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Permessi 104, legittimo per l'invalido usarli per ferie (Cass. 2043/20)

25 settembre 2020, Cassazione lavoro

 I permessi della L. n. 104 , sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione del beneficio debba essere necessariamente diretto alle esigenze di cura.

Legittimamente il lavoratore, portatore di disabilità, aumenta i giorni di assenza in concomitanza con le festività e, dunque, per finalità estranee a quelle connesse alla cura della sua condizione di invalido.

 

CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE

SEZIONE LAVORO

(ud. 24/06/2020) 25-09-2020, n. 20243

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:

Dott. RAIMONDI Guido - Presidente -

Dott. NEGRI DELLA TORRE Paolo - Consigliere -

Dott. ARIENZO Rosa - Consigliere -

Dott. PATTI Adriano Piergiovanni - Consigliere -

Dott. BOGHETICH Elena - rel. Consigliere -

ha pronunciato la seguente:

ORDINANZA

sul ricorso 35989/2018 proposto da:

MM S.P.A., CON SOCIO UNICO, in persona del legale rappresentante pro tempore, elettivamente domiciliata in ROMA, **, presso lo studio **;

- ricorrente -

contro

R.S., domiciliato in ROMA **;

- controricorrente -

avverso la sentenza n. 359/2018 della CORTE D'APPELLO di BRESCIA, depositata il 15/10/2018 R.G.N. 249/2018;

il P.M. ha depositato conclusioni scritte.

Svolgimento del processo

che:

1. La Corte di appello di Brescia, con sentenza n. 359 depositata il 15.10.2018, ha confermato la sentenza del Tribunale della medesima sede ed ha ritenuto illegittimo il licenziamento per giusta causa intimato da Mm s.p.a. con socio unico, con lettera del 23.6.2017, a R.S. per abuso dei permessi della L. n. 104 del 1992, ex art. 33, commi 3 e 6, avendo, il lavoratore portatore di disabilità, aumentato i giorni di assenza in concomitanza con le festività e, dunque, per finalità estranee a quelle connesse alla cura della sua condizione di invalido.

2. La Corte di appello, ha osservato, che l'art. 33, aveva ad oggetto le agevolazioni da riconoscere ai soggetti disabili ai fini della piena integrazione nella società e nel mondo del lavoro, soggetti che, nella veste di lavoratori (e a differenza dei lavoratori che prestavano assistenza a parenti disabili), potevano fruire ad ampio spettro dei permessi, anche per finalità sganciate da esigenze di cura o di visite mediche, dovendosi intendere che il richiamò del comma 6 al comma 3 della medesima disposizione si riferisse esclusivamente alla tipologia della agevolazione (nella specie i permessi orari o giornalieri); ha puntualizzato la differenza tra i permessi e le ferie e ha disposto la reintegrazione del lavoratore ai sensi della L. n. 300 del 1970, art. 18, comma 4, non rivestendo alcun profilo disciplinare l'utilizzo dei permessi in continuità con giorni di festività.

3. Per la cassazione di tale sentenza la società ha proposto ricorso affidato a quattro motivi. Il sig. R. ha resistito con controricorso.

4. Il Procuratore generale, con memoria depositata il 27.5.2020, ha chiesto il rigetto del ricorso.

Motivi della decisione

che:

1. Con il primo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 104 del 1992, art. 33, commi 3 e 6, art. 36 Cost., artt. 1322 e 1345 c.c., avendo, la Corte territoriale ritenuto che l'utilizzo dei permessi da parte del lavoratore disabile (a differenza dei permessi usufruiti dai lavoratori che forniscono assistenza al disabile) non è vincolato necessariamente allo svolgimento di visite mediche o di altri interventi di cura neppure da parte del soggetto che assiste il portatore di handicap, posto che la normativa tratta delle "agevolazioni" riconosciute ai disabili (a differenza dell'obiettivo dei permessi concessi ai soggetti che assistono il disabile, strettamente funzionali all'assistenza); l'espresso richiamo del comma 6, della L. n. 104, art. 33, al comma 3, nonchè l'interpretazione teleologica della norma impongono, invece, secondo il ricorrente, di interpretare la disposizione nel senso che il disabile può fruire dei permessi esclusivamente per scopi collegati direttamente e/o indirettamente all'esigenza di tutelai e/o cura e/o assistenza e non certamente per finalità ricreative e/o personali, senza confusione con le esigenze di recupero delle energie psico-fisiche alle quali è preposto il diverso istituto delle ferie e senza utilizzi devianti dell'esercizio del diritto.

2. Con il secondo motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione dell'art. 2119 c.c., avendo, la Corte territoriale rinvenuto l'insussistenza di una giusta causa di licenziamento nonostante sviamento della funzione di assistenza propria dei permessi e intensità dell'elemento psicologico rispetto a tale uso improprio, dimostrata da una condotta reiterata e già sanzionata con precedenti provvedimenti disciplinari.

3. Con il terzo motivo di ricorso si deduce, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 5, omesso esame di un fatto decisivo, avendo, la Corte territoriale trascurato di valutare circostanze decisive, provate documentalmente, che dimostravano lo svolgimento, da parte del lavoratore disabile, di attività defatiganti, e, soprattutto, in contrasto con il suo stato di invalidità e con le prescrizioni contenute nel verbale della Commissione medica per l'accertamento delle disabilità (che esclude la possibilità di fare uso di scale, di movimentare carichi, di usare macchine semimoventi) posto che il R. - durante le giornate di permesso ha affrontato lunghi viaggi alla guida della sua autovettura, ha effettuato numerosi spostamenti in auto, ha movimentato carichi quali borse della spesa.

4. Con il quarto motivo di ricorso si denunzia, ai sensi dell'art. 360 c.p.c., comma 1, n. 3, violazione e falsa applicazione della L. n. 300 del 1970, art. 18, avendo, la Corte territoriale trascurato che l'abuso dei permessi integrava un fatto sussistente, imputabile al lavoratore e avente rilievo disciplinare, con conseguente impossibilità di applicare il regime reintegratorio della L. n. 300, art. 18, comma 4.

5. Il ricorso, che consente la trattazione congiunta di tutti i motivi in quanto strettamente connessi, non è fondato.

6. La L. n. 104 del 1992, art. 33, comma 6, è preordinato a garantire deterniinati diritti al portatore di handicap grave prevedendo la possibilità di usufruire alternativamente di permessi giornalieri (due ore) o mensili (tre giorni), di scegliere - ove possibile - una sede di lavoro più vicina al domicilio, di non essere trasferito in altra sede senza il suo consenso.

La tecnica legislativa prevede, con riguardo alla individuazione del tipo di permessi da usufruire, il rinvio ai commi 2 e 3 della stessa disposizione (nei quali si disciplina il diritto ai permessi giornalieri e mensili dei genitori e dei familiari al fine di prestare assistenza alla persona con handicap in situazione di gravità).

6.1. Si tratta di provvidenze che operano all'interno del rapporto di lavoro, riconducibili all'art. 38 Cost., in quanto favoriscono l'assistenza sociale in via tendenzialmente mediata cioè erogata, secondo la logica della sussidiarietà orizzontale, non dallo Stato, ma direttamente dai congiunti del disabile e riconosciuta altresì nell'ambito dell'organizzazione aziendale. L'accesso ai cennati istituti è subordinato al riconoscimento in capo al soggetto assistito non solo dello stato di portatore di handicap, ai sensi della L. n. 104 del 1992, art. 3, ma soprattutto della c.d. connotazione di gravità, ai sensi del combinato disposto della citata L. n. 104, art. 3, comma 3 e art. 33.

6.2. La tutela ed il sostegno del portatore di handicap sono garantiti, quindi, mediante l'erogazione di prestazioni economiche dirette, ma anche attraverso varie forme di tutela indiretta: si tratta di un significativo ventaglio di agevolazioni (così sono definite dalla rubrica della L. n. 104 del 1992, art. 33), riconducibili alla logica della prestazione in servizi piuttosto che di benefici monetari immediati, che costituiscono un articolato sistema di welfare, anche familiare, connesso lato sensu ai doveri di solidarietà sociale, quotidianamente costruito attorno al disabile. Sotto il profilo sistematico, determinante è la considerazione che la tutela delle persone svantaggiate è costituita da un complesso di norme, di fonte interna - in primis dagli artt. 2, 3, 38 Cost., nonchè dalla L. n. 68 del 1999 - ed internazionale - quali sono la Direttiva 2000/78/CE del Consiglio del 27 novembre 2000 e la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, ratificata e resa esecutiva in Italia con L. 3 marzo 2009, n. 18.

7. La Corte Costituzionale ha avuto modo di sottolineare che l'assistenza del disabile e, in particolare, il soddisfacimento dell'esigenza di socializzazione, in tutte le sue modalità esplicative costituiscono "fondamentali fattori di sviluppo della personalità e idonei strumenti di tutela della salute del portatore di handicap, intesa nella sua accezione più ampia di salute psico-fisica" (sentenze n. 158 del 2007 e n. 350 del 2003; cfr. altresì sentenza n. 213 del 2016) ed ha altresì rilevato che la finalità perseguita dalla L. n. 104 del 1992, consiste nella tutela della salute psico-fisica del disabile, che costituisce un diritto fondamentale dell'individuo (art. 32 Cost.) e rientra tra i diritti inviolabili che la Repubblica riconosce e garantisce all'uomo, sia come singolo sia nelle formazioni sociali ove si svolge la sua personalità (art. 2 Cost.). Ed invero, la "formazione sociale" (art. 2 Cost.) consiste in "ogni forma di comunità, semplice o complessa, idonea a consentire e favorire il libero sviluppo della persona nella vita di relazione, nel contesto di una valorizzazione del modello pluralistico" (sentenza n. 138 del 2010).

7.1. A livello Europeo, la Corte di giustizia - quando è stata chiamata a verificare il rispetto dei principi, dettati dalla direttiva 2000/78/Ce, di lotta alle discriminazioni per ragioni (anche) di disabilità - si è preoccupata di garantire un equilibrio tra gli interessi dell'impresa e la protezione e la sicurezza dei portatori di handicap, al fine di evitare situazioni ingiuste o effetti negativi a loro danno, rilevando che le persone disabili incontrano maggiori difficoltà rispetto ai lavoratori non disabili a reinserirsi nel mercato del lavoro e hanno esigenze specifiche connesse alla tutela richiesta dalla loro condizione (v., in tale senso, Corte di Giustizia Europea, sentenze 18 gennaio 2018, C-270/16 nonchè 11 aprile 2013, C-335/11 e C-337/11).

8. Con particolare riguardo alla utilizzazione dei permessi fruiti dai familiari (L. n. 104, art. 33, comma 3), questa Corte, ha affermato che l'assistenza non può essere intesa riduttivamente come mera assistenza personale al soggetto disabile presso la sua abitazione ma deve necessariamente comprendere lo svolgimento di tutte le attività che il soggetto non sia in condizioni di compiere autonomamente. L'abuso quindi va a configurarsi solo quando il lavoratore utilizzi i permessi per fini diversi dall'assistenza, da intendere in senso ampio, in favore del familiare (Cass. n. 1394 del 2020, Cass. 21529 del 2019; Cass. n. 8310 del 2019; Cass. n. 17968 del 2016; n. 9217 del 2016; n. 8784 del 2015).

8.1. L'interesse primario cui è preposta la L. n. 104 del 1992, è, invero, quello di assicurare in via prioritaria la continuità nelle cure e nell'assistenza al disabile che si realizzino in ambito familiare, attraverso una serie di benefici a favore delle persone che se ne prendono cura, pur dovendo scongiurarsi utilizzi fraudolenti della normativa mediante il severo controllo (e il conseguente rilievo disciplinare) dell'attività dei familiari. Ne consegue che il comportamento del dipendente che si avvalga di tale beneficio per attendere ad esigenze diverse integra l'abuso del diritto e viola i principi di correttezza e buona fede, sia nei confronti del datore di lavoro che dell'Ente assicurativo, con rilevanza anche ai fini disciplinari (Cass. n. 17968 del 2016).

9. Se, dunque, il diritto di fruire dei permessi da parte del familiare si pone in relazione diretta con l'assistenza al disabile, il medesimo diritto riconosciuto al portatore di handicap si integra nell'ambito della complessiva ratio della normativa in esame, che è quella di garantire alla persona disabile l'assistenza e l'integrazione sociale necessaria a ridurre l'impatto negativo della grave disabilità. L'utilizzo dei permessi da parte del lavoratore portatore di handicap grave è, dunque, finalizzato a agevolare l'integrazione nella famiglia e nella società, integrazione che può essere compromessa da ritmi lavorativi che non considerino le condizioni svantaggiate sopportate; la L. n. 104 del 1992, art. 1, prevede la piena integrazione del soggetto portatore di handicap nella famiglia, nel lavoro e nella società, per cui la concessione di agevolazioni consente di perseguire l'obiettivo di un proficuo inserimento del disabile grave nell'ambiente lavorativo, sicchè l'allontanamento dal posto di lavoro più a lungo rispetto ai lavoratori (nonchè ai portatori di handicap non grave) permette di rendere più compatibile l'attività lavorativa con la situazione di salute del soggetto. I lavoratori portatori di handicap rilevanti, proprio perchè svolgono attività lavorativa, sono gravati più di quanto non sia un lavoratore che assista un coniuge o un parente invalido: la fruizione dei permessi non può essere, dunque, vincolata necessariamente allo svolgimento di visite mediche o di altri interventi di cura, essendo - più in generale - preordinata all'obiettivo di ristabilire, l'equilibrio fisico e psicologico necessario per godere di un pieno inserimento nella vita familiare e sociale.

9.1. Questa considerazione elimina il pericolo di una irrazionale discriminazione tra fattispecie, proprio perchè le fattispecie sono diverse. L'intento legislativo di perseguire una effettiva integrazione del portatore di handicap grave spiega il trattamento preferenziale riconosciuto allo stesso rispetto ai familiari (che alla persona svantaggiata debbono riferire necessariamente la loro attività), eliminando in radice i sospetti di una interpretazione irragionevole della L. n. 104 del 1992, art. 33, commi 3 e 6, disposizione che va vagliata non solo attraverso la lente della proporzionalità della tutela economica da rapportarsi alla qualità e qiiantita del lavoro (art. 36 Cost.) ma anche attraverso gli strumenti di mutualità garantiti dall'art'. 38 Cost..

10. La Corte distrettuale si è attenuta a questi principi di diritto, correttamente escludendo la configurazione di un abuso del diritto nella fruizione dei permessi da parte del lavoratore portatore di handicap grave per finalità non collegate ad esigenze di cura, coerentemente escludendo una situazione antigiuridica suscettibile di rilievo disciplinare.

11. In conclusione, può formularsi il seguente principio di diritto: i permessi della L. n. 104 del 1992, ex art. 33, comma 6, sono riconosciuti al lavoratore portatore di handicap in ragione della necessità di una più agevole integrazione familiare e sociale, senza che la fruizione del beneficio debba essere necessariamente diretto alle esigenze di cura.

12. Il ricorso va, pertanto, rigettato e le spese di lite seguono il principio della soccombenza dettato dall'art. 91 c.p.c..

13. Il ricorso è stato notificato in data successiva a quella (31/1/2013) di entrata in vigore della legge di stabilità del 2013 (L. 24 dicembre 2012, n. 228, art. 1, comma 17), che ha integrato il D.P.R. 30 maggio 2002, n. 115, art. 13, aggiungendovi il comma 1 quater del seguente tenore: "Quando l'impugnazione, anche incidentale è respinta integralmente o è dichiarata inammissibile o improcedibile, la parte che l'ha proposta è tenuta a versare un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello dovuto per la stessa impugnazione, principale o incidentale, a norma art. 1 bis. Il giudice dà atto nel provvedimento della sussistenza dei presupposti di cui al periodo precedente e l'obbligo di pagamento sorge al momento del deposito dello stesso". Essendo il ricorso in questione (avente natura chiaramente impugnatoria) integralmente da respingersi, deve provvedersi in conformità.

P.Q.M.
La Corte rigetta il ricorso e condanna la ricorrente al pagamento delle spese del presente giudizio di legittimità, liquidate in Euro 200,00 per esborsi nonchè in Euro 5.000,00 per compensi professionali, oltre spese generali al 15% ed accessori di legge.

Ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, dà atto della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte del ricorrente, dell'ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, ove dovuto.

Così deciso in Roma, nell'Adunanza camerale, il 24 giugno 2020.

Depositato in Cancelleria il 25 settembre 2020