Non era ammesso il giudizio abbreviato per chi fosse accusato di omicidio aggravato (Alfio Russo, Giuseppe Lupo ed Ezio Persico per l'omicidio di Roberto Maranzano, ucciso a calci e pugni nella porcilaia di San Patrignano il 9 maggio del 1989): per l'effetto era corretto l'annullamento della sentenza emessa, con trasmissione degli atti allo stesso giudice per la pronuncia sulla richiesta di rinvio a giudizio già formulata dal P.M.
Corte di Cassazione
SEZIONE I PENALE
(ud. 07/06/1995) 30-08-1995, n. 9267
Composta dagli Ill.mi Sigg.:
Dott. Marcello DE LILLO Presidente
" Francesco BOFFA TORLATTO Consigliere
" Natale CAPITANIO "
" Anna MABELLINI Rel. "
" Emilio GIRONI "
ha pronunciato la seguente
SENTENZA
sul ricorso proposto da
<P. E.> n. a Voghera il 22-10-51
avverso la sentenza 7-11-94 della Corte d'Assise d'Appello di Bologna
Visti gli atti, la sentenza denunziata ed il ricorso,
Udita in pubblica udienza la relazione fatta dal Consigliere dr.ssa Mabellini
Udito il Pubblico Ministero in persona del Sostituto Procuratore Generale dr. Martusciello, che ha concluso per l'annullamento con rinvio
Svolgimento del processo
La sentenza impugnata
Con sentenza 5 marzo 1994 emessa a seguito di giudizio abbreviato espletato nei confronti di sette imputati accusati di lesioni aggravate ai danni di Roberto Maranzano (capo A), tre dei quali, tra cui Ezio Persico, accusati anche del successivo omicidio dello stesso Maranzano aggravato ai sensi dell'art. 577, comma 1, n. 4, c.p. (capo B), il G.I.P. presso il Tribunale di Rimini dichiarava il solo Alfio Russo colpevole di lesioni gravi e omicidio preterintenzionale, ed assolveva tutti gli altri imputati dalla imputazione relativa alle lesioni di cui al capo A) nonché da quella di cui al capo B), derubricato anche tale fatto in lesioni, "in quanto non punibili per aver agito in stato di necessità determinato dall'altrui minaccia".
Proposto appello dal Procuratore Generale della Repubblica,la Corte d'Assise d'Appello di Bologna, con sentenza 7 novembre 1994, dichiarava inapplicabile il giudizio abbreviato ai tre imputati accusati in primo grado di omicidio aggravato (Alfio Russo, Giuseppe Lupo ed Ezio Persico), e per l'effetto annullava la sentenza del G.I.P., ordinando la trasmissione degli atti allo stesso giudice per la pronuncia sulla richiesta di rinvio a giudizio già formulata dal P.M.
Motivi della decisione
1) - Ha proposto ricorso Ezio Persico, il quale allega come primo motivo errata applicazione dell'art. 582 c.p.p.
L'appello proposto dal Procuratore Generale era stato illegittimamente presentato presso la Cancelleria del Tribunale di Rimini, e non "presso la Cancelleria specifica del G.U.P. che aveva giudicato con giudizio abbreviato".
Il G.U.P. doveva ritenersi organo giudicante ben distinto ed autonomo rispetto al Tribunale di Rimini, e l'erronea presentazione dell'appello ne comportava l'inammissibilità.
Il motivo è infondato.
Il giudice per le indagini preliminari e il giudice dell'udienza preliminare non costituiscono uffici autonomi e distinti dal tribunale o dalla pretura cui appartengono.
Una tale previsione non è contenuta né nel codice di procedura penale vigente, che dopo aver stabilito all'art. 1 c.p.p. che la giurisdizione è esercitata "dai giudici previsti dall'ordinamento giudiziario", ne distingue le competenze tra la Corte di Assise, il Tribunale ed il pretore (artt. 5-7 c.p.p.), né nelle norme di attuazione e di coordinamento che lo corredano, né nell'ordinamento giudiziario, sul quale in relazione all'entrata in vigore del nuovo codice di rito hanno inciso il D.P.R. 22 settembre 1988, n. 449, la legge 1° febbraio 1989, n. 30, il D.L. 15 maggio 1989, n. 173, convertito con modificazioni nella legge 11 luglio 1989, n. 251, il D.Lgs. 28 luglio 1989, n. 273, ed il D.L. 25 settembre 1989, n. 327, convertito nella legge 24 novembre 1989, n. 380.
L'ultimo decreto legge citato, in particolare, prevede che in alcuni tribunali la presidenza della sezione dei giudici per le indagini preliminari sia conferita ad un magistrato con funzioni di cassazione, e che sia istituito il posto di presidente aggiunto della sezione dei giudici per le indagini preliminari, da conferirsi ad un magistrato con funzioni di appello.
La disposizione evidenzia il pieno inserimento organico del giudice per le indagini preliminari nel tribunale di cui fa parte.
L'integrazione dell'art. 328 c.p.p. operata dal D.L. 20 novembre 1991, n. 367, istitutivo della Direzione Nazionale Antimafia, convertito con modificazioni nella legge 20 gennaio 1992, n. 8, per la quale in determinati casi "le funzioni di giudice per le indagini preliminari sono esercitate... da un magistrato del tribunale del capoluogo del distretto nel cui ambito ha sede il giudice competente", conferma che il giudice per le indagini preliminari non è altro che un organo dell'ufficio al quale appartiene, e non un giudice dotato di strutture proprie costituite in un ufficio diverso dal tribunale o dalla pretura nel quale il magistrato è inserito.
Ne segue che tra le cancellerie del G.I.P. e quelle del Tribunale di appartenenza non vi è una distinzione processualmente rilevante, trattandosi di articolazioni di un medesimo ufficio, relativo allo stesso "giudice", in rapporto al quale deve essere valutata la correttezza formale dell'atto compiuto.
La presentazione dell'appello, da parte del pubblico ministero contro la sentenza emessa dal giudice per le indagini preliminari, presso la cancelleria del Tribunale di Rimini, e non presso la specifica cancelleria del G.I.P. che aveva emesso il provvedimento impugnato, deve ritenersi conforme al dettato dell'art. 582, comma 1, c.p.p., essendo priva di rilievo esterno la distribuzione dei compiti a fini organizzativi tra i funzionari di cancelleria di uno stesso ufficio giudiziario relativo allo stesso "giudice", da intendersi nel senso indicato dal Titolo I del codice di procedura penale.
2) - Quale secondo motivo, si deduce erronea applicazione di norma processuale circa la dichiarata nullità della sentenza.
Sulla scorta della sentenza di primo grado, con la quale il G.I.P. aveva ritenuto ammissibile il giudizio abbreviato, il ricorrente sostiene che la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 176 del 1991, non si pronunciò formalmente sulla inammissibilità del rito in questione ai reati punibili con l'ergastolo, posto che una affermazione in tal senso non è contenuta nel dispositivo, ma solo nella motivazione.
Inoltre, la Corte Costituzionale aveva confuso concettualmente la pena che il giudice deve irrogare e la pena edittale, ed aveva fatto riferimento alla pena astrattamente considerata anziché a quella da applicarsi in concreto, alla quale doveva ritenersi facesse riferimento la direttiva n. 53 della legge delega.
Mancava nel sistema legislativo la previsione di un apprezzamento preventivo circa la eventualità di una diversa qualificazione del reato, o sulla configurabilità di attenuanti o diminuenti tali da comportare la pena della reclusione in luogo di quella dell'ergastolo.
Il principio del "favor rei" imporrebbe di consentire implicitamente, dopo l'intervento della Corte Costituzionale, una fase di delibazione prognostica, per evitare che si neghi il rito abbreviato in seguito ad una errata formulazione del capo d'imputazione.
Nel caso di specie sin dall'inizio era ipotizzabile l'applicazione della pena temporanea, sia per la configurabilità dell'omicidio preterintenzionale, sia per il gioco delle attenuanti. Infatti, il capo d'imputazione a carico di Persico faceva riferimento all'art. 116 c.p., per aver voluto solo il reato di lesioni gravi, e l'applicabilità della diminuente comportava la inapplicabilità dell'ergastolo e l'esperibilità del giudizio abbreviato.
Il motivo è infondato.
Deve innanzitutto chiarirsi che il capo d'imputazione, che come nella specie preveda in relazione al reato d'omicidio l'aggravante di cui all'art. 577, comma 1, n. 4, c.p. (contestata con riferimento all'art. 61, n. 4, c.p. per la crudeltà insita nelle modalità del fatto), ed al tempo stesso la diminuente dell'art. 116 c.p., non esclude di per sé, in astratto, l'applicabilità della pena dell'ergastolo.
La diminuente riconosciuta è infatti soggetta, al pari di qualsiasi circostanza attenuante concorrente con circostanze aggravanti, al giudizio di comparazione previsto dall'art. 69 c.p., con la conseguenza che è astrattamente ipotizzabile una valutazione della subvalenza di essa rispetto alla aggravante contestata a norma del primo comma della disposizione citata.
L'mputazione elevata resta riferita ad un reato astrattamente punibile con l'ergastolo, ed in rapporto a tale situazione processuale deve essere posto il problema dell'esperibilità del rito abbreviato, nel caso concreto applicato.
Già le Sezioni Unite di questa Corte, con sentenza 6 marzo 1992 (imp. Piccillo) hanno statuito: "Per l'effetto della pronuncia di illegittimità costituzionale dell'art. 442 c.p.p., comma secondo, ultimo periodo, il giudizio abbreviato non è ammesso quando l'imputazione enunciata nella richiesta di rinvio a giudizio concerne un reato punibile con l'ergastolo.
In questo caso il giudice per le indagini preliminari non è competente a definire il giudizio con le forme stabilite dagli artt. 444 e 442 cod. proc. pen., anche se ritiene che in concreto debba essere applicata una pena diversa dall'ergastolo".
Gli argomenti con i quali nel ricorso si contrasta tale consolidato orientamento non sono condivisibili.
Gli effetti della sentenza costituzionale n. 176 del 1991, che nel dispositivo dispone soltanto "dichiara l'illegittimità costituzionale dell'art. 442 c.p.p., comma 2, ultimo periodo ("Alla pena dell'ergastolo è sostituita quella della reclusione di anni trenta")", devono infatti essere interpretati alla luce della motivazione, nella quale tra l'altro si legge: "Se il legislatore delegante avesse inteso estendere il giudizio abbreviato anche ai delitti punibili con l'ergastolo, avrebbe dovuto espressamente indicare il criterio sulla base del quale operare la sostituzione della pena".
La Corte Costituzionale ha inciso, dunque, in radice sull'applicabilità del rito abbreviato ai reati punibili con l'ergastolo, e non soltanto sulla entità della pena da infliggersi in caso di applicazione del giudizio abbreviato ai reati in questione.
Le critiche svolte nel ricorso alla sentenza costituzionale citata, inerenti alla "confusione concettuale" che sarebbe stata fatta tra pena edittale e pena da irrogarsi in concreto, sono irrilevanti, in relazione all'intervento sulla norma comunque attuato, ed infondate, posto che il problema della esperibilità del rito abbreviato deve essere necessariamente risolto sulla base di un giudizio "ex ante", vincolato dal capo d'imputazione.
La tesi per la quale sarebbe comunque ammissibile, in virtù del "favor rei", un giudizio prognostico circa l'inapplicabilità in concreto dell'ergastolo che consentirebbe il rito abbreviato, non può essere condivisa, sia perché non trova spunto interpretativo in alcuna disposizione di legge, sia perché è illogico far dipendere la instaurazione di un rito speciale dalla decisione che dovrebbe conseguire all'espletamento di quel medesimo rito, peraltro anticipata dallo stesso giudicante rispetto al procedimento in esito al quale essa sarà assunta.
Il giudizio abbreviato era dunque nella specie incompatibile con l'imputazione elevata, e non esperibile.
Più volte questa Corte ha stabilito che solo nel caso in cui il capo d'imputazione, che precluda il giudizio abbreviato richiesto e negato, si palesi erroneo, è consentito al giudice del dibattimento con giudizio "ex ante" applicare la diminuente prevista dall'art. 442 c.p.p. (in questo senso Cass., Sez. I, 5 maggio 1993, Obexer; Cass., Sez. I, 3 agosto 1993, Rho ed altri; Cass., Sez. I, 8 gennaio 1994, Ciani; Cass., Sez. I, 31 marzo 1994, Rodano ed altro; Cass., Sez. I, 10 gennaio 1995, Osnato).
Tale valutazione compete peraltro soltanto al giudice del dibattimento, e non al G.I.P., al quale il giudizio abbreviato era in ogni caso precluso.
Sulla legittimità di tale preclusione si è espressa la Corte Costituzionale con la sentenza 7 luglio 1993, n. 305, per la quale "gli artt. 438, 439 e 440 c.p.p. non sono in contrasto con l'art. 101, secondo comma, Cost., stante l'erroneità del presupposto secondo cui i detti articoli, precludendo al G.I.P. di controllare l'erroneità dell'imputazione di un delitto comportante la pena dell'ergastolo, formulata dal P.M., impedirebbe al detto giudice di instaurare il giudizio abbreviato, limitando così i suoi poteri e mettendo in gioco il principio della sottoposizione del giudice alla legge".
Si osserva, comunque, che nel caso di specie il G.I.P., in esito ad una sua autonoma valutazione, ha escluso la ravvisabilità dell'omicidio aggravato ostativo al rito espletato, pur senza ravvisare un vero e proprio errore in senso tecnico nella contestazione attuata.
Tale impostazione è evidente nella sentenza di primo grado, là ove fa riferimento alla "configurabilità concretamente ipotizzabile del delitto di omicidio preterintenzionale in luogo dell'omicidio volontario"; dove recita "inoltre tutte le caratteristiche della vicenda, desumibili dagli atti e dalle stesse imputazioni, rendevano largamente plausibile una ipotesi di derubricazione del reato contestato in omicidio preterintenzionale"; dove, con riferimento al consenso al rito abbreviato prestato dal P.M., lo considera quale "indicazione della possibilità che attenuanti siano configurate, e che nel giudizio di valenza siano considerate almeno equivalenti alle aggravanti contestate".
L'insieme di tali considerazioni porta a ritenere che il G.I.P. non ravvisò errori tecnici nel capo d'imputazione, ma, attuando un giudizio "ex ante" di cui espressamente teorizza la liceità, ritenne probabile che il processo, nonostante l'imputazione elevata, non sarebbe sfociato con la irrogazione della più grave tra le pene edittali.
Una tale valutazione non è prevista e deve ritenersi illegittima.
La correttezza, sotto il profilo costituzionale, del divieto della predetta valutazione anticipata, è stata stabilita dalla Corte Costituzionale con la sentenza n. 305 del 1977 sopra richiamata, secondo la quale "gli artt. 438, 439 e 440 c.p. non sono in contrasto con l'art. 3 Cost. sotto il profilo che essi non attribuiscono al G.I.P., ai fini dell'applicazione del giudizio abbreviato, il potere di dare una diversa qualificazione del fatto reato contestato dal P.M. quando esso comporti la pena dell'ergastolo, preclusiva del reato abbreviato.
In definitiva, il rito abbreviato nella specie è stato espletato illegittimamente, così come affermato dalla Corte d'Appello, che correttamente ha annullato la sentenza emessa dal G.I.P. al termine di esso.
Il ricorso proposto deve essere quindi respinto, con le conseguenze previste dall'art 616 c.p.p. in ordine al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rgetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Così deciso il 7 giugno 1995.
DEPOSITATA IN CANCELLERIA IL 30 AGOSTO 1995