Non c'è giustificazione per chi, nel corso di una lite, sferri anche solo una coltellata all'avversario: potenzialità lesiva dell’arma utilizzata, e repentinità del colpo inferto che solo casualmente non ha colpito zone vitali indicando la volontà omicidiaria.
Corte di Cassazione, sez. I Penale, sentenza 6 luglio – 5 novembre 2018, n. 49956
Presidente Di Tomassi – Relatore Di Giuro
Ritenuto in fatto
1. Con la sentenza indicata in epigrafe la Corte di appello di Napoli, in riforma della sentenza del G.i.p. del Tribunale di Napoli, che affermava la penale responsabilità di R.G. in ordine al delitto di tentato omicidio di M.V. , e lo condannava, tenuto conto della diminuente per il rito, alla pena di anni sette di reclusione, ha riconosciuto le circostanze attenuanti generiche, riducendo la pena ad anni cinque e mesi quattro di reclusione.
1.1 Questi i fatti come ricostruiti dai Giudici del merito.
In data (omissis) alle ore 22,30 R.G. , che già con M.V. aveva avuto precedenti screzi, incrociandolo mentre lo stesso era alla guida della sua vettura, lo apostrofava con l’epiteto "(…)" (l’imputato in sede di dichiarazioni spontanee rese all’udienza dinanzi alla Corte di appello ha spiegato di avere insultato M. per averlo questi quasi investito con la propria vettura); al che M. , sceso dalla vettura, lo aggrediva, procurandogli lesioni giudicate guaribili in dieci giorni. Mentre la madre di M. , avvertita di quello che era successo, impediva al figlio, che nel frattempo era risalito sull’auto sedendosi al posto di guida, di riprendere la marcia, R. si avventava contro quest’ultimo e, aprendo la portiera dell’auto gli sferrava un colpo al collo, attingendolo alla vena giugulare esterna. M. era accompagnato subito dalla madre al Pronto Soccorso, ove veniva constatata la profondità della ferita, in relazione alla quale solo la tempestività dei soccorsi scongiuravano il peggio, essendo il suddetto arrivato in ospedale in grave pericolo di vita. L’arma non veniva rinvenuta, ma dalla tipologia della ferita si accertava che doveva trattarsi di un mezzo tagliente (R. nelle spontanee dichiarazioni rese dinanzi al Collegio di secondo grado ha riferito trattarsi di un coltellino da campeggio che era solito portare con sé).
1.2.La Corte sottolinea come in punto di qualificazione giuridica non possa che convenirsi col primo Giudice circa la sussistenza del contestato tentato omicidio, sorretto da dolo intenzionale sub specie di dolo d’impeto. Esclude che possa parlarsi di desistenza volontaria e di legittima difesa e che sia ravvisabile l’attenuante della provocazione.
1.3. Passando al trattamento sanzionatorio, la Corte territoriale ritiene, infine, di concedere, per il comportamento dell’imputato, il quale, successivamente al delitto ha indennizzato la persona offesa con una somma di importo non trascurabile (dodicimila Euro), le invocate attenuanti generiche, riducendo, alla luce degli indici tutti di cui all’art. 133 cod. pen., la pena nei termini di cui sopra.
2. Avverso detta sentenza ha proposto ricorso per cassazione, tramite il proprio difensore, R.G. .
2.1 Con il primo motivo di impugnazione vengono denunciati violazione degli artt. 192 e 533 cod. proc. pen. in relazione alle ipotesi delittuose contestate e vizio di motivazione.
La difesa rileva che sia la posizione in cui venne a trovarsi M. all’atto del ferimento sia la circostanza che venne attinto in una parte vitale del corpo non depongono univocamente ai fini dell’animus necandi. E ciò perché lo stesso M. ammette di essersi divincolato, una volta che R. aprì lo sportello dell’auto, e pertanto il ferimento del collo del primo non risulta provocato da una mirata esecuzione, ma dal movimento imprevedibile dello stesso. Sempre la difesa evidenzia come non sia vero che l’intervento della T. abbia impedito la reiterazione, in quanto, prima dello stesso, R. avrebbe potuto colpire più volte M. . E come la Corte non offra alcuna risposta alla circostanza che l’imputato, nonostante sia destrorso, abbia utilizzato per colpire la vittima la mano sinistra, che costituirebbe, al pari dell’aggressione alla parte destra del collo meno esposta, riprova dell’assenza di intento omicida e dell’occasionalità della ferita.
2.2. Col secondo motivo di impugnazione la difesa lamenta violazione dell’art. 62, n. 2, cod. pen. e vizio e/o assenza di motivazione. Rileva la difesa come sul punto la Corte territoriale abbia compiuto un evidente travisamento delle emergenze di indagine. Invero, lo stato d’ira che avrebbe determinato il R. ad agire non era provocato, come erroneamente scritto in sentenza, da una manovra spericolata di M. ma da una vera e propria aggressione posta in essere da quest’ultimo ai danni del suddetto, ammessa dalla stessa persona offesa e da sua madre. Sottolinea la difesa come il parametro dell’adeguatezza andasse commisurato con riferimento all’aggressione subita poco prima dall’imputato, rispetto alla quale ricorreva anche il presupposto del rapporto di causalità psicologica e non di mera occasionalità tra l’offesa e la reazione, essendosi palesata la pregressa condotta della persona offesa talmente ingiustificata da determinare la perdita di controllo e dei freni inibitori da parte dell’imputato.
2.3. Col terzo motivo di ricorso vengono denunciati violazione degli artt. 62 bis, 132 e 133 cod. pen. e vizio di motivazione. La difesa sottolinea come non sia in alcun modo giustificata, da parte della sentenza impugnata, la riduzione della pena per le circostanze attenuanti generiche in misura inferiore ad un terzo. E come sul punto la motivazione appaia anche contraddittoria, laddove, da un lato, esalta il positivo comportamento processuale dell’imputato e, dall’altro, non gli riduce la pena nella massima misura.
La difesa insiste, alla luce di tali motivi, per l’annullamento della sentenza impugnata.
Considerato in diritto
1. Il ricorso è infondato e va, pertanto, rigettato.
1.1. Inammissibile è il primo motivo di impugnazione.
Con lo stesso la difesa, denunciando violazione di legge e vizio di motivazione, invita ad una rivalutazione di elementi fattuali non consentita in questa sede, peraltro adducendo elementi, come la qualità di destrorso dell’imputato, in alcun modo documentati (per i quali, quindi, il ricorso non è autosufficiente), e in ogni caso per nulla decisivi.
Invero, la Corte evidenzia:
a) la potenzialità lesiva dell’arma utilizzata, seppure non rinvenuta, quale deducibile senza dubbio dall’entità della ferita, potenzialmente mortale,
b) la repentinità del colpo inferto da R. a M. , quale evincibile dalle dichiarazioni dei testimoni oculari (B.C. e T.A. , rispettivamente amico e madre della persona offesa), che non consente di ritenere fondato l’assunto difensivo secondo cui la direzione in una parte del corpo di certo vitale non era voluta, ma determinata dal movimento dei corpi dei contendenti,
c) il collegamento tra unisussistenza della condotta criminosa e intervento della madre della persona offesa, che impediva la reiterazione dei colpi.
La Corte esclude, pertanto, che possa parlarsi di desistenza volontaria e di legittima difesa.
Quanto a quest’ultimo profilo, rileva il Collegio di secondo grado che la reazione del R. , avvenuta quando la colluttazione con M. si era conclusa, non trovava più alcuna offesa ingiusta attuale da cui difendersi, ma diventava essa stessa offesa, con ogni evidenza non scriminabile, difettando, altresì, il requisito della proporzionalità, tra lesioni cagionate a mani nude e lesione potenzialmente mortale cagionata con arma tagliente.
La Corte territoriale sottolinea come la summenzionata scriminante non sia ravvisabile neppure nella forma putativa o dell’eccesso colposo, essendosi comunque l’azione di M. conclusa all’atto dell’aggressione di R. e, quindi, non essendovi una situazione antecedente che, sebbene mal rappresentata o fraintesa da parte di R. , abbia fatto insorgere in lui il convincimento di doversi difendere dal pericolo attuale di un’offesa ingiusta.
A fronte di argomentazioni scevre da vizi logici e giuridici, come quelle appena riportate, è evidente che il tornare sul fatto che M. si sia divincolato all’atto del ferimento, sulla scelta di R. di interrompere la reiterazione dei colpi, sul lato del collo oggetto di ferimento, ovvero sulla minore forza impressa nell’unico colpo sferrato, significa invocare una rivisitazione degli elementi fattuali e non confrontarsi con le suddette argomentazioni (incorrendo anche nell’aspecificità).
1.2. Il secondo motivo di impugnazione è inammissibile, in quanto altrettanto aspecifico oltre che in fatto.
La Corte di secondo grado, invero, con riferimento all’attenuante della provocazione, rileva come i testimoni oculari non abbiano fatto alcun riferimento all’antefatto narrato in udienza da R. , ossia alla precedente spericolata condotta di guida di M. , così che non si configurerebbe il prioritario requisito del "fatto ingiusto altrui", che comunque sarebbe in mero rapporto di occasionalità con la condotta successiva di R. e non di causalità psicologica.
Dette argomentazioni vanno collegate a quelle del primo Giudice, il quale rileva che "se è vero, infatti, che la condotta di R. è successiva alla violenta colluttazione avuta col M. , è altresì vero che la colluttazione stessa ha trovato origine nell’ingiuria rivolta dal R. al M. ".
Orbene, nel caso in esame, per come evidenziato in particolare dal primo Giudice, vi è un crescendo di aggressioni reciproche e non si capisce da dove siano iniziate e perché. Già il motivo di appello, che faceva perno sull’aggressione fisica di M. , non si confronta con la sentenza di primo grado. E, a maggior ragione, quello in esame, che si limita a ripercorrerlo, insistendo su una rivisitazione di elementi fattuali a fronte di argomentazioni che li approfondiscono e ne traggono logiche conclusioni.
1.3. Infondato è, infine, il terzo motivo di impugnazione. Invero, la sentenza in esame premette all’individuazione della pena base e della riduzione per le circostanze attenuanti generiche, il riferimento agli indici tutti di cui all’art. 133 cod. pen., così spiegando - in particolare riallacciandosi al resto della motivazione della sentenza impugnata e alla motivazione di primo grado, facenti leva sulla gravità del fatto per cui si procede - per quale motivo la valorizzazione del comportamento di resipiscenza manifestato dall’imputato con il risarcimento del danno, giustificativo della concessione di tali circostanze, non possa essere valorizzato oltre la misura stabilita.
2. Al rigetto consegue, ai sensi dell’art. 616 cod. proc. pen., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali.
P.Q.M.
Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali.