Nell'ordinamento giuridico italiano non vige il principio del "ne bis in idem" internazionale: il processo celebrato all'estero nei confronti del cittadino italiano non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per lo stesso fatto.
Il nuovo giudizio italiano non è precluso neppure quando l'imputato sia stato giudicato all'estero e la relativa sentenza sia stata gia' riconosciuta in Italia.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE PRIMA PENALE
(ud. 05/02/2004) 17-03-2004, n. 12953
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. SANTACROCE Giorgio - Presidente -
Dott. SILVESTRI Giovanni - rel. Consigliere -
Dott. RIGGIO Gianfranco - Consigliere -
Dott. GIORDANO Umberto - Consigliere -
Dott. VANCHERI Angelo - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
1) DBG N. IL **1944;
avverso SENTENZA del 23/04/2003 CORTE ASSISE APPELLO di ROMA;
visti gli atti, la sentenza ed il procedimento;
udita in PUBBLICA UDIENZA la relazione fatta dal Consigliere Dott. SILVESTRI GIOVANNI;
Udito il Procuratore Generale in persona del Dott. Anna Maria De Sangro che ha concluso per il rigetto del ricorso.
Svolgimento del processo
Con sentenza del 23.4.2003, la Corte di Assise di Appello di Roma confermava la decisione emessa dal GUP del tribunale della stessa citta', con cui, a conclusione di giudizio abbreviato, DBG era stato condannato alla pena di dieci anni di reclusione perche' ritenuto colpevole dei delitti, uniti dal vincolo della continuazione, di omicidio della propria moglie separata, GF, e di detenzione e porto illegali di arma da sparo, commessi in Sud Africa il 6.9.1992, con le attenuanti generiche prevalenti e la diminuente del vizio parziale di mente.
La Corte rilevava preliminarmente che, con sentenza del 26.9.1996, la Corte d'Appello di Caltanissetta -su richiesta del Procuratore Generale cui il Ministro della Giustizia aveva trasmesso la sentenza definitiva emessa dalla Corte Suprema del Sud Africa - aveva riconosciuto detta decisione agli effetti di cui ai n. 1, 2 e 3 dell'art. 12 c.p. e che in data 9.2.2000 il predetto Ministro, allorquando il DB era rientrato in Italia, aveva chiesto il rinnovamento del giudizio a norma dell'art. 11 c.p.: la Corte escludeva che il precedente riconoscimento della sentenza straniera potesse costituire idoneo motivo di preclusione della procedibilita' dell'azione penale. Infine, venivano disattesi i motivi di gravame riguardanti l'entita' della pena e della provvisionale liquidata alle parti civili.
Con l'unico motivo di ricorso, il difensore dell'imputato denunciava la violazione dell'art. 606 c.p.p., comma 1°, lett. b), per inosservanza ed erronea applicazione degli artt. 11 e 12 c.p., sull'assunto che tali disposizioni si trovano in rapporto di rigorosa alternativita', sicche', una volta chiesto ed ottenuto il riconoscimento della sentenza straniera, il Ministro non avrebbe potuto piu' richiedere il rinnovamento del giudizio in Italia. Il ricorrente concludeva, dunque, chiedendo l'annullamento senza rinvio della sentenza impugnata per improcedibilita' dell'azione penale.
Motivi della decisione
Il ricorso non ha fondamento.
Il "rinnovamento del giudizio" nei confronti del cittadino o dello straniero per reati commessi all'estero,previsto dall' art. 11 c.p., e' espressione di una precisa scelta di politica legislativa fondata sul principio di sovranita' e di universalita' della legge penale, alla cui stregua nella Relazione del Guardasigilli al vigente codice penale e' precisato che "in nessun caso e per nessun titolo puo' essere riconosciuta alla sentenza del giudice straniero efficacia preclusiva all'applicazione della legge italiana e quindi all'esercizio della nostra giurisdizione" (Rel., 1°, 42).
A fronte di tali precise coordinate interpretative, la giurisprudenza di questa Corte e' univocamente orientata nel senso che, a norma dell'art. 11 c.p., nell'ordinamento giuridico italiano non vige il principio del "ne bis in idem" internazionale e che, dunque, il processo celebrato all'estero nei confronti del cittadino italiano non preclude la rinnovazione del giudizio in Italia per lo stesso fatto (Cass., Sez. 5°, 29 maggio 1998, Bortesi), come e' confermato, del resto, anche dall'art. 138 c.p., che, per l'ipotesi di giudizio seguito all'estero e rinnovato in Italia, prevede come legittima l'esecuzione della pena inflitta dall'autorita' giudiziaria italiana, disponendo che vi venga sempre computata la pena scontata all'estero (Cass., Sez. 6°, 3 marzo 1993, Palazzolo).
Cio' posto, deve essere esaminata la questione dell'operativita' della preclusione al rinnovamento del giudizio nel caso in cui l'esercizio dell'azione penale in Italia su richiesta del Ministro della giustizia sia stato preceduto dal riconoscimento, ai sensi dell'art. 12 c.p., della sentenza penale straniera pronunciata per il medesimo fatto.
A sostegno della tesi della preclusione, sviluppata con l'unico motivo di ricorso, il ricorrente ha richiamato due risalenti pronunce di questa Corte (Cass., Sez. 2°, 16 maggio 1966, Guglielmo, e 13 novembre 1959, Canone) e l'opinione di una parte della dottrina.
Il Collegio ritiene di non potere aderire ad una siffatta posizione, in quanto molteplici e convergenti elementi di ordine logico e sistematico convalidano, in modo non equivoco, l'interpretazione contraria a configurare i rapporti tra gli artt. 11 e 12 c.p. in termini di alternativita' per inferirne che il nuovo giudizio resti precluso quando l'imputato sia stato giudicato all'estero e la relativa sentenza sia stata gia' riconosciuta in Italia.
La rinnovazione del giudizio e il riconoscimento della sentenza penale straniera rappresentano, infatti, istituti affatto disomogenei e del tutto differenziati sul piano strutturale e funzionale, onde non e' instaurarle una relazione alternativa (o di incompatibilita') tra l'uno e l'altro, ne' dal gia' intervenuto riconoscimento puo' farsi discendere un ostacolo alla richiesta del Ministro della giustizia e all'esercizio della giurisdizione in ordine all'identico fatto.
In proposito va sottolineato che l'art. 12 c.p. esclude che, a seguito del riconoscimento, la sentenza straniera venga integralmente recepita nell'ordinamento italiano e che, per contro, la rilevanza interna della stessa e' circoscritta a taluni particolari e limitati effetti, tassativamente indicati nel primo comma dello stesso art. 12 c.p. (recidiva o altro effetto penale della condanna, abitualita' o professionalita' nel reato o tendenza a delinquere, pene accessorie, misure di sicurezza personali, restituzioni o risarcimento del danno o altri effetti civili), senza involgere l'esecuzione della pena principale.
Ne segue che, poiche' le disposizioni di cui agli artt. 11 e 12 c.p. sono diversificate nei presupposti e negli effetti, il loro campo di applicazione risulta nettamente distinto e che non puo' farsi ricorso ad alcun probante argomento per affermare che l'avvenuta richiesta di riconoscimento da parte del Ministro della giustizia -necessaria, peraltro, soltanto quando la sentenza sia stata pronunciata dall'autorita' giudiziaria di uno Stato estero col quale non esiste trattato di estradizione (art. 12, comma 2°) - impedisca allo stesso Ministro di richiedere il rinnovamento del giudizio a norma dell'art. 11 c.p..
D'altro canto, mette conto osservare che, a tutto concedere, l'esistenza di una preclusione, fatta derivare dal principio "electa una via, non datur recursus ad alterarti", potrebbe configurarsi in presenza di situazioni nelle quali il Ministro sia in grado di esercitare contemporaneamente la facolta' di scelta tra l'attivazione della procedura di riconoscimento e la presentazione della richiesta di rinnovamento del giudizio e non anche quando manchi tale contestuale possibilita' di opzione, come nell'ipotesi, coincidente con il caso di specie, in cui la richiesta di riconoscimento sia stata presentata allorche' l'imputato si trovava ancora all'estero, in espiazione della pena inflittagli con la sentenza straniera, e le condizioni per richiedere il rinnovamento del giudizio siano divenute sussistenti - secondo la previsione dell'art. 9 c.p. - soltanto con la sua successiva presenza in Italia.
Alla luce delle precedenti considerazioni va riconosciuto che la "ratio decidendi" della sentenza impugnata e' rispondente ad un esatto principio di diritto, ditalche' deve pronunciarsi il rigetto del ricorso, con la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
La Corte Suprema di Cassazione, Sezione Prima Penale, rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.
Cosi' deciso in Roma, il 5 febbraio 2004.
Depositato in Cancelleria il 17 marzo 2004