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Liquidazione della parcella sul valore della causa (Cass. 27789/19)

30 ottobre 2019, Cassazione civile

Ai fini della liquidazione degli onorari spettanti all’avvocato nei confronti del cliente il valore della causa si determina in base alle norme del codice di procedura civile, avendo riguardo soltanto all’oggetto della domanda, considerata al momento iniziale della lite, per cui nessuna rilevanza può attribuirsi alla somma concretamente liquidata dal giudice in sentenza, ovvero realizzata dal cliente a seguito di transazione.

In tema di liquidazione a carico del cliente è stato chiarito che l’indagine demandata al giudice di merito è quella di verificare l’attività difensiva che il legale ha dovuto apprestare tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l’importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato rispetto all’effettivo valore della controversia, come nel caso in cui il legale abbia esagerato in modo assolutamente ingiustificato la misura della pretesa azionata in evidente sproporzione rispetto a quanto poi attribuito alla parte assistita, perché in tali casi - a prescindere dai profili di responsabilità ascrivibili al professionista - il compenso preteso alla stregua della relativa tariffa non può essere considerato corrispettivo della prestazione espletata stante la sua obiettiva inadeguatezza rispetto alla attività svolta.

 

Corte di Cassazione

sez. II Civile, sentenza 3 luglio – 30 ottobre 2019, n. 27789
Presidente Campanile – Relatore Tedesco

Fatti di causa

L’avv. M.J. , con ricorso ai sensi dell’art. 702-bis c.p.c., al Tribunale di Bologna, deduceva di avere difeso la C di S.R. in una controversia da questa proposta contro la G S.p.A., che le parti avevano definito con transazione.
In forza di tale transazione la G S.p.A aveva corrisposto alla S. la somma di Euro 4.500,00 oltre Iva al 20%, in luogo di quella inizialmente pretesa dalla cliente di Euro 20.186,80.
Chiedeva quindi nei confronti di ambedue le parti in causa, in forza dell’art. 68 dell’allora vigente legge professionale, il pagamento della somma di Euro 3.492,51, di cui Euro 1.131,00 per diritti, Euro 2.220,00 per onorari e Euro 1.411,51 per spese vive.
Il tribunale affermava che il valore della causa doveva determinarsi sulla base alla somma oggetto di transazione, non sul maggior valore oggetto della domanda, come pretendeva il professionista; negava il rimborso delle spese vive, ritenendole non documentate; escludeva la ripetizione delle spese sostenute per la retribuzione del domiciliatario.
Quindi pronunciava condanna per la minore somma di Euro 1.540,00, con compensazione delle spese di lite in presenza di reciproca soccombenza.
La Corte d’appello di Bologna confermava la sentenza.
Per la cassazione della sentenza il M. ha proposto ricorso affidato a cinque motivi.
La causa è stata fissata per la trattazione in pubblica udienza a seguito del rinvio a nuovo ruolo per la rinnovazione della notificazione del ricorso nei confronti di S.R. , che è rimasta intimata.
È del pari rimasta intimata la G S.p.A..

Ragioni della decisione

Il primo motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 6, comma 2, della tariffa professionale di cui al D.M. n. 127 del 2004 e degli artt. 10 e 14 c.p.c..
Ad avviso del ricorrente, ai fini della liquidazione degli onorari nei confronti della propria cliente, lo scaglione doveva essere determinato in base alla domanda proposta nel giudizio poi definito con la transazione.
Il tribunale, erroneamente, ha invece liquidato il dovuto sulla base del valore realizzato dalla cliente con la transazione. Ciò aveva comportato la liquidazione in base allo scaglione per le cause di valore fino a Euro 5.200,00, mentre lo scaglione di riferimento corretto era quello superiore, per le cause da Euro 5.200,00 fino a Euro 25.900,00.
Il secondo motivo denuncia nullità della sentenza per apparenza della motivazione, con riferimento al motivo d’appello relativo all’omessa liquidazione delle spese vive, comprese le spese di domiciliazione.
Il terzo motivo denuncia nullità della sentenza per omessa motivazione in merito alla questione, dibattuta in causa, se il valore della controversia dovesse considerare anche l’Iva sulla somma pagata in forza della transazione.
Si sostiene che il valore della causa andava determinato nella somma di Euro 5.400,00, comprensiva di Iva, il che comportava l’applicazione del medesimo scaglione applicabile sulla base del credito oggetto della domanda.
Il quarto motivo ripropone la medesima questione sotto il profilo della violazione di legge.
Il valore della causa deve tenere conto anche di quanto dovuta dal debitore per l’Iva.
Il quinto motivo denuncia violazione e falsa applicazione dell’art. 92 c.p.c..
La riduzione della pretesa non dà luogo a reciproca soccombenza. Il primo motivo è fondato.
A norma dell’art. 6, comma 2, della tariffa professionale approvata con il D.M. 8 aprile 2004, n. 127 "nella liquidazione degli onorari a carico del cliente, può aversi riguardo al valore effettivo della controversia, quando esso risulti manifestamento diverso da quello presunto a norma del codice di procedura civile".
È stato chiarito che tale norma trova applicazione solo in riferimento alle cause per le quali si proceda alla determinazione presuntiva del valore, in base a parametri legali, e non pure allorquando il valore della causa sia stato in concreto dichiarato, dovendosi, in tale situazione, utilizzare il disposto dell’art. 10 c.p.c., senza necessità di motivare in ordine alla mancata adozione di un diverso criterio (cfr. Cass., S.U. n. 5615/1998; Cass. n. 8660/2010; n. 19098/2014; n. 25893/2016).


In particolare, poi, per quanto concerne il caso di controversia definita a seguito di transazione fra le parti, è stato affermato che il valore della causa, ai fini della liquidazione degli onorari spettanti all’avvocato nei confronti del cliente, si determina, in base alle norme del codice di procedura civile, avendo riguardo soltanto all’oggetto della domanda, considerata al momento iniziale della lite, per cui nessuna rilevanza può attribuirsi alla somma concretamente liquidata dal giudice in sentenza, ovvero realizzata dal cliente a seguito di transazione (Cass. n. 2017/1666; 3496/75).
Sempre in tema di liquidazione a carico del cliente è stato chiarito che l’indagine demandata al giudice di merito è quella di verificare l’attività difensiva che il legale ha dovuto apprestare tenuto conto delle peculiarità del caso specifico, in modo da stabilire se l’importo oggetto della domanda possa costituire un parametro di riferimento idoneo ovvero se lo stesso si riveli del tutto inadeguato rispetto all’effettivo valore della controversia, "come nel caso in cui il legale abbia esagerato in modo assolutamente ingiustificato la misura della pretesa azionata in evidente sproporzione rispetto a quanto poi attribuito alla parte assistita, perché in tali casi - a prescindere dai profili di responsabilità ascrivibili al professionista - il compenso preteso alla stregua della relativa tariffa non può essere considerato corrispettivo della prestazione espletata stante la sua obiettiva inadeguatezza rispetto alla attività svolta" (Cass. n. 13229/2010; n. 18507/2018).
Nella fattispecie il valore della controversia era stato oggetto di specifica dichiarazione, avendo l’attore agito per la condanna al pagamento di una somma determinata nel quantum. Tuttavia la sentenza impugnata, in contrasto con detti principi e con il disposto dell’art. 10 c.p.c., secondo cui "il valore della causa, ai fini della competenza, si determina dalla domanda a norma delle disposizioni seguenti", nonché con il disposto dell’art. 14 c.p.c. (ai cui sensi "nelle cause relative a somme di denaro o a beni mobili, il valore si determina in base alla somma indicata o al valore dichiarato dall’attore..."), ha affermato che il valore della causa andava determinato avendo riguardo alla "somma emergente dalla transazione intervenuta a sua definizione", invece di quella superiore oggetto della domanda, senza minimamente accennare a una ipotesi di ingiustificata esagerazione della pretesa da parte del difensore.
In questi limiti la censura, con riferimento alla individuazione dello scaglione di riferimento per la liquidazione di onorari e diritti, deve essere accolta.
È fondato anche il secondo motivo.
La sentenza a proposito delle spese vive così si esprime: "analogamente infondata la doglianza quanto alla lamentata esclusione delle spese vive, per converso analiticamente motivato alla stregua degli esborsi effettivamente risultanti e quindi con espunzione di quelle di pertinenza del domiciliatario (...)".
È stato chiarito che la sentenza pronunziata in sede di gravame è legittimamente motivata per relationem ove contenga espliciti riferimenti alla pronuncia di primo grado, facendone proprie le argomentazioni in punto di diritto, e fornisca, pur sinteticamente, una risposta alle censure formulate, nell’atto di appello e nelle conclusioni, dalla parte soccombente, risultando così appagante e corretto il percorso argomentativo desumibile attraverso l’integrazione della parte motiva delle due sentenze (Cass. n. 21037/2018).
Insomma "la motivazione della sentenza per relationem è ammissibile, purché il rinvio venga operato in modo tale da rendere possibile ed agevole il controllo della motivazione, essendo necessario che si dia conto delle argomentazioni delle parti e dell’identità di tali argomentazioni con quelle esaminate nella pronuncia oggetto del rinvio" (Cass. n. 21978/2018).
Nulla di tutto ciò nel caso in esame, posto che la sentenza si esaurisce nella perentoria e immotivata affermazione che tribunale avrebbe adeguatamente motivato, accordando i rimborsi dovuti ed escludendo quelli non dovuti.
La laconicità e di tale motivazione non consente di "appurare che alla condivisione della decisione di prime cure il giudice d’appello sia pervenuto attraverso l’esame e la valutazione di infondatezza dei motivi di gravame previa specifica ed adeguata considerazione delle allegazioni difensive, degli elementi di prova e dei motivi di appello" (Cass. n. 22022/2017).
Assorbiti gli altri motivi.
La sentenza è cassata in relazione ai motivi accolti, con rinvio ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna che provvederà a nuovo esame e liquiderà le spese del presente giudizio.

P.Q.M.

accoglie il primo e il secondo motivo; dichiara assorbiti il terzo e il quarto e il quinto; cassa la sentenza impugnata in relazione ai motivi accolti; rinvia ad altra sezione della Corte d’appello di Bologna anche per le spese.