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Indennizzo per uso negato della cosa comune (Cass. 11486/10)

12 maggio 2010, Cassazione civile

Il comproprietario che, nonostante la richiesta formulata, non è messo nelle condizioni di godere per la sua quota del bene comune ex art. 1102 c.c. da parte del possessore, ha diritto ad essere indennizzato per la compressione del suo diritto.

 

Cassazione di Cassazione

Sez. II Civile, 12.05.2010 n. 11486

sentenza

 
Presidente Dott. Schettino Olindo

Relatore Dott. Mazzacane Vincenzo

 


SVOLGIMENTO DEL PROCESSO

Con atto di citazione del marzo 1994 B.S.L. conveniva in giudizio dinanzi al Tribunale di Udine il coniuge separato C.S. e, premesso che l'esponente ed il marito erano proprietari di parte di un immobile sito in (OMISSIS), nelle rispettive quote di 1/3 e di 2/3, chiedeva procedersi allo scioglimento della comunione ed al riconoscimento in proprio favore di un equo compenso per l'uso in via esclusiva fatto dal C. del bene comune.

Si costituiva in giudizio il convenuto assumendo che i coniugi avevano già sciolto la comunione, considerato che alla B. era stato assegnato in proprietà l'alloggio al secondo piano dello stabile di (OMISSIS) come concordato nella convenzione scritta del (OMISSIS).

Il Tribunale adito con sentenza 24-8-1999 rigettava la domanda attrice, ritenendo già sciolta la comunione tra le parti con la convenzione del (OMISSIS), e privo di significato concreto il cenno al permanere della comunione, presente nel successivo atto notarile del (OMISSIS).

Proposto gravame da parte della B. cui resisteva il C. la Corte di Appello di Trieste con sentenza non definitiva del 24-8- 2002, in riforma della decisione di primo grado, dichiarava sciolta la comunione esistente tra le parti in relazione al suddetto immobile, piano terra, primo e terzo piano, disponeva procedersi alla divisione secondo le quote di 1/3 per la B. e di 2/3 per il C. come risultanti dall'atto per notaio F. del (OMISSIS), e con separata ordinanza rimetteva la causa in istruttoria per il prosieguo.

Successivamente la stessa Corte territoriale con sentenza definitiva del 14.1.2004 ha assegnato al C. la porzione del predetto immobile costituita dai locali al piano terra ed al primo piano, ed alla B. la porzione dello stesso immobile costituito dall'appartamento al terzo piano dello stabile di (OMISSIS), ha disposto il versamento a carico del C. ed in favore della B. a titolo di conguaglio della somma di Euro 27.800,00 con gli interessi legati dal 1-3-2003, ed ha condannato il C. al pagamento in favore dell'appellante a titolo di indennizzo dell'ulteriore somma di Euro 10.000,00 con gli interessi legali dal 1- 3-2003.

Per la cassazione di entrambe le suddette sentenze il C. ha proposto un ricorso affidato a quattro motivi illustrato successivamente da una memoria cui la B. ha resistito con controricorso.

MOTIVI DELLA DECISIONE

Preliminarmente deve essere esaminata l'eccezione della controricorrente di inammissibilità del ricorso proposto nei confronti della sentenza definitiva del 14-1-2004 della Corte di appello di Trieste.

La B., premesso che con comparsa del 29-1-2003 si era costituito nel giudizio di appello per il C. il nuovo difensore avvocato MA la controparte aveva eletto domicilio, e che l'A. era iscritto all'Albo degli avvocati presso il Tribunale di Udine, rileva che ai sensi del R.D. 22 gennaio 1934, n. 37, art. 82 il C. nel secondo grado di giudizio era domiciliato presso la Cancelleria della Corte di Appello di Trieste (atteso che in base a tale norma, se il procuratore assegnato fuori della circoscrizione del Tribunale ove ha sede l'autorità giudiziaria dinanzi alla quale svolge il suo ufficio non vi ha eletto domicilio, esso si intende eletto presso la Cancelleria del giudice adito); orbene la suddetta sentenza definitiva del 14-1-2004 era stata notificata il 18-2-2004 presso tale Cancelleria, cosicchè, essendo stato notificato il ricorso il 3-1-2005, la controparte era decaduta dalla impugnazione.

L'eccezione è infondata.

Questa Corte ritiene di dover aderire all'orientamento che sostiene che il richiamato art. 82 - secondo cui i procuratori che esercitano il proprio ufficio in un giudizio che si svolge "fuori della circoscrizione del tribunale" al quale sono assegnati devono, all'atto della costituzione in giudizio, eleggere domicilio nel luogo dove ha sede l'autorità giudiziaria presso la quale il giudizio è in corso e, in mancanza dell'elezione di domicilio, questo si intende eletto presso la Cancelleria della stessa autorità giudiziaria - si applica al giudizio di primo grado, come si evince dal riferimento alla "circoscrizione del tribunale", e trova applicazione al giudizio di appello solo se trattasi di procuratore esercente fuori dal distretto, attesa la "ratio"della disposizione, volta ad evitare di imporre alla controparte l'onere di una notifica più complessa e costosa se svolta al di fuori della circoscrizione dell'autorità giudiziaria procedente e ad escludere un maggiore aggravio della notifica ove il procuratore sia assegnato al medesimo distretto dove si svolge il giudizio di impugnazione; ne consegue che, qualora il procuratore sia esercente all'interno del distretto, la notifica della sentenza di primo grado effettuata presso la Cancelleria della Corte di Appello (come appunto si è verificato nella fattispecie), è inidonea a far decorrere il termine breve di sessanta giorni per l'impugnazione (Cass. 11-6-2009 n. 13587).

Venendo quindi all'esame del ricorso, si osserva che con il primo motivo il C., deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 1350 c.p.c., n. 11, artt. 1362 e 1376 c.c. censurano la sentenza non definitiva del 24-8-2002 della Corte territoriale per aver ritenuto che le parti, al momento di dare attuazione alla convenzione patrimoniale del (OMISSIS), avevano manifestato la volontà di modificarne il contenuto.

Il ricorrente sostiene che in realtà le parti con la scrittura del (OMISSIS) avevano espressamente definito i propri rapporti patrimoniali con l'attribuzione all'esponente della proprietà esclusiva delle porzioni di immobile di cui la controparte assumeva di essere contitolare (come dato atto in occasione dell'udienza di comparizione del 4-10-1989 dei coniugi dinanzi al Presidente del Tribunale nell'ambito del giudizio di separazione personale), cosicchè il richiamato accordo non necessitava di alcuna attuazione, con il conseguente superamento degli elementi presuntivi dai quali il giudice di appello ha tratto il convincimento che il C., sottoscrivendo il rogito notarile del (OMISSIS), avesse manifestato l'intendimento di ricostituire la ormai già disciolta comunione.

D'altra parte la mancanza di una qualsiasi volontà delle parti di revocare il precedente atto di divisione era confermato da un lato dalla missiva inviata il (OMISSIS) dall'avv. De Luca (legale della B.) all'esponente (nella quale, nell'invitare il C. a recarsi presso lo studio del notaio F. in data (OMISSIS), veniva richiamata la convenzione del (OMISSIS) senza contestarla in alcun modo), e/dall'altro lato da alcune affermazioni del notaio rogante (che aveva dichiarato di non ricordare se le parti avessero voluto superare il contenuto della convenzione del (OMISSIS) e se l'art. 5 del rogito corrispondesse ad un criterio di divisione sostanziale degli immobili).

Con il secondo motivo il ricorrente, denunciando violazione e falsa applicazione degli artt. 2697 e 2721 c.c., rileva che, contrariamente all'assunto del giudice di appello, le parti nella già menzionta udienza presidenziale del 4-10-1989 avevano dato espressamente atto di aver definito i loro rapporti patrimoniali in data (OMISSIS);

quanto poi all'espressione stralcio divisionale contenuta nel rogito notarile del (OMISSIS), lo stesso notaio F. ne aveva chiarito il significato, riguardante la separazione dalla residua massa attiva di una porzione dell'immobile che veniva attribuita alla B..

Infine il C. censura l'ulteriore elemento presuntivo configurato dalla Corte territoriale riguardo ad un asserito inadempimento dell'esponente agli obblighi assunti ed in particolare all'obbligazione di rendere a proprie spese autonoma l'unità immobiliare sita al secondo piano dell'edificio in (OMISSIS); invero di tale preteso inadempimento non recava alcuna traccia la già richiamata missiva dell'avv. De Luca che solo cinque giorni prima della sottoscrizione del rogito invitava l'esponente a dare attuazione alla convenzione del (OMISSIS); inoltre la tesi del giudice di appello avrebbe condotto alla assurda conclusione di una liquidazione in favore della B. di una quota superiore a quella che le sarebbe spettata in assenza di una qualsiasi convenzione (ovvero la metà di L. duecento milioni corrispondente al valore complessivo dei beni oggetto di divisione), cioè L. 60 milioni di lire più la metà dei 150 milioni residui per un totale di L. 135 milioni.

Le enunciate censure, da esaminare contestualmente per ragioni di connessione, sono infondate. li giudice di appello, premesso come dato certo la volontà delle parti di disciplinare con l'atto del (OMISSIS) la divisione de bene comune in vista della loro prossima separazione personale, ha ritenuto che con l'atto notarile del (OMISSIS) esse avevano inteso superare la precedente pattuizione proprio nel momento di darle la necessaria attuazione rogando il titolo indispensabile per la trascrizione nei Registri Immobiliari.

In tal senso la Corte territoriale ha fatto anzitutto riferimento all'espressione "stralcio divisionale" adottata nell'atto, che lasciava intendere la permanenza per il resto del regime della comunione; ha poi osservato che, considerato che le quote originarie erano pari al 50% per ciascun comproprietario e che il valore assegnato dalle parti al bene stralciato era corrispondente del valore complessivo, le parti, nel dare atto che le quote di comunione sulla parte residua dell'immobile erano rispettivamente di 1/3 per la B. e di 2/3 per il C., avevano utilizzato una formula del tutto congrua al fine perseguito di adattare la quota della Bulfone alla nuova situazione delineatasi dopo lo stralcio; d'altra parte la diversa opinione manifestata dal giudice di primo grado non si era fatta carico di spiegare le ragioni per le quali la B., pur titolare della proprietà di metà dell'edificio in comunione tra le parti, si sarebbe dovuta accontentare di un alloggio del valore indicato dalle parti di sole L. 50 milioni; in realtà la diversa pattuizione di cui alla convenzione del settembre 1989 era giustificata dal fatto che la B., oltre ad essere assegnataria dell'alloggio al secondo piano, si sarebbe avvalsa delle opere edili necessarie per rendere completamente autonomo tale bene dal resto dell'edificio, opere che il C. si era obbligato ad eseguire e che invece non aveva eseguito, come ammesso dallo stesso appellato.

Tale interpretazione della volontà contrattuale delle parti era poi confortata, ad avviso della sentenza impugnata, dalla deposizione del teste notaio F. (che, come già detto, si era occupato della redazione del rogito del (OMISSIS)), che aveva in particolare dichiarato che le parti erano giunte a stipulare il rogito dopo laboriose discussioni, avendo la B. lamentato il mancato rispetto, da parte del marito, degli obblighi assunti con la convenzione del (OMISSIS), e che la clausola n. 6 del rogito indicava le nuove quote di comproprietà proprio in conseguenza dei valori assegnati al bene comune ed alla porzione da assegnare all'appellante per lo stralcio.

Orbene alla luce delle evidenziate considerazioni è agevole affermare che la Corte territoriale, avendo puntualmente ed esaurientemente indicato gli elementi di natura sia testuale sia sistematica dai quali ha tratto il contenuto della volontà delle parti contraenti, ha proceduto ad un accertamento di fatto sorretto da logica ed adeguata motivazione, come tale insindacabile in questa sede, dove il ricorrente, lungi dal censurare specificatamente la statuizione del giudice di appello, si è limitato a prospettare inammissibilmente una ricostruzione ad esso più favorevole della vicenda che ha dato luogo alla presente controversia; al contrario i richiamati argomenti di ordine sia letterale (quale lo stralcio di quota, che evoca pacificamente il concetto di divisione parziale e la permanenza per il resto dello stato di comunione, come ivi espressamente previsto) sia logico (quale il coordinamento dell'esame dell'atto del (OMISSIS) con l'analisi della convenzione del (OMISSIS)) si manifestano più che sufficienti ad esprimere le ragioni che avevano indotto le parti a ritenere superata la regolamentazione dei loro rapporti patrimoniali relativi all'immobile tra di essi in comunione di cui alla scrittura privata del (OMISSIS) tramite il diverso assetto dei rapporti stessi raggiunto con il rogito del (OMISSIS).

Con il terzo motivo il ricorrente, deducendo erronea motivazione, censura la sentenza impugnata per avere da un lato ritenuto corrette le misurazioni del c.t.u. L., avendo esse tenuto conto della superficie dei muri perimetrali, e dall'altro lato infondati i rilievi critici mossi dal C. perchè non corredati da un elaborato peritale asseverato che contestasse le suddette misurazioni.

Premesso che la logica ed il buon senso non necessitavano di alcun elaborato peritale, il ricorrente afferma che la visura catastale relativa ai fabbricati siti nel Comune di (OMISSIS) prodotta in atti documentava inequivocabilmente che la consistenza della porzione di immobile distinta dal subalterno n. (OMISSIS) del mappale n. (OMISSIS) era pari a mq. 65.

Il C. inoltre sostiene, quanto alla determinazione del valore dell'immobile, che l'appellato non era stato in grado di fornire indicazioni diverse da quelle poste dal c.t.u. a fondamento dell'elaborato depositato perche quest'ultimo, pur avendo premesso di aver utilizzato il cosiddetto metodo comparativo, aveva in realtà omesso di individuare "in toto" gli immobili oggetto di comparazione.

La censura è infondata.

Sotto un primo profilo la sentenza impugnata ha rilevato all'esito della c.t.u. che la superficie complessiva del piano terra e del primo piano risultava pari a mq. 127, ed ha aggiunto che le contestazioni in proposito sollevate dall'appellato erano basate su misure riportate su una planimetria di denuncia catastale priva di ogni prova circa la sua presentazione, dalle quali era emerso che la superficie dei due piani assommava a mq. 115, e da una planimetria non meglio identificata dalla quale risultavano misure diverse; pertanto correttamente la Corte territoriale ha ritenuto inutilizzabile questa documentazione, considerato altresì che in tali conteggi non si era tenuto conto della superficie dei muri di proprietà.

Il giudice di appello ha ritenuto poi di aderire alla valutazione commerciale di ogni singolo piano del bene comune, avuto riguardo ai criteri di stima adottati dal c.t.u., elaborati sulla scorta della sua esperienza professionale, delle sue conoscenze di mercato, dei valori catastali ad essi assegnati dal Pubblico Ufficio e della posizione assolutamente centrale dell'immobile; la Corte territoriale ha inoltre evidenziato che i rilievi critici addotti dall'appellato erano privi di alcuna indicazione di valore diverso, argomentazione sicuramente condivisibile perchè, aldilà della denunciata mancata indicazione da parte del c.t.u. del valore di altri immobili di comparazione, era onere del C. - che aveva dedotto l'insufficiente adozione del metodo comparativo - di indicare specificatamente altri beni ubicati nella stessa zona in cui era sito l'immobile per cui è causa, la cui stima potesse fornire un minimo di fondamento alla contestazione sollevata alle conclusioni del c.t.u..

Con il quarto motivo il ricorrente, deducendo violazione e falsa applicazione dell'art. 2697 c.c., assume che erroneamente la sentenza impugnata ha determinato in via equitativa un indennizzo in favore della B. per il mancato godimento dell'immobile oggetto di comunione tra le parti in conseguenza del suo uso da parte del C. quale possessore esclusivo; in effetti il riferimento all'art. 1102 c.c. era inconferente, posto che la controparte non aveva mai avanzato alcuna richiesta di utilizzare la porzione dell'immobile in questione, e d'altra parte l'esponente non aveva frapposto alcun ostacolo volto a precludere alla B. il godimento del bene comune.

La censura è infondata.

Il giudice di appello, premesso come circostanza pacifica l'uso esclusivo del bene comune da parte del C., posto che quest'ultimo, dopo la stipula del contratto del (OMISSIS), si riteneva proprietario esclusivo del bene, ha rilevato che la B. con l'atto di citazione introduttivo del giudizio di primo grado, a tutela dei suoi diritti dominicali, aveva chiesto la corresponsione di un indennizzo per l'uso del bene comune anche a fini commerciali da parte del comunista esclusivo possessore, e che il comproprietario il quale non viene messo, nonostante la richiesta formulata, nelle condizioni di godere per la sua quota del bene comune ex art. 1102 c.c. da parte del possessore, ha diritto ad essere indennizzato per la compressione del suo diritto.

Tale convincimento deve essere condiviso, posto che in materia di comunione, laddove sia provata l'utilizzazione da parte di uno dei comunisti della cosa comune in via esclusiva in modo da impedirne l'uso, anche potenziale, agli altri comproprietari, il danno deve ritenersi "in re ipso".

Il ricorso deve quindi essere rigettato; le spese seguono la soccombenza e sono liquidate come in dispositivo.

P.Q.M.

La CORTE

Rigetta il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento di Euro 200,00 per spese e di Euro 3.700,00 per onorari di avvocato.