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Giudice si dimentica di scarcerare (Cass. 1544/19)

21 gennaio 2019, Cassazione civile

Il comportamento del magistrato che omette di rilevare la scadenza dei termini custodiali è idoneo a integrare la "grave violazione di legge" derivante da palese "negligenza inescusabile", violativa anche del dovere di "diligenza" dei magistrati nell’esercizio delle funzioni  in quanto lesivo del diritto fondamentale di libertà del soggetto trattenuto in carcere oltre i limiti di legge.

 

Corte di Cassazione, sez. Unite Civili, sentenza 17 aprile 2018 – 21 gennaio 2019, n. 1544
Presidente Petitti – Relatore Falaschi

Ritenuto in fatto

Il dott. B.A. , nella qualità di giudice dell’udienza preliminare del Tribunale di Foggia, con sentenza della sezione disciplinare del Consiglio Superiore della Magistratura del 24 ottobre 2017, veniva assolto dall’illecito disciplinare di cui al D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 2, lett. a) e g), per "grave violazione dell’art. 306 c.p.p. e art. 91 disp. att. c.p.p., determinata da negligenza inescusabile", per non avere scarcerato una detenuta, nonostante la decorrenza dei termini di carcerazione preventiva. Rilevava la Sezione disciplinare che eseguito il provvedimento di carcerazione il 26.10.2012, l’interrogatorio per rogatoria era avvenuto il 29.10.2012, con trasmissione, in pari data, per competenza dal GIP del Tribunale di Teramo, e il fascicolo era stato assegnato all’incolpato solo il 19.11.2012; tale magistrato, a seguito di astensione di altro magistrato, in data 30.01.2013, aveva provveduto prontamente alla fissazione dell’udienza preliminare; in tale udienza aveva poi accolto la richiesta di giudizio abbreviato, con la conseguenza che agli originari 3 mesi seguiva l’apertura di un ulteriore termine di tre mesi di custodia cautelare decorrente dal medesimo giorno. Da ciò la Sezione disciplinare faceva discendere la considerazione che il ritardo complessivo da computare era di soli 4 giorni e non già di 26 giorni come contestato (per essere stata rimessa in libertà la detenuta con provvedimento assunto all’udienza del 20.02.2013, data in cui veniva pronunciata sentenza, a seguito di istanza della medesima difesa di rimessione in libertà), per cui limitato il ritardo a detto breve periodo, ai sensi dell’art. 3 bis D.Lgs. n. 109 del 2006 (inserito dalla L. 24 ottobre 2006, n. 269, art. 1, comma 3), non vi era stata una lesione dell’immagine e del prestigio del magistrato, trattandosi, peraltro, di un unico ed isolato episodio.
Il Ministero della giustizia e la Procura Generale hanno proposto separati ricorsi avverso la predetta assoluzione, entrambi sulla base di un unico complessivo motivo, cui ha resistito il B. con controricorso.
Il Ministero ha anche depositato memoria illustrativa ex art. 378 c.p.c. in prossimità della pubblica udienza.

Considerato in diritto

Con unico motivo entrambi i ricorrenti lamentano la violazione e/o la falsa applicazione del D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, comma 1, lett. g) e art. 3 bis, nonché dell’art. 606 c.p.p., comma 1, lett. b) ed e) in conseguenza di erronea interpretazione di legge processuale penale, segnatamente dell’art. 303 c.p.p., comma 1, lett. a), n. 1 oltre a mancanza, contraddittorietà e manifesta illogicità della motivazione. Ad avviso dei ricorrenti la definizione assolutoria dell’incolpato per scarsa rilevanza si fonderebbe sull’errato argomento per il quale il dott. B. , nella veste di giudice delle indagini preliminari sarebbe incorso in un ritardo nel provvedere alla scarcerazione dell’imputata di soli quattro giorni, giacché essendo iniziata l’esecuzione della custodia in carcere il 26.10.2012, la scadenza del termine di fase andava individuata nella data del 26.01.2013, non potendo ritenersi la legittimità della persistenza dello stato cautelare oltre i termini di fase, in quanto non sanata dal passaggio ad una fase processuale diversa.
La censura è fondata.
L’esimente di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 3 bis si applica - sia per il suo tenore letterale che per la sua collocazione sistematica - a tutte le ipotesi di illecito disciplinare, allorché la fattispecie tipica sia stata realizzata ma il fatto, per particolari circostanze anche non riferibili all’incolpato, non risulti in concreto capace di ledere il bene giuridico tutelato, secondo una valutazione che costituisce compito esclusivo della Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, soggetta a sindacato di legittimità soltanto ove viziata da un errore di impostazione giuridica oppure motivata in modo insufficiente o illogico (cfr Cass., Sez. Un., 29 marzo 2013 n. 7934; Cass., Sez. Un., 26 settembre 2017 n. 2803).
Nel caso all’esame la Sezione disciplinare ha chiaramente ritenuto di attribuire carattere dirimente, al fine di ravvisare la sussistenza della esimente de qua, nel computo dei termini massimi di custodia cautelare, al cumulo di quelli della prima fase d’indagine con quelli della nuova fase, avviata con l’accoglimento della istanza di giudizio abbreviato, così riducendo il tempo da valutare quale detenzione senza titolo a solo quattro giorni (dal 26.01 al 30.1) e non già ai complessivi ventisei giorni originariamente contestati (dal 26.1 al 20.02).
Come è noto, la questione riguardante la individuazione della ipotesi - tra quelle previste dal D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2 nella quale si debba far rientrare il comportamento del magistrato che ometta di disporre (o di richiedere) la revoca della custodia cautelare dopo che i termini massimi previsti dalla legge sono scaduti ha trovato da tempo una soluzione consolidata e costante in sede di Sezioni Unite (vedi, per tutte: Cass. Sez. Un. 12 marzo 2015 n. 4954; 21 maggio 2014 n. 11228; 27 novembre 2013 n. 26548; 22 aprile 2013 n. 9691; 11 marzo 2013 n. 5943).
Ciò posto, la condotta omissiva ascritta al controricorrente consiste nell’infrazione di cui al D.Lgs. n. 109 del 2006, art. 2, lett. g), in combinato disposto con la lett. a) del medesimo art. 2, per avere omesso di disporre la scarcerazione di una detenuta nonostante la scadenza dei termini custodiali.
L’assunto della Sezione disciplinare, secondo cui la detenuta sarebbe stata legittimamente sottoposta a custodia cautelare in epoca prossima allo scadere dei termini della prima fase avendo avuto ingresso la seconda fase del procedimento, è privo di fondamento giuridico.
È incontestato che essendo iniziata l’esecuzione della custodia cautelare in carcere in data 26 ottobre 2012, la scadenza del termine di fase andava individuato nel giorno 26 gennaio 2013. Per orientamento consolidato della giurisprudenza penale di questa Corte, in materia di misure cautelari perché possano cumularsi i termini di fasi processuali diverse occorre, quale presupposto indefettibile, che il termine della fase in corso non sia scaduto, altrimenti si determina la perdita di efficacia della misura stessa, in quanto prevale comunque, per espressa previsione normativa, l’interesse dell’indagato alla libertà. Infatti dal combinato disposto dell’art. 274 c.p.p. con l’art. 303 c.p.p. emerge che i termini di custodia cautelare sono cadenzati in relazione alle singole fasi del procedimento e che l’attivazione dei termini della fase successiva presuppone che non siano già decorsi quelli della fase precedente e che, perciò, l’indagato non abbia già conseguito il diritto alla scarcerazione automatica. Secondo il delineato continuum così espresso, il passaggio, dunque, ai termini della fase successiva comporta che l’organo giurisdizionale abbia reso il provvedimento all’uopo richiesto dalla legge nella persistente vigenza dei termini normativamente stabiliti per la fase precedente. Tant’è che per i casi eccezionali, in cui, per fatto e circostanze non addebitabili a colpevole inerzia dell’organo inquirente, quel provvedimento non sia stato possibile richiedere nei termini di legge e, tuttavia, sussiste (persiste) il periculum libertatis, vi è l’istituto della proroga dei termini della custodia cautelare nel corso delle indagini preliminari, che obbedisce proprio alla esigenza di disciplinare siffatti casi: questo è requisito fondamentale per la privazione della libertà dell’indagato e connota, senza distinzioni, tutte le esigenze cautelari di cui all’art. 274 c.p.p. (v. in termini, Cass., Sez. Un. pen., 11 settembre 2001 n. 33541).
D’altra parte la scarcerazione dell’imputato per decorrenza dei termini di fase della custodia cautelare alla quale non si sia tempestivamente provveduto deve essere disposta nella fase successiva (c.d. scarcerazione ora per allora), onde tutelare l’interesse concreto dell’imputato a un provvedimento cui consegua il riacquisto della libertà (cfr Cass. pen. 18 febbraio 2008 n. 18148).
Ciò posto e considerato che in via di principio il comportamento del magistrato che omette di rilevare la scadenza dei termini custodiali è sicuramente idoneo a integrare la "grave violazione di legge" derivante da palese "negligenza inescusabile", violativa anche del dovere di "diligenza" dei magistrati nell’esercizio delle funzioni di cui all’art. 1, comma 1 del decreto legislativo sugli illeciti disciplinari del 2006, in quanto lesivo del diritto fondamentale di libertà del soggetto trattenuto in carcere oltre i limiti di legge, si osserva che per consolidata giurisprudenza di questa Corte la disapplicazione della norma che impone la liberazione dell’indagato può essere giustificata solo dal ricorso di una esimente connessa a circostanze di fatto o a provvedimenti che giustifichino la permanenza nella detenzione del soggetto e la sua mancata liberazione, “dovendosi attribuire a gravissima negligenza del giudice ogni violazione del diritto di libertà non dovuta a cause eccezionali ovvero già determinate per legge" (v. in termini, Cass. Sez. Un. 29 luglio 2013 n. 18191)
In tale prospettiva nessun accertamento risulta svolto nella vicenda descritta, considerato che sussiste un danno ingiusto anche nell’ipotesi di limitazione della libertà personale con la misura degli arresti domiciliari.
Da quanto suddetto si desume la erroneità dei presupposti su cui il giudice disciplinare ha fondato l’applicabilità nella specie del D.Lgs. 23 febbraio 2006, n. 109, art. 3-bis, valutazione che peraltro ben potrà essere svolta sotto altri profili.
In conclusione, va cassata la decisione impugnata e la causa rinviata alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura, la quale procederà al riesame e, quindi, deciderà nuovamente adeguandosi ai richiamati principi.
Le spese del giudizio di legittimità vanno interamente compensate fra le parti stante la eccezionalità della questione, con accezione da interpretarsi alla luce della sentenza della Corte costituzionale n. 77 del 2018, che ha reintrodotto il riferimento alle "gravi ed eccezionali ragioni".

P.Q.M.

La Corte, decidendo a sezioni unite, accoglie il ricorso;
cassa la sentenza impugnata e rinvia per il riesame alla Sezione disciplinare del Consiglio superiore della magistratura; dichiara interamente compensate fra le parti le spese di legittimità.