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Legittimo impedimento quale giudice in altro procedimento (Cass. 78/20)

3 gennaio 2020, Cassazione penale

Impedimento professionale: istanza di rinvio deve esser tempestivo e motivato con riguardo alla impossibilità di farsi sostituire. 

 

Corte di Cassazione

sez. V Penale, sentenza 30 ottobre 2019 – 3 gennaio 2020, n. 78
Presidente Catena – Relatore Borrelli

Ritenuto in fatto

1. Il 18 luglio 2018À la Corte di appello di Bologna ha confermato la condanna inflitta a F.L. e T.S. dal Tribunale di Ferrara per i reati di bancarotta fraudolenta documentale e bancarotta fraudolenta distrattiva (quest’ultima per un prelievo soci effettuato a loro favore), nelle rispettive qualità di amministratore di fatto ed amministratore di diritto della "(omissis) s.r.l." dichiarata fallita dal Tribunale di Ferrara il 3 ottobre 2007.
2. Avverso la predetta decisione hanno proposto ricorso per cassazione entrambi gli imputati a mezzo dei rispettivi difensori.
3. Il ricorso del F. si compone di un unico motivo.
Il ricorrente lamenta la nullità assoluta della sentenza di secondo grado ai sensi dell’art. 179 c.p.p., comma 1, e art. 420 ter c.p.p., comma 5) perché il processo di appello, all’udienza del 18 luglio 2018, era stato trattato e concluso, alla presenza di un sostituto del difensore di fiducia ex art. 97 c.p.p., comma 4, nonostante l’Avv. DM avesse comunicato via PEC, fin dal 26 aprile 2018 (PEC regolarmente inserita agli atti della Corte territoriale), il suo impedimento a presenziare/ in quanto contestualmente impegnato quale Giudice onorario presso il Tribunale di Padova, come da documentazione che aveva da tempo fornito al Collegio di merito. Da tale documentazione, che riguardava appunto i turni di udienza del Tribunale di Padova, la Corte di appello aveva già tratto motivo per rinviare la precedente udienza del 19 aprile al 18 luglio 2018.
4. Il ricorso della T. consta di un unico motivo, suddiviso in vari segmenti, con i quali si lamentano vizi motivazionali.
4.1. Era errata l’affermazione della Corte di appello secondo cui la ricorrente sarebbe stata legale rappresentante della società per tutto il periodo di operatività della società, dal momento che, come risulta dalla visura storica del registro delle imprese prodotta in primo grado e dalla stessa sentenza del Tribunale di Ferrara, la T. era cessata dalla carica il 24 febbraio 2006 (invece che nella data indicata nell’imputazione del 23 agosto 2006).
4.2. Il dissesto della società aveva cominciato a manifestarsi quando la T. aveva dismesso la carica, tanto che i più risalenti tra i crediti ammessi al passivo risalgono al 24 febbraio 2006, data di dismissione della carica da parte della T. .
4.3. Quanto alla bancarotta fraudolenta documentale, nonostante la doglianza in appello concernente il libro giornale, la Corte territoriale si era limitata a richiamare le motivazioni del Tribunale.
5. Il 16 ottobre 2019 il difensore della T. ha depositato una memoria, in cui ha:
a) affermato di condividere la doglianza processuale del F. , peraltro avendo fatto affidamento anch’ella sul rinvio dell’udienza dinanzi alla Corte di appello del 18 luglio 2019. Nel caso di annullamento, data la correlazione delle posizioni, chiede che la sentenza sia annullata anche quanto alla sua posizione.
b) ribadito che i primi crediti ammessi al passivo risalgono a periodo successivo alla dismissione della sua carica di amministratore.

Considerato in diritto

1. I ricorsi sono entrambi infondati e vanno, pertanto, respinti, ma la sentenza va annullata, di ufficio, quanto alle pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, u.c..
2. Quanto al ricorso del F. , giova ricordare che il ricorrente lamenta la nullità assoluta della sentenza di secondo grado, ai sensi dell’art. 179 c.p.p., comma 1, e art. 420 ter c.p.p., comma 5, perché il processo di appello, all’udienza del 18 luglio 2018, era stato trattato e concluso alla presenza di un sostituto del difensore di fiducia ex art. 97 c.p.p., comma 4, nonostante l’Avv. DM avesse comunicato via PEC, fin dal 26 aprile 2018 (PEC regolarmente inserita agli atti della Corte territoriale), il suo impedimento a presenziare in quanto contestualmente impegnato quale Giudice onorario presso il Tribunale di Padova, come da documentazione che aveva da tempo fornito.
Ebbene, il ricorso non merita accoglimento a prescindere dal silenzio del Collegio di appello sull’istanza di rinvio, in quanto lo scrutinio diretto della medesima induce questa Corte a ritenere che essa non fosse fondata.

2.1. Tale scrutinio diretto trova legittimazione nella giurisprudenza di questa Corte che il Collegio condivide secondo cui, qualora sia sottoposta al vaglio del giudice di legittimità la correttezza di una decisione in rito, la Corte stessa è giudice dei presupposti della decisione, sulla quale esercita il proprio controllo, a prescindere dal ragionamento esibito per giustificarla (Sez. 5, n. 19970 del 15/03/2019, Girardi, Rv. 275636; Sez. 5, n. 17979 del 05/03/2013, Iamonte e altri, Rv. 255515; in termini, Sez. 5, n. 15124 del 19/03/2002, Ranieri FG ed altri, Rv. 221322). Per delibare sulla questione in rito, la Corte di cassazione può e deve accedere all’esame dei relativi atti processuali, viceversa precluso quando si tratti di vizio di motivazione ex art. 606.1 lett. e) (Sez. U, n. 42792 del 31/10/2001, Policastro, Rv. 220092; Sez. 3, n. 24979 del 22/12/2017, dep. 2018, F e altri, Rv. 273525; Sez. 1, n. 8521 del 09/01/2013, Chahid, Rv. 255304).

Ne consegue che il vaglio della Corte di cassazione, in presenza di una censura di carattere processuale, prescinde dalla motivazione addotta dal Giudice a quo a sostegno della scelta avversata dal ricorrente e, anche accedendo agli atti, il Giudice di legittimità deve valutare la correttezza in diritto della decisione adottata, quand’anche non correttamente giustificata o non giustificata affatto da quello di merito.
2.2. Ebbene, questo scrutinio diretto ha condotto alla conclusione che l’istanza di rinvio dell’Avv. M non meritasse comunque accoglimento e che, di conseguenza, la sua pretermissione non abbia determinato alcuna nullità.

A questo proposito, il Collegio intende prestare seguito, condividendolo, al principio di diritto sancito da un precedente di questa Corte, secondo cui il concomitante impegno del difensore nell’esercizio della funzione di vice procuratore onorario (ma il discorso sostanzialmente non muta per il g.o.t.) può sì essere assimilato all’impegno professionale in altro procedimento, sempre che, tuttavia, lo stesso presenti i requisiti per costituire legittimo impedimento, ai sensi dell’art. 420 ter c.p.p., comma 5, (Sez. 5, n. 2083 del 12/11/2018, dep. 2019, Ginevra, Rv. 275303). Donde - adattando alla coeva funzione quale Giudice onorario i requisiti individuati, ex multis da Sez. U, n. 4909 del 18/12/2014, dep. 2015, Torchio, Rv. 262912 in tema di impegno professionale concomitante è necessario comunque che il difensore prospetti l’impedimento non appena conosciuta la contemporaneità dei due impegni e rappresenti l’impossibilità, nel concomitante impegno di natura pubblica, di essere sostituito da altro soggetto idoneo allo svolgimento della medesima funzione, nonché l’impossibilità di avvalersi di un sostituto, ai sensi dell’art. 102 c.p.p., nel processo di cui si chiede il rinvio.

Ebbene, l’istanza dell’Avv. M, pur essendo stata tempestivamente formulata e documentata, non indicava le ragioni per le quali non era possibile la sua sostituzione quale Giudice onorario nè quelle per cui il predetto non potesse farsi sostituire nel processo pendente dinanzi alla Corte di appello di Bologna a carico dell’odierno ricorrente. Ora, se le prime possono essere intuitive - si pensi alla necessità di non cambiare la persona fisica del giudicante per evitare problemi di rinnovazione le seconde avrebbero richiesto un’apposita spiegazione, che nell’istanza in atti non si rinviene.

3. La risposta all’unico motivo di ricorso della T. impone osservazioni articolate in ragione dei segmenti in cui è suddivisa l’impugnativa, osservazioni che conducono a ritenere che anche il suo ricorso sia infondato.

3.1. Occorre, in primo luogo, precisare che l’affermazione della Corte di appello stigmatizzata nel ricorso - secondo cui la T. sarebbe stata legale rappresentante della (OMISSIS) per tutto il periodo di operatività della società e non, come accertato, solo fino al 24 febbraio 2006, si risolve in un’equivocità solo lessicale, ma non sostanziale. Ed invero, ricalcando in parte quanto già osservato dal Tribunale (che, cioè, la T. era stata "legale rappresentante della società per tutto il periodo della sua concreta operatività", pag. 10), la Corte territoriale ha del pari affermato che tale carica ella aveva rivestito "per tutto il periodo della sua operatività"; ciò non significa non aver rilevato la cessazione della carica al 26 febbraio 2006 (dismissione già focalizzata dal Tribunale), ma di avere ritenuto che, per tutto il periodo in cui la società era stata concretamente operativa, la T. ne era stata l’amministratrice.
3.2. Prosegue la ricorrente, affermando che il dissesto della società aveva cominciato a manifestarsi quando ella aveva dismesso la carica, tanto che i più risalenti tra i crediti ammessi al passivo risalgono al 24 febbraio 2006, data di dismissione della carica da parte della T. .
Orbene, a prescindere dall’insorgenza delle difficoltà dell’impresa fin dal 2005 che risulta dalla sentenza di primo grado, ai fini del giudizio di responsabilità comunque non rilevano nè l’epoca dell’emersione dell’insolvenza nè quella dell’insorgenza dei crediti, quanto, piuttosto, che siano state comunque perpetrate condotte incidenti negativamente sulla garanzia patrimoniale a disposizione del ceto creditorio. In questo senso, i dati positivi rimarcati dalla ricorrente non hanno implicazioni in bonam partem, dal momento che ella ha comunque commesso/o consapevolmente consentito)che F. commettesse atti predatori rispetto al patrimonio della società, senza che rilevi che essi siano stati o meno posti in essere in un periodo di decozione.
Tale conclusione è frutto dell’adesione del Collegio all’esegesi di questa Corte, secondo cui non è richiesta l’esistenza di un nesso causale tra i fatti di bancarotta ed il successivo fallimento, nè tra la condotta dell’autore e il dissesto dell’impresa, essendo sufficiente che l’agente abbia cagionato il depauperamento di quest’ultima destinandone le risorse ad impieghi estranei alla sua attività (Sez. U, n. 22474 del 31/03/2016, Passarelli, Rv. 266804; Sez. 5, n. 13910 del 08/02/2017, Santoro, Rv. 269389; Sez. 5, n. 47616 del 17/07/2014, Simone, Rv 261683; Sez. 5, n. 32352 del 07/03/2014, Tanzi ed altri, Rv. 261942).
3.3. Il ricorso è infondato anche per quanto concerne la bancarotta fraudolenta documentale, come può evincersi dalla lettura congiunta delle sentenze di primo e secondo grado. A questo riguardo ed a dispetto della censura motivazionale diretta alla tecnica argomentativa della Corte di appello - occorre ricordare che, nel giudizio di appello, è consentita la motivazione per relationem alla pronuncia di primo grado, nel caso in cui le censure formulate dall’appellante - come è accaduto nella specie non contengano elementi di novità rispetto a quelle già condivisibilmente esaminate e disattese dalla sentenza richiamata (Sez. 2, n. 30838 del 19/03/2013, Autieri e altri, Rv. 257056; Sez. 6, n. 17912 del 07/03/2013, Adduci e altri, Rv. 255392; Sez. 6, n. 28411 del 13/11/2012, dep. 2013, Santapaola e altri, Rv. 256435).
Ebbene, dalla sentenza di primo grado si evince che le scritture consegnate alla curatela non consentivano di ricostruire le vicende economiche e patrimoniali della società. Mancavano, infatti, il libro inventari ed il libro dei beni ammortizzabili, il libro giornale era aggiornato solo al dicembre 2005 (mentre vi erano state operazioni fino al 24 febbraio 2006) e presentava diverse cancellature (addirittura, nelle scritture, è stato ritrovato un post-it con su scritto "cancellare qui"); inoltre, il conto cassa era inspiegabilmente negativo, le risultanze del conto "Unicredit banca" erano difformi da quanto emergeva dalla documentazione bancaria ed il conto soci indicava un prelievo di 100.000 Euro, senza specificare a beneficio di quale socio esso fosse stato effettuato.
Di fronte a queste specifiche proposizioni, l’appellante si era limitato ad opporre la regolare compilazione del libro giornale - peraltro già smentita dal Tribunale e, comunque, irrilevante alla luce della situazione complessiva delle scritture - donde la Corte territoriale, non avendo doglianze specifiche su cui soffermarsi, non è incorsa in alcuna omissione motivazionale nel momento in cui ha fatto rinvio per relationem alla sentenza di primo grado.
5. Come già anticipato, la sentenza va annullata, di ufficio, per quanto concerne il profilo della durata delle pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, u.c., applicate agli imputati in relazione al reato di bancarotta fraudolenta per la durata fissa di dieci anni.
5.1. La necessità dell’annullamento con rinvio in punto di pene accessorie deriva dalla recente evoluzione sia della giurisprudenza costituzionale che di quella di legittimità.
Con la sentenza n. 222 del 5 dicembre 2018, la Corte costituzionale ha, infatti, dichiarato l’illegittimità costituzionale della L. Fall., art. 216, u.c., nella parte in cui dispone che la condanna per uno dei fatti di bancarotta fraudolenta importa l’applicazione delle anzidette pene accessorie per la durata fissa di dieci anni, anziché fino a dieci anni. Il testo della norma, risultante dalla dichiarazione di illegittimità costituzionale, si applica con efficacia ex tunc anche nel presente processo in corso, secondo il disposto dell’art. 136 Cost., comma 1, e Legge costituzionale 11 marzo 1953, n. 87, art. 30, comma 3.
Ne consegue che oggi, a prescindere dall’assenza di uno specifico motivo di ricorso, si impone la necessità di operare una rimodulazione della durata delle pene accessorie in discorso che tenga conto del venir meno della rigidità della disposizione dichiarata incostituzionale, rigidità che rende illegale, in parte qua, il trattamento sanzionatorio.
5.2. Quanto al concreto epilogo annullamento con o senza rinvio – del processo di adeguamento al quadro normativo ridisegnato dalla Consulta, soccorre una recentissima decisione delle Sezioni Unite di questa Corte (Sez. U, n. 28910 del 28/02/2019, dep. il 03/07/2019), che hanno statuito il principio secondo cui "Le pene accessorie per le quali la legge indica un termine di durata non fissa, devono essere determinate in concreto dal giudice in base ai criteri di cui all’art. 133 c.p.", e che ne hanno fatto discendere la conseguenza per cui "implicando valutazioni sul fatto, che eccedono i limiti del sindacato di legittimità, sarà dunque compito del giudice di rinvio individuare, in piena libertà cognitiva, la misura congrua ed adeguata al caso delle sanzioni accessorie fallimentari, facendo ricorso ai criteri di cui all’art. 133 c.p., e dando conto nella motivazione delle considerazioni svolte".

P.Q.M.

annulla la sentenza impugnata, limitatamente alla determinazione delle pene accessorie di cui alla L. Fall., art. 216, u.c., con rinvio ad altra sezione della Corte di appello di Bologna. Rigetta nel resto il ricorso.