Nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale.
Sussiste il nesso di causalità tra l'omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorchè risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa.
CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE QUARTA PENALE
Sent., (ud. 16/11/2017) 16-02-2018, n. 7659
Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. CIAMPI Francesco Maria - Presidente -
Dott. DI SALVO Emanuele - rel. Consigliere -
Dott. GIANNITI Pasquale - Consigliere -
Dott. BELLINI Ugo - Consigliere -
Dott. RANALDI Alessandro - Consigliere -
ha pronunciato la seguente:
SENTENZA
sul ricorso proposto da:
S.G., nato il (OMISSIS);
avverso la sentenza del 28/04/2016 della CORTE APPELLO di VENEZIA;
visti gli atti, il provvedimento impugnato e il ricorso;
udita la relazione svolta dal Consigliere EMANUELE DI SALVO;
Udito il Pubblico Ministero, in persona del Sostituto Procuratore Dott. ZACCO Franca;
Uditi i difensori
Svolgimento del processo
1. S.G. ricorre per cassazione avverso la sentenza in epigrafe indicata, con la quale si è dichiarato non doversi procedere per prescrizione, riducendo il quantum del risarcimento del danno derivante dal reato di cui all'art. 589 c.p., perchè, in qualità di medico chirurgo, cagionava, per colpa, il decesso di Z.G., persona affetta da adenocarcinoma rettale infiltrante, convincendo il paziente a non sottoporsi ad intervento chirurgico e a seguire le terapie da lui prescritte, a base di medicinali di tipo ayurvedico e di diete vegetariane, senza rivolgersi ad altri medici, che seguivano le terapie tradizionali, e, in definitiva, persuadendo il paziente che il cancro al retto sarebbe guarito, in assenza di interventi chirurgici e di terapie di tipo chemioterapico, assumendo dei medicamenti naturali e seguendo una dieta vegetariana, così favorendo un decesso anticipato del paziente.
2. Il ricorrente deduce violazione di legge e vizio di motivazione, poichè Z. dichiarò, sia nella videointervista effettuata sia in sede di consultazioni con innumerevoli sanitari, ivi compresi quelli dell'ospedale di (OMISSIS), i quali trascrissero le sue dichiarazioni, di rifiutare ogni cura tradizionale e di volersi curare soltanto con la medicina ayurvedica, specificando di essere sempre stato convinto di ciò, ancor prima di conoscere il dr. S.. Ciò dimostra che il paziente prestò il proprio consenso informato alle cure ayurvediche da quest'ultimo proposte e smentisce altresì le testimonianze di parenti e amici di Z., anche perchè la teste G. ha dichiarato ai Carabinieri che la persona offesa le aveva confidato di non volersi curare con la medicina ufficiale. Ed erroneamente la Corte d'appello ha qualificato come insinuazioni e dichiarato infondato quanto affermato nell'atto d'appello in ordine al fatto che la G. abbia trasmesso copia dei dvd, contenenti le videoregistrazioni delle interviste di Z., ai testi della difesa, C. e Ci., a scopo di subornazione. Il S. consigliò sempre a Z. di operarsi e di effettuare i prescritti accertamenti, indirizzandolo anche al chirurgo Ga. e facendosi affiancare da uno psichiatra per convincere Z. a sottoporsi all'intervento chirurgico. Tant'è che Z. non accuso mai S., che gli aveva soltanto proposto le cure ayurvediche e che non è nemmeno un seguace di H., di averlo curato male e di averlo indotto a rifuggire dalle metodiche della medicina tradizionale. E infatti il S. ad altri pazienti consigliò le terapie tradizionali, curandoli anche gratuitamente e senza mai sostituire le cure protocollari con la medicina ayurvedica, che veniva, tutt'al più, affiancata alla medicina tradizionale.
Nè il S. promise mai la guarigione al paziente, parlandogli soltanto di possibilità di curare la patologia. Non è vero nemmeno che S. non abbia rappresentato al paziente le conseguenze del suo rifiuto di sottoporsi ai protocolli riconosciuti, perchè anzi S. indusse il paziente ad effettuare meditazioni sulla morte, a dimostrazione che egli lo aveva bene informato che la cura ayurvedica da sola non avrebbe potuto guarirlo, anche se, di fatto, gli ha assicurato una buona qualità della vita sino a gennaio 2005.
2.2.In ogni caso, secondo il prof. M., luminare noto in ambito internazionale, le terapie tradizionali assicurano, relativamente al tipo di tumore in esame, una sopravvivenza di non più di 2 anni e mezzo, laddove Z. visse per circa due anni e otto mesi, con il sostegno della medicina ayurvedica. La Corte d'appello ha ignorato le osservazioni del prof. M., formulando, al riguardo, giudizi carenti e illogici.
3. Con memoria, depositata in data 27-10-2017, la parte civile, Z.A.M., ha chiesto rigetto del ricorso.
Si chiede pertanto annullamento della sentenza impugnata.
Motivi della decisione
1. La doglianza formulata con il primo motivo di ricorso è infondata. Costituisce infatti ius receptum, nella giurisprudenza della suprema Corte, il principio secondo il quale, anche alla luce della novella del 2006, il controllo del giudice di legittimità sui vizi della motivazione attiene pur sempre alla coerenza strutturale della decisione, di cui saggia l'oggettiva "tenuta", sotto il profilo logico-argomentativo, e quindi l'accettabilità razionale, restando preclusa la rilettura degli elementi di fatto posti a fondamento della decisione o l'autonoma adozione di nuovi e diversi parametri di ricostruzione e valutazione dei fatti (Cass., Sez. 3, n. 37006 del 27 -9-2006, Piras, Rv. 235508; Sez. 6, n. 23528 del 6-6-2006, Bonifazi, Rv. 234155). Ne deriva che il giudice di legittimità, nel momento del controllo della motivazione, non deve stabilire se la decisione di merito proponga la migliore ricostruzione dei fatti nè deve condividerne la giustificazione, ma deve limitarsi a verificare se questa giustificazione sia compatibile con il senso comune e con i limiti di una plausibile opinabilità di apprezzamento, atteso che l'art. 606 c.p.p., comma 1, lett. e), non consente alla Corte di cassazione una diversa interpretazione delle prove. In altri termini, il giudice di legittimità, che è giudice della motivazione e dell'osservanza della legge, non può divenire giudice del contenuto della prova, non competendogli un controllo sul significato concreto di ciascun elemento probatorio. Questo controllo è riservato al giudice di merito, essendo consentito alla Corte regolatrice esclusivamente l'apprezzamento della logicità della motivazione (ex plurimis, Cass., Sez. 3, n. 8570 del 14-1-2003, Rv. 223469; Sez. fer., n. 36227 del 3-9-2004, Rinaldi; Sez. 5, n. 32688 del 5-7-2004, Scarcella; Sez. 5, n.22771 del 15-4-2004, Antonelli).
2. Nel caso in disamina, il giudice a quo ha evidenziato che il paziente, che era orientato ad operarsi, come riferito dal prof. S.C.A. (quasi omonimo del ricorrente), dopo la visita, a Bologna, ai primi di febbraio 2003, con il dr. S.G., cambiò idea, non volendo più sottoporsi all'intervento chirurgico, in quanto quest'ultimo medico gli aveva garantito che, con le sue cure, lo avrebbe guarito. Infatti, il S., al quale il paziente si era totalmente affidato, gli prospettò la curabilità del tumore con i prodotti ayurvedici, senza chiaramente ed esplicitamente informarlo che tali cure, che per Z. costituivano una novità, non lo avrebbero portato alla guarigione e non gli avrebbero neanche assicurato tempi di sopravvivenza superiori a quelli inerenti alle cure tradizionali o una sintomatologia meno dolorosa. Così come dalle risultanze acquisite risulta smentita la tesi secondo cui S. avrebbe inviato Z. dallo psichiatra T., della cui deposizione il giudice a quo sottolinea la contraddittorietà, per convincerlo a sottoporsi all'intervento chirurgico, in quanto lo scopo era invece quello di liberarsi dalla dipendenza dalla moglie, che si era separata di fatto e di cui egli era molto innamorato. Nè dalla scheda del paziente tenuta dal dr. S., e poi sequestrata, risulta alcuna annotazione in ordine al consiglio asseritamente dato alla persona offesa di rivolgersi al chirurgo Ga..
Al riguardo, il giudice a quo ha analizzato accuratamente le risultanze della videointervista rilasciata da Z. e delle deposizioni dell'ex moglie, della nipote, del medico di base, del cugino, di colei che indirizzò il paziente al dr. S. e di altri testi. L'impianto argomentativo a sostegno del decisum è dunque puntuale, coerente, privo di discrasie logiche, del tutto idoneo a rendere intelligibile l'iter logico-giuridico seguito dal giudice e perciò a superare lo scrutinio di legittimità, avendo i giudici di secondo grado preso in esame tutte le deduzioni difensive ed essendo pervenuti alle loro conclusioni attraverso un itinerario logico-giuridico in nessun modo censurabile, sotto il profilo della razionalità, e sulla base di apprezzamenti di fatto non qualificabili in termini di contraddittorietà o di manifesta illogicità e perciò insindacabili in questa sede.
3. Fondato è invece il secondo motivo di ricorso. Secondo la giurisprudenza assolutamente dominante, è "causa" di un evento quell'antecedente senza il quale l'evento stesso non si sarebbe verificato: un comportamento umano è dunque causa di un evento solo se, senza di esso, l'evento non si sarebbe verificato (formula positiva); non lo è se, anche in mancanza di tale comportamento, l'evento si sarebbe verificato egualmente (formula negativa). Da questo concetto nasce la nozione di giudizio controfattuale ("contro i fatti"), che è l'operazione intellettuale mediante la quale, pensando assente una determinata condizione (la condotta antigiuridica tenuta dell'imputato), ci si chiede se, nella situazione così mutata, si sarebbe verificata, oppure no, la medesima conseguenza: se dovesse giungersi a conclusioni positive, risulterebbe, infatti, evidente che la condotta dell'imputato non costituisce causa dell'evento. Il giudizio controfattuale costituisce, pertanto, il fondamento della teoria della causalità accolta dal nostro codice e cioè della teoria condizionalistica.
Naturalmente, esso, imponendo di accertare se la condotta doverosa omessa, qualora eseguita, avrebbe potuto evitare l'evento, richiede preliminarmente l'accertamento di ciò che è effettivamente accaduto e cioè la formulazione del c.d. giudizio esplicativo (Cass., Sez. 4, n. 23339 del 31-1-2013, Rv. 256941).
Per effettuare il giudizio contrattuale, è quindi necessario ricostruire, con precisione, la sequenza fattuale che ha condotto all'evento.
In tema di responsabilità medica, è dunque indispensabile accertare il momento iniziale e la successiva evoluzione della malattia, in quanto solo in tal modo è possibile verificare se, ipotizzandosi come realizzata la condotta dovuta dal sanitario, l'evento lesivo sarebbe stato evitato o posticipato (Cass., Sez. 4, n. 43459 del 410-2012, Rv. 255008).
L'importanza della ricostruzione degli anelli determinanti della sequenza eziologica è stata sottolineata, in giurisprudenza, laddove si è affermato che, al fine di stabilire se sussista o meno il nesso di condizionamento tra la condotta del medico e l'evento lesivo, non si può prescindere dall'individuazione di tutti gli elementi rilevanti in ordine alla "causa" dell'evento stesso, giacchè solo conoscendo in tutti i suoi aspetti fattuali e scientifici la scaturigine e il decorso della malattia è possibile analizzare la condotta omissiva colposa addebitata al sanitario per effettuare il giudizio controfattuale, avvalendosi delle leggi scientifiche e/o delle massime di esperienza che si attaglino al caso concreto (Cass., Sez. 4, 25.5.2005, Lucarelli).
E, al riguardo, le Sezioni unite, con impostazione sostanzialmente confermata dalla giurisprudenza successiva, hanno enucleato, per quanto attiene alla responsabilità professionale del medico, relativamente al profilo eziologico, i seguenti principi di diritto: il nesso causale può essere ravvisato quando, alla stregua del giudizio controfattuale condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica - universale o statistica -, si accerti che, ipotizzandosi come realizzata dal medico la condotta doverosa, l'evento non si sarebbe verificato, ovvero si sarebbe verificato ma in epoca significativamente posteriore o con minore intensità lesiva.
Non è però consentito dedurre automaticamente dal coefficiente di probabilità espresso dalla legge statistica la conferma, o meno, dell'ipotesi accusatoria sull'esistenza del nesso causale, poichè il giudice deve verificarne la validità nel caso concreto, sulla base delle circostanze del fatto e dell'evidenza disponibile, cosìcchè, all'esito del ragionamento probatorio, che abbia altresì escluso l'interferenza di fattori eziologici alternativi, risulti giustificata e processualmente certa la conclusione che la condotta omissiva del medico è stata condizione necessaria dell'evento lesivo con "alto grado di credibilità razionale". L'insufficienza, la contraddittorietà e l'incertezza del riscontro probatorio sulla ricostruzione del nesso causale, quindi il ragionevole dubbio, in base all'evidenza disponibile, sulla reale efficacia condizionante della condotta del medico rispetto ad altri fattori interagenti nella produzione dell'evento lesivo, comportano la neutralizzazione dell'ipotesi prospettata dall'accusa e l'esito assolutorio del giudizio (Sez. U.,10.7.2002, Franzese).
Ne deriva che nelle ipotesi di omicidio o lesioni colpose in campo medico, il ragionamento controfattuale deve essere svolto dal giudice in riferimento alla specifica attività (diagnostica, terapeutica, di vigilanza e salvaguardia dei parametri vitali del paziente o altro) che era specificamente richiesta al sanitario e che si assume idonea, se realizzata, a scongiurare o ritardare l'evento lesivo, come in concreto verificatosi, con alto grado di credibilità razionale (Cass., Sez. 4, n. 30649 del 13-6-2014, Rv. 262239).
Sussiste, pertanto, il nesso di causalità tra l'omessa adozione, da parte del medico, di misure atte a rallentare o bloccare il decorso della patologia e il decesso del paziente, allorchè risulti accertato, secondo il principio di controfattualità, condotto sulla base di una generalizzata regola di esperienza o di una legge scientifica, universale o statistica, che la condotta doverosa avrebbe inciso positivamente sulla sopravvivenza del paziente, nel senso che l'evento non si sarebbe verificato ovvero si sarebbe verificato in epoca posteriore o con modalità migliorative, anche sotto il profilo dell'intensità della sintomatologia dolorosa (Cass., Sez. 4, n. 18573 del 14-2-2013, Rv. 256338).
4. La tematizzazione di tali profili è del tutto estranea al tessuto motivazionale della pronuncia impugnata, che si limita ad affermare che dal novembre 2003 i dati anamnestici riportati nella scheda tenuta dall'imputato denotano il peggioramento della sintomatologia dolorosa, che è ancor più netto dal dicembre 2004. D'altro canto, il perito ha ammesso di non poter stimare se e in che modo le terapie seguite abbiano inciso sulla sopportazione del dolore.
In ogni caso, quanto rappresentato nella intervista da Z. e riferito dai familiari sulle sue condizioni e sulla persistenza del divieto di assumere farmaci tradizionali, anche negli ultimi mesi di vita, "non lo ha aiutato" nella sopportazione del dolore. Manca del tutto l'analisi della problematica relativa agli effetti che, nel caso di specie, avrebbero avuto le terapie tradizionali. Il giudice a quo avrebbe, infatti, dovuto accertare se, praticando queste ultime, il paziente sarebbe guarito o sarebbe sopravvissuto più a lungo o se l'intensità lesiva della patologia si sarebbe affievolita, anche sotto il profilo della presenza e dell'intensità del dolore.
Viceversa, l'itinerario argomentativo del giudice a quo non si sofferma ad analizzare adeguatamente queste problematiche, essendo, per lo più, incentrato sul quesito inerente alla condotta del medico, se cioè egli avesse o meno convinto Z. a praticare le terapie ayurvediche in luogo di quelle tradizionali, anzichè sulla problematica relativa al nesso causale e, quindi, al giudizio controfattuale.
E' dunque da ravvisarsi il vizio di mancanza di motivazione, riscontrabile non solo allorchè quest'ultima venga completamente omessa ma anche quando sia priva di singoli momenti esplicativi in ordine ai temi sui quali deve vertere il giudizio (Cass., Sez. 6, n. 27151 del 27-6-2011; Sez. 6, n. 35918 del 17-6-2009, Rv. 244763).
5. La sentenza impugnata va dunque annullata agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente, per valore, in grado di appello, cui va demandata la regolamentazione delle spese tra le parti anche relativamente a questo giudizio di legittimità. Il ricorso va rigettato nel resto.
P.Q.M.
Annulla la sentenza impugnata agli effetti civili, con rinvio al giudice civile competente, per valore, in grado di appello, cui va demandata la regolamentazione delle spese tra le parti anche relativamente a questo giudizio di legittimità. Rigetta nel resto il ricorso.
Così deciso in Roma, il 16 novembre 2017.
Depositato in Cancelleria il 16 febbraio 2018