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Gelosia non rileva per imputabilità ma semmai sulla pena (Cass. 12621/10)

31 marzo 2010, Cassazione penale

Gli stati emotivi e passionali, nel nostro sistema non escludono né diminuiscono l’imputabilità: sono invece di fattori che, nella complessa valutazione della condotta illecita, salvo i casi di evidente, oppure dedotta e provata, patologia relazionale, possono agire come elementi di rilievo di determinazione della entità della sanzione.

La gelosia, quale stato passionale, in soggetti normali, si manifesta come idea generica portatrice di inquietudine che non è usualmente in grado né di diminuire, né tanto meno di escludere la capacità di intendere e di volere del soggetto, salvo che  esso nasca e si sviluppi da un vero e proprio squilibrio psichico, il quale deve presupporre uno stato maniacale, delirante, o comunque provenga da un’alterazione psico – fisica consistente e tale da incidere sui processi di determinazione e di auto – inibizione.

Corte di Cassazione

Sezione sesta

sentenza 25 – 31 marzo 2010, n. 12621
Presidente de Roberto – Relatore Lanza

Considerato in fatto e ritenuto in diritto
G.M. ricorre, a mezzo del suo difensore, contro la sentenza 7 luglio 2009 della Corte di appello di Firenze, che ha confermato la sentenza 8 ottobre 2008 del G.U.P. presso il Tribunale di Pisa, di condanna per i reati di cui agli artt. 572, 582 e 605 C.P. in danno della convivente S.L., alla pena di anni 3 di reclusione, riconosciute le circostanze attenuanti generiche equivalenti all’aggravante ed alla recidiva contestate e ritenuta la continuazione tra gli episodi criminosi attribuitigli.

1.) i fatti-reato e la doppia conforme decisione di condanna.

Il omissis, S.L. era soccorsa da personale della Questura di omissis, cui riferiva di intrattenere una relazione con il M. e che, quel giorno, uscita dal suo lavoro presso omissis, aveva trovato il compagno che, dopo averla attesa, l’aveva accusata di infedeltà e l’aveva picchiata.

Precisava ancora la donna: che alla vista degli agenti, il M. si era allontanato, ma era stato subito raggiunto ed identificato; e che al P.S. presso l’ospedale le erano state refertate lesioni – contusioni multiple al volto – guaribili in gg. sei.

In sede di querela, la S. dichiarava ancora: a) che il suo convivente era geloso, tanto da picchiarla e da controllarne (in modo sistematico) gli spostamenti, e che il omissis, dopo essere tornata dal cinema, ove si era recata con la sorella, era stata percossa per un’ora dall’imputato, che le aveva impedito di uscire dalla abitazione, dopo averla chiusa a chiave, tanto da causarle, per la agitazione, un episodio di incontinenza urinaria; b) che gli episodi di maltrattamenti erano proseguiti anche a omissis, ove si era successivamente trasferita con il prevenuto, il quale nell’omissis le aveva procurato la frattura di un braccio; c) che, comunque, lei non aveva ritenuto di interrompere il rapporto di convivenza con l’imputato, e si era così trasferita con lui a omissis, città dalla quale fuggiva, dopo che era stata nuovamente aggredita e percossa dal compagno, calandosi dal balcone per cercare momentaneo rifugio e protezione nella casa dei genitori dell’accusato; d) che, nonostante tali fatti e le successive interruzioni della convivenza, lei si era successivamente riavvicinata al M.; e) che, ritornati a omissis, la gelosia del convivente permaneva, tanto che una sera della prima decade di omissis, sospettando l’uomo che lei gli avesse mentito nel giustificare una sua assenza, con il dire falsamente che era stata al mare, l’aveva colpita con due violente testate; f) che il M. era solito pretendere di ricevere una comunicazione telefonica, al termine degli orari di lavoro, per essere informato dei suoi spostamenti e che l’episodio del omissis, nei pressi dell’omissis e con l’intervento della Polizia, si era verificato perché il convivente non aveva creduto alle sue giustificazioni.

La penale responsabilità del M. è stata ritenuta dai giudici di merito, oltre che per le credibili ed attendibili dichiarazioni della persona offesa, per i riscontri dati dal certificato medico del omissis, dalla annotazione di servizio della questura in data omissis (quando gli agenti erano intervenuti in p.zza omissis, ove il M. l’aveva aggredita, perché lei aveva manifestato il proposito di interrompere la convivenza, causandole lesioni, certificate come guaribili in gg. 5), e dalle stesse ammissioni dell’imputato nel corso dell’interrogatorio di convalida.

Il M. infatti aveva allora dichiarato: che i litigi con la convivente vi erano sì stati, ma si trattava di eventi che si verificano normalmente nell’ambito di una relazione di coppia; che, effettivamente, lui era molto geloso e che, qualche volta, aveva colpito la donna con degli schiaffi, come in occasione dell’episodio del omissis.

2.) i motivi di ricorso e la decisione di rigetto della Corte di cassazione.
Con un primo motivo di impugnazione si deduce inosservanza ed erronea applicazione della legge, nonché vizio di motivazione sotto il profilo del ritenuto reato di maltrattamenti, che sarebbe invece privo delle necessarie connotazioni di “continuità ed intenzionalità vessatoria (morale e fisica)”.
In definitiva: sarebbe del tutto mancato il vaglio sul carattere abituale e continuo degli atti vessatori, nonché sull’elemento psicologico sotteso al compimento degli atti stessi.
In particolare lamenta il ricorrente, unitamente alla non ritenuta frammentarietà delle condotte di maltrattamento:
a) che i giudici di merito non abbiano colto lo status psicologico del M., la sua “personale percezione in ordine alla gestione delle dinamiche sentimentali” con la S. , e quindi non abbiano accertato il corrispondente difetto di soggettività del delitto stesso;
b) che non si siano correttamente apprezzate le dichiarazioni rese dall’imputato, dalle quali si sarebbe potuta cogliere la singolare specificità del rapporto di convivenza tra la coppia, caratterizzato dalla condivisione “compartecipazione” di entrambi gli interessati a tali particolari modalità di relazione: non a caso la coppia, nonostante tutto, e sia pure in modo altalenante, ha proseguito sistematicamente e volontariamente la relazione, segno questo – secondo il ricorso – della presenza di un “ambito corrisposto di tollerabilità” (pagg. 4 e 5 motivi);
c) che non siano state soppesate le differenze socioculturali e di educazione tra la S. (estroversa, colta, agiata e soddisfatta del suo lavoro) e l’imputato (introverso e vissuto sempre ai margini della società).
Il motivo, che attiene ai rapporti tra imputabilità, stati emotivi e passionali (gelosia non patologica) e dolo tipico del delitto di maltrattamenti, è palesemente infondato.
Invero le argomentazioni, usate nella doppia conforme decisione di responsabilità sull’azione esecutiva del contestato delitto, sono indiscutibili ed oggetto di un corretto ed insindacabile giudizio di merito: da ciò nessuna possibilità di censura sulla ritenuta materialità del delitto ex art. 570 C.P..
Ci si trova infatti di fronte ad una persistente ed immodificata abitudinaria condotta di vessazione e svilimento della convivente, dettata dalla ossessiva gelosia del M. e da costui mai interrotta, neppure a fronte delle sospensioni della convivenza, causate dagli episodi apicali di violenza e sopruso, e neppure a fronte dei deliberati mutamenti dei luoghi di residenza e delle circostanti relazioni esterne, al fine di evitare sia pure infondati sospetti.
Quanto ai punti sub a) e sub c) è superfluo rammentare che gli stati emotivi e passionali, nel nostro sistema – a norma dell’art. 90 C.P. – non escludono né diminuiscono l’imputabilità e men che meno, sulla stessa, sono idonee ad incidere quelle che possono essere le differenze socio – culturali tra autore della violenza e vittima.
Trattasi invero di fattori che, nella complessa valutazione della condotta illecita, salvo i casi di evidente, oppure dedotta e provata, patologia relazionale, possono agire come elementi di rilievo di determinazione della entità della sanzione negli ambiti tracciati dai disposti dell’art. 133 C.P..

Nei rapporti fra imputabilità e dolo, infatti l’indagine sul primo dei suddetti elementi va tenuta ben distinta da quella sul secondo, essendo l’elemento psicologico un elemento costitutivo del delitto, la cui sussistenza o meno va in ogni caso accertata secondo le regole generali, e cioè con riferimento all’ipotesi di un soggetto agente dotato di normale capacità di intendere e di volere.

L’imputabilità invece, nel suo contenuto sostanziale di attitudine all’intendere ed volere, costituisce semplicemente il presupposto per l’affermazione della responsabilità in ordine al reato commesso, il quale dovrà, pertanto, essere già stato compiutamente qualificato, nelle sue connotazioni oggettive e soggettive.

Da ciò deriva che anche nei confronti di soggetto non imputabile (art. 88 C.P.), o parzialmente imputabile (art. 89 C.P.), dovrà comunque essere stabilito, alla stregua delle regole di comune esperienza, se l’evento prodotto sia stato “secondo l’intenzione”, “contro l’intenzione” o “oltre l’intenzione” (giusta le varie ipotesi previste dall’art. 43 cod. pen.), per poi passare a verificare se e come il soggetto debba penalmente rispondere di tale evento, in ragione del suo stato di mente (ex plurimis: Cass. Pen. sez. I, 00507/1994, Mitrugno).

In definitiva: in tema di imputabilità, la capacità di controllo delle proprie azioni va distinta dalla capacità di intendere e di volere, in quanto capacità del soggetto di modulare e calibrare la sua condotta in funzione di elementi condizionanti di ordine etico, religioso, educativo ed ambientale, i quali, afferendo ed integrandosi nel nucleo della personalità del soggetto, lo dotano della consapevolezza critica ed autocritica, e che agiscono come modulatori dell’istintualità e dell’impulsività.

Ne consegue che l’indebolimento dei freni inibitori, o l’attenuazione della loro funzionalità in determinate aree sensibili (quali la “possessività sospettosa” nella gelosia), se non dipendenti da un vero e proprio stato patologico, non sono in grado di incidere sulla capacità di intendere e di volere e quindi sull’imputabilità (ex plurimis: Cass. Pen. Sez. 5,24696/2004 Rv. 228866 Pellicane).

È quindi del tutto coerente nel nostro sistema di rapporti tra imputabilità e dolo del reato, la disposizione dell’art. 90 C.P., la quale, vietando di valutare gli stati emotivi o passionali ai fini della imputabilità, non consente di riprenderli poi in esame nell’ambito dell’art. 42 C.P. come causa di esclusione della colpevolezza (Cass. Pen. Sez. 1, 739/1972 Rv. 122473 Davani).

In tale quadro di riferimento, va quindi ribadito il principio che la gelosia, quale stato passionale, in soggetti normali (è tale va considerato lo stato emozionale del ricorrente, mancando allegazioni difensive in senso contrario), si manifesta come idea generica portatrice di inquietudine che non è usualmente in grado né di diminuire, né tanto meno di escludere la capacità di intendere e di volere del soggetto, salvo che (e questo non è il caso di specie) esso nasca e si sviluppi da un vero e proprio squilibrio psichico, il quale deve presupporre uno stato maniacale, delirante, o comunque provenga da un’alterazione psico – fisica consistente e tale da incidere sui processi di determinazione e di auto – inibizione (Cass. Pen. Sez. 1,37020/2006 Rv. 235250 Ecelestino. Massime precedenti Conformi: n. 2123 del 1985 Rv. 168132. Massime precedenti Vedi Sezioni Unite: n. 9163 del 2005 Rv. 230317).

È infatti consolidata la regola (cfr. S.U. n. 9163 del 25 gennaio 2005) che i disturbi della personalità (nevrosi e psicopatie) possono essere apprezzati alla luce delle norme degli artt. 88 ed 89 C.P., con conseguente pronuncia di totale o parziale infermità di mente dell’imputato, a condizione che essi abbiano – riferiti alla capacità di intendere e di volere di quella concreta persona e con esclusiva attinenza al fatto – reato attribuito – le seguenti qualità globalmente in grado di incidere sulla capacità di autodeterminazione dell’autore del fatto illecito:

a) consistenza e intensità, intese come valore concreto e forte;

b) rilevanza e gravità intese come valore di grado ed importante;

c) rapporto motivante con il fatto commesso, inteso come correlazione psico – emotiva rispetto al fatto illecito.

Né può valere – agli effetti di una diversa decisione – quella sorta di “implicito consenso della vittima” agli atti violenti, quale frutto di un accordo perverso tra le parti (più o meno inquadrabile nella nosografia di una relazione sadomasochista), tenuto conto che nel nostro sistema penale il consenso dell’avente diritto, nella sua funzione di causa di giustificazione, regolata dall’art. 50 cod. pen., può sì avere efficacia scriminante, anche rispetto alle percosse e alle lesioni, a condizione però che esso risulti prestato volontariamente nella piena consapevolezza delle conseguenze lesive all’integrità personale (sempre che queste non si risolvano in una menomazione permanente che, incidendo negativamente sul valore sociale della persona umana, elide la rilevanza del consenso prestato).

Trattasi peraltro di evenienza qui rimasta priva di supporto probatorio, considerato che nella presente vicenda non basta ad escludere l’antigiuridicità dei fatti l’eventuale consenso dell’avente diritto, espresso nel solo momento iniziale della relazione e della condotta (nella specie si tratterebbe addirittura di una previa generalizzata autorizzazione all’uso della violenza, quale espressione diretta di un qualsiasi unilaterale suggesto di gelosia del partner – convivente) essendo, invece, necessario che il consenso stesso sia presente – senza soluzioni di continuo – per l’intero sviluppo della “condotta-relazione”, con la conseguenza che la scriminante in esame non può essere invocata allorché l’avente diritto -come palesemente avvenuto nella fattispecie-manifesti, esplicitamente, oppure mediante comportamenti univoci (dissensi, ribellioni, allontanamenti e fughe), di non essere più consenziente al protrarsi dell’azione, se ed in quanto egli abbia prima dimostrato di aderirvi (Cass. Pen. Sez. 1, 9326/1998 Rv. 211285 Gavagnin. Massime precedenti Conformi: n. 594 del 1989 Rv. 180209, n. 5640 del 1994 Rv. 199122. Cass. Pen. Sez. 3, 6241/1996 Rv. 205292 Chiancone).
Né può considerarsi risolutiva la “ripresa della convivenza interrotta”, da parte della vittima, potendo essa trovare ragionevoli spiegazioni ben diverse da quella – illogicamente insostenibile – di una rinnovata adesione ed accettazione dei comportamenti violenti del compagno.
Il motivo va quindi dichiarato inammissibile.
Con un secondo motivo si lamenta violazione di legge e vizio di motivazione in ordine al ritenuto delitto di sequestro di persona, essendosi nella specie realizzata un’azione, quale la chiusura completa del portoncino di ingresso, del tutto neutra agli effetti della norma sanzionatoria applicata, essendo l’azione, che è stata valorizzata, un ordinario comportamento tipico della fine giornata e non certo finalizzato ad impedire la fuga o l’allontanamento della donna.
Lettura questa che sarebbe consentita – nella prospettazione difensiva – dalla successiva condotta del ricorrente che ha consentito alla S. di allontanarsi ed essere accompagnata dal M. (“con tutti i suoi indumenti”) nell’abitazione della sorella.
In ogni caso, per il difensore, l’atteggiamento “di chiusura e di coercizione fisica” avvertito dalla donna rientrava perfettamente nel “viziato ménage familiare”.
Il motivo è inaccoglibile, anche per i profili di inammissibilità che esso esprime, posto che propone una non consentita rivalutazione delle prove.
Inoltre, ancora una volta, il difensore tenta di ricondurre sul piano della liceità, per effetto di un tacito ed inammissibile permanente consenso, comportamenti e condotte “contra legem” non scriminabili (integrità fisica e libertà di locomozione) nel momento stesso in cui, una volta palesati e manifestati dall’imputato, vengono immediatamente avversati dalla vittima.
Con un terzo motivo si prospetta violazione di legge e vizio di motivazione sul punto dell’avvenuta esclusione dell’attenuante ex art. 62 n.6 C.P. erroneamente indicata come ex art. 62 n.4 C.P..
Il motivo è radicalmente privo di fondamento.
I giudici di merito, preso atto che la persona offesa aveva ricevuto 2.500 Euro dai familiari dell’imputato, “e su loro insistenza”, a titolo di risarcimento del danno, avevano ritenuto tale atto inidoneo ad integrare la dedotta attenuante, e, quindi valorizzabile residualmente – come avvenuto già in primo grado – al solo effetto del riconoscimento delle circostanze attenuanti generiche.
Va in proposito rammentato che, in ben diversa fattispecie e di recente, le S.U. della Corte di Cassazione (sent. 22 gennaio 2009 n. 5941/2009, Pagani), pur mettendo in rilievo la ricorrenza comunque di un profilo “volontaristico” nell’attenuante de qua, nel senso che l’intervento risarcitorio deve essere riferibile all’imputato, ha concordato con la Corte Costituzionale nel ravvisare la volontà di riparazione anche nell’avere stipulato un’assicurazione o nell’avere rispettato gli obblighi assicurativi per salvaguardare la copertura dei danni derivanti dall’attività pericolosa. Ne discende che il risarcimento (anche quello eseguito dalla società assicurativa) deve ritenersi effettuato personalmente dall’imputato tutte le volte in cui questi ne abbia coscienza e mostri la volontà di farlo proprio (Cass. Pen. sez. IV, 13870/2009).
In conclusione, se la circostanza attenuante di cui all’art. 62, comma primo, n. 6, cod. pen., richiede che la condotta resipiscente dell’agente sia “spontanea” (Cass. Penale sez. VI, 5786/2000 Rv. 220576, De Lillo), ne deriva che essa non può trovare applicazione nel caso in cui, come nella specie il risarcimento sia l’effetto, in tutto o in parte, non della libera determinazione dell’imputato, bensì dell’opera di terzi, quali i familiari dell’accusato, trattandosi di intervento risarcitorio per ciò stesso non riferibile all’imputato, il quale, tra l’altro, nella vicenda, non risulta aver mostrato consapevolezza e volontà di volerlo fare proprio: non a caso, ad insistere per l’accettazione della somma – da parte della vittima – non è stato il ricorrente, ma i genitori dell’autore dell’illecito.
Il ricorso pertanto, nella verificata palese infondatezza delle critiche formulate, va dichiarato inammissibile ed alla sua inammissibilità consegue, ex art. 616 C.P.P., la condanna del ricorrente al pagamento delle spese processuali e di una somma in favore della Cassa delle ammende che si stima equo determinare in Euro 1000,00.

P.Q.M.


dichiara inammissibile il ricorso e condanna il ricorrente al pagamento delle spese processuali e della somma di Euro 1.000,00 in favore della Cassa delle ammende.