violazione di diritti costituzionali della persona (cfr. articoli 13
e 14 della Costituzione; art. 8 CEDU), e la conseguenza deve
necessariamente essere la inutilizzabilita' dei suoi risultati (come
previsto dall'art. 13 comma 3 della Costituzione), conformemente a
quella che e' la ratio dell'art. 191 del codice di procedura penale
che, inibendo l'utilizzabilita' degli esiti delle prove vietate
perche' assunte in violazione di diritti costituzionali, intende
appunto scoraggiare la violazione di quei diritti costituzionali;
g) non considera che ritenere altrimenti, lasciando aperta la
possibilita' di una sorta di «sanatoria» ex post, legata agli esiti
della perquisizione, equivale a negare la tutela del cittadino dai
possibili abusi della p.g.: tutela assicurata in via generale ed
astratta dagli articoli 13 e 14 della Costituzione, ma che verrebbe
vanificata dall'incentivazione agli abusi per mancanza di conseguenze
processuali relative alla inutilizzabilita' dei loro risultati; ed i
drammatici fatti di Genova e di Bolzaneto appaiono esserne storica
conferma e dimostrazione.
La scarsa tenuta logica di una simile interpretazione deve invece
condurre a ritenere che una perquisizione eseguita in forza di
elementi non utilizzabili, e senza che ricorresse gia' una
preesistente situazione di flagranza, sia non solo illegittima, ma
anche improduttiva di elementi utilizzabili ai fini della prova in
danno dell'imputato, atteso che cio' non solo e' imposto dagli
articoli 13 e 14 della Costituzione, ma anche da una piana lettura
dell'art. 191 del codice di procedura penale.
Nei casi considerati ricorrerebbero infatti, a parere di questo
giudice, i presupposti di applicabilita' della conseguenza della
inutilizzabilita' processuale ai sensi dell'art. 191 del codice di
procedura penale, in base ad una piana lettura della norma ed alla
ratio della stessa, come colta al punto f) che precede; ed infatti,
appare evidente che la p.g., allorche' proceda ad un atto di
perquisizione fuori dei casi a lei consentiti, compia un atto che le
e' vietato - e non semplicemente un atto irrituale o nullo, come pure
talora si e' sostenuto in talune pronunzie della Corte di cassazione
- atteso che sia la legge ordinaria che quella costituzionale
prevedono (oltre alla riserva di legge dettata dagli articoli 13 e 14
della Costituzione) una riserva del potere di perquisizione
all'Autorita' giudiziaria, nella delineazione di una serie di
garanzie a tutela della effettivita' dello Stato di diritto (e delle
liberta' individuali che questo deve garantire), in cui i poteri del
la polizia e degli organi amministrativi sono sottoposti al principio
di legalita', prevedendosi addirittura una riserva di potere
dell'Autorita' giudiziaria, nei casi che coinvolgono l'esercizio di
diritti costituzionali fondamentali dei privati (quali la liberta'
personale e quella domiciliare, che ex art. 14 comma 2 della
Costituzione e' «aggredibile» solo «negli stessi casi e modi
stabiliti dalla legge secondo le garanzie prescritte per la tutela
della liberta' personale»).
L'interpretazione dominante che comunque consente di «recuperare»
ed utilizzare gli esiti delle perquisizioni illegittime, negando
l'applicabilita' dell'art. 191 del codice di procedura penale al
sequestro del corpo del reato o di cosa pertinente al reato, appare
pertanto negare concreta attuazione a quanto previsto dagli articoli
13 e 14 della Costituzione in ordine alla perdita di efficacia della
perquisizione e delle ispezioni e dei sequestri ad esse conseguenti,
allorche' eseguiti in violazione dei divieti; l'art. 191 del codice
di procedura penale, come esistente nel diritto vivente, appare
quindi in contrasto con i predetti articoli 13 e 14 della
Costituzione.
Non e' peraltro fuori luogo osservare, come peraltro da tempo
rilevato non solo dalla dottrina, ma anche dalla Suprema Corte, che
la ragione d'essere della disciplina delle inutilizzabilita'
stabilita dall'art. 191 del codice di procedura penale non e' tanto
di ordine etico (e cioe', il rifiuto del legislatore di riconoscere
valore probatorio ad atti illeciti), quanto di ordine politico
costituzionale, essendosi rilevato che l'effettivita' della tutela
dei valori costituzionali che piu' facilmente vengono lesi in caso di
assunzione di prova in violazione di un divieto, riposa nel negare
ogni utilizzabilita' a quanto cosi' venga acquisito: atteso che,
grazie a tale divieto di utilizzabilita', si scoraggeranno e
disincentiveranno quelle pratiche di acquisizione della prova con
modalita' illegali (e talora francamente illecite), che violano i
diritti costituzionali a cui presidio sono appunto posti i divieti
rinvenibili nel codice di rito e nelle norme speciali.
La giurisprudenza formatasi sulla scorta della citata Corte di
cassazione SS.UU. 5021/1996 realizza, pertanto, anche una violazione
del l'art. 3 della Costituzione, in quanto del tutto
irragionevolmente ed a fronte di una palese identita' di ratio, nega
la conseguenza dell'inutilizzabilita' di cui all'art. 191 del codice
di procedura penale a casi del tutto sovrapponibili ad altri (per
certi versi addirittura meno gravi) per i quali la legge
espressamente la prevede: basti pensare, ad es., non solo alle
ipotesi di intercettazioni eseguite d'iniziativa dalla p.g. e quindi
in assenza di decreto motivato dell'A.G. (caso sanzionato di
inutilizzabilita' dall'art. 271 del codice di procedura penale,
avente la medesima ratio dell'art. 191 del codice di procedura
penale), ma anche al caso dell'acquisizione dei tabulati del traffico
telefonico eseguito senza provvedimento motivato del pubblico
ministero, ipotesi che le stesse SS.UU. della Suprema Corte di
cassazione hanno ritenuto dar luogo ad un'ipotesi di
inutilizzabilita' della prova perche' acquista in violazione di un
divieto di legge (cfr. Sez. U, sentenza n. 21 del 13 luglio 1998).
L'interpretazione stabilizzatasi dell'art. 191 del codice di
procedura penale, in tema di conseguenza di una perquisizione
illegittima e di legittimita', per contro, del conseguente sequestro,
si risolve quindi nell'operare anche una ingiustificata disparita' di
trattamento tra indagati in situazioni del tutto analoghe, con
conseguente violazione dell'art. 3 della Costituzione.
L'interpretazione consolidatasi si pone infine in contrasto con
l'art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell'uomo, e quindi in
contrasto con l'art. 117 della Costituzione che impone allo Stato
italiano il rispetto delle Convenzioni internazionali, in quanto si
risolve nel non adottare efficaci disencentivi agli abusi delle forze
di polizia, e di qualsiasi organo dello Stato in genere, che,
limitando la liberta' della persona, si risolvano in indebite
interferenze nella sua vita privata o nel suo domicilio, non
giustificate da oggettive esigenze di prevenzione o repressione dei
reati.
A parere di questo giudicante, la conseguenza della dedotta
incostituzionalita' e' anche il divieto di testimonianza, per gli
operatori di p.g., in ordine al risultato delle attivita' di
ispezione, perquisizione e sequestro indebitamente eseguite; tale
divieto, invero, appare conseguire alla perdita di ogni efficacia di
tali attivita'; ammettere tali deposizioni, peraltro, equivarrebbe a
vanificare tale divieto e la ratio sottostante ai divieti di
utilizzabilita' di cui all'art. 191 del codice di procedura penale.
Ne consegue che la questione e' rilevante nel presente giudizio
abbreviato anche laddove si volesse ipotizzare l'assoluta necessita'
ex art. 441 comma 5 del codice di procedura penale di procedere
all'ascolto dei verbalizzanti in ordine a quanto rinvenuto sulla
persona e nel bagaglio dell'imputato.


P.Q.M.

Visti gli articoli 1 legge costituzionale n. 1/48, e 23 della
legge n. 87/53;
Dichiara d'ufficio rilevante e non manifestamente infondata la
questione di illegittimita' costituzionale dell'art. 191 del codice
di procedura penale per contrasto con gli articoli 3, 13, 14 e 117
della Costituzione (quanto a quest'ultima norma, con riferimento ai
principi di cui all'art. 8 della Convenzione europea dei diritti
dell'uomo), nella parte in cui non prevede che la sanzione
dell'inutilizzabilita' ai fini della prova riguardi anche gli esiti
probatori, ivi compreso il sequestro del corpo del reato o delle cose
pertinenti al reato, degli atti di perquisizione ed ispezione
compiuti dalla p.g. fuori dei casi tassativamente previsti dalla
legge o comunque non convalidati dall'A.G. con provvedimento
motivato, nonche' la deposizione testimoniale in ordine a tali
attivita';
Ordina la notificazione della presente ordinanza, al difensore
dell'imputato, all'imputato, al pubblico ministero, ed al Presidente
del Consiglio dei ministri, e la sua comunicazione ai Presidenti dei
due rami del Parlamento;
Dispone la successiva trasmissione della presente ordinanza e
degli atti del procedimento, unitamente alla prova dell'esecuzione
delle notificazioni e delle comunicazioni previste dalla legge, alla
Corte costituzionale per la decisione della questione di
costituzionalita' cosi' sollevata;
Sospende il procedimento sino alla decisione della Corte
costituzionale.

Lecce, 3 ottobre 2017

Il Giudice: Sernia